Incipit sub specie aeternitatis
Cristina Savettieri
Le forme dell’incipit
Scorrendo le pagine iniziali delle opere narrative di Gadda ci si trova sostanzialmente di fronte a due tipi di formule incipitarie, sulle quali vale certo la pena di soffermarsi, se è vero che nelle strutture artistiche «la fine e l’inizio sono molto più marcati che nei messaggi del linguaggio comune». (1) I due romanzi maggiori aderiscono chiaramente a modelli narrativi per così dire tradizionali, mettendo in campo la voce e lo sguardo di un narratore onnisciente in modo che l’incipit assolva alla funzione di mediazione tra il mondo reale e il mondo narrato. (2) Nella Cognizione, come dai canoni della poetica realista, il racconto prende difatti le mosse da una panoramica spazio-temporale di indubbio sapore manzoniano-balzachiano:
In quegli anni, tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maradagàl, che è paese di non molte risorse, davano facoltà ai proprietari di campagna d’aderire o di non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte – (Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche). (RR I 571)
Il tono della cronaca, i frequenti incisi al presente, l’indicazione meticolosa dei toponimi e la descrizione dei luoghi, tutti elementi di una vera e propria retorica dell’incipit che il romanzo realista utilizzava per creare quell’illusione di realtà che facesse dell’opera una continuazione del mondo reale, ritornano nell’attacco della Cognizione con una evidente intonazione parodica: la contaminazione tra il tempo romanzesco e il tempo storico, che nella narrazione realista garantiva l’integrità dell’illusione di realtà, risulta in questo incipit gaddiano del tutto paradossale, visto che il tempo storico evocato è inventato. Nonostante questo evidente rovesciamento di intenti, i dettami di quella retorica incipitaria vengono seguiti meticolosamente, lasciando assolvere alle prime battute del romanzo quella medesima funzione mediatrice. Nell’incipit del Pasticciaccio la definizione del cronotopo è invece preceduta dalla presentazione del presunto protagonista del romanzo:
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. (RR II 15)
La descrizione fisica del personaggio diventa fisiognomica, indugia su dettagli di nitido realismo – i bernoccoli sulla fronte, le macchie d’unto sulla giacca – delineando in poche righe un carattere. Anche in questo caso la presentazione del personaggio assolve a una funzione mediatrice, fornendo inoltre delle indicazioni precise sul genere: il narratore, informandoci immediatamente del fatto che Ingravallo è un investigatore, lascia supporre fin dalle prime battute del romanzo che quello che si sta per leggere è un giallo.
Nell’opera gaddiana sono però presenti evidenti scarti dalla formula incipitaria appena individuata. L’ingresso del lettore nella narrazione può avvenire per fratture, attraverso pagine iniziali che non si pongono assolutamente come luogo della mediazione, del passaggio al mondo narrato, ma che anzi sembrano svilupparsi in maniera del tutto autonoma. L’inizio della Meccanica, il primo racconto dell’Adalgisa, Notte di luna, e il testo che apre Il castello di Udine, il celebre Tendo al mio fine, rappresentano delle soglie del tutto particolari ai libri che introducono. Sono testi di confine, che, seguendo le indicazioni di Genette, potremmo definire prefativi, nel senso che costituiscono «un discorso prodotto a proposito del testo che lo segue o precede». (3) La definizione è particolarmente calzante nel caso di Tendo al mio fine, che infatti è stato subito riconosciuto come una densa dichiarazione di poetica; eppure le poche pagine che inaugurano Il castello di Udine non si pongono in alcuna continuità con il resto del libro né realizzano una mediazione tra mondo reale e narrato. La soglia è, piuttosto, un baratro spalancato dall’accumularsi di immagini stilisticamente cariche. La densità stilistica schiude, cioè, un vero e proprio spazio di discontinuità.
La stessa apparente irrelatezza si riscontra negli incipit della Meccanica e dell’Adalgisa. Autonomia tematica e complicazione formale sono esibiti a tal punto da far invariabilmente pensare ad esercizi di stile sviluppatisi su se stessi e mal collegati al resto del tessuto narrativo. In questi due casi – un romanzo e una raccolta di racconti che potrebbe dirsi un romanzo mancato vista la compattezza dell’insieme –, l’eterogeneità risulta ancora più spiccata che ne Il castello di Udine, opera di per sé composita, non unitaria e non narrativa in senso proprio, costituita da un insieme di testi autonomi: il contesto in parte giustifica la discrepanza di Tendo al mio fine, che, per quanto incipit in sé estremamente inusuale, proprio per questo non rappresenta l’esempio più notevole di deviazione dalla norma.
Concentriamoci allora sugli scarti più significativi, gli incipit di Meccanica e di Adalgisa. L’analisi che mi propongo di svolgere cercherà di dimostrare come gli esordi di queste due opere, pur presentando un’evidente marca di discontinuità, costituiscano le premesse imprescindibili della narrazione vera e propria, assumendo un particolare carattere prefativo che ha poco a che vedere con l’apparente funzione mediatrice degli incipit dei due romanzi maggiori. Si tratterà quindi di individuare una seconda formula incipitaria, fondata non più sul tradizionale principio di mediazione ma su una deliberata deviazione da esso.
Il prologo della «Meccanica»
La prima pagina della Meccanica costituisce dunque una soglia che più che introdurre il lettore nel romanzo crea una frattura con esso. Lo spazio tipografico isola il fulminante prologo quasi a farne un’epigrafe, o forse una prosecuzione argomentata del titolo del romanzo, che di necessità deve collocarsi al di fuori degli spazi narrativi veri e propri pur facendone imprescindibilmente parte. Una voce che non è propriamente quella narrante interviene a glossare il titolo, a spiegare cosa significa meccanica, con un tono talvolta declinante al grottesco che ricorda in certi punti quello delle note del dott. Feo Averrois nel Castello di Udine:
La scienza della realtà e della necessità, delle cause e degli effetti, de’ congegni di puntamento, di percussione e di pròtasi, quella sola può leggere dal suo quaderno che in sul capo all’Autore cadrà il pomo dall’albero, piantato nel prato, e disgregatasi invece dalle torri erme dell’alpe cadrà la pietra, cercando il profondo; che il giusto colpo springherà tremendo sopra al bersaglio; e che l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà. Ma, davanti l’ombra de’ monti e sotto li stellati cieli della notte, per entro e per fuora le vene delli umani e il popolo immenso delle foreste, de’ tenebrosi fatti delle lor anime non ha sortilegio da predir se non pochi, nel gioco riconoscendo delle sue carte tutti quelli che finalmente, consumata alla faccia de’ gabbati santi la festa, anche il gufo barbagianni dottor grandissimo fattosi in sue sentenzie sapientissimamente dirà.
Est quod est. (RR II 467)
Intanto, è possibile individuare una cesura all’interno del brano in corrispondenza del «ma» avversativo che segna anche un lieve mutamento del tono. Nella prima parte, una costruzione del periodo per così dire ciceroniana, sviluppata sull’incastro delle proposizioni subordinate e sulla dislocazione di soggetti e verbi, contribuisce a creare quell’effetto di complicazione proprio di una trattatistica un po’ capziosa, quasi secentesca, che definisce la meccanica con una formula che al lettore non può che sembrare semiseria se non addirittura grottesca. La clausola di questa prima sezione del brano – «l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà» – sconfina in un campo tematico e semantico estraneo al presunto ed enfatizzato rigore scientifico della premessa; se cioè gli esempi della mela caduta dall’albero e della roccia frantumatasi risultano plausibili (alludono infatti a una delle fondamentali leggi della fisica, cioè quella di gravità), l’immagine del cavallo produce invece un effetto straniante che sembra dilatare la definizione di meccanica ad un ambito che non le è strettamente proprio.
Si ricorderà che nella chiusura di Tendo al mio fine Gadda utilizza un’espressione praticamente identica: «Crescerà ne’ vecchi muri l’urtica: e l’erba di sopra la lassitudine mia. E l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà» (RR I 122). Ma ancora più interessanti risultano le note riferite dal glossatore fittizio a questo passo finale: in una si dice che «lassitudine» è «una interpretazione biologica della morte» (RR I 123); in quella successiva il cavallo è interpretato come «saluberrima stupidità, superstite e pascolante sopra la vana fatica del pensiero». Ritornando alla Meccanica, se veramente c’è una coincidenza concettuale, oltre che testuale, con quanto si dice in Tendo al mio fine, il lungo periodo che apre il romanzo e che costituisce una glossa al titolo comprenderebbe entro il concetto di meccanica non solo tutto ciò che riguarda il moto dei corpi, ma anche la necessità della morte e quella di una persistente, ottusa stupidità, ineluttabile quanto la legge fisica che attira verso il basso i corpi, quanto il destino di morte che riduce in polvere e poi erba gli esseri viventi. Sopra la decomposizione, dunque, la stupidità prolifera, fagocita quella morte accampandovisi necessariamente, meccanicamente. L’immagine del cavallo è allora grottesca quanto l’idea da essa veicolata: e cioè che siano prevedibili, calcolabili, perché regolate da determinismo fisico, tanto la morte che la cieca noncuranza di essa.
è a questo punto che, dopo una dichiarazione intesa ad escludere qualunque residuo di imprevedibilità, si apre una fessura: l’avversativa introdotta dal «ma» schiude infatti la possibilità dell’eccezione, dell’imprevisto che fa sfumare i calcoli della «scienza della necessità»; schiude cioè lo spazio dell’esperienza umana. Dopo la piega grottesca introdotta dall’immagine del cavallo, la lingua si carica ulteriormente di una patina arcaicizzante, il tono s’innalza quasi fino al sublime tra «l’ombra de’ monti» e «li stellati cieli della notte». Lo riabbassa tuttavia bruscamente la conclusiva icona del «gufo barbagianni dottor grandissimo», ripetendo così l’effetto straniante creato nel periodo precedente dall’immagine del cavallo. Anche entro lo spazio dell’esperienza umana tanto le previsioni che le sentenze risultano dunque assurde e ancora una volta grottesche, di una sapienza libresca, polverosa, oltre la quale svanisce l’unilateralità dei rapporti causali. «Est quod est»: ogni cosa, ogni evento, ogni azione umana è ciò che è. Risalire al di là significa anche scontrarsi e quindi assumere quel margine di inspiegabilità, di mistero, che del resto Gadda ha più volte tentato di descrivere. (4)
Quello analizzato sin qui costituisce il prologo vero e proprio del romanzo. Visto che nel corso della vicenda verrà data un’interpretazione sostanzialmente diversa del titolo del romanzo, l’incipit contribuisce a creare ambiguità intorno al significato da attribuire alla nozione di meccanica. Quando se ne parla nel romanzo, si intende infatti la passione del giovane Franco per tutto ciò che riguarda macchine, biciclette, «arnesi» di vario genere:
Nel giovinetto Velaschi si palesò una precoce affezione per le trovate migliori della meccanica e dipoi un cotale studio tutto lo prese. Egli congegnava piccole utilità e suonerie da sé solo, e dava riparo ai guasti di certi arnesi o serrature o dell’orologio vecchio di casa, quando vi si rientrava dopo settimane e, costernati, erane spento il solenne tic-tac. (RR II 530)
Ma il lettore accorto non può non ricordare gli effetti stranianti provati alla lettura del prologo, in cui meccanica è tutt’altra cosa. In questo modo, il richiamo porta dentro al testo e alla vicenda quanto l’incipit tematizzava, accostando in un confronto sproporzionato i due significati del termine, di cui il primo comprende la necessità della morte.
è proprio sviluppando quest’ultima idea che il prologo sconfina oltre i limiti, definiti dallo spazio tipografico, della sua collocazione, penetrando direttamente nel mondo della finzione. L’indicazione del capitolo I dovrebbe segnare chiaramente il superamento effettivo della soglia, che sembra far parte ancora del titolo, ma le immagini che seguono sono ancora ad essa evidentemente legate, ne costituiscono uno strascico che ritarda ancora l’inizio propriamente narrativo del romanzo:
Ma per piani aridi e illuni o nell’aggrovigliata paura delle giungle immense udrà forse taluno di là da ogni voce de’ viventi come segui il torbido fiume delle generazioni a devolversi e penserà che sciabordi contro sue prode le rame e li steli dalle selve divelti; e verdastre, con i quattro piffari all’aria, le carogne pallonate de’ più fetidi e malvagi animali, quali furono in vita e saran pecore, jene, sanguinolenti sciacalli, saltabeccanti scimie, asini con crine de’ lioni e gran baffi: e il branco lurido e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte. (RR II 469)
Ancora una volta la congiunzione avversativa «ma» ribadisce la cesura con quanto appena detto: se è vero che non esiste una meccanica dei comportamenti degli uomini, il testo ritorna improvvisamente, dopo la marmorea perentorietà dell’«Est quod est», all’idea dell’ineludibile destino di morte di tutte le forme viventi. Se fino a questo momento il discorso sembrava incentrato sugli esseri umani, qui il punto di vista si allarga bruscamente in una prospettiva cosmica: animali e generazioni di uomini sono tutti accomunati nel trascorrere dalla vita alla morte, nel movimento alternante di una pulsazione infinita. L’immagine che Gadda crea con uno stile alla ricerca di effetti sublimi reca sicuramente delle memorie letterarie: il «torbido fiume delle generazioni» ricorda l’Acheronte virgiliano e forse più ancora quello dantesco, sulle cui rive «il mal seme d’Adamo» (Inf. III, 11) aspetta di essere imbarcato sul battello di Caronte. A questa reminiscenza si sovrappone la descrizione della palude Stigia e del suo scenario di fango (Inf. VII, 100-130). E probabilmente è presente anche un altro luogo dantesco nell’immagine degli «steli dalle selve divelti»: si tratta della selva dei suicidi, in cui gli spiriti dei dannati sono intrappolati dentro gli sterpi (Inf. XIII). Del resto «torbido», «prode», «selve» sono tutti termini danteschi. Ma probabilmente agiscono anche suggestioni e memorie bibliche.
Il piano temporale con cui il romanzo si apre è dunque quello cosmico, regolato dall’incessante alternarsi di vita e di morte. (5) Il punto di vista dell’«immutato divenire» schiude il tempo dell’eternità, oltre l’esistenza individuale, nonostante il destino di morte, che è in primo luogo decomposizione fisica, figurazione apocalittica e infernale. Sembra quasi che il racconto non possa avere inizio se con un trionfo della morte, che indugia, come negli affreschi tardogotici, sui particolari raccapriccianti della devastazione fisica. È nella meccanica dell’universo che la materia si trasformi incessantemente, nella prospettiva eterna del divenire: ciò fa dell’esordio del romanzo una visione dall’alto, una cornice che contamina il tempo della vita individuale dei protagonisti della storia con quello ben più ampio, dilatato, della vita dell’universo.
A questo punto la terza occorrenza del «ma» avversativo segna un nuovo mutamento del fuoco percettivo. Dalla visione cosmica la scrittura torna a guardare l’esistenza umana individuale:
Ma la sacra corrente seguiterà defluendo, con una mormorazione delle tenebre, verso lontane stelle. E resupino sulla cóltrice nera del flutto e come adagiato nel silenzio e nella solitudine della sua morte, trapasserà segno o corpo che parerà fatto di cerea luce: greve per tutte le membra della fatica mortale, di che solo avrà voluto vestir il fulgore di sua giovinezza: e avrà il capo stancamente nel flutto, il viso rivolto verso i cieli gelidi. Così composto nella sua morte parerà un fiore pallido della eternità. (RR II 469)
Questa volta è la morte di un singolo individuo ad essere prefigurata. Lo sguardo segue un cadavere simbolicamente trascinato dal flusso del divenire. Gli iniziali toni cupi stemperano nell’elegia, si fanno dolenti nella contemplazione della morte (osservata da vicino e, ancora una volta, inserita nel tempo eterno). In un brano del Racconto italiano si trova un’immagine molto simile:
E se ancora, ed oltre, si potesse sapere! Altro ancora, si vedrebbe. Forse la conoscenza, forse la volontà stessa non apparirebbero certezze infinite, ma pallidi, rapidi fiori, fioriti dal buio, come ripiego momentaneo, come una trovata provvisoria dell’eternità. (SVP 541)
La morte è una pausa provvisoria del divenire, che è incessante, «immutato», come la deformazione logica del reale, come l’eternità, che penetra di nuovo nella scrittura, dilata il punto di vista, rapporta la morte individuale ad una dimensione incommensurabile, si contamina ancora una volta con il tempo umano. Ed effettivamente si tratta anche di una prefigurazione; gli abbozzi dei capitoli finali della Meccanica si chiudevano infatti con la morte di Gildo e con quella di Luigi Pessina – del primo, fucilato da imboscato, si dice «fagotto deambulante verso il nulla» (RR II 581); il secondo muore tisico:
Come in un vano sorriso, apriva la bocca: sentiva le gengive magre intrise di sangue, era stanco, tanto stanco! e il mondo era buio, e altro non c’era che la notte, la buia, la infinita notte. Nelle occhiaie fonde sentiva pesare i bulbi flaccidi e opachi degli occhi: dentro le costole gli parevano ripiegarsi sul cuore, la tosse veniva su dai camini del vuoto. […] e poi con occhi vuoti d’ogni luce, guardava guardava all’insù verso l’alto, dentro la tenebra […]. Il soldato nell’ombra aveva proteso le braccia, era caduto sopra una specie di divano, bocconi, vomitando sangue nero sopra i drappi e i cuscini: il suo volto era stato per un attimo nell’ombra, la maschera livida e desolata dell’inutilità. (RR II 582-86)
La morte di Pessina avviene sotto gli occhi della moglie e del suo giovane amante Franco. Vengono cioè a trovarsi non solo accostate ma quasi fuse insieme, con un’impressionante evidenza simbolica, la scena amorosa dell’amplesso e quella cupa della morte. Il romanzo si chiude dunque sulla «dialettica vita-morte» (6) su cui si fonda la pulsazione infinita dell’universo, che è quella che schiude il tempo eterno, proprio come accade nell’incipit.
Le pagine che aprono la Meccanica non possono assolutamente essere considerate irrelate al resto. (7) Il romanzo svela anzi una struttura circolare, che verrebbe a mancare se non si tenesse in debita considerazione il prologo. La relazione tra quest’ultimo e l’insieme sorge però sotto il segno della discontinuità. Non si è infatti ancora esaminata la frase finale che chiude l’esordio: «Ma è meglio cambiare discorso» (RR II 469). Il quarto «ma» avversativo segna l’ultimo, questa volta esplicito, mutamento di tono che annuncia anche un mutamento tematico. Lo spazio bianco tipografico rende al meglio lo stacco, e solo a questo punto il racconto vero e proprio può cominciare, e nel modo più canonico possibile:
Il giorno di domenica 4 ottobre 1915 un tempestar di colpi sull’uscio fece levar il capo e rivolgerlo alla stupenda Zoraide ch’era seduta sur una scranna impagliata e agucchiava. Era seduta in un certo modo succinto e piccante da far venire l’acquolina in bocca a’ suoi non pochi ammiratori, oltreché ai più inveterati buongustai; ma lì non ce n’era nessuno. (RR II 469)
La determinazione temporale e la presentazione del personaggio avviano il racconto; dalla cronologia prende forma la storia, e il tempo eterno, sovraindividuale, lascia il posto a quello umano. La sproporzione tra i due piani temporali non poteva essere realizzata in modo più convincente. Il mutamento di registro stilistico è solo la spia più evidente dello scarto, della frattura su cui si fonda la relazione tra l’incipit e il racconto, e solo il bianco tipografico consente uno scivolamento che altrimenti sarebbe risultato una insostenibile sovrapposizione. Il varco «sub specie aeternitatis», che accosta l’agghiacciante evidenza della morte e l’imperturbabile continuità della vita dell’universo, viene contrappuntato, dopo l’apparente formula di passaggio «ma è meglio cambiare discorso», dall’inserzione del dato cronologico, che, nella sua precisione cronachistica, rende ancora più forte l’effetto decontestualizzante dell’incipit. Lo sguardo dall’alto, la prospettiva dell’immutato divenire, si restringe fino a immergersi nuovamente nelle vicende umane, la cui meccanica, imprevedibile, conosce soltanto l’incrollabile prevedibilità della morte. Questo è l’anello di congiunzione tra le due prospettive temporali, questo il tema che lega l’incipit, apparentemente irrelato e stilisticamente sovraccarico, al racconto. Il romanzo è, infatti, disseminato di presagi di morte, che riguardano soprattutto Luigi Pessina:
Con l’estrema sensitività del predestinato vedeva le ombre e atroci fantasime, gli pareva già d’esser solo, una notte, nel letto del matrimonio, e destarsi di soprassalto dopo l’estremo sopore: senza poter più ormai gridare né chiamare nessuno: morir soffocato dalla polla tepida di tutto il suo sangue. (RR II 524)
Quando fu invece sul treno buono, quello del fronte, che andava come un funerale, adagio adagio, perché tanto arrivare si sa che si arriva, dato che gli ordini di Cadorna non si può non rispettarli, Luigi allora si raggomitolò sul fondo del carro, in un angolo, quasi nell’ombra. (RR II 525)
Luigi allora si rannicchiò nel fondo, in un angolo buio. Seduto a terra, le braccia conserte in sulle ginocchia, vi appoggiò la fronte, chiuse gli occhi. (RR II 527)
E, poi, gli vennero in mente i dottori. Nella bianca luce delle cliniche e delle ambulanze, vestiti d’un camica bianco, erano come muti ed assorti. Sul loro viso non c’era menzogna, misericordia nemmeno. La sua sorte glie l’avevano detta, per dieci lire. Erano come i libri veri, che costano dieci lire e dicono vere e tremende parole. (RR II 529)
Se Luigi Pessina è ricoperto costantemente da un’ombra funerea, il personaggio di Zoraide, sua moglie, fin dal suo ingresso è connotato da un prorompente vitalismo:
Serrati i talloni, alle caviglie tendinee succedeva la simmetria delle gambe dentro la calza attillata, cui sapienti muscoli rendevano vive per ogni spasimo, e amoroso soccorso. Poi una corta gonnella, corta per la miseria, non per la moda: e non facea mistero di quel che celasse. Erano le proposizioni vive dell’essere, compiutamente affermate, che rendono al grembo come una corona di voluttà deglutitrice. (RR II 471)
Zoraide, in quel momento, dormiva certo! respirava! respirava! come se fosse fatta d’amore: e il roseo lume dell’aurora, che cerca su tutta la terra i più splendidi aspetti di giovinezza, le entrava, portandole sogni meravigliosi e angosciati, dentro i capelli che erano come un’onda fulva, profumata e dorata.
Poi, mentre loro s’imbrogliavano ciabattando nei perfil’a dest, e il sole alto e fulgido cavava sudore dalle zucche vuote, certo allora lei si lavava, si pettinava. Zoraide era la vita. (RR II 525)
è ancora una volta la dialettica vita-morte, che i due personaggi incarnano perfettamente, e che la scena finale svela essere principio strutturante e tematico del romanzo. La favola «Crispino e la Comare», che riaffiora nella memoria di Luigi, ne diventa l’allegoria:
La Comare, vana e splendida, con la bacchetta bussa tre tocchi magici sopra una porta nera: e in quell’attimo si palesa a Crispino per quel ch’ell’è veramente, sorride perfida e splendida. Al terzo tocco i battenti si spalancano taciti subitamente: e, come in un armadio a muro, appaiono de’ ripiani ardenti di luce, con mille ceri tremolanti ciascuno d’una sua vivida luce.
Vestito di raso bianco, con le calze bianche di seta al ginocchio, il bel giovinetto tremava, tremava; vane erano state tutte le scarpe e tutto il battere del calzolaio, ché, uno a uno, quei ceri divenivano ombra. E quale era già un moccolo baluginante in una disperata agonia, verso la tenebra liberatrice; quale, alto e vivido ancora, per un suo gioco perverso, con un suo soffio, ecco, lo spengeva la crudele Comare.
E così era la legge della tenebra e delle luce, nello stipo tragico e vano. (RR II 527-28)
Nella chiara decifrabilità dell’allegoria morale, nella figurazione del contrasto tra tenebre e luce su cui era intessuta la visione del cadavere trascinato dalla corrente nel terzo brano dell’incipit – «mormorazione delle tenebre», «lontane stelle», «coltrice nera del flutto», «cerea luce», «fulgore di sua giovinezza» –, è astratto il senso ultimo del romanzo, che mantiene in primo piano una dettagliata ricostruzione storica ma fa emergere sullo sfondo la dimensione metastorica dell’eterno avvicendarsi di vita e di morte, quella stessa che informa di sé l’allucinato affresco iniziale. Senza quell’apertura all’universale, che dilata a dismisura il punto di vista e la prospettiva e in cui è racchiuso il senso del romanzo, che non è e non vuole essere un romanzo storico, nessuna narrazione può avere inizio.
L’incipit dell’«Adalgisa»: «Notte di luna»
«Semplice scherzo o poetica divagazione abbandonata e patetica». (8) Con questo giudizio Binni definiva la qualità della prosa di Notte di luna, il primo racconto dell’Adalgisa, pubblicato nel 1942 in rivista, e poi inserito nella raccolta di disegni milanesi, uscita in volume nel 1944. Il tono forse un po’ affrettato del giudizio riduce il testo incipitario dell’Adalgisa a una capricciosa esercitazione stilistica di tono lirico, che si segnala per la sua forte eterogeneità rispetto al resto del libro. La negatività di vari giudizi critici, che rilevavano l’estraneità del primo disegno agli altri, spinse Gadda a eliminare il testo dalla seconda edizione della silloge; nonostante ciò egli volle reinserirlo nei Sogni e la folgore, pubblicato nel 1954, che vede riuniti insieme La Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine e per l’appunto L’Adalgisa.
In realtà è effettivamente possibile rilevare un’eterogeneità per così dire genetica del primo dei disegni milanesi: la prima redazione di Notte di luna si trova nel Racconto italiano di ignoto del novecento, mentre la maggior parte degli altri disegni sono variamente estrapolati da Un fulmine sul 220, romanzo rimasto, più che incompiuto, allo stato di abbozzo.
Ma la questione dell’eterogeneità, per non dire estraneità, di Notte di luna riguarda sostanzialmente lo stile: Binni liquidava il nostro testo frettolosamente, denunciandone la scarsa coerenza formale con l’insieme dei disegni milanesi. Eppure l’interprete non può non interrogarsi sul motivo per cui Gadda decise di inserire nell’Adalgisa un testo che non solo le era estraneo geneticamente, ma che risulta effettivamente a sé stante in una valutazione generale dello stile. A questo si aggiunga il fatto che Notte di luna occupa una posizione, per così dire, forte, visto che costituisce l’incipit della silloge, ripetendo in tal modo la funzione incipitaria che avrebbe avuto nel Racconto italiano, in cui, seguendo la terminologia musicale usata da Gadda, sarebbe stato l’ouverture della prima sinfonia del romanzo. Verrebbe insomma da chiedersi se ancora una volta, proprio come per l’inizio della Meccanica, la discontinuità stilistica e tematica di questo incipit rispetto al resto dell’opera non sia piuttosto determinata da una scelta precisa.
Il confronto delle varianti tra la redazione del Racconto italiano e quella dell’Adalgisa offre ulteriori motivi di riflessione, visto che, come è stato variamente notato (9), il testo pubblicato presenta una complicazione formale, che contribuisce ad enfatizzarne l’effetto decontestualizzante. Appare abbastanza evidente, insomma, che Gadda non fece alcun tentativo di adeguare il tono del suo vecchio scritto a quello del nuovo, anzi aumentò il più possibile l’effetto di sproporzione e discontinuità.
Come è stato notato il testo risulta in realtà bipartito, e non solo nei temi, ma anche nel tono: (10) mentre la prima parte crea diversi problemi di interpretazione con una complicazione stilistica tale da far perdere di vista il referente della scrittura, la seconda risulta formalmente più piana svolgendo il tema del lavoro e del ritorno a casa alla fine della giornata con una precisione referenziale che in certi punti diviene sospetta. Dunque il lettore viene prima stordito da un livello metaforico così denso da rendere oscuro il senso dell’argomentazione del testo; questo iniziale disorientamento viene però compensato dalla seconda parte, che inizia con una determinazione temporale che potrebbe essere benissimo l’incipit di un racconto classico: «In quell’ora i cavalli erano stanchi» (RR I 293). Ad essa si accompagna una minuziosa descrizione dello spazio cui segue, praticamente fino alla conclusione, una disamina dell’aspetto dei lavoratori.
Questa bipartizione non risulta in realtà così rigida e schematica come sembrerebbe. L’inizio del testo, il suo primissimo paragrafo, mette subito in campo i due temi che verranno svolti:
Un’idea, un’idea non sovviene, alla fatica de’ cantieri, mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose e il lavoro è pieno di sudore e di polvere. Poi ori lontanissimi e uno zaffìro, nel cielo: come cigli, a tremare sopra misericorde sguardo. Quello che se poseremo, ancora vigilerà. I battiti della vita sembra che uno sgomento li travolga come in una corsa precìpite. Ci ha detersi la carità della sera: e dove alcuno aspetta moviamo: perché nostra ventura abbia corso, e nessuno la impedirà. Perché poi avremo a riposare. (RR I 291).
Il confronto con la versione del Racconto italiano si rivela subito utile:
Un’idea, un’idea non sovviene mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose ed il lavoro è pieno di polvere. Ma poi le prime gemme tremanti nel cielo sono un segno di quello che, se riposeremo, ancora vigilerà. I battiti della vita sembra che uno sgomento li trascini come in una corsa precipite: e dove alcuno ci aspetta, muoviamo: perché la nostra ventura abbia corso e nessuno lo impedirà. Perché poi dovremo riposare. (SVP 419)
La versione del Racconto italiano è più sintetica, indugia meno su alcune immagini che la redazione dell’Adalgisa impreziosisce. La lingua di quest’ultima assume un colore più arcaico («poseremo» per «riposeremo»; «moviamo» per «muoviamo»; «avremo a riposare» per «dovremo riposare»). Si noti inoltre, a titolo esemplificativo, come dall’analogia esplicita «le prime gemme del cielo sono un segno di quello che, se riposeremo, ancora vigilerà» (Racconto) si passa a un’immagine stratificata che sulla metafora delle stelle come ori e zaffiri innesta la similitudine, accostata per asindeto, dei «cigli», per approdare infine per metonimia allo «sguardo». Una valutazione generale della sintassi rivela il carattere più franto e asindetico di quella della versione definitiva, in cui anche la punteggiatura diventa significante, sostituendosi ai nessi logici che nella prima redazione sono esplicitati.
A questo proposito si faccia attenzione alla variante più interessante di questo primo brano, cioè la scomparsa della congiunzione avversativa «ma» dalla prima alla seconda versione. Nel Racconto l’avversativa esplicita una contrapposizione tra due ambiti: quello del lavoro materiale e quello della meditazione, allegorizzata nella sera. Alcune spie semantiche confermano quanto si sta dicendo: alla «polvere» del primo periodo si contrappone infatti il «cielo» della frase introdotta nella prima versione dal «ma» avversativo. C’è di più: in Notte di luna all’elemento della polvere viene aggiunto quello del sudore; forse a questa aggiunta si può collegare anche quella dell’inciso, assente nel Racconto, «ci ha detersi la carità della sera»; parafrasando intenderemo dunque che la sera deterge dal sudore della giornata di lavoro. Questo caso esemplifica molto bene la direzione della riscrittura del testo: nella versione definitiva l’argomentazione diventa cioè implicita attraverso la scomparsa dei minimi nessi logici che dovrebbero servire a chiarire la relazione tra le varie proposizioni. Ma il filo dell’argomentazione, per quanto assottigliato, rimane percorribile attraverso altre spie che il testo continua a offrire, come nel nostro caso quella della contrapposizione semantica.
Il primo paragrafo svolge dunque una funzione ermeneutica, orchestrando i due temi principali dell’intero testo, all’interno del quale verranno articolati inversamente rispetto alla loro posizione iniziale: avremo prima lo svolgimento del tema della meditazione, dell’«idea», poi verrà svolto il tema del lavoro.
Cerchiamo di spiegare meglio il senso dell’incipit, che, come si è detto, ha in nuce lo svolgimento di tutto il resto del testo. Il tema delle opere, del lavoro umano, assai frequente in Gadda, viene legato a quello della meditazione. Questa sembra possibile solo al termine della giornata, quando cala la sera e il lavoro si interrompe. La «fatica de’ cantieri» esclude cioè l’«idea»: solo l’interruzione del lavoro e la calma della sera con la visione confortante delle stelle (figura dei morti e segno di una persistenza, «quello che, se poseremo, ancora vigilerà») (11) permettono la meditazione sul senso della vita e della morte. Come, infatti, non intendere metaforicamente il senso della «ventura» e del «riposo», eufemismo per significare la morte come necessità ineluttabile e ineludibile («poi avremo a riposare»)? Il sonno, cui fa da contrappunto la veglia delle stelle, è sonno eterno. (12)
A questo punto si crea un corto circuito con quanto si è detto sopra: se le stelle sono figura dei morti, ma anche segno di persistenza, per cui è loro attribuita la veglia, come è possibile che contemporaneamente siano il riposo e il sonno a significare la morte? L’apparente incoerenza figurale rivela una significazione duplice, perché le prospettive che entrano nel testo, attraverso una stratificata trama di figure retoriche, sono due. Uno è il punto di vista umano che valuta tutte le cose entro il termine del tempo della vita, scandito dall’alternarsi di notte e giorno, che è anche l’alternarsi di lavoro e riposo, il tempo della «ventura» che, parafrasando Gadda, tende al suo fine, cioè è destinata a terminare con la morte. L’altro punto di vista non è riferibile ad alcun soggetto umano, è, ancora una volta, il punto di vista universale, anti-umanista, dell’«immutato divenire».
Lo spostamento della prospettiva cambia anche il modo di considerare la morte, che, se per l’uomo è il termine, la fine e il fine della vita, considerata impersonalmente è solo trasformazione, modo del divenire perpetuo dell’universo, principio di funzionamento della sua meccanica. Sarà in una osservazione di impianto interamente logico che nel Pasticciaccio si leggerà:
La morte gli apparve, a don Ciccio, una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. Come il risolversi di un’unità che non ce la fa più ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice. (RR II 70)
Idea questa derivata dal sistema della Meditazione milanese: «La perenne deformazione che si chiama essere vita, giunge talora ad apparenze così difformi dalle consuete che noi ne facciamo nome speciale e diciamo morte» (SVP 650). La differenza tra la vita e la morte è una questione combinatoria riguardante il modo in cui la pulsante e perenne deformazione organizza le sue relazioni, associandole e dissociandole; il principio enunciato nel prologo della Meccanica ritorna anche in questa pagina incipitaria. Così si spiega il motivo della duplice significazione sonno-veglia: la morte è sonno, dunque interruzione, in relazione a un tempo che si consuma e finisce, quello della vita umana; ma la morte diventa veglia entro la prospettiva dilatata, infinita, del tempo dell’universo, in cui nulla finisce, ma tutto, nella continua deformazione, si trasforma nel senso che permane assumendo altre forme.
Queste due prospettive entrano nella struttura del testo, affiorando al livello della significazione, e, come vedremo, determinando la continua oscillazione della scrittura da uno statuto referenziale a uno assertivo-gnomico. Si veda ad esempio l’uso dei tempi verbali: il primo paragrafo presenta una netta prevalenza del presente; è la voce autoriale che sta enunciando la verità dell’esistenza umana: oltre il tempo finito della vita, scandito dalle opere, dal lavoro, dagli atti, è il tempo infinito dell’universo. La sera è allegoria della meditazione, di quella meditazione che viene svolta nel momento in cui terminano gli atti materiali, come si ritrova ad esempio nello Studio imperfetto intitolato Certezza (RR I 39).
A questo punto viene svolto il motivo della notte che scende, con un’attenzione particolare rivolta agli elementi naturali, che subiscono un’antropomorfizzazione. Comincia l’uso dell’imperfetto, contribuendo a isolare il primo paragrafo, che a questo punto possiamo definire come prologo. Il tono onirico si lega al tema mistico che percorre con insistenza tutta la prima parte del testo e al quale si sovrappone il più generico ambito del pensiero e della meditazione:
Non sembrava possibile rompere la meravigliosa unità di quel conoscere, la purità silente e stupita della comune preghiera. Quelle nature adempivano interamente e sempre alla lor legge, vivevano attrici, in se medesime, di un’unica legge: che è la loro unica vita. (RR I 291)
La «preghiera» è «conoscere», il mistico è speculativo; il testo ritorna su se stesso, richiama l’«idea» dell’incipit, a ribadire il carattere meditativo della sera, in cui l’orazione si fa sforzo conoscitivo. Il tema religioso in Gadda ha una valenza particolare, enunciata chiaramente in un passo di Eros e Priapo:
«Religio, religiones» (scrupoli o perplessità che ci «rilègano» al mistero) muovono a meditare sui destini umani e sulle fortune civili […] Religione è una profonda attitudine a meditare sui destini umani e a servire la causa infinita che alcuni eletti (non io) hanno sortito da Dio. È un sommettersi a quel misterioso ignoto cioè non sempre razionalmente consapevole che sospettiamo essere, nella deserta luce della vanità, la presenza di Dio. (SGF II 248)
La coincidenza tematica è sorprendente: anche in questa sede il religioso è pensiero e meditazione, che dal suo oggetto iniziale, che è l’esistenza umana, sconfina nell’universale. Altra occorrenza esplicita di questo tema si trova nel Castello di Udine, nello scritto Approdo alle zàttere, pubblicato in rivista nel 1931:
Il nostro desiderio ammirativo si tramuta in religio e le fa intorno un alone di amore-timore, come a verace divinità. Per analogia con le nubi, nebbie e vapori che avvolgono gli dei e le dee, e i soggetti metafisici in genere. (RR I 216)
Religioso dunque indica tutto ciò che genericamente potrebbe dirsi metafisico, tutto ciò che riguarda l’ignoto non solo della vita umana, ma di quella dell’universo, quel mistero indicato da Gadda come riferimento essenziale della scrittura sia nel saggio sulla Manzini, che in quello sul neorealismo. (13)
A ben vedere in Notte di luna questo anelito è attribuito agli alberi, non si fa riferimento a soggetti umani: l’effetto di spersonalizzazione è notevolmente aumentato. Il ricorso all’elemento naturale serve dunque da distanziamento da un eventuale soggettivismo per così dire sentimentale: la natura non è trasfigurata da un io visionario; il mistero della vita umana sprofonda in quello della natura.
La meditazione sulla morte costituisce la filigrana della prima parte del testo: l’inciso «così dei lontani si sa tutto, ed anche i dolori» (RR I 292), che ha tutto il sapore di una clausola gnomica, sembra costruito sull’eufemismo della morte come lontananza. Ma il problema della morte non sembra essere disgiunto da quello dell’origine e delle cause del male:
Alcune foglie sembravano maioliche d’un giardino dell’oriente sognato e le dolci, vane stelle vi si specchiavano a rimirarsi. Nell’olezzo e nel carneo pallore di talune corolle era un desiderio un po’ malinconico e strano, un turbamento, inavvertito dapprima, che si faceva poi ansia, brama cupa: dirompeva in un male violento, selvaggio. E allora questo male attutiva ogni memoria; e ne straniava dalla idea. Ridecomponeva il preordinato volere. Cancellava le antiche norme, gli insegnamenti raccolti lungo un sentiero già smarrito, quasi puri fiori da bimbi. E così moviamo verso il nostro futuro: né abbiamo senso o contezza, quale sarà. (RR I 292)
Il male, che si connota come perdita della memoria, non riguarda la natura nel suo insieme, ma le sue forme individuali (le corolle e le foglie), o forse sarebbe meglio dire individualizzate. Il tema del male come aberrazione dalla norma doveva essere uno dei nuclei speculativi del Racconto italiano; l’individualizzazione causata dalla perdita della memoria sarà invece una delle sfaccettature della riflessione sul male nella Cognizione del dolore: «Non ricordava più nulla: ogni antico soccorso della sua gente era perduto, lontano» (RR I 676).
Oh! soltanto il nembo – fersa di cieli sibilanti sopra incurve geniture della campagna – soltanto il terrore aveva potuto disgiungerla per tal modo dalla verità, dalla sicurezza fondata della memoria. (RR I 678)
Alla piccola lucerna lo Shakespeare: e ne diceva ancora qualche verso, come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte. (RR I 680)
Dove andava la sua conoscenza umiliata, coi lembi laceri della memoria nel vento senza più causa né fine? Dove agivano le menti operose circa la verità, con la loro sicurezza giusta illuminata da Dio? (RR I 698)
L’immagine della «stele», che «infranta» non può più assolvere alla sua funzione conoscitiva, perché di essa restano solo sillabe non più ricordate, non potrebbe essere più affine all’idea del «sentiero smarrito», delle «antiche norme» perse, che si trova in Notte di luna. La frantumazione del passato, idea semanticamente significata in maniera molto precisa («ridecomponeva» in Notte di luna; «stele infranta», «lembi laceri» nella Cognizione), rende il cammino verso il futuro assolutamente destabilizzato. Il tempo perduto non è quello individuale, della propria storia personale (si noti che ancora una volta il tutto è riferito a oggetti naturali): è la memoria del mondo che viene meno, per cui risultano oscure, indecifrabili, quasi prive di senso, le leggi del vivere. Questo è il disorientamento affermato nella clausola commentativa che chiude il paragrafo. Il verbo «moviamo» riprende «e dove alcuno aspetta moviamo» dell’incipit: è il corso della «ventura» umana, che inevitabilmente e, potremmo aggiungere, alla cieca va avanti. Anche nella Meditazione milanese la mancata riappropriazione di ciò che nel tempo si è stratificato inevitabilmente sprofonda nell’annichilimento:
Il dolore fisiologico è dolore di n nel percepire che l’euresi accumulatasi negli evi e sfociata attualmente in n viene regredendo in una deinvoluzione, per cui n è risospinto verso il nulla, verso i regni dell’inutilità. (SVP 803)
«L’euresi accumulatasi negli evi» è la memoria del mondo di cui si diceva prima, è la stratificazione prodotta dal tempo, che conserva le tracce, i segni della deformazione avvenuta, che sono poi la base tangibile della deformazione a venire. Se l’n non si rapporta a quanto è già stato costruito, se non collega sé al tutto, viene riassorbito nell’indistinto. Il «volere» che viene ridecomposto è lo sforzo euristico compiuto, è ciò che dovrebbe spingere l’n all’n+1, e che viene invece rimosso, disgregato, irrimediabilmente destituito dalla sua funzione conoscitiva.
Il tema della stratificazione dei tempi affiora nuovamente nell’icona delle torri che segue al capoverso successivo. «Dei secoli sono germinate le torri» (RR I 292). Un’immagine simile, e probabilmente caricata dello stesso valore simbolico, si trova nel Pasticciaccio:
Le grige latitudini del Lazio si acclaravano e formavano a plastico, emergendone rivestite di porpora, quasi come dìruti miliari del tempo, le schegge delle torri senza nome. (RR II 195)
Anche qui le torri fanno la loro comparsa accompagnate dalla tematica temporale: esse sono rovine superstiti al corso del tempo, ne significano, come si diceva prima, proprio la stratificazione, l’accumulo frammentario («schegge») che è segno di una persistenza. In Notte di luna il significato potrebbe essere analogo: le torri dei secoli sono le tracce dell’«euresi accumulatasi negli evi», della memoria universale, che affiora proprio dalle rovine.
Dopo avere indugiato nuovamente sul tema religioso, nell’immagine degli angeli che recano vanamente a Dio le loro orazioni, sovrapponendolo a una vaga ambientazione militare – la caserma, il fuggevole richiamo alla guerra esplicitato poi nella nota – Notte di luna, ritornando su un artificioso scenario naturale, sembra riproporre nuovamente, e in maniera del tutto mediata, la meditazione sul tempo. Questo, come si vedrà, costituisce uno dei passaggi chiave del testo per valore simbolico e importanza strutturale. L’ambientazione è quella di un giardino, che in una nota del cahier d’études è indicato come leit-motiv della Sinfonia:
Ne’ colmi giardini traspariva disegno de’ più vaghi ornamenti, e sedili, ove la persona potesse adagiarsi: e l’animo riconfortarsi giovevolmente al dimane. O nel tacere altissimo delle cose e dei monti, o con l’immaginare per mezzo l’ombre e i cespi, affocata quasi in una corsa, la cupidità dei silvani, e l’ignudo e fuggitivo pavore di perseguite nereidi: ruscellando linfe perennemente, o stillando, in un chioccolìo loro, da sorta di montanine docce, o caverne. I pregevoli artefatti, in pietra da mola, morsi già dalla nobile morsura del lichene: ed erano come amanti incontro a ventura, nel favore della notte.
Che fine sentire, che dolce immaginare sospinge i possessori dei giardini misteriosi a popolarne di sogni viventi il cupo profumo! Una mormorazione religiosa accompagna l’alitare della notte: e certo un pensiero, e molti altri, verranno nella mente dei possessori. E accolgono, talora, degli ospiti: che, viaggiati i mari, corsi i lontani paesi, vogliono conoscere indugio in questo, e bere questo caldo, questo profondo respiro. (RR I 293)
Ancora una volta la prima stesura risulta, nella prima parte, molto più sintetica:
Nei giardini vi erano ornamenti e sedili, dove la persona potesse adagiarsi e l’animo riconfortarsi giovevolmente nell’immaginare tra le ombre la presente bellezza di così pregevoli artefatti. (SVP 421)
Estranea alla vecchia stesura era l’immagine arcadica delle nereidi inseguite dai silvani, che spicca per la sua esibita iperletterarietà (14) che a questo punto del testo non può non risultare sospetta. In realtà quella che abbiamo davanti potrebbe benissimo essere una sorta di ekfrasis, la descrizione, se non proprio di un’opera d’arte, sicuramente di un «pregevole artefatto». Probabilmente ciò che nella prima stesura era soltanto nominato – «la bellezza di così pregevoli artefatti» – in Notte di luna diventa oggetto di una descrizione precisa. Si sta parlando dunque degli ornamenti del giardino. Sull’aspetto delle sculture classicheggianti viene aggiunto un particolare determinante: la pietra è infestata, «morsa» dai licheni. L’immagine si ritrova praticamente identica in altri due luoghi dell’opera di Gadda. Il primo è il Frammento sostando nella necropoli comunale, testo breve ma di una densità epigrammatica, che chiude la prima sezione milanese delle Meraviglie d’Italia. La visita di un cimitero diventa, come secondo un consolidato topos della tradizione letteraria, una riflessione figurata sulla morte e sul tempo. Ecco la coincidenza testuale: «Potrà, caparbio, il lichene aver morso nella politura de’ graniti: la muffa non intacca il bronzo» (SGF I 102). È evidente la contrapposizione tra la pietra consumata dal lichene e il bronzo, che per antonomasia è metallo duraturo, e che dunque simboleggia la persistenza.
Il secondo luogo, in cui occorre l’immagine, è strettamente legato al primo; si tratta del finale dell’Adalgisa, che chiude la raccolta omonima, che, non si dimentichi, comincia con Notte di luna. L’ambientazione è quella di un cimitero, una «necropoli» appunto. L’immagine di una scultura ricoperta dalla muffa si ripresenta, ma completamente rovesciata, degradata da un contesto elegiaco a uno interamente grottesco:
Certi licheni verdastri, o nerastri, insistevano invece a incrostargli quell’altra falce, tra le due natiche, d’una scandalosa flora criptogamica. Le natiche in parola erano «rivolte a settentrione», come le mura di Porta Nuova nei Promessi Sposi. Donde quelle muffe. (RR I 551-52)
I tre testi sono cronologicamente molto vicini: del Frammento la datazione è incerta, ma probabilmente risale alla fine degli anni Trenta, (15) L’Adalgisa venne pubblicata nel 1941 e Notte di luna nel 1942. Il riuso dell’immagine in questione è davvero singolare. Nel Frammento non c’è alcun tono grottesco, se non nel finale, in cui compare la curiosa immagine dei bossi «tagliati alla Umberto» (SGF I 102). Eppure proprio nell’immagine in cui i due testi si sovrappongono si sente una certa distanza dell’uno dall’altro; probabilmente a sortire questo effetto è l’accostamento con l’icona arcadico-mitologica che esibisce tutta la sua artificiosità letteraria. Il riferimento letterario è palese nell’Adalgisa, dove un luogo dei Promessi sposi subisce una fortissima degradazione nell’accostamento alle «natiche». Ma nessuna degradazione di questo genere avviene nel passo di Notte di luna: l’immagine è, al contrario, volutamente preziosa, cristallizzata, letteralmente artefatta, come il testo stesso suggerisce. L’esibizione dell’artificio forse corrisponde a uno svuotamento del senso. Se si va a leggere quello che sarebbe stato il finale del Racconto italiano, curiosamente ricompaiono i giardini:
Tra i fiori vi sono ornamenti sün anzesi daidaleoísin: dedàlei viali si inoltrano nella selva sognante: e vi sono sedili, dove la persona possa adagiarsi, esalando i rintocchi dell’Angelus, e riconfortarsi al domani. Ed essi ne sono i fabbri sottili. Fabbri di giardini profondi e dolci, e così di macchine docili e certe, e di ben martellati e ben chiodati e incardinati e inchiavardati cancelli. Così poi, della lor vita e del loro pensiero; così fabbri incoscienti della loro coscienza, fabbri di ciò che vogliono, e, più, anche di ciò che non vogliono. Disegnano i giardini profondi, le alte ed immobili torri, e trasmutanti pensieri, che al cadere di ogni luce sono migranti verso il futuro: e sono essi, gli umani! Nella di cui anima anche è una luce, o nere ombre. (SVP 541-42)
Il motivo dei giardini si ripresenta accompagnato da quello degli «ornamenti» e dei «sedili». Ma il contesto soltanto può chiarirne il significato. Leggendo l’intero finale della prima sinfonia, ci si rende conto di come esso svolgesse il desolato tema della vanitas umana. «Se fosse possibile sapere ogni cosa» ripete continuamente il testo. Emerge ancora una volta la sproporzione tra l’eternità universale e la limitatezza dell’uomo, le cui manifestazioni si svelano «trovate provvisorie dell’eternità» (SVP 541). Il mito umanistico e rinascimentale dell’homo faber, in primo luogo mito letterario, viene rovesciato nel lucido, desolato canto della vanitas che investe le espressioni del pensiero e le opere materiali. E i giardini sono, tra queste, a significare un destino ineludibile di deperibilità. Se dunque quello dei giardini è un leit-motiv di questa prospettiva, allo stesso modo potrebbe essere interpretato in Notte di luna: gli ornamenti ostentano una bellezza che in realtà è già tutta inficiata dal cammino del tempo («la nobile morsura del lichene»). L’artificiosità letteraria dell’immagine arcadica, svuotata di senso proprio, vuole significare l’inutilità entro l’orizzonte finito della vita umana.
Ritornando alla relazione col Frammento e con l’Adalgisa, del primo viene mantenuto l’impianto concettuale: la funzione figurale del lichene viene ripetuta identica ma arricchita di un elemento per così dire metaletterario. L’immagine arcadica è dunque autoreferenziale: esibendo una lingua artificiosa e ridondante di topoi letterari, e in particolare del millenario topos del locus amoenus, ne mostra l’irreversibile tarlatura interna, l’«impotenza a predicar nulla di nulla» (La cognizione del dolore, RR I 636), se non la propria inutilità. La muffa si insinua a rovesciare l’immagine di una natura-arte idealizzata, del simbolo estetizzato che richiede l’emendazione. Se l’Adalgisa ripropone la stessa immagine, lo fa però secondo modalità diverse, che sono quelle della degradazione grottesca, rinvenibile anche nel resto dei racconti. Questa è una spia evidente del tipo di relazione che lega il primo disegno agli altri: la raccolta si apre e si chiude sulla stessa immagine, secondo trattamenti diversi, svelando una chiara corrispondenza strutturale e di significato.
Dopo questo momento di forte complicazione formale il testo cambia completamente tono, la sintassi si fa piana e paratattica, la descrizione diventa nitida e il racconto sembrerebbe finalmente avere inizio e nel modo più tradizionale possibile:
In quell’ora i cavalli erano stanchi. La via ferrata, solido manufatto, tagliava dirittamente la piana e le rotaie rilucevano come argentate in un presagio lunare: poi entravano sotto il fornice nero, assai ben fatto e in colmo un po’ affumato, nel monte. Nessun treno si udiva a correre, come sogliono, rotolando nel buio. Il casello era tutto chiuso: le barre a contrappeso levate, dimentiche del loro ufficio, in un ozio. Una strada venuta dalla camionabile traversava i binari. Valicava con un buon arco il lento andare d’un’acqua, vegliato dai pioppi. (RR I 293)
Tutto questo non può non risaltare per contrasto con la prima parte del testo, che si era distinta per la mancata definizione di categorie spaziali, per una sintassi spesso involuta e carente di nessi logici espliciti, per una generale indefinitezza della scrittura che ne oscurava il referente. Nel momento in cui comincia l’uso del presente – «Lo si direbbe sprovveduto di parapetto» (RR I 293) – la scrittura si fa cronaca, l’enunciazione diventa quella di un autore-osservatore, modalità che sta alla base dei pezzi delle Meraviglie d’Italia. Il legame non riguarda soltanto una questione di tonalità, ma anche di temi: molti degli scritti della raccolta appena citata, soprattutto quelli della prima sezione milanese, descrivono luoghi di lavoro – i macelli, la borsa, il mercato ortofrutticolo. Ma non si dimentichi che quello del lavoro doveva costituire nel Racconto italiano uno dei motivi principali.
Il tono cronachistico aumenta proseguendo nella lettura. Ma è una cronaca tipicamente gaddiana, che esibisce il suo istinto classificatorio nell’uso dell’enumerazione. La voce del cronista indugia sui dettagli dell’abbigliamento dei reduci dal lavoro, dai pantaloni – «Alcuni vestono larghi pantaloni di fustagno, quasi un rozzo velluto, stretti, di poi, alle caviglie: altri, calzoni corti con fasce o calzettoni di lana di facitura buona e materna» (RR I 294) – alle maglie – «Taluno indossa una maglia: è azzurra, o rossa, o grigia, o rigata: con buchi» (RR I 295) – alle scarpe – «Grosse scarpe!, i muratori e gli operai di campagna, con chiodi d’acciaio a rosellina, nel tacco e tutt’ingiro la suola» (RR I 295). L’enumerazione è animata da un intento esaustivo, quello di disaminare tutti gli oggetti possibili facenti parte dell’insieme individuato, come d’altronde frequentemente accade nel resto dei disegni milanesi.
Notte di luna nel suo insieme intreccia dunque le due tematiche già ben enucleate nell’incipit: il tempo umano delle opere e del lavoro, le cui varianti sono quelle della vanitas e quella della quotidianità materiale degli atti; e il tempo cosmico, eterno, che comprende il primo e ne fa emergere per sproporzione la limitatezza. Tale sproporzione non potrebbe essere meglio significata dalla distanza stilistica, che consente di dividere il testo in due parti.
Lo stesso effetto di discrepanza sembra ripetersi nel momento in cui si considera Notte di luna in relazione all’insieme dell’Adalgisa. Eppure vari elementi segnano una continuità con l’Adalgisa. Si veda ad esempio l’uso delle note: seppure molto più limitate rispetto a quelle del resto della raccolta, dove si moltiplicano a vista d’occhio svincolandosi dal testo annotato, qui mostrano una tonalità di scrittura di marca ironico-grottesca che dominerà tutta la silloge. La discrepanza riguarda in effetti più che altro la prima parte del testo fino all’immagine dei giardini. La seconda sembra già immettere il lettore nell’atmosfera dell’Adalgisa. Questo non fa che confermare l’importanza di una valutazione della posizione incipitaria di Notte di luna, soglia e cornice della silloge. Il testo svela uno statuto ermeneutico che trova nelle scelte stilistiche una precisa significazione.
E in realtà si ricorderà che anche all’inizio del disegno, al suo primo paragrafo, quello della proposizione dei temi, era stata attribuita una funzione ermeneutica rispetto all’intero testo. Se l’interpretazione va nella direzione giusta, neanche questa potrà dirsi una coincidenza: Notte di luna ripete in sé, per così dire in piccolo, la relazione strutturale che lo lega alla silloge. L’incipit del disegno è interamente anche incipit dell’insieme dell’Adalgisa, la cui fenomenologia tutta umana viene intensamente contrappuntata da un’ouverture, che realizza la messa in opera di un tempo che umano non è. Il riuso dell’immagine dei licheni, che si trova proprio alla fine dell’ultimo testo della raccolta, è il segno più chiaro di questa relazione, a significare continuità e differenza insieme.
A ben vedere, l’origine di questo schema, che funziona anche nella Meccanica, va rintracciato negli appunti romanzeschi del Racconto italiano, in cui due dovevano essere i principi della narrazione: la ricostruzione storica dell’Italia fascista da un lato – «species Italiae» (SVP 395) – e la riflessione metastorica sulle origini del male dall’altro – «species aeternitatis» – che sarebbe stata il vero nucleo del romanzo, la sua componente più spiccatamente meditativa, filosofica e universale, secondo quanto Gadda segna fin dalla prima nota del cahier.
La Meccanica e l’Adalgisa con Notte di luna rendono visibile questa dialettica in quel luogo privilegiato del racconto che è l’incipit, in cui il discorso narrativo, fortemente connotato da un punto di vista stilistico, si fa meditazione, contrappunto corale al tessuto delle vicende, schiudendo nella ricca costruzione figurale il movimento del divenire, l’avvicendarsi della vita e della morte, il sovrapporsi del tempo umano e di quello sovraindividuale dell’universo, l’angosciosa quête sul male e sulle sue origini. La retorica incipitaria della mediazione lascia il posto alla densità figurale della speculazione, che sotto il segno della discontinuità e della discrepanza si intreccia al tessuto narrativo, facendosi racconto.
Università di Pisa
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Note
1. J. M. Lotman & B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura (Milano: Bompiani, 1975), 139.
2. Sull’incipit come luogo di mediazione cfr. C. Duchet, Idéologie de la mise en texte, in La pensée (1980), 215, e J.L. Morhange, Incipit narratifs, in Poétique (1995), 104.
3. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo (Torino: Einaudi, 1989), 158.
4. Si rimanda a I viaggi, la morte e Un’opinione sul neorealismo (SGF I 561-86, 629-30). Flores dava di questo prologo un’interpretazione inaccettabile: esso costituirebbe una dichiarazione di rinuncia all’interpretabilità del mondo, per cui Gadda «non è mosso soltanto dalla ricerca di una razionalità ed ordinato concatenarsi in successioni di cause e di effetti, impresa alla lunga impossibile, ma resta pago della possibilità offertagli della loro registrazione e minuta descrizione: il proemio in questo senso starebbe per una preliminare dichiarazione di non liquet rispetto alla interpretabilità dei fenomeni stessi che saranno narrati nel corso del romanzo, un’attestazione quindi di impossibilità a risalire al di là della mera rilevazione delle vicende, con sospensione del giudizio nei riguardi di ogni altra loro comprensione» (Flores 1973: 102-03). Anche ad una lettura superficiale del romanzo non sembra affatto che la voce narrante rinunci a commentare il narrato, a esprimere il suo giudizio, lasciando che i fatti parlino da sé. Al contrario l’istanza enunciativa sembra fortemente marcata, non neutra, sempre pronta a intervenire, e proprio il prologo è il luogo del romanzo dove più si fa sentire la sua presenza. Inoltre una narrazione che sia mera registrazione dei fatti è quanto di più lontano da Gadda, che proprio nel saggio sul neorealismo biasimò la logica paratattica che presiedeva alla narrativa neorealista, incapace di andare oltre i dati del reale.
5. Cfr. Di Meo 1994a: 12-13 – «Nous sommes de nouveau confrontés à une vision résolument anhumaniste du créé. La récurrence des articles indéfinis nous repropose un paysage indéterminé, aussi virtuel qu’abstrait, incluant, élément parmi d’autres, l’espèce humaine. […] Sa temporalité à lui n’est pas historique même si elle s’arroge toute histoire, son mouvement est coextensible à son dynamisme éternel. […] La vie et son éternité s’avèrent coulés dans la pérennité du mouvement destructeur et généalogique du flux cosmique. Dans la vision gaddienne, l’un et l’autre moments sont indifférenciés, tous deux – la vie comme la mort – concourant à la conservation et à la reproduction du cosmos».
6. Cfr. Romano 1992: 181 – «Il dramma dell’inelezione biologica e della conseguente esclusione dal cerchio vitale apre e chiude il romanzo, disegnando la dialettica tra vita e morte». Ma l’analisi di Romano purtroppo ignora proprio il prologo, che su questa dialettica si fonda, penalizzando la comprensione non solo delle prime pagine, ma anche e soprattutto dell’insieme. La formula di «dialettica vita-morte», estremamente pregnante, viene perciò mutuata, ma riutilizzata in un contesto di riferimenti più ampio.
7. Ancora Flores, che utilizzava l’edizione del romanzo del 1970 (non comprendeva gli abbozzi dei capitoli finali), considerava il secondo brano dell’incipit «completamente slegato rispetto al complesso del romanzo». Soltanto in nota veniva ipotizzata una relazione con il mancato finale, dunque con la morte di Pessina.
8. W. Binni, Svolgimento della prosa di C. E. Gadda con una nota sull’Adalgisa, in Poeti e critici dal Cinquecento al Novecento (Firenze: La Nuova Italia, 1963), 217.
9. Cfr. dalla Nota al testo di Lucchini: «L’accurata revisione stilistica del frammento riesumato dopo quasi un ventennio per la pubblicazione in rivista, è intesa ad accentuare il colore letterario dell’introduzione dal carattere spiccatamente lirico» (RR I 844).
10. Cfr. Zollino 1998: 33 – «Notte di luna, dunque, si apre con una vaga enunciazione protatica dei temi, che vengono poi sviluppati in due parti nettamente distinte».
11. Sulle stelle come figura dei morti si veda l’inizio del sesto tratto della Cognizione del dolore, RR I 685: «E, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Dioscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! […] La madre disse “oh Gonzalo, come stai? oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano nella notte».
12. Si noti invece come nelle note il tono quasi oracolare del testo sia contrappuntato da Gadda da un’ironia, che ridimensiona, anzi praticamente annulla, il valore metaforico dell’enunciazione, ricondotta alla sfera erotica: «Avverti il carattere iponoetico dell’affermazione. “Alcuno” è sessualmente agnostico (ambiguo) perché vale nelle due ipotesi della galanteria, per maschio atteso dalla femmina e per femmina attesa dal maschio» (RR I 296).
13. Cfr. L’ultimo libro di Gianna Manzini (SGF I 771-79) e Un’opinione sul neorealismo (SGF I 629-30).
14. Si veda la trama intertestuale dannunziana in Zollino 1998: 84.
15. Cfr. Ungarelli 1980: 45-87.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-02-7
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