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Il «Pasticciaccio» e il suo doppio
Federica G. Pedriali
La trama segreta è più forte di quella manifesta.
Eraclito
Semel in anno il Pasticciaccio gaddiano lascia intravedere una struttura narrativa, suggerisce di far cadere i prefissi che ne esaltano l’ultramodernità: e di parlarne come di un giallo, come cioè di un testo che organizza coerentemente un certo numero di indizi. L’intuizione è rischiosa perché sa invero di carnevale esegetico, di presa di posizione irriverente e polemica nei riguardi di buona parte della gaddistica, la quale ha peraltro ragione a dichiarare Gadda autore irregolarissimo ed intransitivo, pasticciante e riottoso non solo a concludere ma anche a narrare. Eppure, prima di far quaresima per avere azzardato un pensiero probabilmente indifendibile, si vorrebbe capire come se ne sia acceso l’ingravallesco zolfanello, perché mai la lettura teorica della complessità del Pasticciaccio elaborata dagli specialisti ci lasci a volte perplessi.
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio
Protagonista inesistente per quanto perfettamente caratterizzato, cavaliere della legge e dell’imperativo morale senza vita propria, la figura del commissario Ingravallo occupa il preambolo teorico-narrativo con cui si apre il primo capitolo. Se la «saggezza» (RR II 16) che lo contraddistingue (deformazione professionale, oltre che dato originario) deriva dalla «povertà» della persona, la sua sofferenza esistenziale trova perfetto sfogo fisionomico nella gestualità incattivita, nel «quasi-ghigno, tra amaro e scettico» del pensiero.
Ciononostante, nonostante cioè le teoretiche idee dell’incipit appartengano ad un personaggio indigente e quindi forse non del tutto attendibile, le sue convinzioni – una filosofia che tende alla psichiatria – decidono la chiave di lettura del romanzo. Ciò avviene non solo e non tanto in virtù dell’autorità professionale ed intellettuale del commissario aspirante filosofo-psichiatra, quanto piuttosto per il contenimento da parte del narratore di quelle «obiezioni così giuste» (17) sollevate nei suoi riguardi dal contesto romanzesco. L’avvio narrativo che inaugura il Pasticciaccio non potrebbe essere più lontano dal doppio preambolo-prefazione de La coscienza di Zeno. La visione del mondo sub specie criminis di cui è strategico portavoce forte Ingravallo – lui che, da soggetto debole, vive di un mozzicone di sigaretta pencolante «dalle labbra carnose» (16) – non consente infatti al lettore di scorgere nell’esordio un luogo deputato all’accumulo di «verità e bugie», di fronte al quale è d’uopo muoversi da destinatario destabilizzante, à la «Dottor S.». (1)
«Sosteneva, fra l’altro», ci viene detto a mo’ di chiave del romanzo, «che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti» (RR II 16). Meta-esegesi da conclusione più che da inizio di romanzo – quasi un manzoniano sugo di tutta la storia, a ben vedere – le pagine d’apertura del Pasticciaccio preludono alla ciclicità causale del testo. Grazie alle marche temporali della staticità (passato iterativo e presente pseudo-gnomico), il commissario traccia infatti la parabola dei «“suoi” delitti», prefigura cioè la paradigmaticità del pasticcio, anticipa la dinamica seriale delle indagini, il cui arco va, invariabilmente, dalla constatazione della complessità del fattaccio all’errore giudiziario (il pregiudizio verso il femminile per quel «quanto di erotia» che è proprio del crimine, 17) e al conseguente pentimento dell’uomo della legge: «E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene». Modello in scala del romanzo, l’incipit ne prepara letteralmente l’explicit, quel finale «grugno a grugno» (276) tra sospettata e commissario su cui la narrazione fa mostra di «ripentirsi, quasi» e dopo il quale non può che esserci o il silenzio – «la migliore delle opere» (2) – o una riedizione degli oscuri affari conoscitivi di via Merulana.
Prefigurato il macro-contesto, messa in dubbio (autorevolmente) l’eventualità stessa della conoscenza, l’incipit segnala di dover concludere: Ingravallo posa per un ultimo ritratto cui segue uno stacco tipografico, il classico spazio bianco. Non diversamente dal protagonista, l’esordio del Pasticciaccio risulta dunque «piuttosto rotondo della persona» (15); il giallo infinito e conchiuso postulato nelle pagine d’apertura genera cioè rotondità e compiutezza anche a livello di micro-racconto. Un secondo modello viene così a stabilirsi per la realizzazione narrativa delle teoretiche idee del commissario. La circolarità della figura di Ingravallo, che, conclusivamente, seguita «a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta» (17), inaugura infatti il micro-contesto/totalità, poetica grazie alla quale porzioni d’intreccio funzionano sia da episodi (casi cospicui, il cadavere di Liliana, il sogno del brigadiere Pestalozzi, il tabernacolo dei Due Santi, la refurtiva ritrovata) che da realizzazioni parallele della fabula, cioè della sequenza: vortice causale, pentimento della funzione inquirente, serialità delle indagini.
L’incipit, è chiaro, vuole un certo tipo di lettore. Evocato, «pompato fuori dall’assortimento infinito» (15) dei destinatari possibili, l’ideal reader si perde nell’ipertrofia dell’intreccio alla prima, alla seconda, forse ancora alla terza lettura – per arrivare a concludere (partendo dall’unità di misura, incipit o episodio) che il Pasticciaccio si svolge come sistema di sistemi cui si addicono gli astratti del postmoderno: specularità (dei 10 capitoli, 5 per crimine), inversione chiastica (nell’episodio-pernio, l’interrogatorio di Ines Cionini ai capitoli 6-7), granularità (per il trionfo del dettaglio sulla spinta narrativa). (3)
Convinto di osservare il testo come statica costruzione post factum, il lettore rispettoso delle istruzioni d’autore non scorge traccia del «romanzo-romanzo» (Saccone 1988: 162). Le metodologie critiche, del resto, gli chiedono di dimostrare l’impossibilità, la non-funzionalità, la a-direzionalità del monstrum maggiore della narrativa italiana del Novecento. Muro coperto di graffiti, partita a scacchi col caos, flusso della a-causalità/casualità, opera-enciclopedia, romanzo potenziale-potenziato rimangono tra le migliori variazioni metaforiche elaborate in quarant’anni d’esegesi sul tema dettato dall’incipit. Tra queste, la piega barocca – aperta e chiusa, descrittiva e non-narrativa, lineare e circolare – esplorata da Robert Dombroski (ispiratosi, per l’occasione, a Le pli di Gilles Deleuze), è certo l’immagine che con maggior precisione rende il «there are no plots in Gadda, no centre from which the narrator can stray» impresso nel destinatario dalle pagine iniziali del romanzo (Dombroski 1999: 7).
Quasi cagliato sangue, dentro la verde carne del sogno
Leggiamo però da lettori destabilizzanti e sospettosi della ricognizione testuale impostata dalle istruzioni d’autore, e noteremo fatti e strategie strutturali che non erano stati annunciati. Lo stomaco vuoto delle premesse teoriche getta, per esempio, un ponte tematico-narrativo attraverso lo spazio bianco che chiude l’incipit, e al di là del quale troviamo Ingravallo a tavola in casa della futura vittima, diviso tra la serva e la padrona, entrambe «estremamente belle» (RR II 19). Se la vigile «malinconia della signora Liliana» («il di cui sguardo pareva licenziare misteriosamente ogni fantasma improprio, instituendo per le anime una disciplina armoniosa», 20) lo costringe a resistere all’imperio fisico dell’Assunta, il vino, pur bevuto «con misura», gli fa indagare l’infelicità della donna del divieto («Aveva creduto di intuire: non hanno figli», 21), al punto da sollevarle il velo madonnesco – i registri del sublime – all’entrata del rivale edipico: «Chiste è ll’amico» (25).
Il nuovo materiale si collega a quanto lo precede. Non solo. Nasce qui, infatti, la polivocalità del punto di vista, titillato nel «velopendolo» (23) dalla trinità profana del «bianco extra-secco […] del cavalier Gabbioni Empedocle & Figlio, Albano Laziale» («da sognarseli perfino in questura, il vino, il bicchiere, il Padre, il Figlio e il Lazio»). Passata da pensiero in potenza a vino in azione, la scrittura produce il primo dei suoi ghigni, con crescendo allitterativo e motivico in vino-voce-veleno («una voce […] gli andava bucinando maledettamente […] come il tan tan feroce di certi mal di testa […] come avesse bevuto un veleno», 25). Con Gadda non siamo, no, di fronte a un caso di bachtiniano «plurilinguismo linguistico-sociale». (4)
Verga, non Bachtin o Derrida – l’opera che sembra farsi, e non disfarsi, da sé viene in mente ascoltando l’epos intortigliato dalla «collettività fabulante» (37) a furto avvenuto, a detopaziamento commesso della «derubanda-iugulanda-sevizianda» (31) contessa Menegazzi. Commedia di popolo, mercato delle voci – oltre che carnevale del profondo cui è sotteso il dubbio che Liliana si mescoli al volgare «cespo di umani e di vegetables (verdure)» (39) –, l’episodio, il terzo ad includere l’incipit nel computo, dà al romanzo il «derma» (28): «il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse» («Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarizzata contrizione», 27-28) ed un ricco cast di casigliani, dal nome mobile, deformabile – Menegazzi in testa –, ma dall’identità caricaturale fissa, decisa al primo incontro.
L’ambiente coincide cioè con l’incubo dell’autore, la cui assenza, fittizia, produce un massimo di realismo – come in Verga, appunto, per quanto con esiti espressivi ovviamente diversi. Lo conferma il recente Pasticciaccio teatrale-televisivo di Ronconi/Bertolucci: la folgorazione dello spettatore ottenuta dalla splendida doppia regia scaturisce infatti da risorse di caratterizzazione, mimesi acustica, contrasto drammatico e sequenza narrativa, tutte interne al testo – risorse, anzi, già tanto formidabili nel romanzo che è la pagina a fare da copione dell’adattamento, terza persona narrativa inclusa. (5) Se, poi, del Pasticciaccio il nuovo mezzo sfronda l’esuberanza, agevola la polivocità – quel traffico di voci e di registri che sul palcoscenico sembra davvero dirigersi, verghianamente, da sé, ma che nel testo a taluni fa sospettare una non-inseità del soggetto, qualcosa dunque di ben più grave della finzione veristica di assenza di gestione autoriale –, la linea e l’amalgama in cui il groviglio stilistico si risolve sullo schermo, mostrano il bandolo e la continuità all’origine, nel romanzo. Gadda tende invero al suo fine: mentre stende la promiscua «polpa collettiva» (28) del primo capitolo, lavora già al corpo-pasticcio del secondo, il cadavere di Liliana. (6)
Una straordinaria praticaccia narrativa produce la «spenta carne» (69) della donna. Calvino vi legge il «quadro barocco del martirio d’una santa» (Calvino 1995: I, 1081); Agosti ne fa, lacanianamente, «l’immagine più profonda del Reale come sospensione del significato e arresto di ogni discorso» (Agosti 1995: 262). Di certo, la commistione dei registri tocca «l’acme dell’intollerabilità» (257), la polifonia si moltiplica in «vociferazione babelica» (248). Se vengono in mente le serpi-corpi della peste manzoniana, è per notare che nei Promessi sposi domina la pietas, nel Pasticciaccio l’oscenità (253-55). L’«invito orribile» del corpo («giaceva in una posizione infame», RR II 58-59) – ancora per poco velo al caos organico, ma di già cibo-sesso degradato – suggerisce l’interpretazione metatestuale, gesto caritatevole dello sguardo esegetico che si frastorna dalla «turpitudine di quell’atteggiamento involontario» (69). La mobilità delle voci, che parlano «da tutti i punti del testo […] sottratto ad ogni di tipo di egemonia dell’Io» (Agosti 1995: 260), fa coppia allitterativa con viscere, sede statica del male; si neutralizza nel fondo insondabile delle cose, carnalità da sempre senza ragione. Metodologia e teoria, la «dissipazione logico-razionale della res rappresentata» e la «totale indecidibilità assiologica dei contenuti» (251) danno un senso all’insensato, episodio e totalità sul modello dell’incipit (Agosti, non a caso, sottotitola la sua analisi del cadavere di Liliana «Una lettura del Pasticciaccio»). Conclusioni in qualche modo rassicuranti, e che il testo autorizza – non v’è una storia sola nella materia psichica? non ce lo insegna l’incipit? –, ma che non ne soddisfano il privatissimo «stomaco ardente» (RR II 28).
Nell’espressionismo gaddiano alberga, infatti, il romanzo à la Carolina Invernizio, fenomeno interiore e non d’accatto, da cui originano i «casi stiracchiati» che l’«istinto delle combinazioni» non riesce a disperdere (7) – «Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso: e insistito poi nella gola, nella trachea […] una mano levata appena, bianca, a stornare l’orrore […] il polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida […] il balenare d’una lama […] gli occhi! della belva infinita» (67-68). L’ossessivo in morte veritas attivato, ribattuto dalla posizione infame della vittima («non aveva potuto, non aveva osato afferrare il tagliente, o fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice», 68), ovvero la lettera del simbolo – senso individuale e preciso nel momento in cui si vorrebbe il trionfo indifferenziato della nevrosi universale – rivela un «pantano» di collegamenti metaforici, oltre che di «spavento» (60).
Risultano allora indizi il sangue («no, nessun indizio… all’infuori der sangue», 68) e la sparizione della vera («la fede era sparita’) – sangue e fede che richiamano il «diaspro sanguigno nel castone» (26) dell’anello dell’amico e la Liliana sacramentale della scena del pranzo («il matrimonio è un sacramento, uno dei sette del Signor nostro», 22). Come pure indizio è il chiudersi del capitolo sull’avversativa «però il vino è gelato» (71), circolare rispetto al rilancio della protesta eno-esistenziale della pagina d’apertura (dove «un bianco malvagio: un vigliacchetto de quattr’anni» stava per mettere «in canna» un’«introduzione dionisiaca», 54), ma in netto contrasto con l’ipotizzabile «movente, forse, più torbido» che lo precede: «Quella gonna… così!… buttata addietro, come da un colpo di vento: una vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall’inferno. Chiamata da una rabbia, da uno spregio simile, erano le porte d’Inferno che le avevano dovuto dar passo. L’eccidio “aveva tutto l’aspetto di un delitto passionale”. Oltraggio? Brama? Vendetta?» (71). Un mondo di simboli sfrutta l’accumulo dei segni tipico del giallo; tutto e nulla conta nella prima ricognizione/ricostruzione dell’omicidio. In questa fase il testo è irresistibile e di velocissima lettura (benché in teoria perfettamente statico), occasione di più perché proprio il «minùzzolo» (102) funzioni da riserva profonda di significato.
Sempre in teoria, le indagini ristagnano tra i «primi boati» (55) testuali del fascismo, le risentite convinzioni dei parenti di Liliana sulla «validità carnale e dotale» della gens (91), e la «mozione demoniaca» (102) della tosse-racconto che interrompe la lettura del testamento (capitoli 3-5). Per via metaforica, però, il giallo e romanzo d’appendice investiga la vittima, corpo tornato liliale («ne venne fasciata la gola: con bianche bende: come d’una carmelitana distesa nella morte […]. A vedella così, bianca, immacolata, se levaveno subbito er cappello», 87), ma pur sempre corpo di «Figlia d’un pescecane. E va buò» (78). Si tradisce, dunque, nel derma pubblico e privato la narcisistica «attività pseudo-etica» (93) della donna «quasi velata ai più cupidi» (26), fidanzata e moglie, nel ’17, dell’imboscato Balducci («La guerra! Tutte le preoccupazioni pe l’esonero!», 97), sorella maggiore del cugino/amico Giuliano («verga splendida della ceppaia» Valdarena, 91), madre adottiva di nipoti più o meno procaci («Adottava provvisoriamente quel po’ po’ de regazze», 130) e tuttavia in attesa del figlio vero (bello, biondo, e maschio?): «attendeva di giorno in giorno un bambino, d’anno in anno: da chi poi? un bambino futuro, il futuro figlioccio».
Ingravallo, dal canto suo, incontra la «tripotente camorra» fascista (81), trinità fondata nella materia psichica, come il vino. Si ritrova a «grufolà tra li papié» (73), tra le «reazioni psichiche e fisiognomiche […] de li prottagonisti der dramma» (88), nel «turpe elenco di averi» (105) consegnato agli eredi – arrivando a stendere, nel quarto capitolo, la cartella clinica della «follia malinconica» (130) dell’uccisa («Formula enigmatica: già chiara a don Ciccio, però», 105). Analisi parziali precedenti confluiscono nel cupio dissolvi del referto, dapprima nostalgicamente alto («l’anima tendeva a una sorta di espatrio (la cara anima!) dal paese inutile verso materni silenzi»), poi basso e rabbioso, in risposta ai risvolti materiali («Quel dare, quel regalare, quel dividere altrui!») ed omosessuali («la dimenticata da Dio […] accarezza e bacia nel sogno il ventre fecondo delle consorelle», 107) della psicosi di Liliana.
Già in precedenza il commissario aveva grugnito «nella solitudine del proprio foro interiore» (85); qui però smania «di dolore, di rancura» (107) per un’intuizione nuova e più grave. Tanto la «dissociazione di natura panica» (105) che «le coibitive della Fede» (106) non riescono a velare al commissario la «brama di riprincipiar da capo» (105), la speranza di reincarnazione sottesa all’idea che «l’indistinto soltanto, l’Abisso, o Tenebra, può ridischiudere alla catena delle determinazioni una nuova ascesi: la rinnovata sua forma, la rinnovata fortuna» (105-06). Lo stile conosce il delirio interpretativo, scende tra i segni carnali che s’accumulano: Liliana, questo è lo gnommero, desiderava il rientro nel distinto – altro che «ignota libertà del non essere», o discesa «in una più perdonabile vanità. “Evasi, effugi: spes et fortuna valete”».
Ma un’altra circostanza emerge «da minuziosa (beninteso) perquisizione» presso il Valdarena (107): un gioiello del «tesoro» di Liliana e di marca maschile/paterna («una catena d’oro da orologgio, assai greve […] “na catena ’e nave”») viene rinvenuto nella «bella camera» del bel Giuliano, «mutato di pietra» (108). Un «bellissimo» diaspro, «pietra verdecupa in un tono lucido quasi di foglia palustre […] con esigue venuzze d’un cinabro vermiglione come striature de corallo: quasi cagliato sangue, dentro verde carne del sogno», ha sostituito «lo scarognato biossido» (109), l’opale «azzurro cenere […] Pietra sublunare, pietra elegiaca […] ciondolo azzurrino del dì del Signore» (108-09) con cui la famiglia esibiva «la gran virtù della stessa», celebrandone il nonno, l’«archetipo di tutti i Valdarena: che da pupetto era bionno».
Segue l’«ennesimo interrogatorio» (111) del cugino, la prima ripresa notturna del romanzo: «Aveva acceso, a rincalzo, una lampadina “speciale”». Lo scontro tra «’o campione […] biondo come un angelo» (113) e «tutto risfolgorante del suo giovane pallore nella luce “speciale” dei cento watt» (112) ed il «bituminoso» (118) diavolo della legge le cui smorfie atroci e la «faccia di catrame» (112) traducono ancor più «tenebrosi preconcetti» (113), si preparava da tempo: «vedi com’è bionno? che pare un angelo?» aveva notato una comparsa, contrapponendo al Valdarena «Er dottor Ingarballo […] cor vestito nero» (92). Si preparava anzi da sempre, se già dal secondo periodo dell’incipit il commissario aveva dovuto adattarsi al ruolo di nero, diabolicamente «ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi» (15), di contro ai colori, alla luce dell’esordiente rivale: sulla mano «bianca dalle lunghe dita di signore […] er signorino ci aveva un anello: d’oro vecchio, assai giallo: magnifico: un diaspro sanguigno» (26).
Si chiude, dunque, nel finale del quarto capitolo, il cerchio cromatico-narrativo disegnato dal diaspro, verde come i carnali spinaci esorbitati dal piatto «sul candore della tovaglia immacolata» (19) durante il pranzo (di carnevale, appunto); come la carne del sogno di Liliana, metafora di cui Giuliano chiarisce il senso affatto letterale: «Il grande sogno della vita, per lei, era… di congiungersi a un uomo […] o magari anche a un serpente, che le potesse dare la creatura sospirata» (111). Verde e venato di rosso («con du vene de corallo… rosse! che pareno du vene der core, una pe te, una pe me. L’ho scelto io, diceva», 115-16), a prefigurare posticipatamente, per privilegio strutturale del giallo, la modalità della morte di Liliana: «a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse […] la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo» (68). Ad annunciare, sempre post factum, la mineralizzazione violenta dell’anima – argomento di digressione a gioielli ritrovati, nel nono capitolo («Gemme d’aver cristallizzato naturalmente dal sesquiossido fuso, lungo le direttrici del sistema […] Così l’impeto, il dolore di un’anima si raggela in un grido, coagula nella notazione, secondanti le direttrici formali del pensiero: in un diacciato grido!», 232), ma esecuzione materiale nel secondo, dove da vivente e splendido «cofano di gioie» (90) Liliana viene trasformata nella pietra scelta per il dono a Giuliano: «Curiose forme, agli agenti: parevano buchi al novizio, come dei maccheroncini color rosso […] “la carotide! la iugulare… Dio!” Er sangue aveva impiastrato tutto er collo […]. S’era accagliato sul pavimento» (59).
Osservato, indiziato dall’occhio di Ingravallo per prossimità al cadavere, lo «stupendo diaspro» del cugino – «pieno, turrito: pronto per sigillare una lettera […] una dichiarazione segreta» (61-62) – ha però provocato la sostituzione dell’opale scarognato dei padri in quanto ascritto al registro materno (era infatti appartenuto alla madre di Giuliano), pegno e trasgressione della sublimata omoerotia endofamiliare inculcata proprio dalla gens nel «sangue suo», nei due «nepoti» (113). Dal fondo buio del finale del quarto capitolo e della mimica al nero, il commissario ascolta le rivelazioni di Giuliano – testimoniale incredibile ma infine creduto, e che della voce di Liliana fa teatro e cinema, non diversamente dal grammofono del sesto capitolo («Il meraviglioso ordegno si tramutava […] con la più perfetta disinvoltura, di maschio in femmina e viceversa», 155): «fu lei che mi disse: bada, Giuliano, deve rimaner tra noi: un nostro innocente segreto: er segreto de li cugini… come nei romanzi! Il segreto della bellezza, non siamo belli, noi due?» (119). Il dono del diaspro compagno – eterosessuale, incestuoso («Deve accompagnà questo qui, che ciai ne l’anello tuo», 115), che è poi il prezzo dell’adozione di «un Valdarenino. Un Valdarenuccio» (113) di paternità del cugino e rispetto al quale le adozioni al femminile risultano mera passione schermo – riattiva il ricordo della quasi maternità già goduta da Liliana: «Allegro, bello, hai da fallo, diceva. E bionno, me raccomanno! Come te quann’eri pupo» (119). «Parola pe parola» (116), Giuliano ricrea nella mente di Ingravallo la «scena tra cugini. E avrebbe potuto essere una scena d’amore! No, d’amore no, a nessun patto!». Ovvero gli trasmette il senso recondito della frase riportata nel capitolo successivo: «Un cugino: che è come un fratello. Sapesse! je feci quasi da madre, quann’era pupo» (123).
«Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola. Ma la voce del giovane, quegli accenti, quel gesto, erano la voce della verità» (119). Non c’è quasi che tenga in questa scrittura, nonostante la «gnoseologia fondata sul COME e sul QUASI» (Ceccaroni 1970: 77), parole frequentissime in Gadda. Un «(sic)» autoriale, più ancora che del narratore o del personaggio, martella dentro le righe: «“Se avesse potuto, se fosse stata libera… Ma la sua coscienza, e poi… la religione. No, non era una depravata” (sic), “non era come tante” (sic)» (RR II 116).
Senz’altra fede che quella nel figlio (l’amante preedipico), col dono Liliana ha dunque trasgredito la legge-tabù dei padri, pescecani, sì, ma pur sempre legislatori. (8) Il testo non ha dubbi: «Col suo sdentato ghigno, e con quel fiato da pozzo nero che lo distingue, il senso comune si sbeffava già del racconto, voleva ridergli una maialata sulla faccia» (119). Il pensiero prende allora le movenze metaforiche dell’arma del delitto: «non si può impedire il pensiero: arriva prima lui. Non si può scancellare dalla notte il baleno d’un’idea» (119-20) – già era capitato che corresse via «dietro a una rabbia, dietro a una vendicativa rancura» (74). Ma non è stato il commissario ad uccidere; il Pasticciaccio è un giallo, ci sono garanzie. Il punto è un altro. «Il bilancio della morte era chiuso al centesimo» (106) – la cognizione dell’esatta contabilità testuale del dolore è destinata a mettere in crisi l’«incontenibile ed esplosiva urgenza del mio animo 1945-1946». (9)
Pareva ch’er diavolo se fussi vestito da donna
Tra il romanzetto d’appendice del quinto capitolo (protagonista la nipote diabolica: «voi site ’a Madonna pe mme! […] ma una vorta o l’antra me te magno», 137), e lo «spazio di Ines» (10) – zona di esaurimento e di svolta delle indagini con cui il romanzo rischia il «naufragio» (139) – si salva di certo quest’ultimo, capitolo «tra i più vivi» (11) proprio perché azzarda il cambiamento di rotta, la defamiliarizzazione strutturale.
Sentita la Ines, osservato cioè il «processo di degeminazione, di sdoppiamento amebico» (146) degli originali di via Merulana, e visti scivolare (un po’ come nel domino, è stato detto) i piani del racconto dalla città alla campagna, da Roma a Marino, il lettore – se ancora legge (è inevitabile che la defamiliarizzazione faccia delle vittime) – non si volta allora più indietro a cercare di tenere le fila del caso Balducci (bloccato al quarto capitolo), o a rammentarsi di Ingravallo, ridotto ormai ad un’ombra dell’ombra che già era. Non diversamente dai carabinieri-centauri della tenenza albana, il lettore adesso cavalca il rinato romanzo sull’onda ritmica del ritornello «ipocarducciano» (159) caro ai soci «vitalizi» del Touring: «Avanti, avanti, via!» Ecco passarci allato uno stacco manzoniano, l’incipit dell’ottavo capitolo («Il sole non aveva ancora la minima intenzione di apparire all’orizzonte […]», 187); (12) ecco un paesaggio, il primo del Pasticciaccio, registrato dalla moto in corsa di Pestalozzi («Al primo tornante rigirò pure la veduta», 190). Eccoci allo straordinario inseguimento onirico del bellone-fanalone e topo-topazio-giallazio della Menegazzi – il sogno del brigadiere, l’episodio più noto della seconda parte del romanzo –, alla lettura critica (condotta dall’ignorant reader, valido aiuto del narratore) del tabernacolo dei Due Santi sulla via Appia, exploit testuale forse meno felice. (13)
Incontriamo Zamira – «proprio lei» (200), l’oscena «sarta-sibilla» (151) del racconto di Ines; entriamo cioè nello «spaccio di vini e liquori alli Du Santi» (148) da cui è scattata la mobilitazione spaziale dei capitoli 6-7. Ne usciamo col nono, per seguire Pestalozzi sulla fortunata traccia dei gioielli, ma vi ripasseremo davanti nel decimo allorché Ingravallo prende la strada per Tor di Gheppio e la casa della Tina, la serva «’nguacchiata ’e sugo ’e spinaci» del pranzo di carnevale (70). Proprio il «lenonato con epicentro […] ai Due Santi» (150) – bivio, tabernacolo e bettola con «pupe a cerchio» (il «buon organico di nipotine apprendiste», 153) a cui il testo scende più volte dall’arroccata Marino – spinge infine le mobili traiettorie maschili oltre l’evocazione dei «compossibili» carnali (152), oltre lo slittamento dei piani del racconto e l’esplorazione del secondo romanzo, in direzione dello scioglimento, non della soluzione forse, dei crimini di via Merulana.
Superato il rito di passaggio spaziale ed investigativo, a Tor di Gheppio si riaccendono infatti – o sono le «spire dell’ipnosi» di Zamira a farcelo pensare? (201) – «la tovaglia bianca» (270-71), gli spinaci, l’imperio fisico della serva, il commissario, quello nero e partecipe, anche se inesistente, dei primi capitoli; torna ad agitarsi lo «spirito atrocemente ferito»(272) del finale del quarto. Ingravallo smania di nuovo per la rabbia, ma è aggredito a sua volta: «Quei due occhi neri e furiosi della Tina […] se li sentiva puntati sulla cuticagna: se ne sentiva trafiggere il collo». Una «vitalità splendida» e il «furore dell’ossesso» (276) producono il violento «grugno a grugno», il grido («No, nun so’ stata io!»), la «piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira», la paralisi, l’arresto. Del commissario, e solo in senso traslato – non della donna per cui si era venuti.
In un’intervista con Dacia Maraini Gadda spiega l’improvvisa chiusura, il conclusivo «lo paralizzò: lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi» con il davvero sibillino «Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta» (Gadda 1993b: 172), a rincalzo di affermazioni fatte altrove: «Lo snodarsi impreveduto del groviglio è simultaneo col bagliore folgorante che illumina al commissario protagonista la realtà dell’epilogo» (SGF I 1215). Tutto sommato, potremmo anche accontentarci, e dire d’aver capito a nostra volta che da una storia (il Pasticciaccio nº 1, la fase esplosiva delle puntate su Letteratura, i capitoli 1-6) si è arrivati alla «Storia» (per quanto degeminata, sdoppiata – i capitoli 6-10, il Pasticciaccio nº 2: «Ma la Storia è una sola!» potrebbe esserne il motto, RR II 146). Anzi, alla Materia, anche questa una sola – indistinta, strappata (come i gioielli) alle viscere del mondo e al pensiero di Dio, piazzata (come la Tina, con «a lato il moribondo [e già quasi fossile] autore de’ suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni», 276) di fronte al Soggetto, che è costretto a fermarsi, a deflettere dall’incontro con l’Altro. (14)
Potremmo accontentarci, testo e teoria si rassicurano a vicenda – se non fosse per quella «catena di pensieri. Analogie strane […] occulte agli altri» (164) da cui Gadda-Ingravallo ancora si lascia assorbire, come se nei vortici, nel bailamme della «gran fiera magnara» (258) del Pasticciaccio nº 2 (dove «adagiate sul tagliere prone o più raramente supine, […] le porchette dalla pelle d’oro» esibiscono «i lor visceri di rosmarino», e tutto il testo grida «è dd’oro la porchetta!», «sore spose! […] la porca! Carne fina», 185 e 253-54), dovesse pur sempre badare ai conti di un commercio esaurito, di una vecchia significazione privata. Un altro QUASI e COME (per dirla di nuovo a lettere maiuscole con Ceccaroni) potrebbe allora saltare via dal romanzo, a giudicare non tanto dall’ulteriore degrado dei materiali tematici legati a Liliana (nel «sogno di non essere» della «contessa Circia» sognato da Pestalozzi, le alunne-nipotine si divincolano, per esempio, «da ogni torquente veto dei padri», 193), quanto piuttosto dalla polemica sottesa al rinvenimento (non si tratta di scoperta, no) del principio di organizzazione della materia – «il serpere o il poligonare» (231) dei gioielli, la cosiddetta «rarità», per «suggerimento cristallografico di Dio», versus il cosiddetto «non-valore» («d’un culo di bicchiere», 232).
Che è poi una riedizione dei «figli, bianchi o neri» (105) di Liliana – immagine, questa, davvero ossedente di tutta l’opera gaddiana, e che nel Pasticciaccio si materializza (non diversamente dai cartelli stradali, «simboli venuti di Milano», del sesto capitolo, 158) nell’icona dei Santi Pietro e Paolo, anziani e privi di Madonna, superfici calcinose ed alquanto sbiadite nelle cui pose (specie nel «diritto di primogenitura», nella «scucchia avidamente protesa alla cernita» del primo, 199) e ai cui piedi si legge ancora «in esergo» e poi in nota, mascherate dagli errori dell’ignorant reader e dal latino, Cognizione e Assenza – cioè Gadda ed il fratello Enrico, assente di guerra. (15) Eppure, ci ricordano gli esperti, siamo al tabernacolo sulla via Appia, punto se ce n’è uno di devianza verso altri spazi, licenza poetica rispetto ai dati reali del bivio (1148): episodio-totalità ad un passo dal laboratorio-antro-abisso dei compossibili.
«Esiste una drammatica regione d’ogni rancura, dalla milza e dal cistifele drento il rodimento del fegato, insino a le penombre dietro li mobili de casa» (91) che governa la sotterranea metonimia del Pasticciaccio, le cui «attossicate fantasime» non vagolano né isolatamente né a caso. Chi attende giustizia e non può averne è riuscito, infine, dopo una storia di fallimenti, dopo la stridente (per quanto magnifica) scrittura autobiografica della Cognizione del dolore, a costruire un più coesivo habitat clandestino, fondato sulla grammatica profonda di un genere popolare – inferno en plein air perfettamente visibile allo sguardo del lettore, cioè realistico luogo di pena, più che di dispersione infinita, nella lettera della parola. (16) Noi, certo, tendiamo ad ascoltare la Ines, è quanto lo scrittore teorico ci chiede di fare. Grazie a lei arriviamo sani e salvi all’esperienza anodina dell’explicit, al quasi incontro dell’Altro: ad un Gadda ripulito del ghigno, del pensiero-fornice sdentato. Ma se sentissimo di più e meglio la Virginia, se mantenessimo cioè il ponte con la «cognizione del male» – con quella rancura delittuosa che Manzoni espunse dalla Monaca di Monza nel formidabile taglio inferto all’urgenza esplosiva del Fermo e Lucia, gesto che Gadda non seppe ripetere –, capiremmo perché il Pasticciaccio debba affidarsi alla fantasia d’appendice, perché sino alla fine – anzi, perché anche dopo la fine continui a progettare il recupero della «diavola de corallo» (135) dai «denti bianchi a triangolo come d’uno squalo, come dovesse laniare er core a quarcuno» (136). (17)
Ancora una volta la superficie idiomatica del discorso («quella cià Farfarello in culo», 136) ci aveva visto chiaro e sentito benissimo: «La festa der Corpus Domini… nun aveva avuto er core de rifaje er verso de li canonici […] co la voce d’omo? che solo er diavolo poteva avejela prestata» (138). Non per caso, la trinità vinicola del pranzo di carnevale aveva fatto balenare in Ingravallo il ricordo della nipote allontanata, ripudiata, di un invito precedente – «La Virginia! (l’immagine fu un lampo di gloria, un repentino fulgore nella tenebra)» (23).
Né si dà errore o criptogramma quando il commissario prende infine la strada per la Tina e Tor di Gheppio – che non è dove abita «l’amica dell’amica» (162) delle rivelazioni di Ines, vero identikit dell’assassina domiciliata «sotto a la Pavona» (164): «Mbè, sì, du occhi […]. Diversi da come ce l’avemo tutte. Come fussi una strega, una zingara. Du stelle nere de l’inferno. All’Ave Maria, quanno che annotta, pareva ch’er diavolo se fussi vestito da donna» (162). Gadda dedica infatti ben due pagine – più visibile di così – alla questione Tor di Gheppio vs Pavona: «“Tor di Gheppio è là […] La Crocchiapani abita là” […] “E la Pavona, la stazione?” […] “Lu paese della Pavona è chillu […] è là sotto […] si è che lei, dopo Tor der Gheppio, avete d’annà puro a la Pavona, alora potressimo scegne fino a Casal Bruciato” […] “E va buò,” disse Ingravallo, a cui quella toponomastica aveva procurato du strizzatine de mascelle: “a Tor di Gheppio, ora”» (268-69).
Se ne conviene con Amigoni. Gadda richiede «al lettore uno sforzo analitico e mnemonico davvero sconcertante» (ma non è proprio questo lo spirito del giallo?). (18) Il punto, tuttavia, è ancora una volta un altro. Negli anni Venti, studiando Leibniz (il brano dai Nuovi saggi: «Il quadro del quale si discernono distintamente le parti senza capirne l’insieme se non guardandolo in un certo modo particolare, rassomiglia l’idea d’un mucchio di pietre, la quale è realmente confusa […] fino a tanto non se ne sia distintamente conosciuto il numero e le altre proprietà»), Gadda aveva messo da parte l’appunto: «Importantissimo gruppo di idee. Specie per la Poetica. Ogni discorso, ogni immagine o concetto o giudizio, in genere ogni composizione […] può avere un suo segreto ordine, una ragione di sintesi che al lettore può non apparire (mia teoria embrionale sulla “fatalità” spaziale e geometrica dell’ordine cristallografico)» (Lucchini 1994: 235). Il segreto ordine del Pasticciaccio – testo-demone, «fugitivo di legione con bande rosse, esalato da dìruti castelli: dove la notte, soprappresa dalle ore non sue, bah, la s’era scordata di rincavernarlo» (RR II 157) – sta nella sopravvivenza di Virginia, rancura a caldo, ponte visibile e dissimulato che unisce il quarto al decimo capitolo, facendo del Pasticciaccio provinciale il luogo-corpo dentro a cui distinguere e riconoscere ciò che è corpo-corpo (esemplare la Tina, il grido conclusivo è quello di una Lazialità a suo modo innocente) da ciò che è corpo-diavolo, principio del male, narcisismo folle del vendicatore. Come con le galline di Casal Bruciato: «Il diavolo […] s’era tramutato in gallina […] Una delle tre: ma quale?» (236).
Ingravallo, però, non arriva alla Pavona. O meglio, arriva a Tor di Gheppio, avendo già avuto il suo grugno a grugno con Virginia nel Pasticciaccio nº 1b, il trattamento cinematografico degli anni della crisi del romanzo. (19) Per via filmica, ovvero per proiezione onirica – basta rileggere il vecchio racconto solariano Cinema per capire cosa Gadda cerchi e tema di vedere dal buio della «diabolica sala» (RR I 67) –, l’autore vuole la «SCENA 30a E ULTIMA, Soluzione del giallo. Catarsi» (SVP 984-87). Dall’inizio del canovaccio, tra lampi, dissolvenze e primi piani semi-folli Gadda corre verso il finale, non tanto perché speri di farci qualche quattrino (giustificazione in codice, questa, tra i gaddisti, per indicare che l’argomento Palazzo degli ori va chiuso, non è gradito, la caduta di qualità è troppo grande), quanto piuttosto perché il giallo in pellicola promette di offrirgli, appunto, la catarsi, la prima in quasi trent’anni di carriera: «Poi, per carrellata surreale, il viso durissimo di Ingravallo si accosta e dilata a primo piano, ossedente imagine del giustiziere». La «Fine del soggetto» – la proiezione del viso di Ingravallo sulla sala-Virginia – passa il testimone al romanzo, che, ricaricato, in ripresa, si tira fuori, infine, dalla crisi dei capitoli più vivi, si prepara ad eseguire il mandato del film. Il commissario comprende la toponomastica che lo aspetta. Prima Tina, poi Virginia.
Situazione classica da letteratura del doppio (solo che non ci potrebbe essere nulla di meno doppio della Tina e di Ingravallo), il grugno a grugno frontale e folgorante del decimo capitolo sfrutta, quindi, un’agnizione avvenuta altrove grazie ad un diverso mezzo espressivo. Nel fondo buio della sala del finale del quarto capitolo il pensiero aveva tuttavia già conosciuto una rancura non dissimile da quella dell’assassino (che è donna anche per poterla chiamare belva infinita, e per spiazzare il lettore programmato per il polso villoso – la misoginia gaddiana questa volta proprio non c’entra). Nella luce improvvisa del decimo scatta, allora, ma solo per il poliziotto, ridotto ad un ossesso, l’identificazione con la (nera e ripudiata) ossessa compagna, il cui istinto vendicativo si è alzato prima del proprio. Il Pasticciaccio, dunque, conferma sino all’ultimo le sue garanzie di giallo. Si ringoia, però, il dénouement classico (si sarebbe tentati di tradurlo in ingravallese come degnommeramento) che pure aveva in punta di penna, cioè quella scena 30a e ultima del Palazzo degli ori. Come il diavolo dello Schlemihl chamissiano, Virginia volta le spalle al testo e si riporta via l’ombra – la catarsi da riattaccare al corpo della scrittura – arrotolata sotto il braccio, piegata in tasca.
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Engraving by George Cruikshank for the 1827 English edition of Chamisso’s Peter Schlemihl |
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Note
Nel marzo del ’98 si è tenuto ad Edimburgo un convegno sul poliziesco cui ho partecipato con un intervento gaddiano. Nel programma mi precedevano Giampaolo Borghello ed Elvio Guagnini. Mentre li ascoltavo e prendevo appunti preziosi, ho riscritto mentalmente il paper, la tesi andava cambiata. Non dovevo ripercorrere le tappe, cosa nota, del conandoylismo gaddiano, né parlare del breve abisso che in teoria separa/unisce De Angelis e Gadda, giallo ed esogiallo. Sentivo invece di dover lavorare sul testo, trovare la formula per non partire dai riscontri esterni (i meriti o meno di Gadda nella storia del poliziesco) o dall’opera come teoria (calvinianamente infinita, congetturale e plurima). L’analisi della struttura mi avrebbe portato dentro la splendida narratività del romanzo, questo diventava il programma. Ad intervento concluso, Loriano Macchiavelli mi ha chiesto se il Pasticciaccio sia un giallo. Il tempo stringeva, ho risposto di sì– che era la cosa da dire, ma certo ci voleva altro che una sillaba. Ho tentato di renderla discorso con questo saggio. Per il titolo e il taglio del lavoro mi sono ispirata al doppio della Rosa echiana di Macchiavelli. Spero non gli dispiaccia.
1. Italo Svevo, La coscienza di Zeno (Milan: Mondadori 1990), 649.
2. La definizione chiude il saggio Il pasticciaccio, uscito nel ’57 poco dopo la pubblicazione del romanzo (SGF I 511).
3. A proposito di astratti, la quinta lezione americana di Calvino, Molteplicità, prende spunto dall’incipit del Pasticciaccio, che cita quasi integralmente (Calvino 1988: 101-06).
4. Per una lettura non-bachtininana della polivocalità come dialogicità originaria che fonda il plurilinguismo, si veda Grignani & Ravazzoli 1984: 15-33.
5. «è fulminante!» ha esclamato una voce nel buio durante la visione del Pasticciaccio con cui si sono aperti i lavori della giornata gaddiana tenutasi ad Edimburgo nel febbraio del ’98.
6. Ho in mente Tendo al mio fine, la prosa proemiale de Il castello di Udine (RR I 119-23).
7. Cfr. Racconto italiano di ignoto del novecento (SVP 460) e Roscioni 1975: 207.
8. La Liliana novella Ermengarda (vittima innocente o quasi, a causa dei padri) della recente lettura, peraltro molto interessante, di Aldo Pecoraro non tiene in considerazione la connessione causale e temporale tra la trasgressione di segno materno e l’omicidio, che scatta quando cade la gioielleria Valdarena (fondata sull’ingiustizia, sul sangue delle vittime di guerra, certo, ma anche pegno della repressione degli appetiti sessuali della famelica gens) – cfr. Pecoraro 1998: 133-232.
9. SGF I 507. Sulla travagliata storia interna del romanzo – uscito in cinque puntate (corrispondenti ai capitoli 1-6) su Letteratura nel ’46; entrato in crisi nel ’47, quando già ne era stata annunciata la pubblicazione in volume; in parziale ripresa grazie ad «ulteriori assalti applicativi» nei tardi anni Quaranta; in prossimità dell’arrivo dopo la pubblicazione della «scheggia», il sogno Pestalozzi, nel ’53; in volume, infine, nel ’57, con la promessa di un seguito che non venne mai – si vedano le note di Giorgio Pinotti, RR II 1137-69.
10. Ovvero della giovane prostituta arrestata nei giorni dei fatti di via Merulana. L’interrogatorio, voluto esclamativamente dal commissario capo («Sentimmo la Ines!», 145 – Ingravallo in questa fase è protagonista inattivo) costituisce il secondo notturno del romanzo. Per la definizione di «spazio di Ines» e per quella successiva di «effetto-domino», si veda Gadda 1997a: II, 47.
11. Definizione dell’autore, da una lettera a Garzanti del ’55 (RR II 1146).
12. Per quanto parodia dell’intertesto (l’incipit del quarto capitolo dei Promessi sposi), l’alba manzoniana del Pasticciaccio segnala la ripresa della narratività, dopo «quella notte» e «mutato spiro il vento» (RR II 185).
13. Tale lo considera, per esempio, Roscioni 1975: 86.
14. è il tipo di lettura proposto da De Benedictis 1991: 139-68.
15. Sulla presenza di Enrico nell’opera gaddiana, si veda il mio The Mark of Cain: Mourning and Dissimulation in the Works of C.E. Gadda, in Bertone & Dombroski 1997: 132-58.
16. Di tutti i progetti che Gadda (cui all’inizio del periodo ritorco contro l’indefinito con referente ovvio) ha realizzato scrivendo il Pasticciaccio, Racconto italiano, il suo primo romanzo imploso, è quello che più anticipa il realismo «psicopatico e caravaggesco» dell’ultimo (SVP 411).
17. La «cognizione del male» viene dal Fermo e Lucia – A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di L. Caretti (Torino: Einaudi, 1971), I, 204. Nel passaggio ai Promessi sposi il romanzo gotico della monaca di Monza cadde per insufficienza catartica. Il ridimensionamento della Virginia gaddiana (la soppressione della quarta puntata di Letteratura, a «salvaguardia del suspense») avvenne solo in «fase (maggio ’57) di revisione delle bozze». Sembra però che Gadda intendesse incorporare nella seconda edizione «gran parte del Cap. 4.º di Letteratura» (RR II 1151-55).
18. Amigoni 1995a: 51. Indugiando tra «rimasugli» e «minuzzoli», ovvero praticando l’ora et labora della clausura col testo, Amigoni individua correttamente le strutture del duplice (più che del molteplice), la mimesi metaforico-spaziale delle località albane (tutte ugualmente reali e simboliche), la vettorialità causale del narcisismo (ergo la Pavona del finale, località e simbolo dell’assassina). Stupisce però che, fatto lo sforzo mnemonico, notato cioè il collegamento a breve e a lunga distanza dell’amica (infernale) con la Pavona (località e simbolo), insista a fare abitare la Tina – colpevole? e il cui «No!» sarebbe in realtà e freudianamente un sì? – nella località che non le compete (123-55).
19. Pubblicato dopo la morte dell’autore, Il palazzo degli ori risale «con ogni probabilità» al 1947-48 (RR II 1141). I registi del Pasticciaccio – Germi (1959), Schivazappa (1983), Ronconi (1996) – non si sono serviti del pessimo «canovaccio»; «lettura molto interessante» ma che «non produce una vera tensione né come azione né come psicologia», lo giudica, e non è l’unico, Calvino 1995: 228.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-01-9
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