Longone House

Le immagini della memoria

Maria Antonietta Terzoli

[…] la disperata automaticità degli impulsi riportò il pianto sui suoi vecchî occhî: a cui erano serbate solo delle fotografie gialle, di là dall’andirivieni delle mosche. Fra poco, forse, chi sa!, il tumulto vano del tempo gli avrebbe fatti simili a quelli.

La quinta edizione della Cognizione del dolore, uscita nei «Supercoralli» Einaudi nell’agosto del 1971, reca in sovraccoperta la fotografia sbiadita di una casa di campagna, con alcune figure sul viale antistante l’edificio. La didascalia sul risvolto di copertina precisa che quella riprodotta è «la casa di Gadda in Brianza». La fotografia faceva parte di una serie più ampia, che comprendeva anche altre immagini della villa di Longone e varie foto di famiglia, appartenute allo scrittore e consegnate, tramite Gian Carlo Roscioni, all’editore Einaudi, che a tutt’oggi ne possiede alcune riproduzioni su lastra. Tra le immagini della casa altre offrivano una rappresentazione meno parziale, non limitata al solo lato occidentale, per giunta dimidiato. Non mancava neppure una fotografia della casa in costruzione, che poteva quasi configurarsi come metafora dell’incompiuto romanzo.

Non è forse inutile cercare di render ragione della diversa scelta dell’autore, a prima vista meno felice di altre. Soccorre, contrastivamente, il confronto con la copertina della prima edizione del romanzo, quella del 1963, dove è riprodotto un particolare di un quadro del Bellotto conservato alla Pinacoteca di Brera, che rappresenta la Villa Melzi d’Eril e la campagna circostante (« Veduta della Gazzada», si precisa nel risvolto di copertina). La scelta del quadro, non direttamente implicato con la storia narrata, sembra allontanare in una più rassicurante distanza artistica la materia bruciante del libro. O meglio sembra sviare il lettore verso altri luoghi, attigui e simili, ma non coincidenti con quelli della memoria familiare.

L’operazione rivela scopi analoghi, pur se attuati con diverse modalità, a quella confessata in una lettera a Contini dell’aprile 1963 a proposito della medesima edizione del romanzo: «“narrare intorbidando le acque” per dépister il lettore dalla traccia della sua reale esistenza. […] Carità e pudore filiale mi hanno frenato e distorto la penna a una significazione impossibile, tale da rendere impossibile ogni vera esegesi» (Gadda 1988b: 103-04, lett. 71). Una così grave, e profondamente riduttiva, dichiarazione sulle ragioni del proprio stile – deformazione come occultamento di empietà private e municipali (1) – era stata scatenata dalla lettura dello «stupendo saggio» dell’amico allestito per la stampa del romanzo, dove il critico scioglieva il toponimo di Lukones nel suo reale corrispondente geografico (Longone al Segrino) e denunciava «l’oltraggio recato alla figura del padre», che «culmina nel rito del ritratto paterno calpestato» (Contini 1989: 16) In una lettera precedente, sempre dell’aprile 1963, Gadda all’acme dell’angoscia, aveva pregato l’amico di eliminare il toponimo sostituendolo con altre fantasiose perifrasi. (2) Appunto un ulteriore occultamento dell’odiosamata Longone, quasi a contraddire «in extremis» (e la parola è iscritta due volte proprio nella lettera) la verità intollerabile di un’altra affermazione del suo geniale esegeta, quella che denunciava la sua impazienza di simulazione, cioè, in altre parole, il suo esibizionismo: «La pressione dell’affetto-dileggio (ma il primo termine prepondera) fa sì che ai due estremi del suo arco, impaziente di simulazione, anzi incontinente, Gadda ostenti la dichiarazione dei suoi analoghi». (3)

Pubblicando, otto anni più tardi, nel 1971, l’edizione più completa e forse più attendibile della Cognizione, l’autore esibisce in copertina – o lascia che si esibisca – il documento fotografico del luogo celato dietro la deformazione onomastica, e assume in proprio lo svelamento della chiave autobiografica, dichiarata da Contini nel 1963 e allora ammessa solo in privato, nelle lettere all’amico. (4) In questo inevitabile oscillare tra occultamento ed esibizione, il riconoscimento dell’autobiografia è divenuto così urgente da richiedere un’immagine tratta dalla realtà: una fotografia provvista anche della scena di famiglia: padre, madre, Carlo Emilio, la sorella Clara e il fratello Enrico. La dichiarazione della verità autobiografica del libro importa anzi a tal punto da mettere in secondo piano la verisimiglianza narrativa del documento, dove compare persino l’incongrua Clara, esclusa invece dal romanzo. Sulla copertina della Cognizione è così ostentata una fotografia che mira a tutt’altro che a una semplice e veridica conferma di quanto è narrato.

Il caso è istruttivo per chi voglia esaminare altre fotografie possedute dall’autore. La tentazione documentaria è certo forte, in presenza di uno scrittore di scrupolosa, ossessiva fedeltà ai dati del reale. Con gusto un po’ tardo ottocentesco si potrebbero addurre queste vecchie fotografie come riscontro oggettivo, come riprova di referenti precisi, descritti nel romanzo e ora scomparsi o mutati negli anni. O anche trovare in queste immagini un insperato ausilio all’immaginazione, quasi fossero le illustrazioni di un libro. Ma, a ben guardare, credo che questi materiali richiedano un più forte coinvolgimento, quasi una complicità di sguardo con l’autore della Cognizione. Non si tratta infatti di fotografie qualsiasi, ma di immagini che lo scrittore ha conservato per anni: come momenti fissati dall’obiettivo e per ciò stesso selezionati, sottratti alla dimenticanza. Il corpus di queste foto si presenta allora come insieme di frammenti memoriali privilegiati: mediazione mnemonica per oggetti e persone perdute, e insieme supporto materiale alla descrizione.

Il caso più semplice è quello delle fotografie della villa in Brianza, venduta da Gadda subito dopo la morte della madre, e mai più frequentata. Se ne dànno nel romanzo insistite e meticolose descrizioni, di cui si cita qualche esempio, da collegare idealmente alle fotografie 2 e 3:

Il terrazzo è a livello del piccolo giardino dietro casa, con il quale comunicava direttamente, dopo il solo ostacolo d’un gradino di serizzo. […] La casa si squadrava bianca alla costa, e anzi al sommo, verso mezzogiorno, in corrispondenza dell’ultima ripa: che faceva un dislivello di metri 4,25: l’altezza d’un piano. Sul davanti, contro il sole, c’era un piano di più. (RR I 628)

Molte e ossessive le menzioni di questa terrazza a livello, pericolosa e vana transizione tra l’esterno e l’interno, tra il mondo degli altri e l’intimità della famiglia:

La terrazza da un lato, cioè verso i monti e le configurazioni antartiche, era a livello di giardino, poiché la casa appariva sorgere in corrispondenza di un salto. […] Quattro metri circa, l’altezza di un piano. Sicché, davanti al lato della casa […] un piccolo spiazzo triangolare, con guijarrillos, dava ad ogni intruso facoltà di pervenire direttamente sul terrazzo. (RR I 712)

Sulle fotografie si riconosce bene anche la porta-finestra, che consente un accesso troppo agevole all’interno della casa – al figlio (« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto», RR I 685), ma anche a qualunque estraneo: «Ognuno, ogni estraneo, avrebbe potuto apparire, nero e improvviso, nel riquadro di finestra della sala da pranzo» (722); «si delineò all’improvviso nella cornice della porta-finestra la donnetta del cimitero» (725). Persino i pilastri della balaustra (una balaustra anch’essa inadeguata a proteggere perché, come si vede sulle foto, è interrotta prima del muro della casa e non circoscrive interamente lo spazio) non sfuggono all’attenzione del narratore: «Il figlio, sul terrazzo, deposto il vassoietto sul pilastrino della balaustra» (715).

Altri momenti della Cognizione richiamano immagini fissate dall’obiettivo fotografico. Per esempio la scena della madre, che si è recata al cimitero con i fiori in seguito alle proteste del figlio, (5) sembra descrivere proprio la fotografia in cui la madre di Gadda, con una mestizia che contrasta con la gaiezza dell’altra figura ritratta (Clara), appare con un mazzo di fiori nella mano sinistra e un ombrellino nella destra: «La madre, tornando dal cimitero, avrebbe dovuto apparire da dietro il canto della casa, col vecchio ombrellino che le serviva ad appoggiarsi» (RR I 629). Così attirano molti sguardi gli orecchini preziosi, ben evidenti sulle fotografie della madre: «E quando lui comincia a girare… e va da una stanza all’altra… e la guarda… allora è quando lei ha più paura… e pare che le guardi le bòccole […] Ma anche stamattina vedevo che le guardava i brillanti… perché è già un po’ di tempo che le tiene gli occhi sui brillanti […] Sulle bòccole, che la signora non può farne senza un minuto» (611); o anche: «La signora sua Mamma poi, con quei brillanti… che ne parlano tutti… dato che li vedono tutti… e fino di lontano» (651).

Persino per il ritratto del protagonista – chiamato «autoritratto» nelle Battute da interpolare – l’autore sembra tener presenti le proprie fotografie, che si configurano come ausilio alla descrizione, alla stregua dei ritratti pittorici più volte evocati. (6) Si confronti ad esempio questo frammento con la fotografia di Gadda in divisa da alpino: «Il viso triste, un po’ bambinesco, con occhi velati e pieni di tristezza, col naso prominente e carnoso come d’un animale di fuorivia» (RR I 629). Un’altra delle foto ispira forse la descrizione del personaggio e suggerisce il particolare delle scarpe inadeguate alla campagna, ben visibili appunto sull’immagine:

Era alto, un po’ curvo, di torace rotondo, maturo d’epa, colorito nel viso come un Celta: ma la pelle alquanto rilasciata e stanco all’aspetto, benché fosse una meravigliosa mattina. Vestito appena decentemente, con delle scarpe accollate di pelle di capretto, nerissime, a stringhe nere: e però poco atte, in campagna. (RR I 618)

La mediazione mnemonica della fotografia agisce però anche a un livello più profondo: per esempio nel sogno di Gonzalo, che nella sua densità letteraria e artistica (riconosciuta dai critici e prima ancora dallo stesso Gadda), (7) è però trascrizione di un sogno reale dell’autore, come si ricava da espliciti e ricorrenti appunti manoscritti: «Citare il sogno della mamma morta sul terrazzo. […] sul terrazzo la figura nera della madre verso il cimitero, che veniva dalla direzione del cimitero», «La visione della morte sul terrazzo (mio sogno)» (Gadda 1987a: 548-49, 564). Importa ora notare che all’allestimento del materiale onirico non sembra estranea una delle foto della casa, in cui spicca una figura femminile sul terrazzo: fissata in una sorta di luttuosa immobilità, interamente vestita di scuro, forse di nero, con un volto sfuocato, non riconoscibile. Difficile non ritrovare in questa immagine inquietante i tratti essenziali della «signora nera sul terrazzo» di un appunto gaddiano (Gadda 1987a: 552), che coincide con la «figura di tenebra» evocata da Gonzalo nel resoconto del sogno fornito al dottore:

E il sogno, un attimo!, si riprese in una figura di tenebra… là!… là, dove sono andato or ora, ha visto? al cantone della casa… Ecco, vede? là… nera, muta, altissima: come rivenuta dal cimitero. Forse, col suo silenzio, arrivava alla gronda: sembrò velo funereo, che ne ricadesse… Forse era al di là d’ogni dimensione, d’ogni tempo. (RR I 633)

Persino il velo funereo che, nel sogno, copre il viso della donna e suggerisce altre possibili identificazioni («Veturia, forse, la madre immobile di Coriolano, velata… Ma non era la madre di Coriolano! oh! il velo non mi ha tolto la mia oscura certezza: non l’ha dissimulata al mio dolore», RR I 633) appare come il corrispettivo figurato, la rappresentazione per immagine, dell’inconoscibilità del volto sfuocato. Il riconoscimento è ottenuto appunto per esclusione («Non poteva esser altro»), come operato da chi ben sa che solo della madre può essere la figura fotografata su quel balcone, con quegli abiti:

Conoscevo, sapevo chi era. Non poteva esser altro… altissima, immobile, velata, nera… Nulla disse: come se una forza orribile e sopraumana le usasse impedimento ad ogni segno d’amore: era ferma oramai… Era un pensiero… nel catalogo buio dell’eternità […] Ogni mora aveva raggiunto il tempo, il tempo dissolto… (RR I 633) (8)

Immobilità e silenzio, o meglio impossibilità di gesti e di parole, connotano la figura della madre e definiscono le modalità del sogno e la percezione del sognatore:

una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione… né il rimorso; né chiedere perdono di nulla… di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre… carezzarla… oh! aiutarla… Ogni finalità, ogni possibilità, si era impietrata nel buio… (RR I 632-33)

Ma appunto, che cosa più di un documento fotografico è segno dell’adempiuto, dell’immobile, del non più modificabile? La fotografia fissa per sempre un tempo immutabile, finito, estraneo per definizione al fluire dell’esistenza: «Il tempo era stato consumato! Tutto, nel buio, era impietrata memoria… nozione definita, incancellabile» (RR I 633).

L’estraneità agli atti del vivere, l’incomunicabilità, e il senso di un tempo diverso da quello dei viventi marcano in effetti molte descrizioni della madre nel romanzo. Se gli appunti compositivi di Gadda suggeriscono modelli figurativi nella pittura (la madre di Van Dick, ecc. – Gadda 1987a: 544), queste descrizioni sembrano però riprodurre anzitutto i ritratti fotografici di lei. Avrò modo più avanti di tornare sull’interscambiabilità in Gadda tra opera pittorica e fotografia, che si riconosce ben oltre il già ricordato mutamento della copertina della Cognizione. Qui importa piuttosto notare come la dolorosa contemplazione di queste fotografie sia essa stessa generatrice di scrittura ed enfatizzi tematiche e motivi che proprio in questo sguardo postumo del narratore trovano la loro più immediata, e comprensibile, giustificazione.

Nella celebre pagina del temporale, la madre, rimasta sola nella casa vuota, cerca rifugio nella parte più interna, sottratta alla vista: « Nessuno la vide, discesa nella paura, giù, sola» (RR I 677). Lo scrittore la descrive però attraverso lo sguardo di un ipotetico osservatore, addirittura del più insensibile («anche un lanzo!»), evocato come estremo garante di pietà: «Ma se qualcuno si fosse mai trovato a ravvisarla, oh! anche un lanzo! avrebbe sentito nell’animo che quel viso levato verso l’alto, impietrato, non chiedeva nemmeno di poter implorar nulla, da vanite lontananze». Lo sguardo prima mancato e poi impotente nel soccorso è però anzitutto quello del figlio, o meglio dello scrittore, che angosciosamente contempla la fotografia della madre ormai scomparsa: un viso «impietrato», che appunto «da vanite lontananze» non ha più neppure la possibilità di implorare («non chiedeva nemmeno di poter implorar nulla»). La descrizione riprende, caricandoli di pathos tragico, elementi riconoscibili in una delle fotografie: la fascia scura sul capo, le ciocche di capelli che ne sfuggono, le gote scavate e cadenti:

Capegli effusi le vaporavano dalla fronte, come fiato d’orrore. Il volto, a stento, emergeva dalla fascia tenebrosa, le gote erano alveo alla impossibilità delle lacrime. Le dita incavatrici di vecchiezza parevano stirar giù, giù, nel plasma del buio, le fattezze di chi approda alla solitudine. (RR I 677)

L’impossibilità delle lacrime, se appartiene all’economia del racconto, è però anche leggibile come impossibilità di un essere che non possiede più le prerogative dei viventi. Lo conferma il seguito, che registra il sentimento di disperata frustrazione dello scrittore che contempla quel volto non più vivo, cercando, senza certezza («forse»), di decifrarne i potenziali pensieri: «Quel viso, come spetro, si rivolgeva dal buio sottoterra alla società superna dei viventi, forse immaginava senza sperarlo il soccorso, la parola di un uomo, di un figlio» (RR I 677).

La fissità del volto, l’impossibilità di espressione (parola o sguardo) e di percezione proprie di una fotografia sollecitata invano a una risposta, divengono una tematica ossessiva, che svela la mutata condizione della madre («non era più persona, ma ombra»): «è spaventosamente invecchiata. La sua faccia, le sue labbra, si direbbe che nascondono un pensiero non suo… che tacciono parole indicibili… ma la lontananza è già in lei» (RR I 634); «Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito dell’anima era più possibile: forse ella non era più la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato, lontano: non era più persona, ma ombra. Sostava così, nella sala, con pupille cieche ad ogni misericorde ritorno, immobilità scarnita da vecchiezza; per lunghe falcate del tempo» (683).

Ho sottolineato l’insistenza del figlio sul sentimento di un tempo diverso – quello dei morti e quello dei vivi – che lo separa dalla madre: «non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili […]! Gli anni erano finiti» (RR I 632), «Ogni mora aveva raggiunto il tempo, il tempo dissolto» (633). Addirittura: «“Gonzalo!”, implorò il viso della mamma, pallido nelle sue rughe, come dietro sbarre del tempo finito» (709). In effetti la tematica di un tempo inconciliabile, che è di grande tensione tragica nel libro, traduce a livello narrativo un’altra sfasatura temporale: quella tra il tempo interno del racconto e il tempo esterno della scrittura, tra il tempo del personaggio che parla e il tempo dell’autore che scrive scrutando le vecchie fotografie. Proprio durante il colloquio tra Gonzalo e il medico, è iscritta una duplice indicazione temporale, la curiosa sfasatura tra «una anticipazione straordinaria» e «l’ora vera»:

Pronunciò queste ultime parole come in un sogno: e l’ora da una torre lontana sembrò significare: «gli atti sono tutti adempiuti». Una anticipazione straordinaria, come una beffa crudele, precipitava giù sui pollai estracomunali quella sequenza bugiarda: ma non molto, non molto! e sarebbe scoccata l’ora vera, la verità grave: il decreto inappellabile di Lukones. (RR I 629)

L’interpretazione fornita dagli esegeti, e funzionale all’interno del racconto, è quella di un anticipo tra un campanile e l’altro (Gadda 1987a: 161-62, n.). Ma in una prospettiva metatestuale, la sfasatura tra ora bugiarda e ora vera registra la sfasatura tra il tempo del racconto e il tempo della scrittura: la «anticipazione straordinaria» che si finge nel romanzo («bugiarda») di uno sguardo dello scrittore che invece è postumo nel tempo reale («l’ora vera»). Nel romanzo si narra della madre viva, che invece è già morta al momento della stesura del racconto e della contemplazione, da parte dello scrittore, di quelle fotografie. Un ulteriore piano temporale che si aggiunge alle già complesse intersezioni cronologiche della Cognizione. L’ultimo ritratto della madre che ho citato iscrive addirittura il doppio tempo – futuro della morte di lei e della stesura del libro e passato del racconto – entro una minima porzione testuale, e con esplicita identità spaziale:

E l’abito di povertà e di vecchiezza era come un segno estremo dell’essere portato davanti ai volti dei ritratti, dove alìgeri fatui, sul vuoto, orbiteranno entro il sopravvivente domani. […] Le mosche descrivevano pochi cerchî nella grande sala, davanti ai ritratti, sotto i dardi orizzontali della sera. (RR I 683-84)

I voli delle mosche («alìgeri fatui», di funebre connotazione già nell’interferenza lessicale con «fuochi fatui», i «fuochi dei cimiteri» di una poesia del 1919) (9) marcano in senso tragico le fotografie degli esseri amati menzionate in maniera esplicita nell’episodio del pesce e dei funghi:

la disperata automaticità degli impulsi riportò il pianto sui suoi vecchî occhî: a cui erano serbate solo delle fotografie gialle, di là dall’andirivieni delle mosche. Fra poco, forse, chi sa!, il tumulto vano del tempo gli avrebbe fatti simili a quelli. (RR I 724)

Non occorre dimostrare l’equivalenza, nella percezione del narratore, tra ritratti e fotografie, che altro non è che un caso particolare della più ampia interscambiabilità tra immagine pittorica e immagine fotografica già segnalata in Gadda. Qui importa piuttosto notare un altro slittamento metaforico, inerente al documento fotografico stesso: quello tra la persona ritratta e la sua immagine, qui tra i morti e le loro fotografie: se l’andirivieni delle mosche davanti alle loro foto ripete all’infinito nel tempo l’oltraggio di quel volo sull’immobilità suprema del «volto ridonato alla pace e alla dimenticanza» (RR I 673). La fotografia, nel momento stesso in cui ha valore sostitutivo, dichiara anche l’assenza: alla madre sono «serbate solo delle fotografie gialle», immagini e non oggetti, meno reali di questi se neppure sono comprese tra ciò che le resta di una vita («Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? di una vita», RR I 673).

Il passo che ho citato rappresenta anche una preziosa indicazione metatestuale, quasi una mise en abîme dei procedimenti compositivi del romanzo, quando registra la consapevolezza – che è quella dello scrittore che sta appunto descrivendo una foto e dunque sa – dell’inevitabile e prossima inclusione del volto materno (gli occhi) tra i ritratti delle fotografie ingiallite: «Fra poco, forse, chi sa!, il tumulto vano del tempo gli avrebbe fatti simili a quelli». Alla fine dell’episodio, nella chiusa del capitolo, la madre, descritta secondo la percezione del figlio («gli apparve davanti»), ha assunto ormai anche il colore delle vecchie fotografie:

Il volto, dalle orbite gonfie, dalla pelle cascante, quasi giallo, non riesciva più ad esprimere la tenerezza interiore: come se l’inesorabile già lo avesse allontanato da ogni possibilità di espressione: ma l’amore si palesava dal tentativo del sorriso, dalla tensione degli occhî. (RR I 736)

L’impossibile comunicazione, la fissità dell’espressione che ho indicato per le descrizioni della madre si lasciano qui ricondurre alle ragioni anche tecniche dell’immagine fotografica.

Ma il segnale di similitudine («gli avrebbe fatti simili a quelli») sembra alludere anche a un altro, più intollerabile paragone, che si può esprimere solo per allusioni e parallelismi, ma non può essere pronunciato: l’equivalenza tra la corruzione dei corpi umani e quella della «tenca gialla, […] la bestia morta, che aveva gli occhi velati da una lassitudine acherontea». (10) La menzione da parte della pescivendola del nipote scomparso («il mio povero Angelino […] quello che giocava col suo povero figliolo hee quand’erano dei bambini così hee proprio quello») (11) e l’invettiva contro la guerra («Ah! quella guerra!») scatenano appunto il pianto della madre, la percezione delle fotografie ingiallite oltre l’andirivieni delle mosche e il senso della morte esteso al mondo vegetale e animale («I funghi, la tenca… sì… povere creature», RR I 724). L’orrenda similitudine viene piuttosto negata che espressa: «Con dolcezza misericorde, obliterò la turpitudine dei segni. In memoriam» (RR I 724). Un atto di estrema pietà per preservare intatta l’immagine degli esseri amati («la memoria esigeva»). Ed è forse per necessaria riparazione, per antitesi tra oltraggio e dolcezza misericorde, che il verbo utilizzato per questa pietosa rimozione («obliterò») comporta un’impressionante prossimità con quello che, all’opposto, esprime l’oltraggio delle mosche («alígeri fatui, sul vuoto, orbiteranno», RR I 684).

Le «fotografie gialle» richiamano, a ritroso, altre foto menzionate nel libro, in particolare quelle del figlio caduto, che nell’affollata congerie onomastica della Cognizione non ha nome, come per un’irrinunciabile reticenza. (12) Conservate nel «vecchio secrétaire di noce ch’ella non riusciva più a disserrare», sono ormai irraggiungibili: «Il giuoco della chiave si era smarrito nella successione dei tentativi, o, forse, nelle ombre dolorose della memoria. Ci doveva essere il ritratto… i ritratti… i gemelli di madreperla… forse, anche le due lettere… le ultime!» (RR I 683). Queste stesse fotografie – qui sottratte allo sguardo dall’imperizia dei tentativi o forse da un’estrema difesa al dolore – sono invece contemplate dallo scrittore, che così si confessa in chiusura del Giornale di guerra e di prigionia, nel doloroso riepilogo del 31 dicembre 1919: «Riguardo e penso i ritratti del nostro Enrico adorato, e nella desolazione vorrei avere una fede, la certezza di rivederlo dove che sia. Ma non lo vedrò mai: il suo sorriso è cosa del passato indimenticabile» (SGF II 867).

In effetti le rare descrizioni del fratello nella Cognizione risentono fortemente dei suoi ritratti fotografici, persino quando si tratta di immaginarne gli ultimi istanti:

il suo figlio minore, nei lontani anni, aveva guardato gli accorsi. Con occhi lucidissimi, aperti. Aperti, fermi. Nello stupore del sogno senza più risposte. La favola. Era chiara, ora, splendida, interminata, come nel libro del bimbo. Due fili di sangue gli discendevano dalle narici sui labbri, semiaperti: dischiusi alla verità impronunciabile. (RR I 729)

Gli occhi lucidissimi, aperti, fermi, e le labbra dischiuse sono tratti ricorrenti nelle immagini di lui, fin dall’infanzia. Qui importa di nuovo sottolineare l’impossibilità di parola propria dell’immagine fotografica – «dischiusi alla verità impronunciabile» – che diviene motivo tragico come già nelle descrizioni della madre (si ricordino le «labbra […] che tacciono parole indicibili», RR I 634). Persino lo « stupore del sogno»– che risponde allo «stupore della morte» riferito poche pagine prima a Cesare trafitto dai pugnali di insospettabili nemici (724) – sembra già fissato dall’obiettivo fotografico. Ma è nell’ultima scena del romanzo, quando gli abitanti di Lukones penetrano nella casa della madre morente, che lo scrittore svela il procedimento descrittivo più volte utilizzato nel libro, menzionando esplicitamente una fotografia del fratello, posta sul tavolo della camera di Gonzalo e ora esposta allo sguardo degli intrusi:

Sul tavolo un libro aperto, una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tanti anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice: era visibile, in parte, la struttura del velivolo. Uno degli intrusi indugiò a guardare la fotografia. (RR I 750)

Un’estrema dissacrazione se l’esser guardati, l’essere esibiti a uno sguardo estraneo, è un’ultima forma di oltraggio per occhi che non possono più vedere.

L’ossessione del ritratto, con la sua alta carica simbolica, ispira, come è noto, uno degli episodi centrali del romanzo, più volte narrato al lettore, l’oltraggio alla figura paterna nella forma del ritratto calpestato:

ha distaccato il ritratto del suo povero Papà, che è appeso in sala da desinare… e ci è montato sopra coi piedi… a pestarlo […]. Fortuna che c’era il suo vetro, sul ritratto, che intanto ha potuto salvarsi. (RR I 614-15)

è qui che si esprime al più alto grado l’equivalenza tra immagine e persona rappresentata. Dopo l’accesso di furore di Gonzalo, la madre non osa neppure «abbassar gli occhi alla memoria straziata del marito»: «Guardava davanti a sé, nell’incredibile, rifiutando le immagini come se tutto il vivere fosse un oltraggio: a chi non può riscattarsi dal suo silenzio!» (RR I 711). L’oltraggio all’immagine è già oltraggio a «chi non può riscattarsi dal suo silenzio», cioè di nuovo a chi non possiede più la possibilità della parola. E la salvezza è delegata ai viventi, in questo caso alla madre, per la quale le immagini del passato, foto o ritratti, sono ormai i fragili testimoni di una vita che non sembra più sua:

volle salvare quell’immagine. S’era chinata: aveva preso: con mani tremanti, scheletrite, dove le vene bleu conducevano sugli ossi un flebile battere, che era un ricordo, forse… In lei era memoria: soltanto memoria… Nel tempo erano le immagini e la cancellata verità: ed era stata figlia, sposa e madre […]. Aveva risollevato quel ritratto, salva la cornice per un miracolo, con tutti i fregi d’oro, così delicati. (13)

L’equivalenza tra la persona e la sua immagine trova ulteriore riscontro nella descrizione dei danni subiti dal ritratto, espressi nei termini di ferite inferte a un corpo: «Staccò dalle pareti un quadro, un ritratto, […] lo appiastrò al suolo. La lastra di vetro si spaccò. Dopo di che vi montò sopra: calpestandolo come pigiasse l’uva in un tino, ridusse il vetro in frantumi. I talloni disegnarono come dei baffi al ritratto, due spaventose ecchimosi del ritratto» (RR I 711). Tanto più se proprio un’«ecchimosi» deturpa orrendamente il viso della madre dopo la mortale aggressione notturna, simmetrica – anche se incomparabilmente più grave – a quella inferta da Gonzalo al ritratto paterno: «e quella orrenda ecchimosi alla guancia destra, ch’era così spaventosamente tumefatta, fin sotto l’occhio» (754).

La possibilità di infliggere una ferita al ritratto è in qualche modo anticipata nei timori della madre: «Forse avrebbe scagliato via il coltello… contro un ritratto, magari dei più in vista… gli zii…: contro il ritratto del padre!» (RR I 689). La diversa tipologia dell’aggressione qui immaginata è spia preziosa di un’interferenza culturale finora inosservata, che si dovrà aggiungere a quella proustiana suggerita da Contini nel Saggio introduttivo. A scagliare il coltello contro un ritratto è infatti il protagonista di The Picture of Dorian Gray, il romanzo costruito appunto sull’interscambiabilità tra la persona e il suo ritratto. Nel libro di Oscar Wilde, come è noto, è il ritratto a invecchiare e a deturparsi al posto del personaggio, che conserva inalterata la sua bellezza. Fino all’ultima scena, quella appunto in cui il coltello, scagliato dal protagonista contro la tela in un accesso di furore e di rabbia, ristabilisce il normale ordine delle cose uccidendo Dorian, divenuto in pochi istanti vecchio e rugoso, e restituendo al ritratto la sua originaria bellezza. Alla fine del libro, dopo l’uccisione nella notte, i servi insospettiti dal rumore accorrono preoccupati ma esitano a entrare nella casa immersa nel silenzio. Finalmente penetrano attraverso il balcone forzando la finestra, dopo aver bussato e chiamato invano:

Si udì un grido e un tonfo. Il grido fu così orribile di angoscia che i servi spaventati si destarono, e sgusciarono fuori dalle loro camere. Due signori che passavano giù nella piazza, si fermarono e guardarono su nella grande casa. Proseguirono il cammino finché incontrarono una guardia e ritornarono indietro con lui. L’uomo suonò il campanello parecchie volte, ma non ebbe risposta. […] Nell’interno, nella parte della casa adibita alla servitù, i domestici semivestiti sussurravano fra di loro. […] Dopo circa un quarto d’ora, prese con sé il cocchiere e uno dei valletti, e salì cautamente le scale. Bussarono, ma non ebbero risposta. Chiamarono ad alta voce. Tutto era silenzioso. Finalmente, dopo aver tentato invano di abbattere la porta, salirono sul tetto, e si lasciarono cadere nel balcone. Le finestre cedettero facilmente: i catenacci erano vecchi. Quando entrarono, trovarono. (14)

è addirittura sconcertante come questa pagina possa rappresentare uno schema del finale della Cognizione, in cui si ritrovano, disseminati in una più ampia narrazione, gli stessi elementi narrativi. Persino l’accenno all’orrendo mutamento del viso («Era sciupato, rugoso, di aspetto ripugnante. Fu solo quando ebbero ben esaminato gli anelli, che lo riconobbero» – Wilde 1933: 288) trova riscontro nella Cognizione: «Terribile fu e permaneva a tutti l’aspetto di quel volto ingiuriato, ch’essi conoscevano così nobile e buono pur nel disfacimento della vecchiezza. Ora tumefatto, ferito. Inturpito» (RR I 754). E non è forse irrilevante che anche il romanzo di Wilde si chiuda con un delitto il cui autore resta sconosciuto a coloro che accorrono.

Ma torniamo ora alla Cognizione, dove il ritratto calpestato rappresenta il massimo oltraggio alla figura paterna. La dissacrazione non resta però circoscritta a questa mostruosa violenza del protagonista: si estende invece ad altri luoghi del libro e coinvolge direttamente l’autore, che non manca di mettere in ridicolo particolari riconoscibili nelle foto di famiglia. Nella descrizione di coloro che «scivolavano felicemente nel mondo», irrisi dallo scrittore («Tutti avevano la loro vita, la loro donna: e si erano lasciati varare: ed erano in condizione di essere presi sul serio. Ognuno nel suo genere; e anche il manovratore del piattello», RR I 695-96), affiorano in effetti tratti somatici ed elementi dell’abbigliamento ricorrenti nei ritratti fotografici del nonno materno: il «panciotto a quadretti», la «barba accuratamente bipartita e tagliata a forbici», persino «due borse gonfie, sotto gli occhi» (696). L’allusione appare tanto più stringente se si osserva che si insiste sulla condizione matrimoniale («mariti»), e che le mogli (spregiativamente «femmine») esibiscono proprio i gioielli che indossa la nonna dell’autore nella foto di famiglia («Talora avevano diademi di gemme sopra i capegli, le femmine»). (15) La chiave che consente di accedere a questo livello interpretativo, e di riconoscere nel sarcasmo anche il dileggio dei genitori della madre, è di nuovo il documento fotografico, garante della memoria e, per noi, unico elemento di confronto. Una chiave che è però esterna al libro e ne protegge certi segreti.

Si spiega allora come la dissacrazione più feroce, quella che tocca l’emblema stesso della memoria, sia ancora più nascosta e si lasci cogliere solo facendo appello a un referente ancor meno sospettabile: la tomba del padre nel cimitero di Longone, o meglio la sua epigrafe (Gadda 1993: 55):

ACCOGLI O SIGNORE E CONSOLA
FRANCESCO GADDA
NOBILE, OPEROSO, PURO –
VIVE EGLI ANCHE FRA NOI.

L’epigrafe risente di luoghi foscoliani, che perdurano nell’epigrafia funebre fino ad anni recenti («Per lei si vive con l’amico estinto | E l’estinto con noi […] | Le ceneri di molli ombre consoli», Sepolcri, vv. 32-40). Ma più importa notare come le qualità immortalate nella lapide appaiano impietosamente irrise – nel caso di «puro» persino alla lettera – in una pagina della Cognizione, che ridicolizza l’ingenua fiducia del nobile marchese nella bontà popolare:

Il Marchese padre, costruttore della villa e della terrazza a livello, era e si sentiva talmente puro, e, sotto l’usbergo del sentirsi puro, amava talmente il popolo […] che di chiavistelli o spranghe o serramenti e di cocci di bottiglia ne’ muri, di che certi vecchî danarosi si premuniscono contro le tentazioni altrui, non aveva mai nemmen voluto saperne. (RR I 722)

Non sarà di poco conto che poche pagine prima, sempre nelle recriminazioni relative al muro sprovvisto delle «rituali schegge di bottiglia», menzionando coloro che invece si muniscono di un ben protetto muro di cinta, se ne citasse appunto l’annuncio funebre: «Ringhiosi georgòfili sogliono ingemmarne la propria clausura: “tutta dedita al lavoro e alla famiglia”, come si imparerà poi, un bel giorno, dall’inatteso annuncio dei loro funerali» (RR I 712-13). Una perfetta simmetria che sollecita il riconoscimento di un analogo dileggio anche nel luogo dove la parodia della lapide non può essere che implicita.

Il procedimento è messo in atto, ma con intenti opposti, in un altro caso emblematico, quello del fratello. Sepolto in un lontano cimitero militare, (16) a Longone Enrico è onorato di un monumento funebre, collocato sulla tomba del padre, e di una lunga epigrafe: (17)

ENRICO GADDA
ACCOGLI O ETERNO,
NELLA LUCE DEGLI EROI –
CONSACRATA L’ALTA ANIMA
AI DOVERI SUPREMI –
CI LASCIò FANCIULLO
E SORRIDENDO VOLLE IL
SUO FATO – ALPINO,
VOLONTARIO DI GUERRA
NEL 15-16, PILOTA
AVIATORE NEL 17-18,
DECORATO DI MEDAGLIA
DI BRONZO E D’ARGENTO
AL VALORE MILITARE,
CADDE IL 23 IV 1918
IN VOLO DI GUERRA.

Una disperata ricapitolazione della sua breve esistenza registrata su una tomba altamente simbolica. È per questa tomba che Gonzalo, nel romanzo, lamenta l’assenza di fiori, non certo per quella paterna. Ed è questa epigrafe che affiora, per frammenti, nella Cognizione, dall’allusione alla vana medaglia al valore («un sottufficiale d’arma le si era presentato con un diploma», RR I 673), all’indicazione delle modalità della scomparsa («dove era caduto»; «Peccato che uno si fosse buttato in aria, l’aria bonna, a quel modo: ma la gravitazione aveva funzionato», 728), fino alla ripresa letterale di elementi lessicali come «luce» e «sorriso» a connotare, con insistenza, il fratello: (18) «Chi si amava è nella terra… Era nel suo viso una luce… un sorriso…» (642); «Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere!» (673); « il fratello, sorriso lontano!» (682). Poche sillabe salvate dalla dimenticanza e iscritte nel libro a futura memoria: appunto, secondo Gadda, «In memoriam».

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Note

Si ringraziano Gian Carlo Roscioni, la casa editrice Einaudi e le Edizioni Effigie per aver gentilmente concesso la pubblicazione delle fotografie in loro possesso. Una prima versione del presente contributo è pubblicata col titolo La casa della «Cognizione». Immagini della memoria gaddiana (Milano: Effigie, 1993).

1. «Non si tratta tanto di me quanto di ragioni familiari e di prudenza municipale: è ancora viva, con tutto il bagaglio de’ suoi sentimenti “forzosi” la mia sventurata sorella, viva, vecchia, sofferente come me» (Gadda 1988b: 103).

2. «Ia domanda o preghiera: sostituire o tacere il toponimo Longone al Segrino con le seguenti possibili varianti: a) Tour du Chagrin [Chagrin fu nome dato dai francesi, in anni napoleonico-preromantici; Cisalpina] La Torre (torracchio) ESISTE, in vista del Lago. b) Torre del Lagoverde. c) Lac du Chagrin. oppure T. di L. oppure spazio bianco con tre asterischi ***» (Gadda 1988b: 102, lett. 70).

3. Contini 1989: 16. Contini precisa subito dopo le modalità di questa esibizione: «martellando in limine che il Serruchón è “qualcosa di simile, per il nome e più per l’aspetto, al manzoniano Resegone”; ribadendo all’uscita, per chi non volesse darsene inteso, che le luci d’autunno “in quella regione del Maradagàl, così simile, per molti aspetti, alla nostra perduta Brianza, parevano le luci dei laghi di Brianza”».

4. «L’attacco iniziale con la citazione ex abrupto “un’autobiografia di Mademoiselle Vinteuil”… “proiezioni autobiografiche”… “oltraggio recato alla figura del padre”: si raccomanda per verità critica, ma non è meno esplosivo e tragico per i cuori delle… vittime tuttora viventi» (Gadda 1988b: 102).

5. «Ho protestato con lei perché non c’erano fiori sulla tomba… e allora ha voluto andar lei… con queste strade!» (RR I 629-30).

6. Cfr. gli appunti sull’autoritratto nelle Battute da interpolare, Gadda 1987: 568-69. Per il ricorso a ritratti pittorici nella descrizione di Gonzalo, si veda Roscioni 1975: 164-65.

7. Si vedano in particolare Roscioni 1975: 166-71; Gorni 1973: 317; e le note di Manzotti in Gadda 1987a: 170. Alle possibili fonti letterarie fin qui segnalate, si dovrà aggiungere anche un passo della Nouvelle Héloïse (parte, v lett. IX), che rivela singolari analogie con la narrazione gaddiana. Si tratta del resoconto del sogno angoscioso di Saint-Preux, nel quale il protagonista scorge la madre morente di Julie, e poi, al suo posto, Julie stessa, che riconosce con certezza benché il suo volto sia nascosto da un lugubre velo: «Je vis Julie à sa place; je la vis, je la reconnus, quoique son visage fût couvert d’un voile. Je fais un cri, je m’élance pour écarter le voile, je ne pus l’atteindre; j’étendais les bras, je me tourmentais et ne touchais rien. “Ami, calme-toi, me dit-elle d’une voix faible: le voile redoutable me couvre, nulle main ne peut l’écarter”», Julie ou La Nouvelle Héloïse. Lettres de deux amants habitants d’une petite ville au pied des Alpes recueillies et publiées par J.J. Rousseau, Introduction, chronologie, bibliographie, notes et choix de variantes par R. Pomeau (Paris: Garnier, 1988), 603.

8. Sull’iniziale inconoscibilità della figura nera poi percepita come madre dal sognatore, cfr. anche un passo della redazione detta «Ia Serie»: «Poi, un sogno angoscioso gli traversò l’anima, come quando s’era svegliato nella notte, di soprassalto: sul terrazzo era una figura nera, muta, di donna, come sono le madri, se i figli hanno ignorato il ritorno» (Gadda 1987a: 558, n.).

9. Cfr. La sala di basalte, v. 121: «Era disparso come i fuochi dei cimiteri» (Gadda 1993a: 26).

10. RR I 724. Poco più avanti il pesce è definito «pantanoso» («Nel tremito dei pianto si fece ad ammirare con delicate espressioni quella pancia gialla di quel laido e pantanoso pesciaccio»): forse non solo perché «abitatore dei pantani» (Gadda 1987a: 406), ma anche perché «acheronteo».

11. Si vedano in proposito le foto di bambini, di cui resta forse un’altra lieve traccia nella Cognizione: « occhi e riccioli di bimbi nei sereni giardini» (RR I 703).

12. Si noti, nella rievocazione dell’annuncio della morte, l’insistenza sulla parola «nome»: «Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso […]. Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello strazio» (RR I 673). Gonzalo, sopravvissuto alla guerra, è invece «il bel nome della vita» (680), a sua volta custode geloso di un nome non più pronunciabile: «I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il nome, la disperata memoria» (682).

13. RR I 617. Un riferimento alla fragilità delle cornici dei ritratti è in una lettera del 16 novembre 1936 a Lucia Rodocanachi: «Mi sono dovuto occupare di materassi, di posate, e delle cornici (complicatissime e fragilissime) dei ritratti degli zii e prozii» (Gadda 1983d: 59).

14. Cito dalla traduzione italiana di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, a cura di A. Guidetti (Torino: UTET, 1933), 287-88.

15. Suona benevola, in confronto, l’ironia che ispira la descrizione del marchese padre nel giovanile racconto Villa in Brianza: «Aveva perduto tutta la sua sostanza […] però l’eleganza innata del portamento e l’ineccepibile candore del camicione inamidato potevano lasciar ancora pensare agli ingenui ch’ei possedesse qualche fortuna. […] Mediante la camicia d’amido e certa degnazione bonaria di gentilhomme campagnard, di marchese amante del progresso» – cito da Tadini 1983: 9-10.

16. Cfr. le note del 22 maggio 1919 nel Giornale di guerra e di prigionia: «Il giorno 23 aprile [anniversario della morte] volevo andare a Sandrigo, a vedere la tomba d’Enrico. Non potendo allora (Politecnico), ci sono andato prima: […] la squallida tomba e il dolore demenziale, istupidimento. […] La gita terribile e la visita alla tomba d’Enrico mi fecero una tremenda impressione» (SGF II 858).

17. La si legge ora in Gadda 1993a: 55.

18. Così già nel Giornale di guerra e di prigionia: «il suo sorriso è cosa del passato indimenticabile» (SGF II 867).

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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-01-9

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