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«L’ora buia o splendente»
Tempo ed etica nella Cognizione
Giuseppe Bonifacino
1. La Madre, il tempo
«Vagava, sola, nella casa». (1) La Madre, fino a quel momento figurata soltanto per evocazione indiretta, è introdotta in scena – nel capitolo che apre la seconda parte della Cognizione e ne costituisce, per molti aspetti, la chiave di volta – da una serie di determinazioni spaziali che ne disegnano, nelle cadenze iterative del lirico incipit, il desolato tempo interiore. Fin dal verbo che ne indica il movimento senza meta, il personaggio, ancora non nominato, si profila come smarrito in un’attesa, o ricerca, di rapporti e significati, e prepara, in quel percorso coatto e deserto, la dolorosa epifania di un tempo disabitato, di un silenzio scandito da un monologo senza risposte. La Madre rivisita gli ambienti e le cose entro cui, nel tempo, si era costruita, attraverso il lineare accumulo di un’esperienza depositata nella fragile certezza della ripetizione, la sua identità di «momento-persona», la sua eletta funzione di «Signora», la vocazione a tessere insieme, nel dominio della casa, il filo della vita e l’ordito della memoria, la fiduciosa prefigurazione del futuro e la gelosa conservazione del passato. E ne contempla con amarezza, ma come ancora stupita, i simbolici resti, misurandone la povertà di senso, scoprendovi i detriti di un tempo inerte, i segni di una inesorabile consunzione: «Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? Di una vita» (Gadda 1987a: 255).
L’interpunzione interrogativa, intermessa ad incidere, qui come in seguito, il tessuto lineare della frase, apre come un varco, una distanza, nella concentrazione lirica del «gioco ab interiore» della scrittura, tra l’ictus sincronico della rivendicazione conoscitiva e la curva diacronica del tempo, isolandone la dissonante estraneità alle ansie della coscienza in una declinazione ontologica, assolutizzata: in un bilancio che smaschera, d’un tratto, la vanità di ogni durata progettuale, e scolora la precaria consolazione del ricordo nella opaca immanenza della perdita. È quel movimento scenico come privo di centro, quella costitutiva scomposizione del tempo interiore della Madre in gesti e domande senza riscontro, ad avviare il viaggio disperato della memoria. Che, sospesa tra la temporalità verticale e concentrica della coscienza, e il dispersivo orizzonte degli atti e dei giorni, inizia a registrarne l’impossibile congiunzione, e si chiude nell’immota desolazione dell’evento luttuoso. Il presente è il luogo di precipitazione del passato in quanto destino e condanna, in quanto strappo dell’organismo unitario della vita. Nel presente, la memoria sancisce una frattura della continuità, le parole dichiarano una lontananza incolmabile, partecipano della rituale celebrazione di un vuoto:
Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso, col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! […] Dopo un anno, a Pastrufazio, un sottufficiale d’arma le si era presentato con un diploma […] le aveva porto una matita copiativa. Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta François?». Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello strazio, aveva risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rincrudire d’una condanna. (Gadda 1987a: 255-56)
I nomi, qui, non riconvocano presenze. Designano e replicano l’assenza, condensano, nella pienezza linguistica della forma, la scissione delle parole dal tempo della vita, evocano lo scenario di un funebre epos. Le spente cadenze burocratiche dell’annuncio avviano la dissoluzione del tempo della coscienza rammemorante, ne promuovono il discenditivo itinerario verso il riconoscimento della impossibile durata del soggetto, della sua identità bisognosa di riconoscersi nel tempo: verso la svelata infondatezza del suo statuto di forma (madre, origine) del tempo, della sua linearità progressiva, teleologica.
La Madre, nel romanzo, non è nominata che attraverso i sostantivi che ne indicano le prerogative e le funzioni, nella sua povera, dispersa famiglia, e nei riti domestici che la collegano alla società. Solo qui – come a prefigurare e a fissare, in quella del figlio prediletto, anche la sua condizione di morte – ne viene pronunziato il nome: ne viene, per un breve momento, intermessa la figuralità mascherale: e rovesciata la condizione metaletteraria, lo statuto di allegorica proiezione della conoscenza letteraria, e delle sue ragioni. Ma – in questo «tratto» della Cognizione, costruito come un ritmo di rifrazioni speculari, una trama di designazioni onomastiche sospese tra presenza e assenza, luce ed ombra – il nome non vale a restituirle la pienezza di un volto, una consistenza di persona: vale a confermarne, crudelmente, la progressiva, e ormai sancita, perdita di identità, di unità, nel tempo.
Nella continuità della stirpe e degli affetti, nel ripetersi gioioso e rassicurante del ciclo delle stagioni («brevi primavere»), si fondava la illusoria certezza della sua esistenza protesa a coniugare passato e futuro, nel segno di un’etica sorretta dall’«ordine» e dalla «carità domestica», dalla operosa speranza, dal valore senza misura del dono. Ma ora, all’annunzio che decreta, nel paradossale ribaltamento di un topos fondamentale della tradizione evangelica, la sua vanità di persona costruita su una presunzione di dominio del tempo, la Madre non ha da opporre che l’inerte riparo della convenzione, il vuoto cerimoniale di una dimessa cortesia quotidiana («Avanti che se ne andasse […] ella gli aveva detto come a trattenerlo: “posso offrirle un bicchiere di Nevado?”: stringendo l’una nell’altra le mani scarne», Gadda 1987a: 257).
Il rituale non può adempiere però al suo fine conciliativo, non suscita catarsi, né evoca un’immagine di consolazione. Il gesto etico non costituisce davvero uno schermo, un argine, alle parole e ai gesti che sanzionano la morte, non ne rimuove la distruttiva necessità. Nella momentanea reduplicazione delle sembianze del figlio perduto in guerra in quelle del giovane sottufficiale che ne reca notizia, il tempo si mostra alla Madre come vuota differenza, lontananza incolmabile, e svela la estraneità della «parvenza», entro cui, pure, ella vorrebbe poterne trattenere il corso, e – sommergendo nell’inganno del cuore la sua disperata conoscenza – revocarne i decreti senza carità:
Le era parso che somigliasse stranamente a chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo. I battiti del cuore glielo dicevano: e sentì di dover riamare, con un tremito dei labbri, la riapparita presenza: ma sapeva bene che nessuno, nessuno mai, ritorna. (Gadda 1987a: 257)
è il tempo il vero protagonista e insieme l’oggetto dello straziato «monologo interiore» della Madre, il campo di rifrazione prismatica dei conflitti senza soluzione che lo affollano. È la forma di una memoria etica già lambita e insidiata dal «non-essere», lo scenario ed il tramite di una allegorica rappresentazione di morte. Dopo aver scoperto, negli oggetti-deposito (i «muri», il «rame») della tradizione domestica – del suo spazio armonioso ora deserto –, i segni deietti di un antico patrimonio di valori, la coscienza-memoria, solo fugacemente sfiorata da una illusoria riappropriazione della presenza perduta, approda alla desolata presa d’atto della polverizzazione di ogni durata etica e affettiva. Lo schematismo analogico del ricordo, nel repentino disincanto della ragione, allarga il solco doloroso del tempo, la scissione tra il «fulgore breve» del passato, ormai spento, e l’opaco deserto di un presente senza figure né voci che sappiano suscitare il sortilegio di un ritorno, l’«incantagione» non mendace, ma salvifica, che infine ne colmi l’attesa infinitamente rinnovata.
Teatro di un personaggio la cui azione scenica consiste nella progressiva misurazione di una radicale esclusione di sé dal fluire del tempo della vita, la casa, per ora, sembra conservare uno spazio protettivo alla soggettività smarrita e cercante, e opporsi, come il luogo in cui ogni evento è sospeso nella contrazione sincronica della coscienza, al moto immutabile del tempo astronomico, alla sua geometria estranea alle domande della conoscenza, alla franante successione dei suoi istanti, che nessun ricordo può invertire e dominare-trattenere in immagine. Nel tempo cosmico non balena che un breve «fulgore» per i moti dell’anima: ma è una luce senza durata, visione subito infranta a testimoniarne l’impossibile ricomposizione, a svelarne lo sdoppiamento che ne ruga e corrode le figure, e ne oscura i contorni, e le dissolve in assenza. Nella ferrea legge evolutiva del tempo lineare degli astri, nel suo schema perfetto e perenne (un kantiano cielo stellato disteso sui travagli della coscienza morale), la ragione della Madre leggerà i segni di un percorso dissolutivo; la loro ciclica, immutabile meccanica si chiuderà, al suo sguardo interrogante, nella desolata visione di un movimento estraneo e remoto alle vicissitudini dell’esistenza e impenetrabile ad ogni rivendicazione conoscitiva:
Vagava nella casa: e talora dischiudeva le gelosie d’una finestra, che il sole entrasse, nella grande stanza. La luce allora incontrava le sue vesti dimesse, quasi povere: i piccoli ripieghi di cui aveva potuto medicare, resistendo al pianto, l’abito umiliato della vecchiezza. Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio. Ella ne conosceva le dimensioni e l’intrinseco, la distanza dalla terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare, e rivolvere: molte cose aveva imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero che perseguono nella vacuità degli spazî senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore. (2)
L’incontro con la luce solare, che invade impietosa l’opaco incanto dello scenario domestico, fruga ed esibisce i segni di povertà e di vecchiezza depositatisi nelle sembianze della Madre, smaschera i logori emblemi della sua debole difesa, invano apprestata a tentare un riparo dalla rapinosa ingiuria del tempo, dalla sua luce nemica e senza calore, che in sé condensa e fissa il moto ripetitivo e continuo di una natura chiusa in un ciclo senza mutamenti. La luce entra non a rischiarare o redimere, ma a violare della sua muta condanna il buio protettivo della casa: il suo intatto splendore oppone una rivelazione come astratta e svuotata di senso alla urgenza di significazione della Madre, alla sua itinerante ricerca di un riscontro, e di una consolatoria conferma, del proprio sapere minacciato e ormai vano. Lungi dal restituirle continuità e speranza, la luce rinnova in lei l’asprezza di un enigma doloroso, espone lo sfigurato assetto della sua persona, la scissione del soggetto etico dalla temporalità scientifica del sapere astronomico, dalla sua misurabilità senza impiego cognitivo, dal suo movimento inerziale privo di futuro.
Non v’è scienza che ne illumini la oscurata conoscenza, né valore che la protegga o consoli: la Madre cerca invano di riconnettere le tessere scompaginate della propria identità, di riconoscere nel ciclo solare ragioni e norme entro cui ricomporre frammenti d’esperienza in trama di significati, in organismo animato e sorretto da un fine. Il patrimonio scientifico adibito a reintegrare la conoscenza non produce alcuna visione rasserenante o compiuta: l’episteme kepleriana non può spiegare, ma solo descrivere i segreti meccanismi del cosmo, e riscrivere, nelle figure del moto solare, le fredde geometrie di un universo disabitato dalle ragioni del divenire e del mutamento, la vacuità di uno spazio in cui ogni significato si disperde e ogni mo-vimento, come in sé rovesciato e rifratto, si replica, ogni fine si corrompe e decade, ogni luce circoscrive e contiene l’informe, lacerante lamento del buio. E il cammino degli astri percorre un tempo senza eventi, scandisce l’infinita ripetizione di una perdita, ritaglia la solitudine carceraria della coscienza: ne cinge il muto santuario. La dicotomia tra il tempo cosmico e quello interiore, la sterilità del rapporto tra la visione e lo sguardo, si rifrangono nelle altre coppie antinomiche – luce/buio; casa/cosmo; notte/sole – convocate a solcare e animare la funebre solennità del pensiero monologante, a moltiplicarne la densità metaletteraria e allegorica in polarità dissonanti, che ne liberano e alimentano l’intima tensione tragica.
L’incontro fra la durata finalistica della coscienza morale e il tempo astratto e privo di fini della scienza ne esibisce la definitiva separazione. La memoria non è più forma salvifica dell’esperienza, struttura del significare, estrema dimora dell’autentico; la durée bergsoniana si rivela incapace di conservare-presentificare il passato, o di restituire una direzione e un ordine all’itinerario senza scopo dei pianeti. La rappresentazione scientifica del tempo nella mappatura astronomica del cosmo non reintegra, ma conferma la declinazione entropica della memoria, non ne ricompone la forma. Non la colma della razionale, geometrica oggettività di una cognizione da quella cercata a risarcire il deperimento di ogni durata reale, a risanare la frantumazione del soggetto che le sottende, a invertirne la mortuaria teleologia che ne corrode il fondamento e ne rende discontinua e precaria la ragione conoscitiva. L’angosciata rilettura dei segni del cosmo non produce acquisti di conoscenza: la visione della luce non riscatta dal buio, né sospinge alla riappropriazione di una verità. La luce non porta presenze né annunci di un tempo rinnovato, il movimento è cieca ipostasi di un vuoto.
L’ellisse è la figura di questo falso movimento del tempo. Essa non lo organizza, non lo risolve in una forma. Si costruisce disegnando la curva lungo la quale il nostro dolore, ontologicamente estraneo allo splendore degli astri, può essere nominato, mostrato: ma non ricondotto a una ragione che lo motivi, né restituito a un’etica che ne promuova la necessaria catarsi. L’ellisse è la proiezione spaziale di una diacronia muta e deserta, l’icona ricurva e senza centro di una disperata prigionia nel tempo e del tempo. È l’immagine scientifica, e insieme l’allegorico emblema, di una insolubile «dialessi» di durata e perdita, di una inconciliata antinomia tra il percorso di conoscenza del soggetto e il movimento senza soggetto del tempo. È la forma di un movimento invariato e privo di sbocchi, di un tempo curvato a ripetersi e insieme, come per sempre, a perdersi in uno spazio bifocale e scentrato, specchio di una duplicazione interminabile.
Nell’ellisse, nel suo moto dis-creto e insensato, si inscrive la peripezia conoscitiva della Madre, anch’essa ormai priva di centro, e costretta a ripercorrere ossessivamente uno spazio occupato solo da inerti reliquie del passato, e a riattraversare, nel viaggio regressivo della memoria, un tempo ridotto ad opaco simulacro di una conoscenza remota e dissolta. E a scoprire, lungo le ombre comparse d’un tratto a solcare l’immota vastità del cielo, a oscurarne la immemore luce silenziosa, non i presagi della presenza consolatrice ansiosamente evocata ed attesa, ma i segni di una luttuosa premonizione, della preparazione di un catastrofico evento, dell’immanenza di una cupa minaccia alla sua solitudine, di un assalto portato dall’esterno alla dimora che ne introietta – come a stringerne in tragedia il destino – la declinante identità. La crudele lacerazione del ciclo temporale, l’improvvisa metamorfosi della stagione, delle sue immagini consuete, portano l’annunzio di una rapinosa devastazione della casa, di una imminente distruzione della continuità della vita:
Vagava nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l’avrebbe condotta ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d’ogni pietà e d’ogni imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole.
Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talora delle sue cupe nuvole: che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente. Ciò accadde anche nello scorcio di quella estate, in un pomeriggio dei primi di settembre, dopo la lunga calura che tutti dicevano sarebbe durata senza fine. (3)
Dunque il tempo della coscienza e del suo vissuto, attraverso il codificato sapere cosmologico entro cui la madre lo immagina, è inscritto e «dissolto» nello spazio barocco dell’ellisse, (4) che ne storce la lineare continuità, ne deforma la circolare, concentrica perfezione, scindendone il centro in luce e buio, presenza ed assenza. L’unità del logos, che dava forma alle cose, è spezzata, ogni presenza è attraversata da un’assenza, le forme non racchiudono sostanze, ne occultano la mancanza. L’esterno della casa – lo scenario opposto e complementare di questa teatralizzata allegoria della conoscenza, il cosmo – non è forma conchiusa e stabile, ove il sole persista come simbolo intatto del corso temporale, e possa essere pensato come il «dato», il «nucleo sostanziale» della «continuità del sistema», della «unità e consecuzione del tempo», la «pausa logica» della «infinita deformazione» del divenire. (5) Il sole è figura della dissoluzione del tempo: il suo movimento si ripete, non muta, non diviene. La sua luce lascia apparire un paesaggio disanimato e vuoto, tacita e splendente replica visiva dell’assenza che pervade il buio scenario della casa.
Qui, la disperata ricerca della Madre scopre una mancanza (élleipsis) incolmabile: non v’è continuità di ragione morale («pietà»: il simbolo della durata etico-affettiva dei legami familiari) né riapparizione di perdute presenze («imagine»: la rappresentazione estetica dell’essere, la forma del riconoscimento di una identità). Contornata dal disegno elegiaco e immoto della campagna, circondata dall’estraneità inappropriabile del di fuori, la casa è lasciata al dominio del buio: un cielo impietrito ne chiude il silenzio, e «poche mosche», come degradati, grotteschi messaggeri di morte, (6) ne percorrono e invadono («occupano»), ostili presagi di una prossima violazione, gli spazi antichi e deserti. Non più protetta dalla luce di una conoscenza alimentata dalla tradizionale integrazione di etica e ragione, la casa diventerà il palcoscenico «barocco» di una reiterata invasione della «folla», progressivamente commutandosi – nella couche allegorica della scrittura (7) – da luogo in cui raccogliere e proteggere le spoglie reliquie di una minacciata identità, da spazio in cui ricostituire le condizioni di una lineare riaccumulazione del tempo, in campo di conflitti aperti e insanabili, teatro della carnevalesca celebrazione di un «turpe» disordine, dell’apoteosi distruttiva di un «molteplice» infine trionfante sulla pretesa armonizzatrice della ragione, della sua etica «sistematrice».
Nell’ellisse disegnata dal tempo, a fronte di quella casa ridotta, da simbolo della proprietà e della continuità dei valori, da tempio della tradizione e protettivo rifugio della persona, a polveroso museo d’ombre, a silente «icona mortuaria», (8) a campo delle tensioni conflittuali tra il tempo «ordinatore» della conoscenza e le sue interne antinomie, persisterà – lungo tutto l’arco della ripetitiva, tautologica parabola narrativa – la opposta «polarità» dell’idillio campestre, icona luminosa di una durata senza movimento, funzione inversa della precaria mobilità della coscienza.
L’edenico e iperletterario «paese delle vacanze», visione consolatoria e pacificante elegia allo sguardo perturbato della Madre, materia bergsonianamente memore del perpetuo rinnovarsi delle stagioni, si oppone, come un cristallino, eterno presente al flusso intermittente e scomposto della memoria soggettiva, stretta nel passato senza riscatto di un’esperienza franta, perduta. Figurata in pausate cadenze liriche, partitura di voci sommesse e remote, la campagna della Cognizione costituisce la rielaborazione sublimata, ma insensibilmente straniata in allegoria, di una memoria letteraria (9) che congiunge, in una chiave intimistica vivacizzata, talora, da inflessioni ironiche, stilemi ed immagini esplicitamente mutuati dalla tradizione più canonica – da Virgilio a Leopardi a Parini, fino al prediletto Manzoni (10) – a suggestioni idilliche attinte al patrimonio espressivo più prossimo e interno al tempo della formazione gaddiana, da certo dannunzianesimo di ritorno, sempre riccamente o sottilmente parodizzato (il «vate» D’Annunzio è peraltro oggetto, com’è stato variamente analizzato, di feroci squarci satirici nel romanzo), (11) alla prosa d’arte, a tenui ma indicative filigrane di assonanze tematico-figurali con Montale (Luperini 1987: 41-50). In una orditura di sottili rimandi e riecheggiamenti, essa rivelerà, ogni volta, la sua qualità fittizia, attestandosi come visione costruita dalle proiezioni letterarie della coscienza-memoria. La campagna, in Gadda, è sempre il luogo di un ambiguo incanto: di quella «incantagione» (altrice di «paura» nel Pasticciaccio) (12) che lo scrittore insisteva ad attribuire al suo lavoro costruttivo-inventivo, inteso come officinale embricatura tecnica delle forme («l’opera suol essere cagione di un incanto»: Tecnica e poesia, SGF I 240).
Entro la tormentata strumentazione atonale della Cognizione, nella lussureggiante polifonia stilistica adibita da Gadda a curvare e increspare in progressive dissonanze la lenta trama della scrittura, l’immagine della campagna vivrà nel registro di una nota tenuta, sospesa. Da questa sospensione scaturirà, come un «avvenimento inavvertito» (Apologia, SGF I 679), un tempo altro e dicotomico cresciuto in essa, il male. Dall’allentarsi e diradarsi delle relazioni logiche costitutive della realtà molteplice deriveranno l’evocazione incantata dell’idillio, «pausa» immobile e intatta nel movimento del logos, e insieme, per necessario complemento logico-combinatorio, la sua metamorfica lacerazione in caos, la smagliatura della rete fenomenica. E l’inquietante disordine sotteso alla natura – alla «periferia del sistema» – eromperà dal suo tempo chiuso ed estraneo, entro il quale ogni mutamento assume il sembiante minaccioso di un triste presagio di violenza, non decifrabile dalla fiduciosa razionalità della Madre: dalla tradizione conoscitiva che in lei si deposita e, stremata, si estingue, solo oscuramente consapevole di una «ossedente» necessità dolorosa insita – come opaco frammento, intrascendibile antinomia che ne lacera il corso – nella folgorante solarità del tempo, nella rappresentazione morale della continuità teleologica:
Quella minaccia la feriva nel profondo. Era l’urto, era lo scherno di forze o di esseri non conosciuti, e tuttavia inesorabili alla persecuzione: il male che risorge ancora, ancora e sempre, dopo i chiari mattini della speranza. (Gadda 1987a: 260-61)
Prima di irrompere a sfigurare l’irenica superficie della natura, l’uragano le cresce dentro, come vettore – inesorabile minaccia – di una perturbazione fisica e insieme logica della squilibrata polarità, in essa, nel suo tempo ciclico perfetto come un idillio, di persistenza e divenire, di movimento e forma. L’effrazione barocca del vento, scompaginando la quiete deserta dello spazio domestico, custode del consunto tempo interiore della Madre, invade e fruga la casa, e vi porta un oltraggio che, ferocemente scavando nella indifesa dimora della memoria, sembra rinnovare e dilatare l’eco di un funebre annunzio, già prefigurato nella enunciazione tematica offerta dal ritratto affabulatorio di Gonzalo, delle sue manie («Poiché ogni oltraggio è morte»): (13)
Il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi, ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa. Dalla finestretta delle scale, una raffica, irrompendo, l’aveva ghermita per i capegli: scricchiolavano da parer istiantare i pianciti e le loro intravature di legno: come fasciame, come di nave in fortuna: e gli infissi chiusi, barrati, gonfiati da quel furore del di fuori. (14)
Secondo un topos ricorrente con insistenza nei congegni narrativi gaddiani, lo sconvolgimento fisico dell’ambiente significa, metaforicamente, la rottura del «meccanismo segreto della conseguenza» già rappresentata, in un’immagine che schematizza una lacerazione etica e logica del tessuto del reale, nella Passeggiata autunnale (RR II 944): e qui rivela alla Madre la fragile consistenza del riparo domestico, stingendo in livido pallore le stanche sembianze della sua vecchiezza: in un circuito metonimico che ne congiunge il volto scarnito alle logore strutture che dovrebbero difenderne la casa dagli assalti del caos, e ne sono, invece, vinte, subito piegate dal furore di un tempo naturale abitato dalle forze antinomiche che ali-mentano la tensiva «polarità» di ogni aspetto fenomenico della rete combinatoria: sopra il «tempo dissolto» della vita, della sua memoria che non dà salvezza, il cielo distende il suo moto perfetto e insensato, portatore di una oltraggiosa promessa di morte. La quiete apollinea del di fuori, attraverso una metamorfica fuga di immagini legate in un barocco intarsio di ascensus lirico-sublimi e precipitazioni grottesche, si contrae dissolvendosi nella furia espressionistica della partitura. Il fuoco luminoso dell’ellisse, l’esterno, si inverte, penetrandovi, in quello, oscuro e deserto, della casa. Lo invade, lo deforma. E sommuove la Madre a cercare uno scampo dalla invasione del «torbido enigma» di un tempo che la sua conoscenza contempla senza comprendere: nella discesa verso il cuore tenebroso della sua dimora, nella regressione «verso il buio e l’umidore del fondo» (Gadda 1987a: 264), dove il suo cammino proteso al ritrovamento del fine che la ricongiunga al tempo fondato e armonico dell’origine, costretto ad invertirsi in cerca di un riparo lontano da una luce d’improvviso nemica, entro un buio in cui le forme del mondo si decompongono, inizierà a curvarsi nella parabolica vertigine della morte:
Ed ella […] si raccolse come poteva nella sua stremata condizione a ritrovare un rifugio, da basso, nel sottoscala: scendendo, scendendo: in un canto […] scendendo, scendendo, giù, giù, verso il buio e l’umidore del fondo. (15)
Lungo l’arco di questa stremata catabasi, che è da leggere, ovviamente, affrancandola da univoche interpretazioni psicanalitiche, (16) la scrittura seguirà una curva stilistica speculare ma inversa al movimento in essa figurato. Fino a pervenire – nell’attingimento della doppia valenza simbolica del buio e del fondo («rifugio» ed «orrore») – alle tonalità più alte ed intense del suo teatralizzato lirismo, e alla sublimazione tragica e allegorica – e si vorrebbe dire: tragica in quanto allegorica (17) – del composito intreccio di reminiscenze e modelli letterari adibiti a disegnare la spettrale maschera della Madre, a compiere il doloroso svuotamento della sua persona, nell’incontro con la replicata immanenza del male, con la moltiplicata figura della sua minaccia. Il fondo oscuro della casa, da rifugio in cui apprestare un’estrema difesa dall’oltraggio repentinamente sprigionatosi dall’alveo remoto del tempo cosmico, diventa lo scenario della catastrofe del tempo soggettivo, lo spazio dell’orrore che lacera il tenue ordito della memoria. E la luce, anche se accesa dalla Madre a ripararsi dalla minaccia che la insegue, non disegna profili rassicuranti, non illumina visioni consolatrici: come il sole, la tenue fiamma di una candela non oppone al feroce assedio del buio, che contamina e confonde i profili delle cose entro i «neri cubi dell’ombra» (La sala di basalte, Gadda 1993a: 26, v. 116), il bagliore purissimo della conoscenza, non ridona alla madre il labile conforto del ricordo, né le restituisce, nella «pietà» di una «imagine», la specchiata sembianza in cui riconoscersi.
In questo presente cinto dal buio, spento simulacro d’un «tempo dissolto», non v’è conoscenza che del male: e la luce ne svelerà la funerea insidia nella «tremula cognizione» che il suo intermittente riverbero può consentire, mostrando il tratto di vanità e d’orrore di una realtà che nessun «sistema» etico-conoscitivo può ormai spiegare e comprendere. Anche qui, in questa artificiosa e miniaturistica replica dell’epifania solare, la luce appare estranea alla conoscenza, dischiude la cognizione senza durata di un vuoto: solcato da ombre insidiose, disertato da ogni caritatevole presenza che testimoni l’approdo sereno da un viaggio, stretto in un tempo senza voci soccorrevoli, il tempo oscuro e deserto della morte:
Ivi, una piccola mensola […] la oscurità le permise tuttavia di ritrovarvi al tratto una candela, ammollata, un piattello con degli zolfini, predisposti per l’ore della notte, a chi rincasasse nelle tarde ore. Nessuno rincasava. Sollecitò a più tratti uno zolfanello, un altro, sulla carta di vetro: ed ecco, nel giallore alfine di quella tremula cognizione dell’ammattonato, ecco ulteriormente fuggitiva una scheggia di tenebra, orrenda: ma poi subito riprendersi nella immobilità d’una insidia: il nero dello scorpione. Si raccolse, allora, chiusi gli occhî, nella sua solitudine ultima: levando il capo, come chi conosce vana ogni implorazione di bontà». (Gadda 1987a: 264, mio corsivo)
L’organico «sistema» di categorie e di valori che, nel tempo, aveva prodotto e accumulato il patrimonio di conoscenza della Madre è ormai svanito, corroso. La salvezza senza consolazione trovata affannosamente nella discesa si rivela uno schermo illusorio, squarciato dalla «vandalica» apoteosi del disordine – il male nelle cose e nell’anima – che l’uragano veicola emblematicamente nel suo accanimento. E la luce è spezzata, estinta in ombra: l’invocata, ma impossibile riapparizione della continuità biologico-morale del tempo (il Figlio) suscita la scoperta-conferma di un’impotenza conoscitiva ed etica. La conoscenza, spogliata di ogni soccorso morale, si stringe negli spazi ostruiti ed ostili della materia, della sua opaca e ottusa resistenza alla luce della ragione, si contrae, per gesti e tentativi, nelle brevi misure della sensazione: entro cui il suo accecato sguardo, precariamente restituito alle immagini, può solo incontrare «la insidia repugnante dell’oscurità: nata, più nera macchia, dall’umidore e dal male» (Gadda 1987a: 265).
La conoscenza non conserva il suo fine: non si sviluppa, memoria o invenzione, lungo il disegno lineare del tempo, non rinviene più, nel tempo, una continuità teleologica, lo schema progressivo del suo percorso, il centro del suo movimento. La ragione-memoria, ritraendosi nel cieco sotterraneo della sua dimora, nel tempo fondativo-regressivo della sua origine («là dov’era discesa, nel fondo buio d’ogni memoria», Gadda 1987a: 265), vi si ritrova indifesa, come interdetta nella paralizzante verifica della sua discontinuità, nella consunzione logica e biologica della sua armoniosa, e ora esanime, durata euristica. E della forma temporanea che ne conteneva in immagine il senso ora non può che sancire la vanità, la fine, non può che pensarne la morte:
E si sminuiva in sé, prossima a incenerire, una favilla dolorosa del tempo: e nel tempo ella era stata donna, sposa e madre. […] E suo pensiero non conosceva più perché, perché! dimentico, nella offesa estrema, che una implorazione è possibile, o l’amore, dalla carità delle genti: non ricordava più nulla […] Invano aveva partorito le creature […] nessuno lo riconoscerebbe dentro la gloria sulfurea delle tempeste, e del caos. (Gadda 1987a: 265-66, miei corsivi)
La conoscenza della Madre è ormai una forma svuotata, la sua esperienza un ricordo senza riscontro: divaricata, nella dissipazione della memoria, dall’amore e dalla carità, cioè per sempre scissa dalle virtù morali che ne alimentavano e garantivano, custodendola nell’ordinato paradigma diacronico, la persistenza e l’identità di funzione, la meccanica costruttiva e sintetica, la variegata e compatta unità di «sistema-persona»: e anche la memoria – non più santuario dell’«euresi», ma suo campo di prigionia – recede dalla sua ostinata difesa, si piega al dilagante sovvertimento del tempo e dello spazio, alla devastante offesa del caos, che segna l’arresto del ciclico «andare e rivolvere» della vicenda cosmica, la scomposizione del suo moto ordinato e perenne – figura di un movimento logico che replica infinitamente se stesso – nella difforme molteplicità del divenire. Ma il disordine, il ritmo incontrollato e multiverso del divenire, non sono che la dialettica «polarità», intrinseca alle forme compiute dell’essere, opposta all’ordine codificato e plurale dell’etica e della ragione.
Per Gadda, infatti, come già si è avuto modo di rilevare, sin dalla giovanile, fermentante «meditazione» filosofica, è la stessa «polarità fondamentale essere-divenire» a fabbricare «la realtà molteplice» (Meditazione, SVP 833): e proprio i «limiti estremi dell’essere hanno per polarità il non essere» (SVP 678). La radice del moto euristico del reale sta dunque nella costituzione logicamente antinomica della sua temporalità: e questa non può essere pensata che nei termini contrastivi – e perciò, a ben guardare, radicalmente dialettici – di una «polarità» dinamica proprio perché non sottoposta allo sterilizzante imperio della «sintesi». Il tempo è duale, l’essere è duale: pensabile, cioè, solo in uno con la sua negazione – col fondo cieco e asintotico della sua «molteplicità» logico-fenomenica. E la scrittura letteraria, eletta a campo di verifica ed attuazione concreta delle acquisizioni etico-gnoseologiche maturate nella «meditazione», ed anzi adibita a integrarne la logica astrattezza – e rappresentarne il problematico groviglio – con la vivente pluralità-alterazione delle forme, con la sistematicità non chiusa dei tempi narrativi e delle «figure» estetiche, (18) deve – per essere conoscitiva – comprendere e sviluppare questa «irrisolta» polarità, questa decostruzione «euristica» di una forma «gnoseologica» predisposta, per la sua stessa costituzione «logica», a farsi campo della propria crisi, funzione produttiva della propria negazione.
E nella Cognizione quella «polarità» si racchiude e si dipana nelle coppie disgiuntive luce-ombra, tempo-spazio, suono-silenzio, finalità (etico-biologica)-necessità distruttiva, logos-caos: in una rappresentazione comunque innervata da un permanente conflitto, da una non sciolta duplicità di referenze semantiche e di valenze allegoriche che ne dilata, e insieme come ne svuota, le trascorrenti forme. La consistenza di ogni immagine è internamente scompaginata, ma subito, anche, riaddensata entro una tessitura stilistica giocata sulla complementare alternanza tra il raddoppiamento dei significanti e lo sdoppiamento dei significati. Nella tonalità lirico-sublime del dettato, infatti, si apre reiteratamente come una ferita, una piaga: perché ad una «cognizione» imprigionata nella frattura del tempo, nella divaricazione sommamente logica (cioè, sommamente «reale», secondo una identificazione garantita dalla mediazione etica) tra passato (essere/memoria/forma) e presente (divenire/non-essere/non-forma), non è dato acquietarsi, riconoscersi in immagini compiute e stabili, durare in una «pausa», in una forma.
Per questo, ad esempio, le domande senza risposta della madre punteggiano – e, di volta in volta, sospendono – il flusso ascensionale della parola lirica, ne duplicano e insieme ne straniano l’assolutezza, curvandone in dissonante contrappunto la ricercata armonia. Una intensa ma trattenuta spinta centrifuga percorre qui l’altissima concentrazione della pagina: e ne sfolla e scolora gli spazi, ne tende in tragico «spasmo» i contorni, piega, e decanta, ogni figura alla inconciliata «polarità» che le è sottesa. L’antitesi, il suo tempo aperto, e però bloccato, contratto in una tensione senza esito di forma, governa la parabola della «discesa», e, in essa, l’emergenza di una luttuosa rivelazione.
Solo secchi, stanchi gesti: e suoni, «fragore» – non voci. Non presenze, ma ombre. Non parole, ma ascolto. Nella catastrofe dissolutiva del tempo, le categorie della conoscenza si ripiegano, come già poco prima, nel tempo franto e caduco della sensazione. E mettono in scena gli atti senza suono di una attonita perdita di comunicazione, l’impaurita rinunzia alla parola, la polverizzazione del campo visivo nelle istantanee folgorazioni del caos, nel suo spazio discontinuo e polimorfo, nella sua deformazione senza «pausa» o «sistema». La percezione cognitiva affidata allo sguardo si ritrae nel silenzioso scacco di una contemplazione disperata, lo stanco sembiante dell’essere arretra di fronte all’insorgenza del male, incalzato dalla replicata minaccia persecutoria del non-essere; e non sa opporre al suo funereo assedio che la povertà di un gesto vinto, la pallida replica di una antica movenza teatrale, la finzione ormai esausta di una smarrita volontà di sapere, di redimere:
Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio. […] Ed ecco lo scorpione, risveglio, aveva proceduto, come di lato, come a raggirarla, ed ella, tremando, aveva retroceduto dentro il suo solo essere, distendendo una mano diaccia e stanca, come a volerlo arrestare. I capegli le spiovevano sulla fronte, non osava dir nulla, con labbri secchi, esangui: nessuno, nessuno l’avrebbe udita, sotto il fragore. (Gadda 1987a: 267-68, mio corsivo)
Questo solo, dunque, ha potuto illuminare la fiamma della candela: la sovversione dell’ordine cosmico e, insieme, di quello domestico, che in sé, anticamente, lo specchiava; il fondo buio e disabitato della conoscenza fondata nella tradizione e nella memoria; l’impossibilità, per la Madre, che ne serba dentro di sé la testimonianza, di fermare il flusso distruttivo che sommuove e frantuma l’asse del tempo diacronico, e di ricomporne la forma lineare entro cui, univocamente, la sua ragione poteva pensare e rappresentarsi il divenire. Ma il divenire è pensabile/rappresentabile, nella riflessione gnoseologica gaddiana, sempre e solo come «molteplice logico», come «incessante deformazione», infinita diversificazione: «poiché, come ben disse Leibniz, non vi è nulla di eguale» (Meditazione, SVP 655). Ogni esperienza conoscitiva si attua, ed è strutturata, come forma e funzione del divenire, come tensione sempre rinnovata «verso la infinita, nel tempo e nel número, suddivisione-specializzazione-obiettivazione del molteplice»: (19) dove Gadda, come in tutta la sua quête filosofica, contamina il lessico scientifico e quello retorico-letterario in uno stile di pensiero che trova il suo necessario sbocco nelle dinamiche reticolari di una «cognizione» rappresentata: cioè di un processo conoscitivo che si svolge rappresentandosi, temporalizzando, per così dire, lo spazio del suo schema logico.
Dal tradizionale sapere della Madre, che si ostina a cercare nel divenire la ricostruzione della continuità di memoria ed esperienza, il ricongiungimento di eros e logos (Luperini 1981: 66-73), il tempo è pensabile e figurabile, invece, solo come ciclo senza mutamenti, come forma categoriale dell’ordine e della durata. Il tempo è speculare alla antica, rigorosa normativa morale su cui quel sapere si regge. Ma il divenire – in quanto struttura logica interna alla forma del tempo, sua condizione dinamica, in sé euristica – se ne rivela scisso, dis-creto. La Madre, proprio in quanto essere, matrice, origine, forma raccolta e chiusa in sé, già sempre formata, non può pensarne il «coesistere logico» (Meditazione, SVP 664), con la deformazione, la necessità teoretica di istituirne lo schema negandone il compimento nella durata etica della forma. Il logos è, nella sua coscienza, ripetizione e sintesi. Ogni mutamento – ogni movimento – è avvertito come perdita, lacerazione, conflitto. Il suo codice conoscitivo non vede, nella deformazione, una intrinseca polarità della forma. Non la percepisce che come caos: dispersione-disperazione del logos, del suo progressivo rovesciamento e oscuramento. La separazione del tempo dallo spazio del soggetto – dal suo ethos – non si inscrive, per lei, nella deformazione, come un suo «momento». È assoluta, irrevocabile. Comporta la caduta dei valori, la rottura della norma – la lacerazione dell’armonia. Il movimento del tempo non è, per lei, deformazione logica. È deformazione, per così dire, ontologica: insanabile perdita di forma – e sua stremata, incolmabile richiesta.
Nel movimento, il logos, per conservarsi, deve ripetersi, perfetto e immutabile. Il mutamento lo dissolve in caos: ne spezza la forma, la decompone. Attraverso successive, infinite mutazioni, il tempo – per la Madre – non ha sviluppo: giacché non è più lecito ritrovarvi un fine; e anche le cause, per questo, si dissipano, infinitamente moltiplicandosi e separandosi nel ritmo cieco del divenire. Di quel tempo perturbato e ostile, la luce, nonché rasserenarlo, ha invece, ogni volta, riverberato e moltiplicato, nel buio, il disordine. Non ha ritagliato uno spazio di conoscenza, non ha ricomposto visioni o illuminato figure della «continuità». Anch’essa, come vinta dalla furia del tempo, ha seguito una parabola «discenditiva» – in una progressiva desublimazione della sua virtù cognitivo/simbolica – declinando e presto spegnendosi: solo lasciando apparire, ai suoi residui barlumi, immagini che rifrangono l’una nell’altra l’«impietrato» abbandono della morte, e ne suscitano la spettrale epifania, nella gemmazione (20) speculare delle figure di «discesa», iterate a scandirne l’impossibile persistenza, a segnarne la funerea estinzione:
… l’alito gelato della tempesta […] infletteva e laminava la fiammella smagandola sopra il guazzo e sopra il crassume della cera, attenuava, quel baluginare del lucignolo, a commiato di morte. […] Nessuno la vide, discesa nella paura, giù, sola, dove il giallore del lucignolo vacillava, smoriva entro l’ombre, dal ripiano della mensola, agonizzando nella sua cera liquefatta […] Quel viso, come spetro […]. (Gadda 1987a: 267-70, mio corsivo)
Nello spazio «senza senso» dell’ellisse, (21) il mutamento rovinoso del tempo occupa il fuoco oscuro: (22) dove l’assenza della luce e la sospensione del suono segnano una pausa momentanea nella devastazione cromatica e acustica della bufera; e nella intermissione dello sguardo e dell’ascolto, nel loro vuoto distendersi, si accampa – come a prefigurare la tragica conoscenza per negazione di Gonzalo, nel terz’ultimo «tratto» dell’opera – una «ossedente» precognizione di morte, la caduta del tempo-valore in uno spazio ottuso ed informe, dove l’«euresi» si estingue, spezzandosi nella irriscattabile vanità di un dolore inciso nel tempo come un destino:
E a chi rivolgersi, nel tempo mutato […]? Se le creature stesse, negli anni, erano state un dolore vano […] Dal fondo buio delle scale levava talora il volto, e anche in quell’ore, a riconoscere sul suo capo taciuti interludî della bufera, la nullità stupida dello spazio. (Gadda 1987a: 268-69, miei corsivi)
E nel centro luminoso del tempo astronomico si raccoglie l’immobile certezza dell’essere, la sognata continuità del soggetto, l’incantato splendore delle parvenze. Infatti non restano che le parvenze, i nomi, a custodire e riannodare il filo della continuità, ad opporre una breve, labile evocazione di durata, alla rapina ingiuriosa del tempo, a tentare di redimerne l’indecifrabile disordine nella etica ricongiunzione di verità e memoria, di parola e certezza, nella sintesi, ora precariamente ricomposta, di conoscenza e luce, pietà e speranza:
Questo nome le si posò lieve sull’animo: e fu cara parvenza, suggerimento quasi di mattino e di sogno, un’ala alta che trasvolasse, una luce. Sì: c’era il suo figlio, nel tempo, nella certezza e nella Cognizione dei viventi […] Oh! soltanto il nembo – fersa di cieli sibilanti sopra incurve geniture della campagna – soltanto il terrore aveva potuto disgiungerla per tal modo dalla verità, dalla sicurezza fondata della memoria. (Gadda 1987a: 271-73, miei corsivi)
Un nome, opposto, con funzione uguale e contraria, a quello che – nell’avvio del «tratto» – aveva suscitato lo strazio della memoria, promuovendone la rovinosa discesa verso il buio del non-essere, compare, adesso, a consolarla, a sospenderne la dolorosa regressione verso una temporalità «originaria» ormai lacerata e inappropriabile, a restituire alla luce una direzione e un senso, a trattenerla dalla consunzione che la estingue in tenebra. Una parola («figlio») entro cui il tempo si stringe in concetto e figura, in telos e forma, designa, e in sé concentra, l’armonica compresenza di natura e ragione, di finalità ed evento, di passato e futuro.
Nel cosmo, nuovamente abitato da un nome, può ora tornare a splendere, oltre le distruttive «coinvoluzioni» del tempo, come per una ritrovata armonia dopo la perturbante «sinfonia» della tempesta, un’immagine di ordine e di continuità. Ma la rappresentazione, qui come in seguito, ne denunzia subito la vanità: la «cara parvenza» del nome non è che labile riparo, o pausa, dalla violenza inarrestabile del divenire. Il tempo vi si specchia, come ricomposto in un teleologico emblema. Ma non vi si acquieta: la «verità» della memoria, la sua recuperata «sicurezza», è presto solcata dall’orrore, il ricordo riscopre il vuoto di una perdita mai più risarcita, l’evocazione di una consolatoria presenza lascia riaffiorare, insieme, la complementare polarità di un’assenza immedicabile («A Gonzalo […] non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo», Gadda 1987a: 273). La figura della discesa ritorna, sommossa, ancora, da un suono – un «canto» –, a significare una funebre apoteosi; la tensione stilistica culmina e precipita, con la sanzione di una definitiva paralisi del tempo, giù nel fastoso abisso barocco delle voci e delle luci di una solenne cerimonia di morte: «Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità» (Gadda 1987a: 273-74). Alla pretesa certezza della conoscenza fa eco, ancora una volta, invadendo il rifugio della memoria, la riemersa, contrastiva immanenza della morte. Ricostruire la durata del tempo, la continuità finalistica della vita, non è possibile senza rievocarne l’attimo della tragica rottura.
Quanto più la memoria si ostina a ritessere la propria trama lacerata entro una linea progressiva e omogenea, tanto più è costretta a fissarsi in un tempo astratto e ritualistico, spopolato e silente, in cui ogni «dimensione noumenica» è degradata a vuota parvenza, a decomposto fenomeno. (23) E il diradare, e poi spegnersi, dei suoni ora scandisce, con la fine dello sconvolgimento cosmico, la risalita alla superficie vuota del presente, alla sua temporalità azzerata nella «nullità stupida dello spazio» (Gadda 1987a: 269), il richiamo pacificante dell’effimero cerimoniale dell’ordine domestico, custode di valori senza più storia, offerta di una sicurezza povera di futuro: «Un clàcson, dalla camionale: e il vuoto delle cose. Tutto taceva, finalmente. […] L’ordine e la carità domestici la richiamavano sopra» (Gadda 1987a: 274-75). La ripresa dei gesti che quotidianamente iterano la convenzione scenica del «tempo ordinato» della vita domestica – in una casa che è simulacro e teatro del tempo – è avviata e protetta dalla vanificazione dei rumori, e dalla corrispondente rarefazione dei significati («il vuoto delle cose»).
2. L’idillio perduto
Alla folgorante immersione nel buio, gremìto di spettrali visioni, succede, ora, il ritorno alla deserta «incantagione» del mondo, alla sua riattivata liturgia di parvenze, entro cui allo sguardo e all’ascolto della Madre si offriranno forme e sensazioni come ricostruite per analogia, come proiettate dalla memoria, dalla sua matrice letteraria, dal suo ethos lirico, sullo schermo silenzioso del cosmo, sulla tersa pittura del paesaggio idillico ricomposto in quiete nella suggestiva filigrana intertestuale di reminiscenze leopardiane.
Spentosi il minaccioso frastuono della tempesta, (24) è un suono greve, disarmonico – il passo ritmico e ottuso del contadino – a segnalare il ritorno alla ritrovata serenità dello scenario domestico, alle rassicuranti cadenze iterative del suo tempo quotidiano. Il silenzio è ora violato da rumori grotteschi e consueti, che replicano – desublimandone la tensione drammatica – le perturbanti dissonanze dell’uragano, ma come degradandole, e depotenziandole della loro carica aggressiva, in eco sommessa e parodica. E se, nella fittissima trama metaletteraria e interspeculare della narrazione, un messaggero dall’aspetto nobile e dignitoso – un doppio del figlio amato e perduto – aveva sollecitato la peripezia luttuosa del ricordo, è qui, invece – in un paradossale ribaltamento di funzioni – la figura calibanesca del contadino, omologo rovescio dell’arielico sottufficiale, e duplicazione, tra le altre, del figlio che ancora «camminava tra i vivi», a recare alla Madre, col ritmo sgraziato e invadente del suo passo, portatore di un mondo degradato, da commedia, l’annunzio che ricostituisce l’incanto diacronico della quotidianità, e la sottrae all’oscuro sotterraneo della sua cognizione della fine del tempo, riconvocandola all’oblio antitragico della superficie domestica, alla continuità fittizia di un tempo mitico e rituale, alla rimozione estetica del dolore e del male scoperti nella tetra epifania della discesa:
Il zoccolante passo del contadino risuonò sull’ammattonato di sopra: […] la chiamò nel buio, le parlò delle provviste e del fuoco, le notificò l’ora, devastati i ricolti: si fece, con nuovi urti di voce, a disserrar l’ante, i vetri. Rinfrancata, ella rivide chiarità dolci e lontane del paese e nella dolce memoria le fiorirono quelle parole di sempre: «apre i balconi – apre terrazzi e logge la famiglia»: quasi che la società degli uomini ricostituita le riapparisse dopo notte lunga. (Gadda 1987a: 275, miei corsivi)
Rivedere è possibile solo con la mediazione delle forme che una tradizione letteraria preziosa e inestinguibile («parole di sempre») ha lasciato durare nella coscienza. Ma non è conoscenza: è visione, convenzionale riscrittura, in funzione consolatoria, di un modello espressivo. È, per questo, rappresentazione obliqua, indiretta: costruita e garantita da un codice formale che, quanto più rielaborato e articolato, tanto più si evidenzia come sostitutivo della conoscenza, tramite di una «riapparizione» che non cattura presenze ed oggetti, ma ne inscena la stilizzata finzione. Il sapere della memoria, il soggetto della tradizione, che in essa si concentra e si replica, non può fare diretta esperienza del divenire, non può percepirlo euristicamente, né rappresentarlo in forme che ne contengano – ne espongano – il movimento ed il senso.
Nel confronto col divenire, la lingua della letteratura canonizzata dal tempo, il suo codice di identificazione (col passato e con l’essere), si ritrae nella ripetizione sublimante di altri codici linguistici. Al movimento «deformatore» del divenire la coscienza letteraria, spaesata ed instabile, oppone – a proteggersi – lo statuto immobile delle sue forme: perfette, finite – le forme di un’euresi adempiuta e sterile. La rappresentazione del movimento, allora, può aver luogo solo all’interno dell’immobilità della forma: non deformandola, ma lasciandovisi fissare in uno stemma verbale che del tempo celebra lo splendore esausto, remoto. La perfezione intatta della visione non potrà costituirsi come conoscenza auto-deformatrice: il soggetto ne sarebbe, di necessità, coinvolto, travolto. Sarà, invece, celebrazione di una ricostituita identità, riproduzione contemplativa di un ciclo: alla rappresentazione del movimento «deformatore» essa sostituirà la durata formale di un idillio etico-estetico. (25) Sarà la messinscena iper-letteraria di un mondo di valori perduti, divelti: solo vivi, ancora, e immortali, nella riscrittura soggettiva di un universo di parvenze, nel gioco interminato e malinconico di antichi tropi e figure.
E se pure, talvolta, una breve piega ironica o grottesca ne infletterà la linea elegiaca («Erano dei poveri lucci, scuri, di muso aguzzo come il desiderio dei poveri, e tetro, che avevano remigato e remigato, carestie verdi incontro all’argenteo baleno della durlindana», Gadda 1987a: 280), sarà poi la stessa ostentazione della valenza metaletteraria di quella scenografia campestre, in uno con la rapida risalita del registro lirico («dopo l’ora del tramonto arpionati su con la lenza dal Seegrün o da quell’altra valle, assai dolce agli autunni, dell’abate-poeta», Gadda 1987a: 281), a confermarne, in via definitiva, la separazione dalla concretezza molteplice del divenire, a marcarne, entro la dimessa cadenza ironica, l’alterità e l’astrattezza di concentrica proiezione della memoria letteraria: e a farne risaltare, proprio nella stratificata densità dell’intarsio lirico-sublime, la rarefatta e illusoria consistenza, la declinante e fittizia armonia.
La campagna, il di fuori, non conterranno più davvero i simboli dell’ordine antico, le vetuste e familiari figure della tradizione. Saranno lo scenario, il fondale di un immaginario teatro – una preziosa, eterea pittura della mente – dove lo sguardo del soggetto allestirà il consueto inganno della rappresentazione, l’usuale artificio di un tempo autoriflesso e bloccato, e ancora appresterà al suo spento conoscere il salvifico lenimento delle parvenze. Ma la provvisoria salvezza verrà dall’interno, dallo spazio serrato e protettivo della casa: dalle costruzioni della memoria, che solitaria vi abita e vi si consuma. E il rito dei giorni e delle opere, la rinnovata messinscena delle virtù e dei valori – la bontà, il dono, il sacrificio («A opera finita non ne faceva che un assaggio, era lieta; regalava tutto alle donne. Le donne la lodavano della sua bravura nel cucinare, la rimeritavano della bontà», Gadda 1987a: 281-82), – potranno serenamente essere inscritti nella traiettoria etica del tempo-coscienza, nello spazio inesteso ma immenso della sua forma.
Appagandovisi, in essa la Madre sembra fondare e avviare la propria rinuncia conoscitiva, e, adempiuto il suo fine – o, forse, intermessone il corso –, pronunziare la propria resa alle leggi del tempo, rinunciando alle consolazioni fugaci della memoria, e ricingersi nella rassegnata impossibilità di durare, nella mesta accettazione di un destino di perdita e oblio: «forse dopo l’infuocato precipitare d’ogni giorno, e degli anni, stanche ellissi, forse aveva ragione il tempo: lieve suasore d’ogni rinuncia: oh! l’avrebbe condotta dove si dimentica e si è dimenticati…» (Gadda 1987a: 282). Nella disvelata vanità della memoria, anche l’etica potrà accamparsi come sublimazione non complementare ma sostitutiva della conoscenza, come compensazione coscienziale di una impossibile continuità dell’essere, come «possibilità» di ricomporre in una forma non euristica, ma restauratrice, la scissione tra verità ed esperienza, e di restituire senso e funzione alla superstite continuità dell’apparenza, e ancora illudere di necessità e valore la caduca favola della vita, protraendo la vicenda di una soggettività impedita a conoscere altro che la propria fine:
Si considerava alla fine della sua vicenda. Il sacrificio era stato consumato. Nella purità; di cui Dio solo è conoscenza. Si compiaceva che altri ed altre avessero a poter raccogliere il senso vitale della favola, illusi ancora, nel loro caldo sangue, a crederla verità necessaria. (Gadda 1987a: 283, miei corsivi miei)
Il campo della visione, infine, dove la madre ha tracciato i labili segni della sua durata, e il cosmo incideva le linee della sua geometria invariabile, rimanda, ora, un’immagine di vita, di continuità per sempre remota, estranea: non più rivolta a confortare la memoria, la sua pretesa di identità teleologica, ma a specchiarne – nella lontananza – la fine, a ribadirne – nella smorzata elegia del crepuscolo – il solitario declino, il tempo spezzato e disperso: «Dall’orizzonte lontano esalavano i fumi delle ville. Di lei nessuno avrebbe più recato lo spirito, o il sangue, nei giorni vuoti» (Gadda 1987a: 283).
Tuttavia, se la superficie delle parvenze cela, nella divaricazione di verità morale e conoscenza, il vuoto senza nomi della morte, è poi ancora un nome – di nuovo una reminiscenza shakespeariana per una «impossibile» tragedia da camera: «Gonzalo» (26) – a offrire un estremo appiglio alla inane deriva del ricordo, a sospenderne e di nuovo invertirne il cammino, alternando alla sua curva declinante, alla sua irreparabile estinzione, ancora la felice durata di un attimo, sottratto, con vitalistico slancio, alla rovinosa caduta del tempo.
Il repentino affioramento del nome di Gonzalo («il bel nome della vita») oppone infatti una nuova, ottativa proroga all’immanente dissoluzione, rianimando la «favola» della continuità dell’essere. E lascia risorgere, in essa, l’ostinata volontà della Madre di ritrovare una cifra «euristica» nel vuoto catalogo della memoria, restituendo una finalità etico-biologica alla propria parabola esistenziale: cioè di affrancare il tempo del soggetto dalla devastante estraneità del tempo cosmico, riallestendo la recita «necessaria» della vita, riscrivendo i «nobili paragrafi» di un sapere ancora in grado di rappresentarsi in un ordine etico e gnoseologico il «tempo del mondo» scandito dalle «rivoluzioni degli astri» (Roscioni 1975: 63), inscritto nelle geometrie prefissate ed eterne di una universale armonia della quale le mosche replicano all’infinito le orbite, a presagio e suggello di morte. (27)
Una parabola, un «nome»: questo solo sembra ancor poter conferire unità al molteplice, riannodare le trame innumerabili del tempo, ridisegnarne la deformazione in una forma, adempierne la continuità, ricondurre l’opera e il sacrificio immemore dei giorni della vita nel «cammino delle anime», riavviare una rappresentazione ricca, ancora, di futuro, perché costruita sulla riappropriazione del senso etico del passato. Sentirsi ripresi dal flusso antico e nuovo dell’evento, della «possibilità»: vive qui – in questa riaccesa effusione vitalistica, nella riconciliata comunicazione delle «anime» – l’estrema richiesta di identità – di continuità etica: teleologica – della Madre. In questo ancora si progetta: ritessere la conoscenza e il dominio del divenire, dargli un nome, ricomporlo in una recuperata sintesi di ragione morale e immaginazione estetica.
E riconvocare alla minacciata sovranità della memoria – nella recuperata continuità tra una lingua che trattenga in sé la vita e quella che ne misura la perdita – suoni, luci, voci, parvenze, tutti gli elementi che ancora popolano il circuito della percezione, e rimetterli in gioco, riattivarne il movimento, fondere le memorie del passato e gli auspici del futuro, richiudere e domare nei confini del ricordo i moti ansiosi e splendenti del sogno, proteggere la luce della conoscenza dalla tenebra che le cresce attorno – specchio annerito al ciclico scandirsi delle ore. Per vegliare ancora, al riparo di quella luce, nell’estraneità silenziosa della notte, custodendo e guidando la conoscenza verso il lento, salvifico rinascere dell’alba, figura di un esercizio euristico condotto lungo i percorsi di un tempo racchiuso nei paragrafi di un testo (Gadda 1987a: 472), e sottile, inavvertita premonizione del movimento catartico, e vano, della luce che si insinuerà, come tra le righe di un libro, tra le stecche delle persiane, a sancire, nel finale sospeso, l’approdo della «cognizione» al deserto trionfo delle parvenze. Ma qui, nell’alba, protetta ancora dalla continuità della finzione idillica, sembra di nuovo germinare il gioco – il flusso – eterno della vita, e delle stagioni, in una riacquisita fondazione teleologica e morale capace di risanare le lacerazioni dell’essere, di riconnettere il disgregato mosaico dell’esperienza:
Ma Gonzalo? Oh, il bel nome della vita! una continuità che s’adempie. Di nuovo le sembrò, dal terrazzo, di scorgere la curva del mondo: la spera dei lumi, a rivolversi […]. Sul mondo portatore di frumenti, e d’un canto, le quiete luminarie di mezza estate. Le sembrò di assistervi ancora, dalla terrazza di sua vita, oh! ancora, per un attimo, di far parte della calma sera. […] E, nel cielo alto, lo zaffiro dell’oceano: che avevan rimirato l’Alvise, […] e Antoniotto di Noli, doppiando capi dalla realità senza nome incontro al sogno apparito degli arcipelaghi. Si sentì ripresa nell’evento, nel flusso antico della possibilità, della continuazione […]. Col pensiero, coi figli, donandosi aveva superato la tenebra: doni delle opere e delle speranze verso la santità del futuro. La sua consumata fatica la riportava nel cammino delle anime. […] Tardi rintocchi: e il lento lucignolo delle vigilie si era bevuto il silenzio. Lungo gli interrighi si insinuava l’alba: nobili paragrafi! […]. Generazioni, stridi delle primavere, gioco della perenne vita sotto il guardare delle torri. Pensieri avevano suscitato i pensieri, anime avevano suscitato le anime. Doloranti patrie la tragittavano verso le prode di conoscenza, navi per il Mare Tenebroso. Forse, così, l’atrocità del suo dolore non sarebbe vana a Dio. (Gadda 1987a: 284-87, miei corsivi)
Nel bilancio operatone dalla memoria, il tempo del soggetto può nuovamente coltivare un progetto di durata. Il passato, riletto e rivalutato alla luce di un riattivato fine morale, può essere inscritto nel profilo di un futuro. Ma di questa rinnovata eticità, di questo tempo riordinato in continuità di soggetti e di forme, di questa ricostituita identità di vita e parole (il nome), la scrittura, nella concentrazione ellittica che progressivamente ne curva in tensione visionaria, e in cifra allegorica, la lirica densità, torna ad esporre l’ambiguo statuto, la intrinseca mancanza di tenuta. Giacché il ricongiungimento del tempo caduco della vita con quello, limpido e progettuale, della ragione morale e biologica, il risarcimento della loro malchiusa ferita, non cresce sulla riappropriazione di una pienezza conoscitiva, ma si alimenta di uno scatto volontaristico della memoria-coscienza.
è quell’etica volontaristica, fiduciosa e velleitaria, a restituire direzione e corpo alla conoscenza: a liberarla dalla sua solitaria prigionia nelle deserte orbite del tempo e ad accompagnarne e proteggerne il viaggio verso mete non ancora toccate, verso realtà ancora innominate. Ma il fondamento di quell’etica, la condizione della sua ripresa, non è razionale, oggettivo: non muove da una «pausa» dell’euresi verso la sua «integrazione». (28) Essa si distende sull’obliqua superficie dell’apparenza, si sviluppa sul piano inclinato di una rappresentazione soggettiva, emotiva, cresciuta tutta nell’ambito dell’invenzione estetica.
Il nome del figlio vivente non risuscita conoscenza – ma ripropone il gioco – il «sinfonismo» – delle parvenze. La Madre, infatti, non conosce: immagina. La sua stremata volontà promuove la ricostruzione etica di un tempo continuo della vita sul presupposto di una rimozione conoscitiva del presente: della sua estinzione nel presente. Il verbo che rievoca la visione della continuità è, appunto, sembrare. L’utopia bergsoniana della ricomposizione della soggettività nella durée può rivivere solo come proiezione estetica. Mentre è evocata, della continuità del soggetto è subito denunciata la radice immaginaria, la costituzione tautologica. E la scrittura, nella pacata meditazione lirica intessuta dall’indiretto libero, sposta e dilata incessantemente i margini della rappresentazione. Non fa centro in una immagine stabile, ma si piega come a duplicare, in una affollata sequenza visionaria, il percorso scentrato del tempo, la irraggiunta «curva del mondo».
E mentre l’etica persegue e reinventa una sua ostinata ma solo ottativa finzione teleologica, la scrittura che la dice si frammenta inavvertitamente, decentrandosi in un ritmo figurativo affollato ma discontinuo, dove la auspicata consolazione si scioglie in nostalgia, e la promessa di realtà e di futuro si stinge in una fideistica implorazione, in una religiosa rivendicazione di senso: «Forse, così, l’atrocità del suo dolore non sarebbe vana a Dio. || Congiunse le mani» (Gadda 1987a: 287). Ma l’unica continuità etica, il fondo «tenebroso» della conoscenza, sembra infine risiedere nella persistenza del dolore, e nella incolmata perdita di un fondamento conoscitivo e morale che gli renda un significato. Proprio evidenziandone la divaricazione dalla verità, proprio in quella disperata richiesta di redenzione logica, la scrittura svela il fondo sdoppiato della ricomposizione etica tentata dalla coscienza, ne ostenta la precarietà di parvenza del logos: di forma cava, bisognosa di una inattuabile «integrazione noumenica». E la coscienza, nella pretesa riedificazione di un presente, si scopre infine solo colma di un morto passato, solo capace di ricapitolarne invano gli eventi, e di fingerne la durata e il possesso in un nome.
Ma neanche il nome del figlio vivente può introdurre, nella riflessione della Madre, un’immagine positiva di stabilità, un efficace riparo alle ingiurie del tempo. Anche il ritratto del figlio, che ella amorosamente disegna, non le reca il conforto di una presenza in cui riconoscersi, di una realtà in divenire a cui ricongiungersi. Gonzalo è come rivolto al passato, chiuso in un presente di solitudine e di silenzio, schermato da una dimessa, rigorosa rinuncia alla comunicazione. Il pathos evocativo che, nella meditazione dolente della Madre, dovrebbe dignificarne e celebrarne la persona, risarcendola della perdita dell’altro figlio, quello «che le aveva sorriso», con la continuazione di una identità eroica, di una sofferenza sublimata in epos, è subito inclinato nel registro ironico, che ne abbassa ed ottunde ogni connotazione epica. E vale a evidenziare l’illusa vanità della Madre, la sua inadeguatezza a riscoprire in Gonzalo l’universo glorioso dei propri valori ormai spenti, e insieme il rifiuto di riconoscerne il dramma doloroso ma grigio, la vicenda oscura e senza eco di gloria né trasmissione di valore:
Il suo figlio maggiore non era un pensionato dello stato, se non da ridere […] (Ma così potevano credere i competenti, non la sua certezza di madre). […] Ella non si capacitava del come le fosse riapparito, oh, in un’alba di cenere […] Era incolume, con poveri anni dentro le grigie controspalline del ritorno. (Gadda 1987a: 287-88, miei corsivi)
Allo straziato compianto del figlio rapitole dalla guerra fa riscontro, nella Madre, la stupita, rassegnata accettazione del figlio superstite, incapace di raccontare la propria esperienza di guerra, mancata di eroismo e di riconoscimenti. E costretto, per questo, a tacerne, per non violarne di menzogneri ricordi la umiliata memoria, per preservarne la povera realtà dalle «gentildonne» della metropoli «assetate di epos» (Gadda 1987a: 289). Ma, chiuso nella mancanza di un epos mai attinto, nell’esclusione dall’«arsenale della gloria», la Madre può rappresentarsi il figlio superstite solo ricorrendo ai modelli di una tradizione letteraria antiepica, la commedia: e confermarne, così, per altra via, la precaria identità di soggetto, e anzi la condizione «inautentica» di personaggio metaletterario e teatrale, (29) di cui già, nella prima parte del romanzo, la «chiacchiera» degradata del «coro» degli abitanti di Lukones, e il complesso gioco prospettico delle voci di quel «cattivo epos», (30) avevano dipinto le sembianze grottesche e preparato, per evocazioni affabulatorie, la malinconica entrata in scena:
Plauto, in lui, non troverebbe il suo personaggio, forse Molière. La povera madre, non volendolo, rivide le lontane figure del Misanthrope e dell’Avare […] nel vecchio libro […] delle sue veglie […]: quando il cerchio della lucernetta, sul tavolo, era l’orbe di pensiero e di chiarità nella incolumità del silenzio. (31)
Il ritratto di Gonzalo è prodotto da uno sdoppiamento: tra un passato museificato in un corpus canonico di figure estetiche immutabili e ancora depositarie di un senso, e le ombre fitte di un presente da cui unica difesa è il ricordo, lo spazio geometrico e atemporale di una memoria racchiusa nel circolo silenzioso della sua veglia, protetta dallo splendore di un pensiero non già rivolto a scrutare il buio che l’attornia, ma a ritrovare nel culto della tradizione letteraria una misura riparatrice e salvifica. E l’arco rammemorativo della scrittura – per dare veste a questa sospensione non conoscitiva (a questa «pausa» non «euristica») del tempo – recinge uno spazio di figure dicotomiche, di «polarità» senza svolgimento: dove il centro luminoso ancora una volta protegge un mondo remoto e fittizio, e resiste all’oscurità che lo assedia; e la luce della conoscenza si riversa e si fissa nell’universo, già noto ed intatto, di un libro. Rappresentare un soggetto disertato dal valore, insofferente delle «fandonie» dell’epos, e dunque portatore, e vittima, di una vocazione inadempiuta, è possibile, alla Madre, solo attraverso il ricorso al patrimonio della conoscenza letteraria, alla sua forma perfetta e vana.
Il figlio pensato «con dolcezza», nella rifluente «possibilità» di un tempo provvisoriamente ritrovato, commuta ora – nell’improvvisa metamorfosi barocca della scrittura, che intermette alle misure elegiache una tonalità funebre e grottesca – le sue sembianze teatralizzate in quelle, stinte ed austere, di testimone silenzioso di una tragedia incomunicabile, e di un’etica rinunzia alla rappresentazione estetica: alla celebrazione inevitabilmente retorica della gloria e degli affetti. La sua memoria non ha speranza né voce, non è impiegabile a costruire una forma. Non allestisce rievocazioni epiche, né addobba di immagini o segni il vuoto che la incide. Essa raccoglie e scolora in silenzio ogni ricordo, o «residuo», del tempo felice. Della perduta presenza, Gonzalo, «reduce senza endecasillabi», non può scrivere – per conservarla, per proteggerla – nemmeno il nome, né effonderne il rimpianto in nostalgia. La verità non ha nomi, la memoria dell’autentico è costretta, per resistere, a tacere, ad allontanare da sé le parvenze seduttive «dei cadaverosi poemi», la venale consolazione dell’iconografia funeraria. La morte – la conoscenza della morte – è un patrimonio non fungibile, un bene da custodire tacendo. È oggetto di una cognizione senza conforto, estremo referente di un valore e di un tempo dissolto. Non è – non può essere, per non tradirla – soggetto di una poesia offerta come una merce sontuosamente sinistra al vorace teatro del mondo:
Dopo recuperate vittorie, gli stampatori della gloria funebre non gli eran più bastate le loro xilografie mortuarie fino ai carmi d’un reduce senza endecasillabi: lampade funerarie e motti e fiammelle e perennis ardeo: tutto esaurito per gli xilografi, sulle coperte dei cadaverosi poemi. I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il nome, la disperata memoria. (Gadda 1987a: 290-91, mio corsivo)
Ma nell’etica ripulsa della menzogna letteraria, nella strenua difesa di una conoscenza non comunicabile entro le fallaci e utilitarie parole della società, si apre la crisi di una memoria che deve, eticamente, tacere per custodire, ed esprimere, l’assenza che ne lacera il tempo e il vuoto che la invade e ne scempia le forme. Nel silenzio della memoria, nel suo tempo contratto in un nome non pronunziabile, Gonzalo esperisce un rassegnato destino di emarginazione, l’ennui di una vocazione conoscitiva conculcata e interdetta, come pri-vata di direzione e di forza («E adesso già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri», Gadda 1987a: 292-93), e costretta a reclinarsi in una solitaria e tetra autorimozione dal mondo della vita («Al tè lungo […] preferiva la strada solitaria della Recoleta»: il cammino meditativo sulla e verso la morte). (32)
E la Madre conferma, nell’incapacità di comprendere il silenzioso strazio del figlio, l’estraneità del suo sapere e del suo codice etico alle contraddizioni del tempo, all’intreccio di vita e morte che ne riannoda la trama discontinua, all’oscillazione regressiva che ritma lo svolgimento del processo euristico: e l’univocità autosufficiente del suo lessico ideale, che oppone alla mediocrità dei riti mondani il culto di un convenzionale e decrepito mondo interiore, gelosamente riparato nel vacuo cerimoniale dei ricordi («Ma queste note erano esterne all’amore della madre, come anche al linguaggio: nell’ambascia de’ suoi giorni spenti ella non aveva mai acceduto alle conversazioni, alle tinnule conglomerazioni della buona società», Gadda 1987a: 292). Nella maschera malinconica e taciturna del figlio vivente, la Madre, ostinata a cercarvi la continuazione compensativa di quello perduto, non vede i segni di una soggettività espropriata del futuro, i frammenti di una identità discontinua, umiliata. In lui il tempo non potrà riprendere forma e durata: né la memoria potrà gratificarsi della sua «riapparita presenza», ma solo misurarne l’intermittente rifrazione in assenza, l’incessante alternanza di ritorni e commiati dalla casa che dovrebbe riunirne l’inquieta mobilità di «migrante» all’immobile – «sedente» (33) – tempo interiore della Madre, e rasserenarne il turbato silenzio nel silenzio ordinato e perfetto del passato.
Dopo la troppo breve pausa di speranza offertale dal pensiero del figlio, abbandonato l’osservatorio – il terrazzo-palcoscenico dove i due protagonisti recitano la loro tragedia gnoseologica (34) – da cui contempla, come in un quadro o in un libro, le parvenze lontane e dolci della vita, la Madre rientra ad immergersi nel suo desolato teatro domestico, ormai dominato dall’immanenza distruttiva del tempo esterno. Qui, infatti, i suoi opachi araldi – i giornali, le mosche – tornano a preannunziare una fine imminente, insensata. Nell’attimo in cui si arresta l’ossessiva danza degli insetti, che replica, nel ristretto spazio della casa, il disordine – la «discongiuntura» logica delle «possibilità» (Gadda 1987a: 110) – giacente al fondo della diacronia astrale, la Madre torna a cercare, negli oggetti residuali del passato – nella loro «molteplicità» dinamica contratta nella unità statica del segno –, i simboli dell’altra dimensione temporale: quella, interna, della memoria. Ma questa non può restituire più il passato, perché non si riesce più a riaprirne lo scrigno:
Quando le mosche, per un momento, si ristavano dal loro carosello, […] allora nel cosmo labile di quella sospensione impreveduta udiva più distinto il tarlo a cricchiare, […] nel vecchio sécretaire di noce ch’ella non riusciva più a disserrare. (35)
La conoscenza ha come smarrito il suo percorso: la memoria, oscurata da «ombre dolorose», non può soccorrerla. Il miniaturizzato museo domestico del tempo, il «vecchio sécretaire» dove sono custoditi i resti consunti di una vita trascorsa nel culto dei valori e del decoro, rimane chiuso, impenetrabile come il tempo esterno e ostile del cosmo. La momentanea intermissione del fatuo volo funerario delle mosche, messaggere del tempo e della morte, apre il campo all’ascolto – in un’anticipazione delle condizioni percettive sottese alla tragica cognizione del Figlio –: e la Madre può udire il suono – lo scavo inarrestabile del tarlo – che ritma, del suo armonico tempo interiore, il destino di estinzione, rimarcando la frattura tra il soggetto e la sua Forma (il passato), tra la «possibilità» euristica e la ricapitolazione mnestica che ne finge invano la inadempiuta continuità. Il reliquiario del passato contiene i reperti di una esperienza irrevocabile, perduta. Ma subito la ricrescente tensione nostalgica – come per una dimessa rassicurazione – è calata nell’amara banalità del presente, nella dissonante nuance ironica del pensiero monologante, che ne fende e revoca l’ascensione lirica: «Ma non le mancavano, por suerte, delle forbicine di riserva: tre paia, anzi» (Gadda 1987a: 294).
E nella ridiscesa alla «crudeltà» insostenibile del presente, il pensiero della madre rinnoverà ancora l’angosciata sequela delle sue domande senza risposta, e vedrà offuscarsi la sua identità di «persona», la sua antica, consumata funzione generatrice di vita, nella spettrale sopravvivenza di un’ombra. L’essere – la sua pretesa di unità e di durata – si ritrarrà in un segno: nella stremata sembianza di un addobbo senile; fermandosi a contemplare, nelle icone delle perdute presenze familiari, lo svuotamento radicale del tempo, l’immanenza di un futuro inappropriabile («il sopravvivente domani», Gadda 1987a: 295). E dalla torre, come ad anticipare, in una sdoppiata focalizzazione, il disvelamento euristico – a chiusura del VII tratto – del dolore inscritto nella forma svuotata del tempo, in una esplicita ripresa di un topos leopardiano, (36) le giungerà il cadenzato messaggio di un «tempo finito», di una stagione rituale e declinante, di una memoria ora nemica alla coscienza, non più custodia del tempo, ma «crudele» e meccanica riaffermazione della morte del tempo:
Poi, quasi un rito della stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi, eguali. E le pareva memento innecessario, crudele. (Gadda 1987a: 295)
Anche l’universo delle forme estetiche è dunque invaso dal tempo, che non vi deposita più esperienze e valori, ma ne svela ormai la perdita. La torre (37) non simboleggia più una durata, una difesa: da essa provengono i suoni che scandiscono il vanire della «possibilità», e ribadiscono la prossimità di una fine irrevocabile. E lo stesso modello shakespeariano non offre più una forma in cui raccogliersi e ricomporre, nella compiuta unità sincronica della parola tragica, i moti di una diacronia dolorosa. Dirne «ancora qualche verso», per la Madre, non vale a trattenere la coscienza al riparo dal tempo che ne compie la consunzione, ma a dissipare nella molteplicità dei segni la lingua di una verità oscurata, scissa per sempre dalla memoria e non più protetta dalla poesia, che può ora solo cingerne in silenzio l’assenza. La poesia non è più illuminata dalla conoscenza: l’armonia dei versi si frammenta in discontinue, immemori «sillabe», (38) si disperde nella «notte» in cui si estingue il luminoso tempo dell’essere, lo svuotato splendore di un sapere letterario ormai senza riscontro:
Ella aveva tanto imparato, tanti libri letto! Alla piccola lucerna lo Shakespeare: e ne diceva ancora qualche verso, come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte. (Gadda 1987a: 296)
Ma la parola frammentata che sprofonda nella notte non è quella, ormai impronunziabile, della durata conoscitiva e della sintesi espressiva. È già il reperto di un mondo pietrificato, defunto, di una «stele» che un tempo adespota, senza più il governo di una gnoseologia ordinatrice, ha infranto nel suo movimento cieco ed ostile. Il patrimonio letterario della coscienza-memoria non possiede la sintesi di un mondo: è la spettrale figura della fine di quel mondo, del suo tempo intessuto di certezza e valore. E le sue rappresentazioni non liberano immagini di verità: restano chiuse nell’ameno ed estremo inganno di una visione, resistono nella contemplazione di un idillio esterno alla dimora dei soggetti, nella pittura verbale della quieta malinconia di una stagione, della sua dolcezza sfinita, delle sue luci declinanti e smorzate, ove si specchia, nell’inazzurrato scenario della campagna al tramonto, la lontananza incolmabile della vita, la consolazione di una «euresi» pacificata e come bloccata nella «pausa» senza tempo della finzione estetica, vana alla stanca attesa della coscienza, alla sua stremata rivendicazione di un ritorno, di una soccorrevole vicinanza («avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità», Gadda 1987a: 297), di un’apparizione che rechi ancora, nel deserto domestico, il conforto e la realtà di una presenza, la conferma rasserenatrice di una «adempiuta» continuità. «Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa».
Lo sguardo della Madre, dapprima levato, a risalire lungo lo schermo del tempo passato, al cielo, a cercarvi, nella «bionda luce» della morte, la disparita presenza del figlio diletto e perduto, è dunque disceso all’orizzonte domestico, alla soglia che segna il confine tra lo spazio secluso dell’attesa e il tempo, senza compimento né riparo di forma, del presente: del «figliolo» che potrebbe ricolmarne il vuoto, risarcirne la lacera trama. Ma la «bionda luce» era l’immagine su cui – come in limine ad un allusivo, germinale schema di poetica – si arrestava la meditazione filosofica giovanile di Gadda-Gonzalo (Meditazione, SVP 849). E demarcava l’estremo confine dell’attività conoscitiva: il suo tempo senza virtù costruttiva, in cui l’essere non si alimenta più della «luce della conoscenza», ma si consuma nel viaggio sprotetto dell’euresi, fino a mostrarsi nell’immoto, delicato splendore (la «bionda luce») che evoca e sancisce l’arresto del tempo, la sua estinzione nella purezza spettrale di un’immagine vuota.
La visione della Madre sarà nuovamente sorretta dalle figure mitiche di una tradizione letteraria convocata a integrare di valenze morali le geometrie mute del cosmo, e a ricomporre la forma duale del tempo, sdoppiata tra assenza e presenza, tra vita e morte, tra memoria e conoscenza, nel segno salvifico di una ritrovata unità etica («dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva!»). (39) Ma il figlio così lungamente atteso e invocato vanificherà l’incanto della visione: comparirà avvolto di sembianze perturbanti ed estranee, che sembrano vietarne il riconoscimento – confermando lo sdoppiamento costitutivo della sua persona, la sua ambiguità di personaggio portatore, ad un tempo, di consolazione e di lutto, di conoscenza e dolore, di continuità e morte –, disegnandosi, sulla soglia di casa, «come l’ombra di uno sconosciuto», proveniente dal terrazzo-palcoscenico sul quale i soggetti di questo «dialogo gnoseologico» agiscono la tragedia della loro cognizione, scissa tra un interno inabitabile e un esterno ingovernabile, irraggiunto dalla volontà di forma che è il portato della loro ansia conoscitiva; e caratterizzandosi, nel misero bagaglio, come un «venditore ambulante di fazzoletti» (Gadda 1987a: 300). Cioè come un «migrante» che non percorre i cammini luminosi della conoscenza, ma si aggira nell’opaco labirinto della parvenza e dell’inganno, nel mondo delle macchine e della merce: come il «commerciante di stoffe» comparso, all’inizio del romanzo, a smascherare nella sua ciarla una falsa identità che contiene un’ombra di delitto e di morte. (40)
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Note
1. Gadda 1987a 255. Ha recentemente richiamato l’attenzione su alcune problematiche connesse alla genesi della Cognizione del dolore e alla sua tormentata vicenda editoriale Fagioli 2000: 38-64.
2. Gadda 1987a: 258-59. In ordine alla corretta interpretazione della terminologia scientifico-astronomica qui adibita da Gadda a intensificare, nel rigore della astratta precisione lemmatica, il timbro lirico, importanti osservazioni fornisce E. Manzotti nelle sue Note di commento al testo della Cognizione (Gadda 1987a: 258-59, note ai rr. 40-42).
3. Gadda 1987a: 259-60. Dell’immagine delle nuvole, «spunto tematico» tra i più ricorrenti e semanticamente pregnanti della Cognizione e di tutta l’opera gaddiana, ha offerto analisi illuminanti quanto rigorose Manzotti 1993c: 35-43.
4. Si veda, al riguardo, la suggestiva lettura delle figure dell’episteme barocca proposta da S. Sarduy, Barroco, Paris, 1975, poi, in trad. it., Milano: Il Saggiatore, 1980 (spec. le pp. 48-68).
5. Cfr. Meditazione milanese, II stesura, par. 2°, «La grama sostanza», SVP 866, e I stesura, par. XXV [«Il metodo«], SVP 842.
6. G. Patrizi, nella sua lucida analisi della Cognizione (Patrizi 1975b: 167-186), rileva che «nell’iconologia funeraria gaddiana sono le mosche a occupare il luogo principale» (176), riprendendo la dettagliata catalogazione di questa «associazione tematica» fornita da Roscioni 1975: 48, n. 1, e 63. Manzotti, nel suo commento alla Cognizione ricorda, in altra occorrenza, che le mosche, come il tarlo, esprimono «la persistenza o il progredire indifferente della vita» (Gadda 1987a: 295, nota di commento al r. 446). Si tratta, comunque, di emblemi di un tempo estraneo, abissalmente indifferente, al «divenire» dei soggetti: schermo, per questo, della cieca «polarità» del non-essere.
7. Una analisi decisiva della valenza allegorica della scrittura della Cognizione è offerta dall’importante studio di R. Luperini (Luperini 1986 e 1990).
8. Cfr. Patrizi 1975b: 176. Ma cfr. in generale tutto il saggio, ricco di penetranti osservazioni.
9. Cfr. i puntuali rilievi di Manzotti nel commento alla Cognizione, passim.
10. Sulla scrittura «mnestica» di Gadda, cfr. le dense indagini di C. Bologna (Bologna 1988 e 1998).
11. Cfr., almeno, Papponetti 1984a, e l’ampio e documentato Zollino 1998.
12. è il binomio adibito da Gadda a circoscrivere il mondo fisico e mentale del suo romanzo «poliziesco», dove «incantagione e paura sembrano a volte insistere nei luoghi e nelle menti» (Incantagione e paura, SGF I 1215).
13. Gadda 1987a: 79. L’affermazione, eticamente pregnante, conclude un brano a suo tempo sottoposto da Pasolini a un’analisi stilistica per molti aspetti memorabile: cfr. Pasolini 1963: 61-67.
14. Gadda 1987a: 260-61, mio corsivo. È da rilevare come l’uragano agisca sullo spazio dell’interiorità, cioè della conoscenza etica e scientifica del soggetto, commutandone l’assetto chiuso e la direzione «ordinata» in una dimensione aperta, senza centro: una nave metaforicamente ridotta dalla tempesta (dal potere del «male» inscritto nella natura) al bateau ivre dal quale solo è possibile esercitare, per il filosofo della «deformazione», una conoscenza che non dimentichi la propria, necessaria condizione di instabilità ateleologica.
15. Gadda 1987a: 263-64. L’insistenza cumulativa di verbi e immagini discenditivi, come segnala Manzotti, «muta il rifugiarsi [della Signora] nel sottoscala in simbolo di tragica discesa agli Inferi» (Gadda 1987a: 263, nota ai rr. 94-95).
16. Si veda, tuttavia, la densa lettura di Gioanola 1987 (1977).
17. Si veda, al riguardo, l’illuminante analisi che di tale questione ermeneutica ha condotto Luperini 1986 e 1990.
18. Meditazione, SVP 869: «La deformazione logica […] implica […] la necessità di un permanere, di un essere, quando ella debba attuar sé medesima. Non può una figura cangiare se non assommi rapporti molteplici, di cui alcuni permangono attualmente non alterati: ché un’alterazione, un’alloiosis pura, od assoluta, o totale che dir si voglia, non è pensabile se non come negazione ed annichilazione del quid teoretico nucleante quella figura»: dove, nella esemplificazione geometrica della «deformazione logica», sembra profilarsi l’accesso ad una tematizzazione in immagine (e dunque, banalizzando, anche in ambito lato sensu estetico) del «processo deformatore». Ma sembra soprattutto da sottolineare che il pensiero «filosofico» gaddiano si svolge per astrazioni comunque bisognose di attuarsi in una dimensione rappresentativa, integrando il codice epistemologico con quello letterario.
19. Cfr. L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore (prefazione dell’Autore, in forma di dialogo fittizio, «stesa immediatamente a ridosso dell’ed. einaudiana del ’63», ma «progettata quasi un decennio prima», come informa Manzotti, in Gadda 1987a: 478), in Gadda 1987a: 479-93 (la citazione è da p. 484). È da rilevare che la nozione gaddiana di «molteplicità», pur risentendo di una suggestione bergsoniana, tende ad attestarsi sul versante dell’epistemologia primonovecentesca (da Riemann ad Einstein), nel segno, ovviamente, del paradigma logico leibniziano. Sulla durata indivisibile della molteplicità propria del tempo secondo il Bergson di Durée et Simultaneité è da vedere il saggio di G. Deleuze, Il bergsonismo [1966], Milano, Feltrinelli, 1983, spec. le pp. 67-83.
20. Sulle complesse strutture delle tipologie descrittive nella Cognizione (e, più latamente, in tutto l’opus gaddiano), analisi articolate quanto rigorose svolge Manzotti in Manzotti 1995, e nel par. 5.4 (Due modi di descrizione «metonimica», la descrizione per varianti alternative, e la descrizione commentata) di Manzotti 1996.
21. Cfr. supra, n. 2.
22. Cfr. Sarduy 1980: 48-68 (v. supra, n. 4), per questa interpretazione dell’ellisse come figurazione geometrica di una bifocalità dicotomica del tempo e dell’essere.
23. Meditazione, Postille e note d’autore (a c. di P. Italia), in SVP 1329 (dalle annotazioni dell’A. alla p. 73 dell’autografo, datata «6 maggio 1928»). Cfr. Gadda 1974a: 346, per la precisazione, ermeneuticamente assai importante, del curatore Roscioni in ordine al riferimento di Gadda, in questa Postilla, alla interpretazione spinoziana del Guzzo.
24. Roscioni segnala la derivazione dal King Lear – in una partitura di romanzo «tutta risonante di echi shakespeariani» – del «motivo della tempesta annunciatrice di desolazione e di morte» (Roscioni 1975: 101). Una serrata analisi intertestuale del quinto «tratto» della Cognizione è condotta da Donnarumma 1994: 35-66.
25. «Dalla terrazza, nelle sere d’estate, ella scorgeva all’orizzonte lontano i fumi delle ville» (Gadda 1987a: 277 et ultra). È da rilevare che tutto il brano si disegna come «polarità» iconica opposta e complementare alla straziata epifania del dolore che chiude il VII «tratto» dell’opera.
26. Ma cfr. Gorni 1972: 87-96, e la nota di commento di Manzotti in Gadda 1987a: 284, rr. 313-14.
27. Ibidem; e cfr. supra, n. 6.
28. Cfr. «questo infinito annodarsi, verschlingen, del reale si raggruma, si coagula in […] pause dell’euresi» (Meditazione, SVP 815).
29. La «sovrapposizione di molteplici reminiscenze letterarie e figurative» nella costruzione iconica e drammatica «dei due protagonisti» della Cognizione è stata acutamente indagata da Roscioni (Roscioni 1969b: 92 sgg., poi in Roscioni 1975: 161-74).
30. Dietro la stratificata teatralità del personaggio, C. Benedetti ha individuato una coalescenza di rabbia e malinconia, nel segno di un «espressionismo» gnoseologico ed etico (Benedetti 1983: 124-39).
31. Gadda 1987a: 289-90, miei corsivi. Cfr., nel Racconto italiano, l’inizio della «Secunda Synphonia», dove si apre una scena che, tutta giocata sulla antitesi luce/buio, costituisce una sicura matrice intertestuale di quella ora riportata (in SVP 554). Al riguardo, si vedano le osservazioni di F. Bernardini Napoletano 1987: 213 sgg.; nonché quelle di M. Fratnik 1990: 90, n. 51.
32. Gadda 1987a: 291-92. Manzotti fornisce (nota di commento a Gadda 1987a: 290, r. 397) gli opportuni ragguagli e i relativi riferimenti intertestuali.
33. Per ricondurre i due protagonisti della Cognizione alle tipologie etico-letterarie istituite da Gadda nella fondativa riflessione di poetica del ’27 (I viaggi, la morte, SGF I 562 sgg.) in rapporto alla dimensione «temporale» (etico-logica) della scrittura. Ed è significativo che qui le due posizioni risultino contrapposte in un nesso problematicamente allegorico.
34. Se ne veda l’anticipazione nel III «tratto» (Gadda 1987a: 159-60), dove Gonzalo, nel colloquio col medico, accede per la prima volta allo scenario della sua relazione «estetico-teoretica» col mondo.
35. Manzotti, nella nota di commento a Gadda 1987a: 139, r. 12, rilevando la funzione di scansione del tempo attribuita al tarlo da Gadda nelle sue opere, ne sottolinea – nella Cognizione – la complementarità simbolica alle mosche, in quanto «correlato di una dissoluzione che precipita verso la morte e il nulla» (Gadda 1987a: 139-40, nota al r. 12). Il topos del tarlo divoratore riferito alla edace azione del tempo è, tra l’altro, in uno degli auctores canonici di Gadda (Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 74, v. 5).
36. Rilevato da E. Flores, con riferimento alle I, vv. 50-51 (Flores 1964: 394). Ma cfr. le note di commento di Manzotti, in Gadda 1987a: 295, r. 448, r. 449 e rr. 449-50: dove l’esegeta adduce occorrenze dantesche e fogazzariane.
37. Sul tema gaddiano della torre cfr. Múzzioli 1987: 189-99.
38. Non più luoghi di concentrazione della memoria, e dunque depositi di un tempo conoscitivo che dura, ma frantumi di una conoscenza che un tempo senza luce di forma oscura e disperde in oblio. Ma cfr. Múzzioli 1987: 194.
39. Gadda 1987a: 299, miei corsivi. E cfr. Rinaldi 2001: 33-86 (spec. 46 sgg.)
40. Cfr. Gadda 1987a 28: «Le prime dicerie circa la vera identità […] di Pedro ridivenuto Gaetano, […] si sparsero in quel di Lukones […] per merito di un «commerciante» dalla lingua piuttosto sciolta […]». Ma cfr., soprattutto, Gadda 1987a: 38-40.
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