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«Mirabilia Urbis Romae»
Gadda e il culto di Roma
Manuela Bertone
In ricordo di Robert S. Dombroski
In Quer pasticciaccio brutto de via Merulana Gadda elabora la più ampia ed imponente rappresentazione di Roma dell’intera sua opera. Il Pasticciaccio ha alimentato, com’è noto, un’intensa produzione di indagini critiche che superano, almeno in termini quantitativi, l’insieme degli scritti dedicati agli altri testi di Gadda. Le letture dedicate al romanzo si sono concentrate soprattutto sulla disamina degli originalissimi protocolli strutturali, linguistici e stilistici attivati da Gadda, oltre che sullo svolgimento del fitto tessuto gnoseologico elaborato dalla e nella scrittura. L’analisi del romanzo romano di Gadda non ha mai smesso di crescere ed approfondirsi, ma la Roma del Pasticciaccio, sebbene quasi sempre inclusa nello spettro esegetico, non è mai stata presa in considerazione come punto di arrivo del discorso romano di Gadda. Di fatto, il discorso romano di Gadda prosegue e viene ultimato con il Pasticciaccio, e per capire davvero le ragioni per cui Gadda completa e chiude il proprio itinerario creativo sfigurando Roma non ci si può limitare a leggere il grande romanzo di Roma come unità autonoma: occorre invece volgersi verso gli scritti del pubblicista promotore della romanità in epoca fascista, verso quelli dell’ufficiale della guerra ’15-’18 che venera l’idea di Roma, verso le prese di posizione del giovane di buona famiglia la cui educazione è segnata dall’apprendimento dei valori della latinità classica. È necessario, insomma, tener conto di una dimensione contestuale ampia, della formazione culturale di Gadda e di tutte le pagine da lui dedicate, negli anni, a Roma: pagine nelle quali vengono edificati i miti che alimentano e sorreggono l’immaginario gaddiano (il mito di Roma e il mito del Risorgimento anzitutto) ben prima che il degrado ovvero il crollo dei miti vada a costituire, paradossalmente, il sostegno portante del Pasticciaccio; pagine che, prendendo a prestito una felice formula di Giulio Ferroni, potremmo definire come «autobiografia di Roma, autobiografia della nazione». (1)
La convinzione che un percorso di ricognizione a ritroso (nel tempo degli eventi come nel tempo della scrittura) è di sicura utilità, viene confortata dai termini della stessa filosofia gaddiana, quale la vediamo snodarsi nelle pagine Meditazione milanese, e quale la vediamo discendere dalle cogitazioni dal commissario Ingravallo nell’esordio del grande romanzo di Roma:
Sosteneva, tra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare, ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale», gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi […].
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». (RR II 16-17)
Gadda consiglia di risalire passo dopo passo verso la «molteplicità di causali convergenti», verso i molteplici motivi che si concatenano e si incastrano per produrre un effetto, il «fattaccio» che, nelle circostanze in esame, è ovviamente il Pasticciaccio. Decidere di seguire un itinerario simile a quelli che caratterizzano le indagini conoscitive di Ingravallo significa scegliere di procedere per proiezioni successive che consentono di evitare i sentieri già battuti, i percorsi preordinati, le prese di posizione concepite o concepibili sulla base di apparenze fuorvianti o, peggio, del solo vaglio di pagine scelte.
è certamente difficile resistere alla tentazione di propendere per un’interpretazione ideologica della rappresentazione di Roma, del discorso su Roma e sulla romanità elaborati da Gadda. Per un verso, numerosi indizi inducono a pensare che la raffigurazione cruda e crudele della Roma fascista caratteristica del Pasticciaccio può senz’altro essere accolta come sicuro documento dell’antifascismo di chi l’ha scritta. Per un altro verso, guardando agli scritti degli anni ’30 e ’40, si tenderà a credere che Gadda è un campione (fascista) del culto fascista di Roma. Ripercorrendo invece progressivamente tutte le strade romane percorse da Gadda, è possibile dimostrare che, al di là delle ingannevoli apparenze, il suo percorso non è affatto minato da contraddizioni di tipo ideologico e che Gadda non andrà affrontato sul terreno dell’ideologia, perché è su altre basi che egli edifica (o demolisce) Roma nei suoi scritti. Le analisi che seguono si vogliono rispettose del discorso gaddiano sui valori della cittadinanza e degli ideali che caratterizzano tutte le sue pagine romane, e si distolgono dall’ideologia e dalle letture ideologiche: potrebbero pertanto intendersi come contributo ragionato e costruttivo al dibattito letterario sul fascismo/antifascismo di Gadda. (2)
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Di Adele Lehr (e, tangenzialmente, del marito Francesco Ippolito Gadda) conosciamo soprattutto le carenze come educatrice dei figli, ampiamente documentate nel romanzo autobiografico del primogenito Carlo Emilio, La cognizione del dolore. La sintesi più esauriente delle angherie subite dal figlio a causa del «sadismo materno» è affidata ad un frammento rimasto a lungo inedito, il cui titolo, Cui non risere parentes, nonostante sembri tagliente e ultimativo, contiene una modulazione consolatoria che la madre, per quanto sadica, ha saputo introdurre nell’esistenza del figlio. (3) Infatti, se l’autore di questo frammento – colui al quale i genitori non hanno sorriso – si serve del latino, se va ad attingere le sue parole in un’Egloga di Virgilio, se quindi è in grado di porre tra sé e il suo dolore lo schermo di una cultura egregia e pertanto riesce ad intellettualizzarlo, questo suo dolore, trasformandolo in conoscenza-cognizione, è precisamente perché la madre gli ha trasmesso, fin dalla più tenera infanzia, quel prestigioso patrimonio linguistico, letterario, storico, ma anche etico e morale, costituito dalla latinità classica, che rappresenta una fonte inesauribile dalla quale egli non smetterà mai di cercare sollievo. Il riferimento al patrimonio della latinità è in Gadda una sorta di riflesso automatico: di conseguenza, l’effetto immediato di antidoto che esso produce non è tanto il risultato di una ricerca ostinata quanto la risultante di una credenza profondamente ancorata nella mente, che si riaffaccia da sé, senza sollecitazioni puntuali, come dimostra il brano che segue, tratto da una pagina autobiografica, Impossibilità di un diario di guerra:
Certo che la stanchezza, la fatica, l’ebetudine, la macerante attesa, e poi le atroci esperienze, l’odore di interi reggimenti accatastati ad aspettare il destino, e quei volti destinati allo spasimo […] qualche volta, dopo ore e giorni, mi ridussero meno che un cencio. Ma la mia rabbiosa retorica ogni volta riemerse, come la stirpe di Roma in Orazio: «Merses profundo, pulchrior evenit». (Castello, RR I 137)
Se rammentiamo anche lo stralcio della Cognizione in cui Gonzalo, irato, lancia fulmini di collera contro la madre per una banale questione di pollame, poi d’improvviso si placa grazie all’irruzione provvidenziale di una certa immagine, ci accorgiamo che è in atto la stessa dinamica: «poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse….”» (Gadda 1987a: 307-08). La parola-chiave è qui reminiscenza, che indica per l’appunto il ricordo di uno stato anteriore dell’animo il cui riaffioramento, produttore di conoscenza, non è e nemmeno può essere cercato o scatenato di proposito.
Adele ha quindi armato Carlo Emilio della fede in una lingua, in determinate pagine, in una serie di valori portatori di soccorso, di ispirazione, di lenimento, esattamente come altri genitori decidono di condurre i figli verso la sfera della religione. Personificazione impeccabile della mater romana, severa e rigorosa fino all’intransigenza, decisa ad accollarsi il compito di inculcare nel figlio il senso dell’appartenenza a una gens, a una patria, a una tradizione, Adele Lehr vota a Roma un vero e proprio culto, che il figlio abbraccia ed osserva prima con lei, poi in proprio, integralmente. (4)
Gadda esercita il culto di Roma seguendo pratiche antiche, secolari, tramandate dagli auctores che ne sono i testimoni-propagatori, ma nell’ambito di questa tradizione vi sono inflessioni che preferisce ed altre che interpreta liberamente, discostandosi dall’ortodossia. Notiamo anzitutto che il suo culto si fonda su un’ammirazione smisurata per la Roma repubblicana, per gli splendori di un’epoca di espansione e prosperità il cui declino inizia con l’assassinio di Cesare. E ricordiamo che Adele Lehr è autrice di un testo, pubblicato nel 1886, intitolato Contributo alla storia romana dalla morte di Giulio Cesare alla morte di Cicerone. Cesare e Cicerone – vale a dire lo stratega e l’intellettuale – muovono dalla scrittura della madre per innestarsi nell’immaginario e nella scrittura del figlio: come la madre, Gadda è affascinato dal Cesare conquistatore e dal Cicerone pensatore, certo non dal dittatore né dall’oratore che arringa pro domo sua, come dimostrano il suo attaccamento affettivo-ossessivo al De bello Gallico e al De officiis, veri e propri testi-feticcio continuamente convocati sotto la sua penna. (5) Gadda conosce perfettamente, è chiaro, il periodo storico che segue la morte di Cesare e Cicerone, ma non in quella Roma, la Roma imperiale, trova le gesta edificanti che gli sono care: legge ed evoca Tacito, ma è Tito Livio a strappargli l’elogio; le gloriose battaglie che ispirano le sue riflessioni militari sono quelle di Roma contro Cartagine, non quelle della grande stagione imperiale; Claudio, Nerone, Tiberio, (6) sono soltanto, nelle sue pagine, penose caricature del potere romano; ma nemmeno Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, riesce a catturare la sua attenzione e, di fatto, brilla soprattutto per la sua assenza nell’opera gaddiana.
Non bisogna tuttavia credere che Gadda si dedichi soltanto alla dissezione del passato remoto, dimenticando il ruolo che l’Urbe svolge nella storia italiana più prossima. Capitale del Regno d’Italia, simbolo della Patria, Roma funge da catalizzatore delle energie che hanno condotto all’unità nazionale; e questa Roma, concreta e reale quanto idealizzata, nutre il culto gaddiano insieme a quella dei fasti repubblicani. Lo slittamento, in Gadda, della storicità di Roma verso un ideale, la trasformazione di Roma nell’idea di Roma, vanno intesi e collocati nell’ambito dell’evoluzione del mito di Roma che giunge al parossismo durante il Risorgimento e sopravvive ben oltre la proclamazione, nel 1870, di Roma capitale. Ma, ancora una volta, il fatto intimo-soggettivo si aggiunge a quello storico-collettivo, poiché la venerazione per il movimento più recente della storia italiana, il Risorgimento appunto, che ha considerato Roma, conquistata tardi, come supremo punto di riferimento ideale, fa anch’essa parte degli insegnamenti di Adele Lehr. Le idee e gli ideali del Risorgimento vivono e prosperano nella famiglia Gadda come se facessero parte della più stretta attualità. A tal punto che, in una scheda autobiografica redatta nel 1963 come nota da inserire in un volume enciclopedico dedicato alla letteratura italiana, il Gadda settantenne include le informazioni seguenti: «forti immagini risorgimentali, senso nazionale fin dall’infanzia, anche per intervento della madre». (7) Il fantasma del prozio Giuseppe Gadda, senatore e ministro nel governo Lanza-Sella, il monito che questi ha lanciato agli eredi nel presentare i momenti chiave del Risorgimento, sembrano assillare ancora la mente di Gadda vecchio come certamente lo infiammarono da giovane: «I nostri nipoti devono apprenderli e tenerli presenti al loro pensiero come la religione degli avi, perché la patria fu allora la religione del popolo italiano». (8) Date le premesse, è facile capire perché, prima della chiamata alle armi del 1915, Gadda partecipi alle manifestazioni interventiste convinto che il paese debba combattere una quarta guerra di indipendenza per portare a compimento, attorno al nucleo storico-ideale di Roma, il processo di unificazione. Attraverso la guerra, Gadda desidera proseguire l’opera dei suoi che hanno combattuto in passato per la causa italiana nel periodo glorioso che la madre gli ha ampiamente illustrato. Il suo slancio lo conduce infatti a definire la guerra «necessaria», ma anche «santa» (Giornale, SGF II 533); e con lo spirito del combattente per la fede si arruola volontario allo scoppio del conflitto. La sua religione è quella degli avi e del popolo italiano: la patria.
Il sacro amor patriae gaddiano si distingue per essere costantemente irrorato, come da una linfa vitale, da una particolare percezione della romanità e della latinità, che consiste nell’escludere di concepirle come semplici retaggi di un passato concluso e archiviato di cui, nell’oggi, ci si può accontentare di cogliere e recuperare le valenze simboliche. Gadda si impegna senza risparmio, come abbiamo visto, sul terreno dell’idealizzazione di Roma e del patriottismo, ma, nel contempo, sottopone la Roma antica ad un curioso processo di attualizzazione. La Roma antica, quanto la Roma capitale dell’Italia unita cara al popolo italiano, è presente, vive e si impone nella scrittura come punto di riferimento concreto e tangibile, contemporaneo della scrittura stessa. Così, in Dal Castello di Udine verso i monti (1931), il ritorno alle ore gloriose del conflitto lo induce a presentare il suo stato d’animo di allora in questi termini: «Sognavo una vivente patria, come nei libri di Livio e di Cesare» (Castello, RR I 152).
Alcuni anni prima, mentre schizzava il profilo del tenente Tolla per approntare la stesura del Racconto italiano di ignoto del novecento, aveva scritto: «La lettura di Cesare lo aveva profondamente appassionato tanto che aveva pensato di scrivere lui pure dei commentari, ma gli mancava la guerra delle Gallie» (SVP 450). Come osserva Giancarlo Roscioni nella suo saggio biografico, è proprio la guerra delle Gallie che smette di «mancare» al tenente Gadda nel 1915, e il suo diario di combattente sarà redatto seguendo lo stile degli antichi «commentari».
L’esempio forse più significativo di attualizzazione è reperibile in un lungo stralcio testuale di Elogio di alcuni valentuomini (1931) in cui Gadda esamina il pessimo comportamento strategico di alcuni ufficiali italiani nella prima guerra: egli rimanda direttamente al genio militare di Cesare, alle imprese militari della X Legio, alle pagine del De bello Gallico, come se fossero fonti di ispirazione fruibili e ovvie per la sua epoca, verso le quali avrebbero fatto bene a volgersi gli ufficiali italiani per mettere a punto tattiche e mosse efficaci. Non c’è dunque da sorprendersi se, non conoscendo la dinamica delle azioni di Cesare, il suo libro, i suoi dettami, gli ufficiali, i comandanti in capo dell’esercito italiano, «naufraghi del latino», si sono dimostrati incompetenti nel ’15-’18 (RRI 132).
Quest’ultima osservazione riguardante la lingua è un ulteriore segnale della costante davvero originale dell’attualizzazione della Roma antica diffusa nei suoi testi. Per Gadda, il latino è uno strumento linguistico che viene addizionato alla lingua principale, ovvero uno strumento aggiuntivo di percezione del reale. Ma, proponendo una descrizione tanto generica, si rende conto solo in parte dello stato reale delle cose. Infatti, Gadda non vuole essere considerato come un semplice non-naufrago del latino o un qualunque ex-studente bravo in latino e non attribuisce al latino, al suo latino, la posizione per così dire in subordine che spetta ad una lingua seconda. La formula usuale di lingua morta, poi, è per lui impossibile, è propriamente vuota di senso. (9) Gadda considera invece il latino come una dimostrazione dell’esistenza di un patrimonio genetico e immagina se stesso come portatore di un gene regolatore che fa del latino una lingua innata, non certo acquisita. Ne Il latino nel sangue, scritto nel 1959, afferma appunto che un legame biologico, vitale, unisce l’italiano e «la lingua razionale, la lingua […] di fondo, la lingua base» che ha generato «la mens moderna e la forma logica dell’espressione moderna» (Il latino nel sangue, SGF I 1157, 1162). Se il latino scorre nel sangue vuol dire che non è un semplice elemento del patrimonio culturale, bensì uno dei vari schemi preprogrammati che – come oggi sappiamo – definiscono il comportamento linguistico di un individuo, cioè una componente della lingua d’origine, della madrelingua. Pertanto i romani sono ben più che avi simbolici di tutto un popolo: sono i fondatori di una robusta stirpe di cui gli italiani sono gli ultimi rampolli. D’altro canto, l’idea che il latino costituisca una sorta di imprint genetico che andrebbe sfruttato ad ogni costo (pena la sua scomparsa e il naufragio del locutore negligente), era già stata tratteggiata da Gadda, in nube et in aenigmate, in un testo del 1942, L’Istituto di Studi Romani, in cui tesse l’elogio del centro di studi voluto da Mussolini poco dopo l’ascesa al potere ed incaricato di «avvivare la conoscenza della romanità» (SGF I 864). Siccome l’Istituto si è avviato alla compilazione di un vocabolario della lingua latina, Gadda si avvale dell’occasione per impegnarsi in una lunga riflessione sulla genesi di quest’opera monumentale seguendo una linea di pensiero che poche citazioni bastano ad illustrare:
l’indigenza di un tale vocabolario che avesse natali filologici non nostri;
manca allo studioso italiano un solido vocabolario di costruzione nostra, che rifletta cioè il nostro modo di apprendere e di sentire la lingua latina: modo per più d’una cagione dissimile da quello di chi al latino si accosta partendo da altra lingua moderna;
la vicinanza lessicale dell’italiano al latino rende superflue certe insistenze, manifeste d’altronde certe carenze, per l’uso nostro, dei lessici di origine straniera;
non difettano buoni lessici nostri. (SGF I 866)
La scelta dell’argomento, del momento, la prepotente appropriazione della lingua («nostra» come di nessun altro) non esente da tracce di autarchia-xenofobia culturale, la foga con cui Gadda si impadronisce dell’intero progetto del vocabolario, la perentorietà dell’argomentazione che fa degli italiani gli esclusivi detentori del senso riposto della lingua latina, sebbene non si pongano in contrasto con la logica e i termini della propaganda del regime, sono frutto di sue profonde convinzioni e antiche credenze. Sarebbe errato oltre che fuorviante sfruttare tali evidenti assonanze con i progetti culturali fascisti ai fini di un’interpretazione ideologica della sua lode al latino, perché Gadda non ha atteso i suggerimenti del fascismo per instaurare con Roma e la romanità un rapporto filiale individuale, per inventarsi un suo legame di sangue con entrambe.
L’idea di coniare per sé un’affinità del genere può legittimamente sorprendere, se si pensa che, tutto sommato, le sue origini familiari non la giustificano affatto. Eppure, la convinzione che i romani stanno fra i suoi diretti ascendenti è elaborata a chiare lettere in un’antica redazione di Compagni di prigionia, nella quale scrive: «quale nazione o gente non entra nella mia pazza fobia? […] Solo Roma si salva: tutti gli altri sono barbari insopportabili, compresi i miei Valdolona» (Roscioni 1997: 38; corsivi nostri). L’autore di queste frasi non dice se discende da Roma per via materna o paterna. Il suo silenzio in proposito non deve stupire, poiché Gadda omette semplicemente di precisare ciò che per lui è sottinteso: non è forse figlio di una madre che, sebbene di stirpe ungherese, discettava dei romani chiamandoli «i nostri avi»? (10) Questo serve a capire perché il paradigma Roma/maternità, uno dei pilastri del culto tradizionale di Roma, è anch’esso sottoposto ad un trattamento particolare da Gadda. Com’è noto, fin dalla sua fondazione, Roma viene considerata e rappresentata in veste di madre (di cui la mater familias non è altro che una sorta di riproduzione in formato ridotto), in particolare tramite l’immagine-simbolo della lupa nutrice che, come narra la leggenda, allattò Romolo e Remo. Gadda si inchina a varie riprese di fronte all’icona convenzionale e venera opportunamente la gran madre Roma, ma questo conformismo rituale non lo soddisfa. Potremmo accontentarci di asserire che Gadda sfrutta più ostinatamente di altri le proiezioni che hanno fatto nascere il mito, poiché l’immagine archetipica della Grande Madre è essa stessa, in partenza, frutto di un’idealizzazione del materno. Di fatto, adorando Roma, Gadda fa rivivere un’imago materna, una sua visione interiore soggettiva, ovverosia l’immagine che corrisponde alla rappresentazione mentale acquisita nell’infanzia. A questo proposito, è utile evocare un brano unico nel suo genere, tratto dal Giornale di guerra e di prigionia:
Celle-Lager, 22 aprile 1918. –
Ieri Natale di Roma, ricordato con una adunanza tra i prigionieri romani e laziali al Blocco A nel pomeriggio; discorso (criticato da Tecchi) e bicchierata. Io non ero presente, perché non romano, ma vi partecipai col cuore, mandando il saluto del figlio senza scarpe alla Madre lontana ed augusta ed eterna. (SGF II 768)
Escluso dalla celebrazione e dai festeggiamenti collettivi in ragione della sua provenienza, Gadda non solleva obiezioni sulla legittimità dell’esclusione: sa bene che il 21 aprile è una festa che lo riguarda solo marginalmente. Ma, leggendo avanti, si capisce che l’assenza di turbamento per l’estromissione dal rituale organizzato fra nativi deriva soprattutto dal fatto che la Roma omaggiata pubblicamente non è precisamente quella ch’egli si appresta a salutare. Fra la Madre e questo figlio esiste un legame segreto e speciale che surclassa l’attaccamento generico dei «romani» e dei «laziali» alla madre emblematica. Mentre i compagni si riuniscono, improvvisano discorsi (poi li criticano), brindano, allestiscono cioè un rituale di circostanza, Gadda, estraneo al protocollo militare, incurante delle ragioni della geografia, ma fedele alle ragioni del cuore, si volge verso la Madre e la saluta. Proprio lui, sempre rispettosissimo delle gerarchie, dei gradi, delle apparenze, si spoglia dell’identità ufficiale di tenente, di combattente-prigioniero di guerra, per darsi a vedere, nell’intimità della scrittura, senza orpelli, umile e umiliato dal destino, «figlio senza scarpe». Solo leggendo il secondo poi il terzo attributo («augusta», «eterna») ci accorgiamo che la «Madre lontana» alla quale il figliolo tributa un omaggio commosso, non è la sua madre naturale, bensì Roma. Il lettore attento ben sa che «lontana» è l’attributo di cui Gadda si serve pressoché sempre, nelle pagine del Giornale, quando ricorda Adele Lehr; e sa altrettanto bene che quello della «madre lontana» è un Leitmotiv che genera l’immagine mentale di una madre idealizzata piuttosto che della madre reale: questa immagine, d’altronde, svanirà quando la madre in carne ed ossa, irragionevole e pasticciona, ricomparirà nella vita vera del figlio, come comprovano le ultime pagine dei quaderni autobiografici del soldato-prigioniero ritornato a casa a Milano. Roma, invece, continuerà a nutrire l’immaginazione del figlio per vari decenni: ancora e sempre «lontana», mai deludente, Ersatz perfetto di quella madre la cui immagine si era costruita e fissata nella sua mente quando la sua identità relazionale si era formata, oggetto di una fede ossessiva di cui Gadda non sembra avvertire i pericoli. (11)
Nel seguito dell’episodio appena evocato, gli ufficiali italiani (ma non-romani) si riuniscono a loro volta per festeggiare il Natale di Roma. Gadda fa parte del novero, e racconta così:
La sera, anche al nostro blocco, un commosso discorso del capitano Casella. – Poi suono di inni patriottici, fra gli ufficiali plaudenti all’impiedi, a capo scoperto. Si gridò «viva l’Italia» e io gridai commosso.
Roma assume qui un terzo poi un quarto sembiante: dopo aver rappresentato l’origine per gli ufficiali romani e laziali, dopo esser stata la madre del suo «figlio senza scarpe» Carlo Emilio, ecco che diventa il simbolo della patria e infine una metafora dell’Italia. Gadda si unisce ai commilitoni dei quali spartisce quell’amor di patria che, presso i suoi contemporanei, coincide con il culto di Roma. Ma è necessario osservare che le pratiche collettive, senza sostituire le pratiche individuali, non si aggiungono però pacificamente a queste ultime e sembrano addirittura attizzare il fervore del credente senza riuscire a placarlo. Per un altro verso, non ci sono eventi vissuti collettivamente che non comportino un investimento personale smisurato, un eccesso di implicazione individuale che oltrepassa il pathos del patriota medio e mette a dura prova i nervi di Gadda, già provati dagli eventi drammatici della guerra e della prigionia. È precisamente quanto sembra dimostrare un lacerto tratto da una lettera spedita a Bonaventura Tecchi (il laziale che aveva criticato il discorso romano dei prigionieri nel 1918) circa dieci anni dopo le annotazioni del giornale di prigionia: il 21 aprile 1927 ritroviamo Gadda mentre festeggia, da solo, il Natale di Roma; in questa occasione, parla all’amico della devozione che nutre per l’ideale patriottico ispiratogli da Roma in termini commoventi e sconvolgenti che mettono l’accento sul fervore religioso caratteristico del suo attaccamento, sull’emozione incontrollabile che stringe il «miserabile ingegnere», in tutto e per tutto simile a quella del «figlio senza scarpe» di una ormai lontana primavera:
Oggi è una meravigliosa giornata di sole su Roma: e una religiosa invocazione sale dall’animo del miserabile ingegnere perché la patria sia sempre viva. Ricordo piangendo (non retoricamente) i nostri poveri cari compagni, il mio povero fratello, la cui immagine sacra si allontana nel tempo a mano a mano che la vita si dissolve. Davanti a loro non posso che arrossire e inorridire della vanità della mia vita. (Gadda 1984b: 53)
Il fratello Enrico gli è stato strappato dalla guerra, i compagni sono scomparsi sui campi di battaglia e la sua vita si dissolve; ma la patria, in compenso, è sempre viva, e Roma, con la sua meravigliosa giornata di sole, è presente per ricordargli che la madre-patria non muore con i suoi figli. La sua mente e la sua anima non sono altro che un rovinoso guazzabuglio di lutti e rovine, ma Gadda si appiglia alla data fatidica del 21 aprile, a Roma, o meglio al suo personale culto di Roma, come ad un’ancora di salvezza, come se soltanto questo culto gli consentisse di instaurare un rapporto con il presente, di nutrire una speranza per il futuro.
Di fronte ad accenti del genere non è eccessivo affermare che la sua fede intatta nell’ideale patriottico ha finito per obnubilare l’orizzonte della consapevolezza, dell’analisi, del contatto con il reale. Se si guarda all’insieme delle sue prese di posizione nel periodo compreso fra le due guerre (e oltre) si è addirittura indotti a riesumare il vieto cliché della fede cieca senza temere di incorrere in un eccesso banalizzante. È innegabile che il suo atteggiamento sembri derivare dalla certezza che i detentori delle redini del potere condividono la medesima fede e vogliono conservarla, ma in realtà il suo modo di procedere è piuttosto quello dell’autentico credente la cui fede ignora le contingenze storiche e che accetta gli eventi senza che scalfiscano mai la corazza delle sue certezze. Gadda ha un bel dire, nel 1968, «solo nel 1934, con la guerra etiopica, ho capito veramente cos’era il fascismo e come mi ripugnasse. Prima non me n’ero mai occupato. Le camicie nere mi davano fastidio e basta. […] Ma solo nel ’34, con la guerra etiopica, ho capito veramente cos’era il fascismo. E ne ho avvertito tutto il pericolo» (Gadda 1993b: 168). In realtà, non possediamo una sola sua riga scritta prima del 1945 che dimostri che il suo fiuto politico, per tutta la durata del fascismo (nel 1934 o in altri momenti) sia mai esistito fuorché nella sua fantasia. Un unico segnale di consapevolezza (dire lungimiranza sarebbe eccessivo), è reperibile in una lettera della fine di dicembre del 1921 indirizzata all’amico ed ex-compagno di prigionia Ugo Betti: «Adesso ti do una brutta notizia! Preparati: potevo pensarci già prima: ero iscritto al partito nazionalista! Adesso sono iscritto al partito fascista» (Gadda 1984a: 58).
Gadda sembra essersi accorto che la scelta di chiedere la tessera del partito di Mussolini è politicamente discutibile, ma è più probabile che la formula della «brutta notizia», così come l’evocazione della precedente adesione ad un partito ormai senza futuro, siano frutto della sua solita cautela per assicurarsi la clemenza dell’interlocutore, senza pretese e senza sottintesi ideologici. A prevalere, in Gadda, è la necessità di stabilire un legame fra un prima e un dopo: lungi dall’essere o dal volersi spacciare per un fascista antemarcia duro e puro, Gadda è anzitutto un ex-combattente che va a schierarsi (in mancanza di un esercito) con quelli che giurano di voler raccogliere il testimone del patriottismo nazionalista e compie, senza condirla di toni trionfalistici, la scelta che corrisponde alla sua esigenza, non certo mentita, di rimanere fedele agli ideali. È quanto confermano le parole che scrive a Betti nel 1923 dall’Argentina, dove era emigrato per motivi professionali nel 1922, dopo aver vantato all’amico il «prestigio enorme» di cui gode Mussolini nelle terre lontane del Sudamerica: «l’influenza morale dei suoi gesti ha cresciuto all’Italia un grande rispetto» (Gadda 1984a: 90). Ancora una volta, si nota che a Gadda stanno soprattutto a cuore l’immagine dell’Italia, il prestigio di cui la patria gode all’estero: ai suoi occhi, solo gli effetti (per il momento fausti) contano, mentre non fa nessun tentativo di valutarne politicamente le cause.
Nei vent’anni successivi, Gadda si trincera su posizioni identiche a quelle appena esaminate. Basti pensare che nell’agosto del 1942 – cioè circa otto anni dopo la sua supposta comprensione del fascismo – mentre l’Italia è impegnata da ventisei mesi nel conflitto mondiale accanto ai tedeschi («la bella guerra del “Se avanzo seguitemi”» la chiamerà, amaramente dissacrante, nel 1949 – Come lavoro, SGF I 429), Gadda proclama con convinzione che il fascismo costituisce l’ennesima fase della vita della patria stimolata e spronata dall’«amore di Roma» e che nella causa della «civiltà romana e latina» sta il «motivo organizzatore» che sorregge la volontà del «Duce e sovventore della patria» (L’Istituto di Studi Romani, SGF I 864). Nel 1942, mentre la patria si precipita a capofitto verso la rovina e in molti se ne sono accorti, Gadda guarda verso Roma e vede l’«immagine dell’unità della Storia […] di una mente sistematrice»; eleva Roma al livello di «un universo […] un cosmo», «una somma di enunciati […] il nodo dei processi di elaborazione, di costruzione e di organamento della civiltà stessa» e fa del nome di Roma «l’epònimo della totale “gente” del mondo» (SGF I 863, passim).
La sua totale estraneità rispetto alle vicende della politica reale può essere ancor più facilmente misurata se ci si volge verso un altro degli scritti del periodo fascista, Le Marine da guerra delle Nazioni belligeranti… e le loro forze militari terrestri, dedicato, in linea di principio, ad un argomento di scottante attualità. Questo lungo articolo, pubblicato nel novembre 1939 in due puntate su Le Vie d’Italia, quando cioè l’Italia non è ancora entrata in guerra, oltre a costituire una prova certa della minuziosità di Gadda, capace di valutare per pagine e pagine e tonnellata per tonnellata la potenza navale dei paesi belligeranti, dimostra soprattutto con quale scioltezza sappia sfuggire al tema apparentemente obbligato per parlar d’altro, liberamente. D’improvviso, un sottotitolo informa il lettore che l’articolista, fino ad allora impegnato a descrivere gli armamenti utilizzati nella guerra in corso, si dedicherà alla questione: «Dalle opere belliche dei Romani alle linee Sigfrido e Maginot». Dopo di che, neanche mezza parola del testo che segue sarà dedicata alle linee Sigfrido e Maginot, semplici espedienti apparentemente legati al conflitto («molto si parla dei grandi sistemi di fortificazioni confinarie»), mentre l’autore avvia un’estesa e, contestualmente, allotria «rievocazione degli antichi sistemi di fortificazione in uso presso i Romani». Gadda decide insomma di dedicarsi al solo lavoro militare che considera «grandioso», si sbarazza in fretta del tono decisamente burocratico che aveva caratterizzato le prime fasi della sua esposizione per passare in rivista con passione e infiniti dettagli «la saldezza e la vastità delle concezioni romane». Nulla sfugge all’ingegnere preso dal fascino di Roma che ci coinvolge in un periplo strategico che va dalle «mura» alle «fortificazioni campali», dal «“limes” ossia confine dell’Impero» alla guerra di Giudea. Il suo percorso di ricognizione termina con l’exploit di Cesare che sconfigge i Galli. Le sue parole sembrano giungerci da un altro tempo, da un altro mondo. Sono le parole di un uomo avvinto nel culto della romanità al punto da perdersi nell’adorazione dei suoi idoli, al punto da indurre chi legge a credere ch’egli abbia messo la propria penna al servizio della glorificazione infuocata del passato per le stesse ragioni e negli stessi modi voluti e imposti da un regime che si spacciava per la prosecuzione sacra ed ineluttabile di quello stesso passato.
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La violenza satirica dispiegata da Gadda contro il fascismo, dopo il 1945, particolarmente attraverso le pagine del Pasticciaccio, è stata considerata da Robert Dombroski «al contempo come un meccanismo di difesa, un tentativo di tenere a bada le proprie fantasie aggressive trasformandole in armi verbali, e come un modo di compensare il proprio coinvolgimento nel fascismo». (12) Ora: se si decide di scartare l’ipotesi che Gadda sia stato davvero implicato e coinvolto nel fascismo, né l’idea della difesa né quella della compensazione servono a spiegare la curvatura indubbiamente nuova assunta della scrittura gaddiana quando diventa violenza satirica contro il fascismo. Dal nostro punto di vista, la sua violenza verbale è degna di nota precisamente perché non discende dall’urgenza di difendersi o di cercare compensazioni. Inoltre, a meno che non si voglia ridurre la scrittura (qualunque scrittura) a semplice mezzo per controllare o rimuovere tensioni, tocca riconoscere che Gadda non contiene affatto l’aggressività grazie alla scrittura: semmai, nella scrittura, lascia libero corso ai suoi fantasmi aggressivi. Si potrebbe addirittura affermare che si serve delle parole-armi verbali per alimentare l’aggressività e per dirigerla verso due bersagli precisi: il fascismo, per un verso, e tutti coloro che si sono bevuti le sue panzane, per un altro. Discendente dai Romani per filiazione, adoratore del culto di Roma per vocazione, Gadda aggredisce il fascismo perché non si è dimostrato all’altezza dell’antico passato e delle nuove attese che aveva suscitato nel promuovere la grandezza della romanità. D’altro canto, dopo il 25 aprile 1945, trovandosi nell’impossibilità di coltivare ancora l’ideale di una continuità storica pressoché provvidenziale posta sotto il segno di Roma, Gadda torna sulla bella favola romana che si era lasciato raccontare e aveva contribuito a diffondere, per rovesciarla, per infliggersene il rovesciamento. Infatti, prima di esserci consegnato alla lettura, il racconto esemplare dell’annientamento del mito di Roma è anzitutto un sacrificio espiatorio che Gadda impone a se stesso. (13)
Racconto dello scatenamento e non certo del contenimento dell’aggressività, dell’ira e del risentimento, il Pasticciaccio si ostina a contraddire, con una precisione implacabile ai limiti del pedantismo, tutte le affermazioni avanzate da Gadda in epoca fascista. E così, colui che era stato autore di innumerevoli pagine cosiddette autarchiche, di articoli febbrilmente patriottici come La donna si prepara ai suoi compiti coloniali, L’assetto economico dell’Impero, Le risorse minerarie del territorio etiopico, I Littoriali del lavoro, L’Istituto di Studi Romani, I nuovi borghi della Sicilia rurale, percepisce con totale chiarezza la vanità dei progetti in cui aveva creduto e stronca, una dopo l’altra, tutte le sfaccettature della politica del fascismo: estera (coloniale e guerresca), razziale, demografica, linguistica, sportiva, economica, interna, autarchico-energetica, agricola.
L’uomo che, nel 1927, si era estasiato dinanzi all’immagine di Roma celebrandone il Natale, che aveva riposto nell’idea di Roma tutte le sue speranze di rinascita nazionale, nel 1946 fa di quella Roma, proprio della Roma del 1927, la vittima della tragedia nazionale ch’egli stesso non aveva saputo né prevedere né vedere. La Roma del 1927, colta in retrospettiva, è diventata un immenso palcoscenico allestito a pollaio su cui si alternano, nei ruoli principali, galletti ruspanti e maturi gallinacci, chiocce spennate e allegre pollastre, sempre guardati a distanza da un asino ragliante che, all’occorrenza, sa trasformarsi in pavone ed esibire protervamente la sua ruota-appendice grottesca. La condizione di Roma è assolutamente paradossale: la città antica e imperiale (quella di cui il regime vuole ad ogni costo recuperare il passato prestigioso) è ridotta, proprio dal recupero fascista, dal regime stesso, a una sorta di scenario-sfondo funebre allestito per produrre le messe in scena grottesche dell’autopromozione e dell’autocelebrazione. La Roma gaddiana del 1927 (vista nel 1946) non è un luogo di memoria: la Roma antica è ridotta a mera citazione, appena riconoscibile nel marasma circostante; come se non bastasse, la Roma del presente è soltanto un’icona della degenerazione. Roma ha smesso di essere il «nodo spirituale del Regno», il «nodo dei processi di elaborazione, di costruzione e di organamento della civiltà stessa» (L’Istituto di Studi Romani, SGF I 871, 863) su cui Gadda aveva svariato nel 1942. Sfigurata e martoriata, cova adesso in seno ben altro nodo, un nodo di vipere, un «nodo o groviglio o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo» (Pasticciaccio, RR II 16), (14) una matassa densa fatta di avvenimenti violenti che nessuno riuscirà a sbrogliare: la vicenda delittuosa che si svolge nel «palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse» (RR I 27) di via Merulana ne costituisce, di fatto, la sineddoche eccellente. L’assassinio di Liliana Balducci, il suo corpo offeso, il suo volto-capo sfigurato dal coltello di un criminale, prefigurano il destino tragico del corpo politico e della capitale (caput mundi) di cui si faranno carico altri criminali egualmente muniti di coltello: «il coltello, in quegli anni […] pareva davvero che fusse sparito di scena pe nun tornacce mai più: salvoché di sulla panza delli eroi funebri, dove si esibiva ora, estromesso di gloria, come un genitale nichelato, argentato» (RR II 72-73).
Sono molti i presagi funesti che Gadda dissemina qua e là, fin dall’inizio del romanzo. Essi riguardano in primo luogo la vita privata dei coniugi Balducci, ma possono però essere interpretati come altrettanti segnali di malaugurio che investono la vita di Roma e della nazione. Cominciamo col ricordare che il molto virile e molto donnaiolo signor Balducci («cacciatore in utroque», RR II 21), incapace, pare, di penetrare la bellezza della moglie (il verbo è di Gadda), si chiama Remo: nome di battesimo che, di per sé, è già un programma. Ben nominato, se si pensa alla sua vita coniugale, ma mal nominato, se lo si immagina nella prospettiva della famiglia e della patria, il signor Balducci è appunto Remo, ovvero non è Romolo: non è un padre fondatore, non è latore di progresso e crescita, non è un nume tutelare di Roma. E non dimentichiamo che il suo secondo nome, Eleuterio, significa libero, ma anche colui che non sopporta vincoli imposti alla sua libertà. (15) Liliana, per parte sua, dietro le apparenze di un nome che denota purezza e candore liliali, nasconde un temperamento instabile, tendenzialmente nevrotico, propriamente isterico. Le origini del suo turbamento sono da ravvisare nel desiderio frustrato di dare alla luce un figlio. La maternità le è inaccessibile, perché è sterile. Forse ha fatto la scelta sbagliata, accoppiandosi, feconda, con Remo padre di nessuno anziché con Romolo progenitore di un’illustre stirpe? O forse è condannata all’infertilità per essersi distolta dal modello esemplare di Roma? Le cogitazioni di Ingravallo sulla coppia di genitori mancati costituita dai Balducci non consentono di capire dove stia e di chi sia la colpa. Rimane il fatto che la donna romana non è più una mater Romana, e che la femminilità, a Roma, non ha più niente a che vedere con una sana aspirazione alla maternità, come comprovato dal fatto che, nel Pasticciaccio, l’intera compagine dei personaggi femminili è costituita da esseri turbati o torbidi: Teresina Menegazzi, Manuela Pettacchioni, Zamira Pacori, la signorina Bertola, Liliana, le nipoti, le zie, sono tutte senza eccezione, per ragioni diverse, esemplari di femminilità anormalmente declinata, sempre scatenata, spostata, deviante, e si collocano in posizioni esistenziali ambigue, in deroga continua alla loro (apparentemente) autentica e univoca condizione-funzione-situazione. Liliana, angelica ma disperata, si circonda di pseudo-nipoti che si avvicendano in frenetica successione e puntano al suo denaro più che al suo affetto: «non potendo scodellare del proprio… […] il cambio della nipote doveva di certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del mancato scodellamento» (RR II 24). Le nipoti sono, nel migliore dei casi, ragazzine del popolo non ancora in età da figliare o, nel peggiore dei casi, approfittatrici sbucate dai bassifondi e già aventi al loro attivo una discreta carriera nel commercio corporale. Si saprà dopo la sua morte che Liliana, non paga dei suoi catastrofici insuccessi affettivi, si era rivolta al cugino Giuliano – donnaiolo patentato oltre che, controvoglia, vicino a giuste nozze e destinato a uno spento futuro coniugale lontano da Roma – per supplicarlo di farle dono dell’eventuale primogenito rampollato dal suo matrimonio. In sostanza, Liliana è propriamente fuori di sé. E, a dire il vero, perché proprio lei dovrebbe essere compos sui in un mondo sottosopra? Un mondo alla rovescia in cui, come racconta il romanzo, il «comandato alla mobile» Francesco Ingravallo è ridotto all’immobilità («Niente automobile! Niente comodità di trasferta!», RR II 197); il preposto alla vita dell’anima, parroco dei Santi Quattro Coronati, si chiama don Corpi; un ladro di gioielli è definito varie volte «assassino»; le pietre preziose mutano più volte castone; la periferia e i sobborghi predominano sulla città; le comunicazioni telefoniche sono «un guazzabuglio» (RR II 140); i poliziotti, esattamente come i criminali, rispondono a soprannomi equivoci; insomma, un mondo in cui tutto è disordinato e incerto, in cui tutti conducono esistenze doppie o perlomeno ambivalenti. In queste condizioni, nulla può essere pensato, elaborato, costruito, organizzato, nemmeno la storia di una tenebrosa storia, di un pasticciaccio: non stupisce, pertanto, che il romanzo di Roma, di quella Roma, sia a sua volta sprovvisto di un esito, di una fine che dirima e decida, chiuda e concluda, instaurando l’ordine laddove domina il caos.
Risulterà senz’altro più agevole capire il significato di questa scelta narrativa fondamentale di Gadda – lasciare incompiuto il romanzo in cui Roma viene sfigurata – se si sosta brevemente su un’altra sua scelta essenziale: collocare l’intreccio nel 1927. Nell’ambito della breve storia del fascismo, il 1927 è un anno piuttosto anodino rispetto ad altri anni tristemente celebri come il 1924 (segnato dal delitto Matteotti), il 1929 (ratifica dei Patti Lateranensi), il 1934 (inizio dell’avventura coloniale etiopica), il 1938 (promulgazione delle leggi razziali), il 1940 (ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania nazista), il 1943 (crollo del regime). (16) Ebbene: sappiamo che Gadda non è scrittore incline ad affidarsi al caso. Quando deve scegliere o rilevare date e cifre, anniversari e feste, la sua passione per l’esattezza è sempre unita ad una vera e propria ossessione numerologica, degna di un fissato o di un cabalista. Tenendo conto di questa sua mania, se scaviamo nella storia per cercare una data significativa riferibile al 1927, senza nemmeno cercare tanto lontano, incappiamo nel 1527, anno del sacco di Roma. E ci accorgiamo che nel Pasticciaccio, non solo Gadda smette di celebrare la ricorrenza felice della nascita di Roma, ma, per la precisione quattrocento anni dopo, rielabora quella funesta del suo saccheggio. Come se cercasse di assecondare i disegni crudelmente ironici del destino storico, la rappresenta nuovamente saccheggiata, brutalizzata, spezzata, e, per giunta, lo fa sfruttando con sistematicità davvero impressionante le componenti tematiche e retoriche che caratterizzano gli scritti relativi al sacco del 1527 (i quali, come è noto, si riferiscono a loro volta a testi più antichi dedicati alle svariate occasioni in cui Roma fu messa a sacco dai barbari). (17)
Anzitutto, Gadda fa suo il contro-mito di origine classica e biblica secondo cui Roma sarebbe cauda mundi, ovvero una nuova Babilonia. Creato sulla base del mito di Roma che esso rovescia e annulla, il contro-mito prevede un presente visto in funzione del passato, cioè del ricordo di un passato grandioso. Per questo motivo, il contro-mito fa di Roma il simulacro della scomparsa e dell’assenza, della decadenza e della corruzione e costituisce così il sostegno portante del discorso del sacco di cui consente di percepire, se non proprio i dettagli, almeno l’enormità. Su questa struttura vengono innestate modulazioni specifiche a loro volta costanti.
è stato osservato, infatti, che il racconto del sacco presuppone sempre un legame tra l’evento e il linguaggio utilizzato per descriverlo, o che, perlomeno, contiene l’esplicita denuncia dell’inadeguatezza della lingua corrente per descrivere un dramma di proporzioni indicibili. Scegliendo di seguire le tracce dei predecessori, e dando peraltro prova di uno zelo di proporzioni identiche al suo furore, Gadda presenta il suo sacco di Roma su uno sfondo babelico dove si moltiplicano le interferenze fra voci dissonanti e lingue disparate. Attribuisce alla voce narrante una sorta di ubiquità linguistica degna dell’ubiquità di Ingravallo sugli affari tenebrosi, e imprime sull’esistenza locutiva di tutti i personaggi il marchio dell’alloglossia: una costante diversità-devianza linguistica, infatti, cadenza e mette in risalto lo sprofondamento infrenabile nell’incomprensione, nell’equivoco e nel mistero. Non a caso, proprio alla torre di Babele Gadda si riferisce per descrivere la confusione che regna in questura e ci presenta il pur poliglotta Ingravallo, fin dall’inizio dell’inchiesta, frastornato e «stritolato», nel «porto di mare» costituito dal palazzo di via Merulana, «da una confusione di voci e aspetti» (RR II 34).
Per un altro verso, è stato sottolineato che il racconto del sacco, pur non eliminando del tutto gli accadimenti reali dallo spettro narrativo, è tuttavia più simile alla finzione che alla cronaca, poiché concede ampio spazio all’aneddotica, all’elaborazione di scene truculente e carnevalesche. Da questo punto di vista, la differenza tra la finzione gaddiana e il tradizionale racconto del sacco non è propriamente denotata da una discrepanza fra generi, quanto dall’etichetta convenzionale di romanzo di cui ci si serve per definire il Pasticciaccio. Il romanzo, basato su un fatto di cronaca nera (almeno per la parte che riguarda l’assassinio Balducci), non è forse una storia aneddotica, truculenta e carnevalesca dell’Italia del 1927? (18) Se aggiungiamo che il racconto del sacco colloca generalmente l’evento-sacco al centro di un sistema di nefasti segni premonitorî, di lutti di varia specie, e pone l’accento sull’idea della violenza perpetrata contro la sacralità di Roma, il quadro delle modulazioni prese a prestito da Gadda sembra completo.
Ma bisogna aggiungere ancora un dettaglio piuttosto importante. Il racconto del sacco può infatti dipanarsi mettendo in risalto la volontà e la capacità di far rinascere caratteristiche di Roma oppure, al contrario, può sfociare sulla constatazione della sua distruzione e della sua impotenza. Da una parte, assistiamo al recupero in extremis del mito di Roma; dall’altra, alla pura e semplice denigrazione di un presente chiuso a qualsivoglia possibilità di futuro. Con il suo romanzo, Gadda si schiera pertanto dalla parte dei catastrofisti. Consapevole dell’esistenza di una frangia ottimista, presenta nel Pasticciaccio un elenco delle parole chiave che, nei secoli, hanno posto l’accento sul potenziale energetico del «vivente essere che si suol chiamare la patria»: «rinnovamento», «resurrezione», «rinascita», «risorgimento». Parole che il fascismo ha ripreso e fatto proprie per attivare «le nuove forze operanti nella società italiana». Ma, dopo aver completato il catalogo del lessico che scandisce le tappe della grandezza passata, Gadda sceglie ben altra parola per riassumere la situazione del presente, una parola che inizia per r, ma una parola straniera, che assume l’aspetto di un gesto di scherno verso il purismo fascista: «ravage» (RR II 80-81). Insomma, nonostante i monumenti, le rovine di monumenti prestigiosi che esistono e persistono, Roma ha perduto la sua capacità leggendaria di resistere e rilanciare la propria storia, di rappresentare i progetti di un passato che, per secoli e secoli, ha saputo tradursi in proiezione, in slancio, in avvenire. La rottura con l’universo glorioso di quella Roma sembra a Gadda definitiva come definitivo diventa il suo distoglimento dalla laudatio Urbis.
Il sacco di Roma del 1927 ha ridotto all’obsolescenza le virtù dell’Urbe e ha reso vani gli ideali patriottici che essa aveva saputo ispirare. Il sacco di Roma del 1927 ha altresì archiviato per sempre l’epoca in cui il discorso, attraverso una determinata retorica, riusciva a ravvivare un barlume di speranza. Il corpo del romanzo porta in sé la traccia della mutilazione profonda e fatale che è stata inflitta alla città-patria. Figura del suo martirio, esso vede scorrere il sangue della nazione dalla sua ferita aperta. Gadda lascia che il Pasticciaccio si spenga: con il racconto, come il racconto, svaniscono l’idea di continuità e il mito che vorrebbe che la storia fosse sempre concludente e conclusa.
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Note
1. Autobiografia di Roma, autobiografia della nazione era il titolo dell’intervento di Ferroni al convegno svoltosi a Roma il 23 febbraio 1996 in occasione dello spettacolo teatrale di Luca Ronconi tratto dal Pasticciaccio (cfr. Ferroni 1996b).
2. La questione fascismo/antifascismo di Gadda è tuttora aperta e insoluta. Talvolta ha provocato sorde polemiche, come dimostra la rissa scoppiata nel marzo del 1997 all’indomani della pubblicazione di alcuni stralci di un articolo autarchico di Gadda su un quotidiano romano. Cfr. Minore 1997; Bruni 1997a & 1997b; Pedullà 1997b. L’articolo indiziato, La donna si prepara ai suoi compiti coloniali, praticamente sconosciuto fuori dalla cerchia degli specialisti, mai ridato alle stampe dai tempi della pubblicazione, nel 1938, su Le Vie d’Italia, se letto isolatamente, potrebbe infatti sembrare un elogio sperticato delle conquiste africane del Duce. La prudenza consiglia invece di inquadrarlo nell’ambito della testualità gaddiana come ritorno sulla questione del lavoro italiano, senza peraltro passare sotto silenzio l’infatuazione evidente per l’avventura coloniale italiana. Altri sette scritti autarchico-patriottici del periodo 1936-1941 sono rimasti fino ad oggi esclusi dalla pubblicazione, finanche dalla monumentale edizione Garzanti diretta da Dante Isella. Su questa curiosa e insistita omissione, che non è certo frutto di semplice distrazione, torneremo in altra sede.
3. Cui non risere parentes è stato pubblicato per la prima volta con un’appendice di frammenti inediti a cura di E. Manzotti in Gadda 1987a: 525-35.
4. Adele Lehr farà leva sulla propria autorità per contrastare nel figlio la vocazione letteraria ch’ella stessa aveva suscitato e per imporgli la carriera ingegneresca. A suo modo coerente, non accetta che il primogenito si distolga dalla tradizione familiare (e milanese e borghese) del Politecnico e che si avvicini alle discipline umanistiche se non per cercarvi conforto morale. La sua incoerenza strazia e divide la mente e la scrittura del figlio: sotto la sua penna, l’ira filiale sarà sempre unita alla pietas filiale, la pars costruens dell’educazione ricevuta riscatterà sempre la pars destruens, senza però mai riuscire a cancellarla.
5. Nella nota 3 del capitolo del Castello di Udine, Elogio di alcuni valentuomini, Gadda ricostruisce la genealogia materna della sua ammirazione per Cesare conquistatore delle Gallie, di cui, nel testo, scrive l’elogio, citando e parafrasando brani significativi del De bello Gallico: «Il culto del Ns. per il proconsole delle Gallie risale all’infanzia e al verso dantesco 123 dell’Inf. IV, lettogli primamente dalla madre». Per quanto riguarda il De officiis, cfr. almeno San Giorgio in casa Brocchi (RR II 645-97; cfr. Pinotti 2004), in cui Gadda rovescia la propria esperienza, narrando l’incontro poco felice di un giovane contino milanese con il libro dei doveri, la «grande etica della latinità […] la miglior guida del giovanetto» (699) che la madre, più per conformismo che per convinzione, lo costringe a studiare.
6. Si potrebbero evocare molti stralci testuali riferiti a questi tre imperatori. Accontentiamoci di un brano emblematico, tra i meno citati, dedicato a Tiberio e alle sue consuetudini nello sfruttamento delle cave toscane: «Tiberio pensò invece di spodestare i coloni a profitto della casa imperiale, seguendo in ciò una sua linea generale di condotta, osservata anche per molte miniere d’oro e d’argento nei territori dell’impero. Rispettò invece le cave dei privati, contentandosi di cavare da queste non marmi ma tasse, tasse tiberiane» (Carraria, RR I 176).
7. SGF II 874. Si tratta della scheda biografica compresa nella Letteratura italiana pubblicata da Marzorati.
8. G. Gadda, Ricordi e impressioni, cit. in Roscioni 1997: 14.
9. Lingua viva, come l’italiano e altre lingue moderne che Gadda conosce, il latino non compare nei testi di Gadda solo sotto forma di citazione erudita. Cfr. in proposito Flores 1964: 381-98.
10. Così Adele Lehr diciannovenne, in un quaderno del 1880 intitolato (in francese) Thèmes (cf. Roscioni 1997: 38).
11. A cinque riprese, nel Giornale, Gadda parla di «mia madre sola e lontana»; altre quattro volte «lontana» viene riferito alla famiglia (cioè alla madre e alla sorella Clara); la parola «lontananza» è utilizzata tre volte per descrivere la situazione familiare. Aggiungiamo che per due volte anche «la patria» è definita «lontana». Cfr. in proposito Bertone 1993: 37-46.
12. Dombroski 1999. Abbiamo proposto, nel testo, la nostra traduzione del brano seguente: «as a defence mechanism, the attempt to hold at bay his own aggressive fantasies by trasforming them into verbal weapons, as well as to compensate for his own involvement in fascism», poiché Dombroski si esprime in termini che risultano fortemente ridimensionati dalla traduzione italiana («come un meccanismo di difesa, messo in atto col duplice fine di padroneggiare le proprie fantasie aggressive trasformandole in mezzi d’offesa verbali e di pareggiare i conti con la propria adesione al fascismo» – Dombroski 2002a: 123). Dombroski parla di «verbal weapons» e non di «mezzi d’offesa verbali», fa uso del verbo «to compensate» nella sua accezione psicoanalitica – che va conservata –, e si serve del termine «involvement», che indica un coinvolgimento problematico, anziché una scontata adesione.
13. Volendo seguire fino in fondo la pista psicoanalitica aperta da Dombroski, si potrebbe interpretare la violenza verbale di Gadda come gesto autopunitivo e la violenza che esercita sulla struttura del romanzo, privandolo di vera e propria conclusione, come gesto di autocastrazione.
14. L’elenco dei pasticci criminosi che soffocano la capitale è stilato dal commissario-capo Fumi, frastornato dai faldoni che gli si accumulano sulla scrivania, «fin a ’ncoppa a ’a capa» (RR II 27). Il narratore, dal canto suo, rammenta il «“tenebroso” delitto di via Valadier, poi […] quell’altro, ancor più “fosco”, di via Montebello» (RR II 37), «il caso Pirroficoni», con la sua macabra serie di «strangolamenti di bambine» (RR II 92-94; traduzione ficta del caso Girolimoni, cf. nota 16), e non tralascia la descrizione del pandemonio che impazza alla questura centrale: «Di “pratiche” ce n’era da gavazzarci, da nuotarci dentro: e gente in anticamera! Madonna! più che ai piedi della gran torre di Babele» (RR II 124). La violenza e il caos che destabilizzano Roma sono ovviamente minimizzati dai giornali censurati dal regime che si vuole campione della «moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme», come propugnatore «d’una maggiore austerità civile» (RR II 72).
15. Prima di elaborare in pectore la tesi dell’infecondità dei Balducci, Ingravallo si diverte formulando il pensiero dell’incongruità di questo Remo Eleuterio nel contesto politico presente: «Due nomi poco graditi a chelli ’rrecchie […] sia l’uno che l’altro» (RR II 18).
16. è vero, però, che il 26 maggio 1927 Mussolini propone alla camera dei deputati il famoso capolavoro oratorio detto Discorso dell’ascensione, in cui tesse l’elogio delle forze dell’ordine in termini memorabili: «Signori, è tempo di dire che la Polizia va non soltanto rispettata, ma onorata. Signori, è tempo di dire che l’uomo, prima di sentire il bisogno della cultura, ha sentito il bisogno dell’ordine. In un certo senso, si può dire che il poliziotto ha preceduto nella storia il professore, perché se non c’è un braccio armato di salutari manette, la legge resta morta e vile». L’11 maggio 1927 la polizia romana aveva arrestato Gino Girolimoni, sospettato di essere il serial-killer che, dal marzo 1924, terrorizzava la capitale. Il ministero degli interni aveva annunciato il suo arresto in un comunicato dai vistosi accenti trionfalistici. Questo l’antefatto che spiega il discorso mussoliniano. Innocente, Gino Girolimoni, verrà rilasciato dieci mesi dopo l’arresto: il fiasco della polizia romana sarà, beninteso, circondato dal più fitto silenzio dalle autorità fasciste. Cfr. in proposito F. Ambrosini, Il mostro di Roma: Gino Girolimoni, in Storia d’Italia. La criminalità (Torino: Einaudi, 1997), da cui abbiamo tratto la citazione del discorso di Mussolini. Sotto la penna di Gadda, Girolimoni diventa Pirroficoni (cfr. nota 14). Prendendo spunto dal «caso Pirroficoni» (RR II 92), Gadda scrive una sorta di contro-discorso dell’Ascensione, in cui rovescia, accentuandone i tratti patologici, il senso del recupero politico del caso Girolimoni attuato da Mussolini: la polizia romana riduce un innocente «in fin di vita a busse» (RR II 93) mentre «la psiche del demente politico esibito (narcisista a contenuto pseudo-etico) aggranfia il delitto alieno, reale o creduto, e vi rugghia sopra come belva cogliona e furente a freddo sopra una mascella d’asino».
17. La bibliografia relativa al sacco di Roma è sterminata. Cfr. almeno: M.L. Lenzi, Il sacco di Roma del 1527 (Firenze, 1978); A. Chastel, Il sacco di Roma, 1527 (Torino: Einaudi, 1983); V. Miglio, V. De Caprio, D. Arasse, A. Asor Rosa, Il sacco di Roma del 1527 e l’immaginario collettivo (Roma, 1986); V. De Caprio, Il sacco di Roma, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, Storia e geografia, II, 1, «L’età moderna» (Torino: Einaudi, 1988).
18. Ricordiamo che l’esordio del romanzo, datato febbraio 1927, propone precisamente la descrizione dei segni-resti del carnevale: «rimasti al marciapiede i coriandoli di qualche gentile bautta, quacche trombetta, qualche azzurra Cenerentola o nerovellutato diavoletto» (RR II 18). Ad accentuare le valenze carnevalesche della vicenda contribuiscono, inoltre, l’incessante mascherata fascista, e il mascheramento-travestimento più o meno accentuato che caratterizza tutti i personaggi, alcuni dei quali sembrano anche figure in costume (basti pensare alla vedova Menegazzi e a Zamira Pacori).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-07-8
© 2004-2025 Manuela Bertone & EJGS. Italian version first published in EJGS. Issue no. 4, EJGS 4/2004. French version first published as «Mirabilia urbis Romae». Le culte de Rome dans l’oeuvre de Gadda, in Rome. Mythes et symboles, ed. by B. Toppan (Nancy: P.R.I.S.M.I, 2001 [2003]), 243-66.
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