Detail of Triumphal Arch in Lybia

Meditazione milanese
Gadda filosofo: un precursore retrogrado

Christophe Mileschi

La plus grande faiblesse de la pensée contemporaine me paraît résider dans la surestimation extravagante du connu par rapport à ce qui reste à connaître.

André Breton, L’amour fou

Nel 1924, Gadda s’immerge nel tentativo di un Racconto italiano, atto inaugurale di una carriera di scrittore che non cesserà di mettere in scena un conflitto estetico ed etico interno, fra ispirazione e ordine, vita e disciplina (si pensi solo, fra i tanti sintomi, alle ossessive note gaddiane, superstruttura organica che vorrebbe arginare la pagina caotica). Ma passato qualche mese, arenatosi in mille rigiri e pensamenti, il progetto narrativo sarà lasciato lì per sempre. Per l’ex ufficiale Gadda è escluso lasciarla vinta all’incompiutezza. Assillato dagli spettri dell’assurda strage mondiale – cui fieramente ha partecipato, che ha ucciso il fratello minore Enrico, promosso a eroe, mentre Carlo Emilio decadeva nell’infame prigionia –, Gadda vuole credere ancora che, a ispirare la giustezza (e la giustizia) delle vedute di chi dava ordini e andava obbedito, ci sia qualche infallibile istanza, una suprema Disciplina – che del regolamento militare, da Gadda venerato in guerra e oltre, (1) sia fonte e matrice. Ora, se alla guerra presiedeva un Ordine eccelso, ci deve quindi essere una perfetta Sintassi a poter regolare il racconto. Ché vice versa, la scoperta dell’assenza di regole ineccepibili nella scrittura porterebbe direttamente alla insopportabile coscienza dell’arbitrarietà e gratuità dell’eccidio. La scrittura, sin dall’inizio, è per Gadda quello spazio in cui andrebbe definitivamente assodata la legittimità della vita, così com’è stata vissuta.

Ma non si è potuto con-cludere, chiudere su se stesso, il caos del Racconto italiano. Manzoni è certo brandito a modello. Ma chi può più, nel 1924, quando Breton registra la morte del romanzo classico, atteggiarsi a narratore onniveggente senza sentirsi un impostore? Anche Gadda scopre, pur non volendolo scoprire, che il racconto non verte mai su presupposti assoluti. Le interrogazioni spalancate dal Racconto, versione in sede narrativa dell’abissale dubbio del soldato, restano in sospeso. E come il soldato cercava nel regolamento militare i comandamenti ultimi, e nella gerarchia l’espressione di un ordine immutabile, così il pensatore, spaurito dallo svariare infinito delle possibilità narrative, si rivolge alla disciplina filosofica (da cui s’aspetta confusamente le soluzioni definitive) e ambisce al riconoscimento sociale dei propri meriti d’intellettuale (sì da garantire obiettivamente il proprio progresso verso la verità): Gadda decide di laurearsi in filosofia.

Quattro anni dopo, nel ’28, ha superato tutti gli esami. Gli resta soltanto da stendere e poi discutere la tesi. Ha scelto di scrivere un saggio su Leibniz. Ma ciò che la letteratura gli ha negato quattro anni prima, neanche la filosofia glielo può dare. Il dèmone dell’incompiutezza non si cura di tipologie. Gadda non discuterà mai la tesi.

Fra maggio e giugno, stende un lungo saggio, sul titolo del quale tentenna, oggi noto come Meditazione milanese. Si tratta forse di uno scritto preliminare alla tesi, come il Cahier doveva precedere il Racconto, o forse della tesi stessa, per quanto Gadda, sempre così preciso nel descrivere anticipatamente i propri progetti, non abbia lasciato detto niente in proposito. (2) Può quindi darsi che la Meditazione nasca da un altro impulso, fuorviante rispetto all’obiettivo universitario, poiché più ambizioso di quanto non richiedano gli esercizi accademici. È di questo parere anche il critico francese Manganaro, quando sottolinea come l’organizzazione del discorso, «sotto la forma apparente di un dialogo fra l’autore degli appunti e un interlocutore chiamato il “critico”», situi Gadda nella «più pura tradizione della filosofia classica»:

Che è come dire, per quanto riguarda l’ampio apparato scientifico, che Gadda prende consapevolmente il seguito di una eredità e di una stirpe che la letteratura italiana aveva dimenticate dall’epoca di Galileo e di Bruno, ricreando così i lineamenti di una figura di «scienziato e letterato». (3)

Nella sua Meditazione, Gadda si prefigge di organizzare in un sistema concettuale unitario le già ampie conoscenze scientifiche e filosofiche, tutti i pensieri sulla realtà sorti e in parte sviluppati negli appunti del Cahier d’études. Strada facendo, o forse a lavoro ultimato, Gadda vagheggerà l’intento di pubblicare. Ma l’intento potrebbe anche aver preceduto l’impresa, così come il Racconto italiano era nato nell’esplicita ambizione di concorrere per il premio Mondadori. Lo rivela la Nota finale dell’autore:

Credo che, pubblicata in volume, la «Meditazione prima» potrà richiedere circa 200 pagine a stampa formato medio. (Meditazione, SVP 850)

La stessa Nota rivela però, nel contempo, che all’autore difetta la fiducia in se stesso necessaria all’attuazione del progetto di pubblicare. Gadda depreca il valore e la portata dello scritto, propone di intitolarlo «Meditazione grossolana» o «Meditazione grossa» – lo chiama «Meditazione prima», il che sottintende scritti futuri, che venissero a completare e perfezionare il primo e insoddisfacente tentativo:

Questo primo abbozzo, pur sviluppando idee chiare e concatenate nella mia mente, come provano i numerosi «entrelacements» o ritorni di pensiero, è letterariamente assai confuso e incomposto. (SVP 850) (4)

Gadda riprende quindi in mano le sue pagine, in luglio e agosto riscrive i primi quattro capitoli del manoscritto (che ne annovera venticinque)… e poi abbandona definitivamente il progetto. La Meditazione verrà pubblicata nel 1974, un anno dopo la sua morte.

Come ho accennato nella nota precedente, la tendenza critica dominante consistette subito nel voler trovare fra quelle pagine teoriche la prova inconfutabile che Gadda, consapevolmente, per scelta filosofica premeditata, aveva poi incompiuto tutti i suoi scritti (cfr. Baldi 1988: 190-91). Come si capisce sin dal titolo, vi contribuì non poco la giustamente celeberrima Disarmonia prestabilita di Roscioni. Ora, come mi adopererò di fare in questa sede, si può dimostrare vice versa, o meglio dimostrare ugualmente che nella prosa filosofica gaddiana si ritrovano esattamente le medesime contraddizioni ed esitazioni conflittuali e non desiderate di quelle che si riscontrano nei testi narrativi. E quindi, filosofia e narrazione non si iscrivono più per forza nella scia genetica l’una dell’altra, bensì sono due produzioni parallele dalle identiche radici – la Meditazione va affrontata non tanto come discorso del metodo narrativo, «come presupposto gnoseologico della scrittura di Gadda», quanto «già come esempio di scrittura gaddiana in sé» (Baldi 1988: 191).

Incompiuto come il precedente e come molti dei seguenti, il progetto delineato con la Meditazione approda però a un risultato assai meno caotico del Racconto. Per la sua preparazione scientifica, a cui si aggiungono quattro anni di studi in filosofia, Gadda ha allora più dimestichezza con i discorsi concettuali di quanta ne abbia con la finzione letteraria; e a chi vuole scrivere, ma ancora non sa di preciso né cosa né come (così Gadda), la prosa dotta offre dei punti di riferimento, dei modelli metodologici e sociali più chiari, stabili e rassicuranti, laddove invece l’ispirazione poetica tende a metterli tutti in forse, non potendosi (segnatamente nel secolo del Surrealismo) incanalare in stampi già collaudati: non si impara a scrivere applicando delle ricette stampate nei libri, e la letteratura, più della filosofia – per lo meno della filosofia quale la concepisce Gadda: come spazio di verità, alla pari con la scienza (5) –, deve inventare il cammino dove progredisce. Vi possono essere ottimi libri scientifici o filosofici, destinati a durare, pur limitandosi a fare il bilancio critico del già noto, a commentare le novità, senza aggiungere nulla. Penso, fra l’altro, alle tuttora fondamentali opere di divulgazione di Bachelard, di Planck, di Einstein. Ma credo vice versa che non ci possa essere una letteratura capace di destare ancora l’interesse dei lettori delle epoche successive, dopo che son cessati gli effetti di propaganda commerciale, se non provvista di una dimensione inedita, che la letteratura non può trovare fuori di se stessa. La materia viva personale, sangue della scrittura letteraria, non può fluire in vene conformi a codici prescritti, deve inventarseli da sé. (6)

Per una ovvia questione di genere, la Meditazione, contrariamente al Racconto-Cahier, non origina (tranne qualche puntualissima eccezione) nessun frammento da riversar tal quale nei racconti futuri. Eppure la Meditazione riveste lo stesso, forse più del Racconto, un’importanza di primo ordine per la comprensione del retrofondo concettuale gaddiano – che così volentieri affiora al primo piano del racconto. (7) Il Gadda filosofo della Meditazione formula e esamina qualche idea-chiave del Gadda narratore, con una perspicacia e una pertinenza che gli avrebbero assicurato un posto di rilievo fra gli epistemologi del Novecento, qualora avesse tenacemente orientato i suoi sforzi in tale direzione.

Il capitolo che meglio chiarisce la poetica gaddiana, così come si sta costituendo in quegli anni, è senz’altro il quarto della prima delle tre parti del libro, dedicato a Il carattere estensivamente indefinito dei sistemi reali. Nel linguaggio dell’epistemologia, il titolo annuncia la tematica del «grumo» (o «groviglio», o «gnocco», o «gliuomero»), sottostante a molti racconti di Gadda, ed enunziata tramite Ingravallo nelle primissime pagine del Pasticciaccio. Secondo Gadda, nessun oggetto esiste isolatamente, ma solo come punto nodale ove confluisce il complesso infinito delle relazioni di detto oggetto con innumerevoli altri:

Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato da altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano ad altro, ad altro, infinitamente ad altro. (SVP 645)

L’oggetto non è una ermetica enclave in una realtà composta di tanti elementi contigui, bensì «un nucleo o groviglio di relazioni attuali» (SVP 670). Non può essere pensato indipendentemente dalle relazioni in cui è coinvolto, poiché non si può sceverare il nocciolo duro del suo essere, la parte immutabile che potesse entrare o meno in relazione con il mondo, e ne restasse comunque incolume. Non ci sono gli oggetti da un lato, le relazioni fra gli oggetti dall’altro. Le apparenze ottiche e la pigrizia mentale – «i grossi e bovini occhî imbambolati dalla luce del giorno e dalla sua falsa dialettica», SVP 670 – ci fanno vedere l’oggetto come se fosse de-finito nel recinto dei propri contorni, mentre esso è raggiunto ininterrottamente da altri oggetti, anzi da tutti gli altri oggetti, così come vice versa esso raggiunge loro: sicché l’essere reale dell’oggetto sta nella totalità di tutte le sue implicazioni.

Ad esemplificare, Gadda attinge dalla cultura tecnica l’immagine della centrale elettrica. In apparenza delimitata nello spazio, circoscritta all’interno delle proprie mura, la centrale non è però sovrapponibile all’insieme materiale dei meccanismi e apparecchiature di cui è fatta:

Abbiamo visto che la centrale elettrica, pensata da sola come banalmente la si pensa staccandola dal resto del mondo (oh che bella centrale elettrica! si dice volgarmente guardando l’edificio e le macchine) è un puro nulla. Essa «sente», «avverte» il carico richiesto dai fusi dei cotonifici lontani: ma questi sono perché gli uomini hanno necessità di fazzoletti e tovaglie; è perché è stato possibile «realizzare» tali fabbriche nella economia del tale paese: e ciò perché la storia del paese portò a ciò: e il paese è parte (grumo di relazioni) d’un tutto: e l’umanità è portata dal mondo: e il mondo dal sistema solare, ecc. (SVP 645)

E Gadda a completare l’illazione – che fa pensare a quando, da bambini, si flirtava con la vertigine dichiarando così il proprio indirizzo: abito a (per esempio) Bari, che è in Puglia, che è in Italia, che è in Europa, che è nell’emisfero Nord, che è sulla terra, che è nel sistema solare, che è nella Via Lattea… – con una nota in calce nella quale accentua la dimensione immateriale delle relazioni che confluiscono nell’oggetto centrale elettrica:

E poi per mille vie: la centrale da sola non è nulla senza la mente di quegli uomini: gli uomini < senza > l’intrinseca loro funzione che ad altri li lega; senza i loro studî, giochi, pensieri, affezioni, ecc. E così per mille vie dalla centrale si può partire e ognuna ne genera mille, e ognuna mille ancora e così infinitamente. (SVP 645)

Il paradigma della centrale è di altissima efficacia pedagogica, il che deriva certamente dal fatto che le relazioni attraverso le quali la centrale esiste oltre il proprio perimetro sono ancora percepibili fisicamente: le propaggini esteriori del suo essere sono in qualche modo figurate dai fili che trasportano via via più lontano la corrente ch’essa produce. Ma tali fili altro non sono che la forma soda di un fascio di co-ligamenti non palpabili, ma reali, che la uniscono vuoi alle abitudini, vuoi ai desideri, vuoi all’infanzia degli utenti di cui alimenta le abitazioni. Il carattere per altro misterioso dell’energia elettrica, che produce effetti tangibili pur non essendolo, è forse il versante emerso, a noi noto, di un fenomeno generale: si pensi all’interesse che suscitarono, in menti tutt’altro che sragionevoli, le ricerche e speculazioni sul magnetismo, nell’Ottocento e oltre, fino ai Surrealisti.

Gadda sintetizza i termini della questione in una formula di notevole rilievo, a cui il suo lettore può riportarsi ogni qual volta si stupisca delle inesauribili digressioni con cui sovraccarica la sua pagina, in nota o nel testo principale:

La considerazione di un oggetto finito costringe la nostra mente a riconoscere l’esistenza di tutto il noto, di tutto il pensabile, ed altro ancora. (SVP 646)

Ciò che vale per gli oggetti inanimati è vero, a maggior ragione, quanto alle persone. Quel che chiamiamo io non esiste:

Altro errore profondo della speculazione: di vedere ad ogni costo l’io e l’uno dove non esistono affatto, di veder limiti e barriere, dove vi sono legami e aggrovigliamenti. (SVP 647)

L’idea è davvero determinante (e non solo in sede di narrativa gaddiana, come dirò), e Gadda la riaffermerà, quasi trent’anni dopo, nel florilegio dei Viaggi la morte:

La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. (L’egoista, SGF I 654)

La teoria del groviglio è una chiave di volta dell’opera di Gadda, sulla quale egli insiste in varie pagine, a livello teorico come nella praxis del racconto. Non è però che sia, in sé, un’idea del tutto nuova. L’innovazione, se c’è in Gadda, non va cercata in sede concettuale, ma consiste – o meglio, visto che siamo al 1928, consisterà – nello sfruttare in ambito di creazione letteraria una teoria chiara alla filosofia del Novecento, e già ampiamente delineata da quel filosofo che Gadda, appunto, ha studiato per la tesi:

Tutto, nel sistema di Leibniz, è retto dall’infinità del mondo e dall’impossibilità di ritagliarvi alcuna realtà che non sia infinita a modo suo, alcun elemento che non partecipi a modo suo a detta infinità: neanche nel mondo dei corpi, come si è visto, l’estensione è divisa in corpi finiti e corpi infiniti, ma ognuno di quei corpi, a sua volta, è suddiviso attualmente all’infinito; e tra le sostanze reali, non solo ciascuna contiene in sé a modo suo l’infinità dell’universo, ma non vi è nessuno stato della sostanza che non contenga delle tracce dell’intero suo passato, e dei germi dell’intero suo futuro. (8)

Il Gadda del Pasticciaccio rappresenterà le conseguenze narrative del sistema leibniziano, ne trasporterà il pensiero astratto nel campo della pratica di scrittura, dopo che la sua Meditazione ne aveva assodato la pertinenza teorica, e controllato la validità sulla base di esempi concreti. Esempi desunti – in un riflesso empirico che non stupisce in un ingegnere – dall’esperienza personale: l’esempio della centrale, quando si tratti di oggetti inanimati; e per quanto riguarda le persone di carne e ossa, l’esempio di… un ufficiale dell’esercito italiano. Un ufficiale non è un individuo isolato, ma uno degli organi, un prodotto e uno strumento dell’immenso corpo sociale:

quante volte, in guerra, i comandanti, i generali, ecc. mi apparvero non come persone, ma come non-persone. In essi la realtà lavorava, per essi si esprimeva. Ed esprimeva il suo pulsante palpito, il suo aggrovigliato vivere […].
Non vedevo il generale tale o il generale tal altro – ma relazioni logistiche, tattiche, ferroviarie, dinamiche, chimiche (esplosivi) ecc. e carrieristiche (promozioni-siluramenti) e politiche e sociali e culturali e storiche e vanità e sciocchezze e piccinerie (cioè infiniti complessi di relazioni) e testardaggini e ambizioni e valore e scemenza confluire, convergere come i mille pesci centripeti attorno al boccone. – Il generale non era quel fantoccio, con quel berretto, ma un nucleo o groviglio di relazioni attuali, un organo, non differente dall’occhio, buono o gramo. (Meditazione, SVP 670)

Queste righe nascono dalla generalizzazione della scoperta, già affidata al Cahier d’études, che «il romanzo non può isolare i personaggi» (SVP 460). Si intravede altresì la tematica della crisi dell’io, la severa critica al concetto di persona intesa come cerchio racchiuso su se stesso, che Gadda dettaglierà con feroce gioia nella Cognizione del dolore – si pensi solo al podere spalancato a tutti i venti dei Pirobutirro, o alla mente attraversata da tutte le correnti di emozione di Gonzalo.

Nietzsche dice di non tributare di nessuna fiducia le idee di coloro, filosofi, medici o scienziati, i quali non conoscono niente di se stessi, e asserisce che le loro teorie altro non sono che l’alibi, adorno di bellezze stilistiche e dotte, delle loro pecche e delle loro frustrazioni intime – o addirittura il travestimento concettualizzato di queste:

quando oggi la scienza non è la manifestazione più recente dell’ideale ascetico (…), essa è una copertura per il malcontento, la mancanza di fede, il rimorso, la despectio sui, la cattiva coscienza, – essa è l’inquietudine dovuta alla mancanza di ideale, la sofferenza causata dall’assenza del grande amore, l’insoddisfazione di una temperanza coatta. Quante cose dissimula la scienza oggi! o per lo meno quante cose deve dissimulare! La solidità dei nostri migliori scienziati, il loro cieco impegno, la loro testa che ribolle giorno e notte, la padronanza stessa che hanno del loro mestiere – quanto frequente è che il vero e proprio significato di tutto ciò sia di non lasciarsi raggiungere dall’evidenza di certe cose! La scienza come narcotico: conoscete voi questa cosa?… (9)

Freud è stato lì lì per dimostrare la verità… scientifica delle asserzioni nietzschiane, quando supponeva che il processo della sublimazione trasfigura pulsioni inconfessabili e deleterie in comportamenti socialmente accetti e gratificanti.

Certo, sarebbe eccessivo applicare brutalmente simili ipotesi a ciò che Gadda scrive sulla persona come groviglio, negando con questo pretesto la grandissima intelligenza delle sue vedute, di cui più sotto si vedrà meglio l’estensione. Ma d’altra parte, si deve escludere assolutamente che l’esempio dell’ufficiale sia neutro dal punto di vista affettivo, per l’ex tenente bellicista. Gadda pensa a sé e ai propri capi, e il teorizzare la persona come confluenza di relazioni multiple comporta implicita auto-discolpa: dando ordini od obbedendo, il soldato, in fondo, non fa teoricamente (ma intendi anche, storicamente: non faceva) che compiere la sua missione di punto d’incrocio, di servitore della realtà che lavora, e attraverso lui si esprime. Non gli pertiene quindi giudicare i propri atti, né deve lasciare che altri li giudichi, giacché superano sovranamente la sua persona. Il soldato non è se non il tramite impersonale di una verità superiore all’umana mente. (10) Se colpa c’è, non è mai individuale, si scioglie nella trama infinita delle relazioni, si estende ovunque di là dal nostro intendimento, in modo tale che diventa (ma forse sarebbe più esatto dire: diventi) impossibile emettere un qualsiasi giudizio morale. Non si contesta a un occhio di essere miope.

Nel contempo, si osserva il legame genetico tra fede nella gerarchia (militare e sociale, ma ciò vale per qualsiasi tipo di nomenclatura, in Gadda come forse in genere) come istituzione, e convinzione di un ordine intrinseco del mondo. In una gerarchia, nessuno esiste separatamente dagli altri, un determinato grado prende il suo senso relativamente ai gradi inferiori e superiori, essendo ognuno il punto di passaggio verso l’alto e il basso, di informazioni e ordini. La gerarchia secondo Gadda è buona poiché rappresenta – e ripresenta – in una forma umanamente accessibile e agibile, la stessa struttura profonda del reale. La gerarchia è la predella da cui innalzarsi verso la realtà più vera e luminosa:

bisogna avere una realtà dentro di sé, per costituire una realtà più grande e più fulgida. Ma il senso del reale è virtù a che si perviene con fatica durissima. Primo sacrificio: la vanagloria

scriverà sei anni dopo la Meditazione, nel Castello di Udine (RR I 131). Questa realtà dentro di sé è l’ordine militare; e a fustigare la vanagloria niente vale l’incondizionata obbedienza. La gerarchia è buona perché, come fa il reale, fissa i ruoli solo in apparenza: il capo conversa con l’invisibile, trascende il proprio grado, il quale sancisce semplicemente il suo genio strategico. Questa l’essenza dell’elogio oculato di Cadorna, «uno dei migliori», (11) affidato da Gadda nell’agosto 1916 al suo Giornale – e questa ancora l’essenza della glorificazione della figura del capo in genere, riproposta dal Castello:

La circolare sull’«attacco italiano» mi mostra che Cadorna è a conoscenza dei più pregevoli giudizî tattici della guerra moderna: certo è un’intelligenza nitida, perché rispecchia stupendamente e raccoglie in forma ordinatamente sintetica le acute osservazioni del nemico. Questo mi dice che esse osservazioni erano già nella sua mente, che già il suo spirito le aveva in possesso. (Giornale, SGF II 586) (12)

Il capo deve dilatare la sua analisi di là dagli stretti confini delle cose tecniche: deve percepire l’al di là, deve curare di rappresentarsi le correlazioni complesse che invisibilmente legano il suo esercito al resto del mondo. (Castello, RR I 131) (13)

Magari le cose stessero così. Magari si potesse separare, senza che tremasse la mano, il buon capo, in intimo contatto con il mondo circostante, dal capo cattivo, incapsulato nei galloni. Purtroppo, e alla luce delle stesse speculazioni di Gadda, simile distinzione è decisamente impossibile: se ognuno è (come in effetti è) un confluire di linee invisibili, lo è anche il capo cattivo, o stupido, o crudele; e perciò, ha ragione pure lui, davanti al Tribunale del Tutto. (14) E a costo di contraddire Gadda su questo punto, senza respingere globalmente la pertinenza della sua concezione, credo di poter dire che talora, e per quanto complesso fosse l’intrecciarsi delle linee di forza che li conduceva a emanare tal ordine o talaltro, si videro Generali ubbiditi per il solo e unico motivo che erano Generali: e senza che contasse minimamente quanto si andava elaborando in altri «nodi di relazione», però meno in alto nella gerarchia, circa il valore e l’assennatezza dei loro ordini. Sicché con l’esempio dell’ufficiale, il ragionamento gaddiano gira a vuoto: nel momento in cui ordina ed è ciecamente ubbidito, il generale si fissa nell’eternità del proprio grado gerarchico, smette di essere un mobile confluire di relazioni (interrompe ad esempio, se decide l’assalto che porterà per forza al massacro, il contatto con i campi magnetici della compassione), ridiventa una ermetica capsula nel flusso della guerra. Il suo io allora esiste per davvero, esce indenne dalle causali ch’egli ha scatenate, può anche essere decorato o promosso (Gadda accenna di sfuggita alle medaglie conferite ai capi per le stragi riuscite meglio, e nel Lussu di Un anno sull’altipiano si vede come la caparbietà criminale dei graduati in definitiva renda molto per la carriera), e il grado ha la meglio sul movimento del reale che pretendeva di sintetizzare.

Le righe in cui Gadda, con la scusa della filosofia, torna alla memoria della propria esperienza militare mi sembrano doppiamente rivelatrici. Da un lato, confermano una delle mie (e non solo mie) ipotesi di lettura dell’intera sua opera: la pagina di sangue della Prima Guerra mondiale non sarà mai voltata, Gadda dovrà rileggerla e riscriverla ancora, (15) e cercare nella scrittura delle attenuanti a una colpa mai confessata (e lenitivi al correlativo tacito rimorso). È questo il momento in cui il pensiero di Nietzsche, di cui dicevo sopra, prende l’intera sua forza. D’altro canto, lo slittamento del discorso filosofico verso l’autobiografia dimostra anticipatamente che Gadda non potrà a lungo viaggiare sul versante meramente speculativo. L’esempio del generale, carico di ogni dolore, e il fatto che tradisca per l’appunto un vizio di forma nel ragionamento, dimostrano che il segreto tormento è troppo cruento perché Gadda se ne possa astrarre. Lungi dall’essere così ottuso da diventare il teorico di una filosofia naturale della guerra, ma giusto giusto intralciato abbastanza dal passato di milite per non negare l’obbligo (morale e scientifico) di dar conto nei propri scritti, se non altro per allusioni, degli errori e orrori commessi, Gadda non può quindi essere il filosofo ch’egli vorrebbe. La materia scottante, carnale, sanguinosa della sua vita esige di esser posta al centro del discorso, nel bel mezzo della voce – proprio là dove Liliana scannata la porrà.

La digressione cui mi costringe l’esempio del generale è significativa: il suo intervento nella Meditazione è determinato meno da cause logiche interne al libro che non dall’assillo personale. Tornando poi al piano generale delle idee svolte da Gadda, e anche ammettendo che la loro origine è in (gran) parte traumatica, resta il fatto che seducono l’intelligenza, e trovano ampie complicità in altri autori, scrittori o pensatori. (16)

Gadda appare così il precursore italiano di una scuola di pensiero che nascerà in quanto tale solo negli anni ’60, dai lavori degli studiosi di Palo Alto, California, nota sotto il nome generico di sistemica. La sistemica, per quanto non goda ancora la fama che le spetta, segna una svolta decisiva nella storia delle idee. Per chiarire con poche parole la sua epistemologia, si consideri il modo come Bateson, il fondatore, affronta la questione della schizofrenia. Nella psichiatria classica, lo schizofrenico è un singolo malato, che ha dentro di sé qualcosa che funziona in modo anomalo. Bateson supera quell’approccio: lo schizofrenico non è tale separatamente dal mondo, ma in un ambiente dal quale non è legittimo astrarlo. La sua malattia non è il prodotto dei soli suoi recessi, ma obiettiva la situazione relazionale in cui si trova il malato nel proprio gruppo – famiglia, società: la sua, in altri termini, è la malattia di un complesso di persone e di un sistema relazionale. Non è la mente del malato a essere storta; anzi, funziona in modo del tutto normale, cioè conforme alle leggi generali che regolano l’umano agire, stando alle quali la risposta normale alla situazione in cui si trova è appunto la schizofrenia. La malattia perciò non è più solo il problema del singolo, è un messaggio collettivo, e contiene informazioni sulla rete relazionale che sottende e rende coerente il gruppo in cui sorge il malato. Si osserva del resto che una famiglia non può raggiungere da sola la guarigione del proprio pazzo, e fors’anche non può nemmeno desiderarla, poiché è proprio la malattia (lo squilibrio di un singolo membro) a garantire il suo equilibrio omeostatico. Lo stesso vale nelle famiglie un cui membro sia colpito da etilismo: spesso la guarigione provoca lo smantellarsi della famiglia, fino ad allora unita intorno al proprio alcolizzato. (17)

è palese come simile modo di pensare l’individuo – non importa se schizofrenico o generale d’esercito – somigli molto precisamente a quanto Gadda prospetta. Come Gadda, la sistemica ritiene illegittimo isolare un oggetto dagli altri, sradicarlo dal sistema cui partecipa per studiarlo. Così, si studiano solo corpi pressoché inerti. Ma vice versa, studiare gli oggetti nel loro sistema completo di pertinenza rappresenta una sfida insormontabile per la capacità razionale dell’uomo. Carla Benedetti, che molto chiaramente ha individuato i ponti fra Gadda e Bateson, ci offre in proposito un interessante commento:

Gregory Bateson […] è vicinissimo al nostro tema, per le sue riflessioni sui limiti della capacità dell’uomo di spiegare il mondo, sul mistero delle infinite connessioni, su cosa sia saggezza e sul ruolo mitigante che l’osservazione del mondo può avere sulla ragione parziale. Per Bateson, il concetto fondamentale a cui ricondurre tutti gli altri è, come del resto per Gadda, quello di complessità, da cui discende come corollario la limitatezza della ragione umana e della prospettiva unica. «La regola base di qualsiasi tipo di teoria dei sistemi» – ricorda Bateson […] – «consiglia di tracciare linee di comunicazione nel maggior numero possibile, perché non esistono sistemi davvero isolati». Anche qui dunque un «riferire» e un «collegare». (Benedetti 1995: 81)

Eppure, per quanto vicini siano i loro presupposti fondamentali, vi è una profonda differenza fra Gadda e Bateson. In Bateson, la vertigine dell’infinitezza delle connessioni multiple è, se così si può dire, una vertigine felice, comunque portatrice di speranza e amore, che dà alle sue pagine sobrietà stilistica e luminosa nitidezza intellettuale. Il mistero dell’esistenza non è mai deriso o negato, l’umiltà inquadra ogni riga di un pensatore che è pure – e non è un dato secondario – un vero umanista. Dal punto di vista metodologico, Bateson aderisce pienamente ai propri principi informatori, sicché il suo pensiero non si rigira su se stesso, ma si volge apertamente all’immensità del mondo, teso Verso una ecologia della mente. (18) Proprio per questo equilibrio e costanza metodologica, a Bateson si devono progressi maggiori nella ricerca di soluzioni per vari problemi difficoltosi e dolorosi, (19) e una comprensione più giusta del posto dell’uomo nella natura. Non vi è traccia in lui del conflitto tremendo che senza tregua oppone Gadda a Gadda, e quando scopre un vicolo cieco, un pantano – sono momenti bellissimi, in cui riferisce dialoghi con la figlia di dieci anni – Bateson lo nota semplicemente, senza inveire contro chiunque.

Al contrario, il disaccordo violento di Gadda con se stesso che chiunque avverte leggendolo non è un dato di semplice superficie: agisce nel cuore stesso della scrittura di un autore che non avrebbe scritto così tanto, e non a questo modo, con una tal angoscia dello sguardo altrui, una tal preoccupazione di lasciare profonda l’impronta e, nel contempo, di esasperare i propri lettori, se non avesse avuto da saldare un conto impossibile. Non condivido dunque per niente il parere di Benedetti, quando parla di una «saggezza sistemica» di Gadda. Scienza non sempre è saggezza. Si possono riconoscere intellettualmente le bellezze dell’amore universale, pur essendo incapaci di applicarne anche solo un po’ lo spirito alla propria vita. E così, Gadda sa che l’oggetto è coinvolto in un sistema infinitamente com-plicato, ma per lui, la correlativa sfida alla ragione si risolve nella notazione erudita (per non dire pedante), o nella tortura cerebrale (20) (il «groviglio della totalità» gli si presenta «mostruoso» – Meditazione, SVP 842): e con questo, la vertigine dell’ignoranza umana, in definitiva, risulta quasi sempre elusa, derisa o arginata entro i fasulli rimedi del nozionismo. È logico, perciò, che Gadda – nella pura ortodossia positivistica del secolo precedente – pretenda di respingere, fra le ormai stantie superstizioni, ogni forma di misticismo, laddove Bateson intuisce verità sfuggenti ma profonde. Pur dovendo nel contempo ammettere – consono, questa volta, all’epistemologia novecentesca, già approntata dai romantici (ma si potrebbe pure fare il nome di Socrate) – che, a voler comprendere il mondo, la ragione fallisce sempre. La scienza sistemica di Gadda, ben lungi dal costituire una saggezza (non fosse altro che di scrittura) lo porta invece, perché non vede altri modi validi di conoscere e discorrere, in una follia, in un fanatismo sistemico – che come ogni fanatismo, comporta una violenta contraddizione interna, e lo spinge per contraccolpi a riafferrare e riaffermare, nel medesimo impeto fanatico, la causa opposta. Sistemico per un suo versante, il pensiero gaddiano è, per l’altro, invincibilmente sistematico.

Occorre insistere sulla contraddizione in cui cade Gadda, e da cui, non individuandola consciamente, non esce mai. Egli approda alla visione dell’oggetto come luogo sistemico d’incontro di relazioni mediante l’esercizio tenace di una volontà cognitiva razionale prettamente classica, di una ricerca tradizionale dei legami logici univoci fra cose distinte. È proprio per questa strada razionalistica che tende a scompigliare il razionalismo, come si vede da righe già citate, la cui importanza consente di riportarle ancora:

La considerazione di un oggetto finito costringe la nostra mente a riconoscere l’esistenza di tutto il noto, di tutto il pensabile, ed altro ancora. (Meditazione, SVP 646)

Poiché non si possono assolutamente osservare tutte le forme di relazione del singolo oggetto con il tutto, non è lecito escludere che qualcuna si realizzi lungo canali che la ragione umana ritiene assurdi, o falsi, o inesistenti, o che comunque sfuggono ai suoi criteri. Donde l’interesse (però sempre ambiguo), in Gadda, per le strane coincidenze, i casi straordinari, le superstizioni, la magia… come nel Pasticciaccio, quando il malocchio della Zamira sembra a momenti possa veramente minacciare il brigadiere Pestalozzi. Ma per definizione, l’impensabile, quell’altro ancora che sta di là dalla ragione, non può diventare oggetto di studio per le scienze razionali, le quali pure forniscono l’unico modello gnoseologico di riferimento per Gadda. Donde anche, allora, sprezzo e irrisione verso i mistici, e chiunque presuma che lo spirito sia al di sopra della materia… (21)

è questo, forse, il cuore filosofico della profonda ambivalenza conflittuale di Gadda: Gadda arriva a concepire il mondo come mostruosa matassa di relazioni spingendo fino all’estremo limite lo sforzo di comprensione razionale. Agisce cioè all’interno dei confini definiti dal razionalismo (o positivismo, o determinismo, «una delle migliaia di norme del [suo] giudizio», Giornale, SGF II 617 – comunque una filosofia e un apparato metodologico che presuppongono che a un determinato fatto si possa trovare una determinata e sufficiente spiegazione); e dal di dentro scopre che il metodo razionale, se applicato con vera coerenza, diventa assolutamente inutilizzabile per la ragione e il metodo dell’uomo. Tuttavia, Gadda non rinunzia mai alla Ragione come principio esplicativo, coordinatore universale e univoco. Non compie mai il salto mistico o poetico (penso alla «natia illuminazione» che Mallarmé pone all’origine dei propri scritti, alle illuminazioni di Rimbaud, all’esperienza dell’estasi di Campana, alle traversate oltre lo specchio che vari poeti, fra cui Daumal, propiziarono con gli stupefacenti), che ad un tempo rimanda la Spiegazione in un mondo altro da questo che la ragione conosce, e consente di accettare con relativa serenità, e talora con religioso stupore, l’idea che le verità umane sono solo precarie approssimazioni, se non fallaci parvenze. E nemmeno compie il salto epistemologico che gli propone la scienza dei suoi anni, la quale è disposta ad ammettere che la nostra apprensione della realtà non è mai la realtà stessa: la ragione consente certo di costruire discorsi funzionali (però spesso contraddittori fra di loro) sulle cose; ma può benissimo darsi che non si sappia mai niente delle cose in sé – come asseriscono scienziati, Einstein o Planck, e filosofi, Peirce o Goodman, secondo cui

non c’è mezzo di concepire il mondo fuori dalle sue rappresentazioni, in quanto ogni pensiero è simbolico o rappresentativo. Non c’è quindi spazio per una distinzione netta fra mondo e rappresentazione del mondo […]. Il mondo reale si scioglie nella molteplicità delle rappresentazioni del mondo, o più semplicemente (dato che la distinzione fra mondo e rappresentazione del mondo non regge) in mondi molteplici. (22)

L’exemplum del tormento epistemologico di Gadda, spirito monistico hegeliano sconvolto dal novecentesco frantumarsi del mondo obiettivo unico in molteplici mondi soggettivi, è nel suo approccio al principio di causa, mastro pilastro del pensiero razionale, e garante della coesione e unicità del reale. Gadda, da un lato, tende a contestarne la solidità:

Nei millenni futuri l’applicazione del principio di causa apparirà una grossolana superstizione. (SVP 651)

Le spiegazioni deterministiche della scienza non spiegano un bel nulla. Gadda è quanto mai prossimo a riconoscere che la Verità sta per sempre fra le mani vuoi di Dio, vuoi della Natura, vuoi del Mistero, ed è comunque vano cercarla quaggiù:

Bisogna riconoscere che il mistero del Peccato Originale non è più mistero dei misteri scientifici. E che proprio la scienza fisica e biologica è il campo dove le persone oneste dovrebbero dire «Non se ne vede il fondo» oppure, se prediligono espressioni popolaresche, «Non se ne capisce un accidente»; invece di dir sempre «Si capisce» con arie cattedratiche, perciocché si sono poste delle pseudo-cause a spiegare l’inspiegabile. (SVP 716-17)

In questa critica neokantiana del razionalismo, (23) trapela una cupa insofferenza contro la scienza, che è anche insofferenza dell’autore verso una parte di se stesso: si sa che la scienza dura è la matrice della formazione intellettuale di Gadda, il quale è ancora ingegnere nel 1928 e lo resterà fino al ’40, e per giunta firma, dal 1921 al 1956, regolari articoli di divulgazione tecnicoscientifica che consolidano nella pratica una scienza che Gadda mette qui in dubbio a livello teorico. Ché d’altra parte, la scienza resta il termine apicale di riferimento del vero per Gadda, il quale riammette, in altre pagine della Meditazione, il principio di causa, lo rivalorizza, anzi gli conferisce una portata universalmente valida. Si può addirittura dire che Gadda tende allora a riprodurre, aggravandolo, l’errore or ora stigmatizzato: alla causa fa subentrare le cause, o causali, (24) poi una rete di cause collegate in molteplici modi (e nodi) fra di loro, un complesso di interminate catene causali ingarbugliate, alla stregua del leibniziano «infinito sincategorematico». (25) Dalla sua massimalizzazione, il principio di causa esce però inservibile per la mente umana quanto se fosse semplicemente negato. Le implicazioni da cause a cause proposte da Gadda disegnano una trama impensabile per eccessi di connessioni, e perché i concatenamenti causali avvengono simultaneamente in tutte le dimensioni, comprese quelle che non percepiamo:

L’ipotiposi della catena delle cause va emendata e guarita, se mai, con quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni (superficie) o a tre dimensioni (spazio-maglia, catena spaziale, catena a tre dimensioni), sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. (SVP 650)

Simili notazioni vanno ancora accostate alla svolta compiuta nel Novecento dalla fisica, che per secoli studiò i soli sistemi lineari, deterministici, e sta ora scoprendo i sistemi caotici, non deterministici. Ma, come si vedrà, è una svolta in cui il pensiero di Gadda s’arena.

Nei sistemi lineari, semplici e deterministici – vale a dire nei quali le leggi deterministiche, che a una causa fanno conseguire un effetto, sono valide –, la conoscenza di un segmento del sistema, momentaneamente isolato dagli altri per lo studio, è possibile, essendo il sistema costituito dalla totalità dei suoi segmenti giustapposti; e la conoscenza complessiva del sistema si ottiene, almeno teoricamente, con la somma delle conoscenze parziali. Questi sistemi ci sembrano ormai evidenti, addirittura naturali, dopo secoli di educazione e di realizzazioni, perché la scienza li ha inconsciamente privilegiati, tralasciando gli altri, assai più complessi. Offrono infatti il grande pregio di mettere l’osservatore o l’utilizzatore nella possibilità di emettere previsioni attendibili.

Per fare un esempio volutamente gaddeiforme, (26) conoscendo le caratteristiche tecniche del cannone, la portata, la lunghezza dell’affusto, il carico, ecc., tenendo conto del vento, e aggiustando la mira basandosi sulle leggi della balistica, uno è in grado di predire che l’appostamento nemico sarà colpito. A poter contraddire la previsione (perfetta nei calcoli), sembrano esserci solo l’imprecisione e l’errore dell’uomo – e l’uso dell’informatica ai fini bellici ha, sì, portato un notevole… progresso verso il tiro perfetto. Le possibilità di previsioni di questi sistemi lineari possono inoltre estendersi nel lungo termine, sul modello di quelle costruzioni sperimentali in cui una causa iniziale ne provoca un’altra, la quale a sua volta determina un evento che diventa poi causa del seguente, e così via fino al termine della catena. Quando per esempio si ordina una successione di tessere appoggiate in equilibrio instabile le une alle altre, si può predire che la spinta data alla prima tessera le farà cadere via via tutte, fino all’ultima, per quanto lunga sia la catena. Infine, in questi sistemi deterministici, l’intensità dell’effetto è proporzionato alla causa: l’ultima tessera non balzerà per aria.

Invece, nei sistemi caotici – che sembrano molto più adatti di quelli lineari alla osservazione-descrizione dei fenomeni naturali (27) – le leggi deterministiche non bastano, o addirittura scadono. La conoscenza di una parte del sistema è possibile soltanto avendone primamente una conoscenza globale. Si intuisce che la trama del Pasticciaccio pertiene a questo secondo tipo di sistemi gnoseologici: non è possibile tagliarla a fette lineari, ognuna delle quali conseguisse alla precedente e desse una parte delle informazioni, la cui somma fornisse la chiave logica dell’enigma. L’indagine-racconto è un pantano: soltanto una conoscenza generale di tutti i fenomeni cui si riallaccia la morte di Liliana, soltanto una conoscenza complessiva di tutti i nessi fra tutti gli eventi, presenti o meno (penso alla digressione sui gioielli, visti nella loro abissale profondità geologica) consentirebbe di sapere perché Liliana è stata uccisa. Si potrà magari scoprire chi ha ucciso, ma non la Causa dell’atto. Sapendo chi è stato l’omicida (ad es.: Virginia), si sarà tentati di accontentarsi di una risposta sommaria al quesito del perché (ad es.: per gelosia); ma tale risposta, qualunque sia, sarà per forza incompleta, se confrontata al concetto di persona come convergenza attuale di innumerevoli relazioni. Incompleta, se non del tutto fasulla, come sono sempre le risposte della scienza: «Si sa che seminando grano, nasce grano, ma non il perché» (Meditazione, SVP 704). E similmente, si sa che scannando qualcuno si uccide, ma si ignora perché si vive, si scanna, si muore. Se si potesse veramente sapere tutto circa la morte di Liliana, si scoprirebbe, oltre alla chiave dell’intreccio, il segreto dell’universo. (28)

Nei sistemi caotici, si è nell’impossibilità di fare predizioni a lungo termine. Lo esemplifica la meteorologia, le cui previsioni non sono più attendibili oltre qualche giorno, poiché nel clima, considerato come sistema, cause infinitesimali possono produrre effetti giganteschi. Tale fenomeno è correntemente chiamato effetto farfalla: un batter d’ali di farfalla giorni prima in un punto remotissimo del pianeta potrebbe provocare, per una valanga (29) di infinite diramazioni impossibili da computare, una tempesta hic et nunc. Gadda intuisce l’effetto a distanza di cause infime: (30)

Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me. (L’egoista, SGF I 654) (31)

I sistemi caotici che interessano la fisica contemporanea sono utili al suo progredire, perché la scienza attende tautologicamente a salvaguardarsi, e li adopera perciò solo quando funzionano, ritagliando zone di realtà in cui li può usare e studiare validamente; e ricorre vice versa ai sistemi classici quando non può (o ancora non sa) farne a meno.

Ma Gadda vuole di più. Alla stregua di Gonzalo, lo assilla l’inestinguibile brama di ricevere «una investitura da Dio» (Cognizione, RR I 607): in cerca del Sistema unico che non tralasci nessun dato («Il trascurare qualunque fatto della vita o del mondo è menomazione della potenza e della certezza nella prossima sintesi che di questa vita e di questo mondo si farà» – Meditazione, SVP 842), di una teoria del tutto, (32) lo scrittore concepisce un sistema ibrido, che rispecchia la contraddizione irrisolta del suo pensiero, caotico per ultradeterminismo, folle per ultrarazionalismo, gnoseologicamente inservibile, poiché la rete causale si estende in dimensioni infinite – e non solo per assenza di limiti nel cronotopo, ma anche perché esiste oltre il cronotopo. Gadda, cioè, vanifica la scienza con i mezzi della scienza, dimostra che si può, che si deve indagare indefinitamente nel e sul reale, ma che così non si trova mai nessuna chiave, nessuna valida risposta lungo una strada che è, però, l’unica ch’egli ritenga valida: questo razionalismo nichilistico è il paradosso (auto)distruttore di Gadda.

Così, quando respinge la validità dei discorsi che riguardino solo porzioni del tutto:

ragionando così sulle parti (cioè su regioni logiche) si addiviene a conclusioni logicamente regionalistiche che il giudizio di ricorso alla corte suprema della realtà totale respinge ordinandone la cassazione. (Meditazione, SVP 842)

Ora la scienza non può assolutamente far altro che esaminare, interpretare e descrivere il mondo settorialmente. Il salto epistemologico compiuto dalla fisica del primo Novecento costringe tutti gli scienziati ad ammetterlo esplicitamente, come scriveva Louis de Broglie nel 1937, in un bilancio delle ultime conseguenze dell’epistemologia contemporanea:

Niels Bohr è stato il primo a far osservare che nella nuova fisica quantistica, cosiccome l’ha modellata lo sviluppo della meccanica ondulatoria, le idee di corpuscoli e di onde, di localizzazione nello spazio e nel tempo e di stati dinamici ben definiti sono «complementari»; con ciò intende dire che la descrizione completa dei fenomeni osservabili esige che si adoperino a turno questi concetti, ma che in un certo senso, questi concetti sono tuttavia inconciliabili, poiché le immagini che essi danno non sono mai applicabili simultaneamente e interamente alla descrizione della realtà. Ad esempio, un gran numero di fatti osservati nella fisica atomica si possono tradurre in modo semplice solo ricorrendo all’idea di corpuscoli, sicché si può considerare l’uso di tale idea indispensabile al fisico; similmente, l’idea di onde è altrettanto indispensabile per la descrizione di un gran numero di altri fenomeni. Se una di queste due idee fosse rigorosamente adatta alla realtà, escluderebbe completamente l’altra. Fatto sta che sono ambedue utili in una certa misura per la descrizione dei fenomeni, e che, nonostante il loro carattere contraddittorio, devono essere adoperate alternativamente a seconda dei casi. (33)

Sicché la cassazione per difetto di universalità emessa da Gadda equivale a una pura e semplice ricusa di tutto il sapere – il che, in un erudito così avido di saperi, tradisce ancora la contraddizione autolesionistica dei processi mentali. Si possono trovare tanti altri esempi, come quando denunzia il vizio di forma inerente all’umano conoscere:

Ogni sistema filosofico cioè sforzo conoscitivo integratore della realtà ha un punto maligno o punto difettoso […].
Il sistema di relazioni espresso dalla conoscenza umana totale ha in sé, anche attualmente, un errore (o più errori). Ove si voglia chiamare errore sia la contraddizione o antinomia, sia una falsa relazione attuale inventata di sana pianta. (Meditazione, SVP 740-41)

Ora, nuovamente, la scienza non può assolutamente fare altro che costruire i propri edifici concettuali su fondamenta inventate di sana pianta, vale a dire gli assiomi, enunciati che la scienza non si cura di dimostrare se siano veri o falsi, semplicemente perché non può, come già seppero i Greci. Gli assiomi possono, al limite, sembrare conformi al buon senso empirico (così quelli di Euclide), ma possono altresì sembrare aberranti (così nelle geometrie non euclidee), (34) eppure dar vita a costruzioni logiche che sfidano l’empiria, sono estremamente feconde a livello teorico, e producono tangibilissimi effetti tecnici. Così Einstein, che asserisce che la fisica moderna comincia con l’invenzione dei concetti di massa e di energia – che perciò non sono affatto dati di natura o evidenze empiriche –, troverà nella geometria assurda di Riemann e Lobacevskij il modello matematico che gli permetterà di rimettere la fisica in carreggiata, grazie a una teoria da cui usciranno – e questo finisce di mostrare come l’empirismo sia sempre raggiunto e superato dall’immaginario, che credeva di avere scalzato – centrali e bombe nucleari, quanto mai reali. Come già scriveva Edgar Poe, in uno scritto polemico che prendeva di mira John Stuart Mill, uno dei fondatori della dottrina economica liberale, «non ci sono verità di per se stesse», (35) e non si può dimostrare la verità di nessun assioma, nessuno può esser detto vero, fuorché, al limite, quello che enuncia che non esiste nessun assioma vero. Rimproverare alla scienza le sue contraddizioni e antinomie, vuol dire rimproverarle di essere ciò che è, e di non essere ciò che comunque non può essere. Si veda, a conferma, cosa dice in proposito il notissimo ideatore del principio base della fisica quantistica, Heisenberg:

Si dovrebbe, pare, per poggiare le teorie fisiche su basi solide, imporre a se stessi di adoperare soltanto nozioni fondate unicamente sull’esperienza. Ma tale rigore in realtà è impraticabile; porterebbe a una revisione delle nozioni anche più comuni, non si sa quante resisterebbero alla discussione. Simile revisione generale s’imbatterebbe in difficoltà insormontabili. (36)

Un’altra idea chiave di Gadda, intimamente parente delle precedenti, enuncia la costante deformazione della realtà, giacché lo stato della conoscenza da un dato punto di vista si vede superato dal punto di vista successivo. Il corollario evidente di tale instabilità intrinseca del reale consiste nella sua relatività, nelle dimensioni diacronica – quel che oggi vediamo, allo stadio n dell’evoluzione del sapere umano, sarà superato allo stadio n + 1 – e sincronica – il mondo visto da un pesce è altro da quello visto da un’aquila (Meditazione, SVP 737), e anche fra umani la variazione può essere tale da compromettere la loro possibilità di intendersi su cosa sia o meno reale. Gadda però non insiste sulla relatività sincronica – per quanto sia proprio questa a poterci far dubitare senza rimedio della realtà del nostro mondo; (37) ma forse è appunto questa la vertigine che Gadda elude –, e si concentra invece sulla relatività diacronica, tema più scontato dell’epistemologia classica, già ampiamente esplorato da Hegel o da Comte.

Tutti i temi evocati sopra evidenziano un tentennamento intellettuale fra due ipotesi: la realtà è il prodotto autonomo dell’attività razionale umana? o va riconosciuta con Leibniz l’esistenza di una più vasta ragione, di cui la ragione umana sia solo una parte?

Si può orgogliosamente ammettere che la ragione crei a sé stessa il suo ambiente, che essa identifichi con la realtà (sebbene ciò sia discutibile, dal momento che abbiamo ammesso con Leibniz una più vasta ragione, nel qual caso la ragione dovrebbe fare i conti con questa più vasta e l’ambiente sarebbe non sua autonoma creazione) ma ciò è esagerato. (Meditazione, SVP 739) (38)

Tale esitazione raggiunge la contraddizione fra ordine e caos che la guerra aveva esemplificata, se non addirittura generata per Gadda, e designa il centro dinamico della sua opera. Profondamente, Gadda non la risolverà mai, ma il suo discorso valorizza esplicitamente l’ipotesi di un razionale ordine-in-sé del mondo, e l’ipotesi correlativa che quell’ordine può essere raggiunto e rivelato dal pensiero umano, per lo meno dal pensiero di Gadda e dei grandi a questo mondo. È questa, in fondo, la vecchia ipotesi antropocentrica (già derisa da Leopardi), secondo cui i procedimenti intellettuali umani sono esattamente ricalcati sull’organizzazione stessa della natura.

Da un lato, Gadda non ignora che la realtà non può presentarsi a noi in forma assoluta, ma solo sotto un aspetto condizionato dalla osservazione stessa, dai suoi punti di vista e strumenti: dall’inizio del Novecento, la scienza non presume più di vedere l’albero qual è, ma l’albero quale si mostra ad essa che lo guarda. D’altro canto, Gadda non rinunzia mai alla speranza-fede-certezza di un mondo sorretto da una trama, infinita, incomprensibile totalmente, certo, ma almeno organizzata sugli stessi principi razionali noti all’uomo. In tale prospettiva, ciò che a noi si rivela nell’indagine razionale è senz’altro sempre incompleto, imperfetto, ma resta però una parte della realtà stessa. Su questo versante, il pensiero gaddiano offre le più palesi similitudini con quello di Leibniz, che vagheggia una «scienza generale», crede che «non vi sia varietà infinita senza una legge da cui essa derivi», e si convince che gli enunciati della scienza consentono di «raggiungere una realtà verace» (Bréhier 1988: II, 207, 211, 215).

L’oscillazione fra questi due approcci antagonisti non occupa solo Gadda. Lo stesso quesito è posto a e da tutta l’epistemologia contemporanea. (39) è una interrogazione cui arrivano per forza gli scienziati, senza poterla risolvere, qualora riflettano sulle conseguenze filosofiche dei propri lavori, ma non è mai l’interrogazione da cui partono, anche perché la scienza, se ha bisogno di interrogarsi per progredire, finora non progredisce con postulati interrogativi. A lungo, le scienze dure hanno nutrito la convinzione che le loro formule fossero la realtà. Oggi, tendono più umilmente (e… scientificamente) a pensare che siano solo modelli possibili, che non attingono mai alla Realtà stessa. Ma il cambiamento di punto di vista non modifica i metodi. Pertiene alla fede o all’opinione personale, e gli scienziati possono non trovarsi d’accordo come persone sul significato filosofico di ciò che fanno – credere o meno, ad esempio, che ci sia un Creatore –, pur riuscendo a lavorare di comune accordo. (40) Non è necessario credere che la geometria euclidea sia una verità di natura – l’idea è oramai assurda – per tracciare parallele e angoli retti. In Gadda, invece, tale esitazione si mantiene a monte della scrittura, di cui è una, se non la funzione motrice.

Il fatto di non aver scelto fra queste due ipotesi – non dico spiritualmente (che sarebbe come dire scegliere se Dio c’è o meno) bensì metodologicamente –, e di non aver neanche protratto o messo in sospeso l’esitazione, ma di averla lasciata agire nell’elaborazione del testo, questo fatto rende certe pagine della Meditazione confuse, contraddittorie, talora ingenue – e questa è una osservazione che varrebbe la pena confrontare all’insieme dell’opera gaddiana, considerata come sistema.

Si vede per esempio Gadda filosofo dispiegare ingenti forze, convocare le sue vaste e varie conoscenze per sfondare porte da tempo già aperte all’evidenza, come quando si cimenta nel dimostrare L’impossibile chiusura di un sistema (cap. XIV), vale a dire l’impossibilità per un qualsiasi sistemo cognitivo di accogliere la Verità vera e di richiudersi su di essa (SVP 740). Questo sta a confermare che il problema per Gadda ancora c’è, e non è stato risolto, o meglio che Gadda rimane profondamente ancorato nel positivismo e non si rassegna all’imperfezione del sapere umano: vorrebbe per lo meno dimostrare, nel bel sistema chiuso di un capitolo, che nessun sistema si chiude. Ma anche questo è impossibile, ché non si può dimostrare né l’esistenza di Dio, né quella di Non-Dio, e la tensione permane, che attraversa tutta l’opera gaddiana, fra coscienza dell’insufficienza di ogni sforzo esplicativo e volontà sempre attiva e tenace di onniscienza. Fra una intuizione acuta del relativo, se non dell’inane di ogni cognizione, e una fede tacita, o spesso esplicita, (41) nel Progresso del pensiero razionale, nell’essenza deterministica della storia. (42) Fra una coscienza, in altre parole, che lo situa sul versante della modernità del suo secolo, e in genere dalla parte del dubbio proprio della speculazione, della ricerca e dell’arte; e un ottimismo cognitivo ingenuo per cui si ricollega strettamente all’Ottocento, e in genere ai discorsi della certezza presuntuosa, e potenzialmente pericolosa, per la sempre possibile collusione con quelli del potere oppressivo; del che il Futurismo, dopo la fase utopistica e rivoluzionaria, fornì un paradigma tuttora rilevante, e che certamente dovette contribuire a rafforzare Gadda, nonostante le sue esplicite riserve verso quel movimento, in una posizione tradizionale di fondo del pensiero occidentale. (43)

Ma è forse proprio perché non ha reciso l’interrogazione, e perché l’ha lasciata agire nei recessi del testo, che Gadda vede, nel 1928, lo scrittore aver la meglio sul filosofo. Applicando alla Meditazione – considerata, come Gadda ci invita a fare, alla stregua di un sistema – il truismo dell’impossibile chiusura; osservando, cioè, che il sistema concettuale che si prefiggeva di elaborare non può essere ottenuto, come dimostra l’autore stesso, (44) è giocoforza dire che nel momento in cui tenta di costituirsi filosofo, Gadda nel contempo fallisce e si costituisce scrittore – uno scrittore, però, che dovrà ascrivere in passivo dell’opera futura anche quest’altro fallimento.

La Meditazione milanese conclude (ma non chiude) un periodo di crisi creative, durante il quale Gadda ha cercato la direzione verso cui orientare il desiderio e lo sforzo di scrivere. A prima vista, il Racconto italiano non (gli) sembra granché. La via filosofica pareva dovesse aprire una strada migliore, ma riesce pure questa una strada chiusa, perché la filosofia, quale la concepisce Gadda, avrebbe il compito di fissare il reale mobile in un sistema razionale chiuso e saldo, cosa che ovviamente non può fare. Si pensi in proposito alla metafora, nel Pasticciaccio, del pesciolino che scompiglia la bella rete dell’impeccabile ricostruzione logica dell’omicidio vagheggiata da Pestalozzi: la rete, sistema cognitivo perfettamente disegnato, per quanto sottile e duttile, non afferra il pesciolino, la vita imprevedibile e sfuggente. (45)

E la Meditazione milanese apre un periodo nuovo (in cui però si dovrà continuare a scontare il vecchio), che vede Gadda impegnarsi, ora con più risolutezza, nel mestiere di scrivere e narrare: nel mestiere di chi sa – o dovrebbe sapere –, mentre tenta di descrivere e comprendere il mondo, di inventare nel contempo il mondo. (46) Per qualche aspetto, e talvolta per moltissimi versi, gli esordi di Gadda in letteratura si riveleranno però non tanto propiziatori di mondi nuovi, quanto profondamente condizionati dal mondo com’è e com’è stato: se non tributari delle mitologie dell’Italia fascista, comunque ispirati alla comune fonte della magnificazione estetico-razionale della guerra, della assolutizzazione dell’ordine fisico (quello che provocò la carneficina) in un Ordine metafisico. (47)

Université Stendhal-Grenoble 3

Note

1. Si veda Il castello di Udine, del 1934, premio Bagutta l’anno dopo. A quindici anni di distanza dalla fine della guerra, Gadda si proclama tuttora cultore del «dovere [e dell’] orgoglio militare» (RR I 138), del «sacrificio […] comandato da una legge paragrafata in alti paragrafi» (175), e rivendica l’immutabilità del tenace bellicismo già stilato dal ’15 al ’19 nel suo Giornale di guerra e di prigionia: «E il mio giudizio circa le necessità della guerra è rimasto sostanzialmente coerente» (142).

2. Esistono almeno due scritti anteriori dedicati a Leibniz, del marzo e del maggio 1928, da considerarsi materiali preliminari alla tesi, o formanti parte della stessa. Vedi Lucchini 1994a, in particolare laddove viene segnalato il progetto gaddiano di una «Meditazione sul proemio dei nuovi saggi leibniziani».

3. Traduco, per questa citazione e le due precedenti, da Manganaro 1994a: 83. Lo sdoppiamento autore-critico ripropone la scissione interna del Racconto italiano-Cahier d'études, fra composizione e critica, e annunzia la doppia investitura (autore e curatore) autoconferitasi da Gadda nel Castello.

4. Sottolineo l’avverbio che segna come Gadda, pur dedicandosi a un trattato di filosofia, continui però a tenere in altissimo conto il criterio letterario. Ciò conferma, mi pare, la mia ipotesi, che alla Meditazione sia proprio assegnata la missione di redimere lo scacco del Racconto. Si potrebbe essere tentati di desumerne (con qualche parzialità) questo teorema: Gadda teorizza quando non riesce più a raccontare. L’opposto, insomma, del teorema (ugualmente parziale) secondo cui i moduli narrativi gaddiani sono il logico approdo di una filosofia già bell’e pronta. Si vedrà in queste pagine che, fra le corna di questo dilemma, si può proporre un approccio che lo risolva.

5. Motivo per cui, nel suo Giornale di guerra, Gadda dichiarava di amare di pari amore la fisica e la filosofia, e di esitare fra queste due vie per il proprio avvenire (SGF II 793).

6. Per cui son del parere che si è più soli e più liberi in letteratura che in filosofia, e che i grandi filosofi sono anche (e forse soprattutto) grandi scrittori. Così Campana omaggiava in Nietzsche non tanto l’innovazione concettuale, quanto la barbarie inedita dello stile – in proposito mi si permetta di rimandare a Ch. Mileschi, Dino Campana. Le mystique du chaos (Parigi-Losanna: L’Âge d’Homme, 1998), 115.

7. La pregnanza del processo cognitivo esplicito nella narrazione di Gadda conferma ancora che la Meditazione non è un proemio concettuale separato dalla letteratura. Presenta in modo più netto, perché spoglio dell’intreccio romanzesco (ma spoglio solo in parte, come si vedrà), le direttrici dell’ispirazione da Gadda formulate anche negli altri testi.

8. Traduco da é. Bréhier, Histoire de la philosophie, XVIIe-XVIIIe siècles, II (Parigi: P.U.F., 1988), 4, 216. L’idea non sembra poi tanto nuova neanche in Leibniz: l’abbozzo è in Plotino, per il quale «ogni cosa era tutte le cose» (217).

9. F. Nietzsche, La genealogia della morale (1887), III, 23.

10. Si vede come Gadda applichi insomma agli ufficiali il rimbaldiano «Je est un autre», che riecheggia il concetto antico del poeta-oracolo di una voce sovrumana, trasmettitore di un messaggio che non gli appartiene, in quanto proviene non da lui, ma da un aldilà: la Poesia, gli dei, Dio… o in questo caso, la Gerarchia militare.

11. Giornale, SGF II 548. L’encomio a Cadorna va accostato a quello rivolto a Cesare, che Gadda assume a modello nel Giornale, e a cui rende nuovo omaggio nelle pagine iniziali del Castello, fedele a una lunga tradizione di esaltazione delle gesta dell’imperatore-soldato-scrittore, emblema della gloriosa romanità. L’abbinamento Cadorna-Cesare tradisce probabilmente un topos dell’epoca bellica, riscontrabile anche in Giuseppe De Robertis: «Mi piacciono i comunicati di Cadorna, così aderenti e netti, che paiono pezzi dei Commentari di Cesare» – La Voce, 15 luglio 1915, ora in G. De Robertis, Scritti vociani, a cura di E. Falqui (Firenze: Le Monnier, 1967), 386.

12. Le circolari di Cadorna, sin dai primissimi giorni di guerra, attestano, più che il suo illustre genio tattico, una concezione della disciplina che esige la morte per i renitenti. Nell’intessere l’encomio a Cadorna, l’ufficiale Gadda non poteva non aver presenti le tremende direttive emanate dal capo di Stato Maggiore già il 24 maggio e il 28 settembre 1915 – ora riportate in C. De Simone, L’Isonzo mormorava. Fanti e generali a Caporetto (Milano: Mursia, 1995), 204-05.

13. Forse Lussu risponde al ritratto ideale del capo, quando presenta il successore dell’odioso Generale Leone, il Generale Piccolomini. Piccolomini rivendica per l’ufficiale una intelligenza superiore, in termini prettamente gaddiani: «Un’intelligenza limpida, solare, come la luce di questa radiosa giornata, in cui gli atomi infiniti danzano in divino accordo, così come io vorrei danzassero gli ufficiali della mia divisione, nei giorni di battaglia. […] Un’intelligenza per la quale è sufficiente una minuscola chiave per aprire una grande porta; una parola per afferrare il significato di un ordine, un’intuizione per comprendere, subito, di primo acchito, un fatto sconosciuto». Si riconoscono in questo discorso (che senz’altro riecheggia le autocelebrazioni di ufficiali di alto rango) dei motivi assai vicini a quelli di Gadda – accordo supremo fra le monadi che formano l’esercito, comprensione di una totalità attraverso un piccolissimo frammento, percezione intuitiva dell’ignoto, capacità, comunque, di trascendere i dati meramente materiali… Lussu però deride amaramente il genio militare che affascina Gadda, come rivelano le righe che seguono quelle appena citate. A riprova della propria perorazione, Piccolomini fa un esempio: a un centinaio di metri, si scorge una buca sormontata da una specie di capanna. Inutile, dice il Generale, averla fatta per sapere cosa nasconde: una mitragliatrice. I soldati correggono però l’errore: si tratta di «una latrina da campo» – E. Lussu, Un anno sull’altipiano (1936) (Torino: Einaudi, 1992), 147-48.

14. Potrebbe ad esempio darsi che il massacro, da lui ordinato per errore, avesse poi impedito altre e più orrende stragi, di là da venire! Con questo, si vede che la speculazione sulle connessioni infinite mette allo sbaraglio qualsiasi possibilità di giudicare moralmente le decisioni del capo, nonché gli atti di chiunque. Gadda, assillato dalla mostruosità guerriera e sempre in cerca di una giustificazione ad essa, persiste e persisterà – l’elogio di Cesare nel Castello assolve questa funzione – a voler salvare la nozione di buon capo militare – ossia la figura stessa del capo incontestabile e (necessariamente, quindi) infallibile. Ma nella logica del groviglio, tale nozione non regge. Scade ogni de-finizione teorica del bene o del male (e si noti che questa, del dilemma fra bene e male, è un’ossessione onnipresente nella narrativa gaddiana, dal Racconto al Pasticciaccio). Del resto, non si capisce come il carisma del comandante possa mai elevarlo al di sopra del groviglio, se non si compie un salto logico e metafisico, che in effetti il Castello compierà: il capo, a partire dal groviglio della battaglia, e grazie al di lui genio, attinge a uno spazio di immutabili verità. Finzione gerarchica deificata, che perpetua il sogno di sovrumana grandezza che Gadda, nella trincea, ambiva per sé.

15. Anche Manuela Bertone è di questo parere, quando parla «di quel particolare modo di avvicinare la realtà che di fatto incombe su tutto l’insieme dei testi gaddiani, caratterizzati come sono dalla necessità di riattivare la comunicazione con il passato dello scrittore-combattente» (Bertone 1993: 70).

16. è molto fecondo postulare che non vi è una rigida frontiera fra spazio interno e esterno di un individuo (o oggetto, o evento), che ciò che sta dentro si collega in profondo alla totalità che sta fuori attraverso innumerevoli relazioni. Lo comprova Gadda stesso, quando mescola alle considerazioni astratte, emotivamente esteriori, un materiale intimo e passionale. La continuità, o addirittura l’equivalenza fra dentro e fuori è un pilastro centrale della poetica di molti artisti del Novecento. Si pensi al Campana di Pampa, per il quale la con-fusione fra oggettivo e soggettivo non fu una mera formula stilistica, bensì una intuizione epistemologica vissuta sulla propria pelle.

17. Applicandogli un approccio sistemico, il Nostro appare come il luogo di esasperazione di un conflitto assai più ampio di lui: il conflitto collettivo, credo tuttora non risolto, tra un presente che vuole rimuovere o abbellire l’orrore e un «passato scomodo», per dirla con Tranfaglia, com’è il fascismo, e com’era già la prima strage mondiale.

18. Questo il titolo italiano (Adelphi, 1976) del suo celebre Steps to an Ecology of the Mind.

19. La schizofrenia, l’etilismo, le relazioni internazionali… I lavori di Bateson hanno fra l’altro originato la costituzione dell’Associazione degli Alcolisti Anonimi e le terapie famigliari, nonché stimolato moltissimi ricercatori più giovani.

20. Questa è secondo me la ragione per cui Gadda raggiunge la punta estrema della propria arte quando, per l’appunto, sceglie come protagonista un vero e proprio nevrastenico. Nella Cognizione, Gonzalo-Gadda esprime senza tanti rigiri la propria tortura morale, e l’angoscia si dà da vedere in modo più diretto e autentico che in tutti gli altri libri. Anche là però, rimane – come spero di dimostrare in altra sede – inquadrata da solidissimi (è il caso di dirlo in francese, insistendo sull’abbinamento di parole, che sembrerebbe fatto apposta per Gadda) garde-fous.

21. Vero è che agli occhi di Gadda, sarà Mussolini a rappresentare la tipica figura del mistico! In modo ricorrente (v. Eros e Priapo, I miti del somaro, Quer pasticcaccio), Gadda deride giustamente il motto mussoliniano «lo spirito vince la materia», ispirato all’idealismo gentiliano, e messo allo sbaraglio in Russia, dove le condizioni climatiche e materiali la spuntarono sugli slanci di siffatto spirito. La derisione di Gadda, però, gli si ritorce anche contro. Infatti, parlava della sua guerra in termini altrettanto ingenui e fuori luogo, prescindendo dalla dimensione carne e ossa: «la guerra è cozzo di energie spirituali» (Giornale, SGF II 722).

22. R. Shusterman, L’art comme infraction. Goodman, le rap et le pragmatisme, in Cahiers du Musée National d’art moderne 41 (1992): 143. Ringrazio il collega Gherard Heinzmann, professore di filosofia all’Université Nancy 2, di avermi segnalato questo articolo.

23. Cfr. Teoria trascendentale del metodo, A 758 / B 786. Gadda si iscrive in un retaggio filosofico quanto mai consolidato, come ho già notato.

24. Anche se cambia il nome, il concetto è immutato. Però il nuovo nome apre la porta a un bel lapsus tipografico: nella prima edizione del Pasticciaccio, anziché «causale», si legge «casuale». L’errore verrà corretto solo nella terza edizione (RR II 1162). Sarà un… caso, ma l’alternativa causale / casuale riassume perfettamente l’esitazione determinismo / caos di cui dirò più sotto.

25. Bréhier 1988: II, 220 – le pagine dedicate a Leibniz confermano che il pensiero gaddiano sulle cause multiple deve l’essenziale al filosofo tedesco.

26. Cfr. la novella Manovre di artiglieria da campagna, confluita nella Madonna dei Filosofi.

27. V. I. Prigogine, Le leggi del caos (Roma: Laterza, 1993).

28. «Se l’uomo sapesse davvero una cosa saprebbe tutte le cose», scrive, più conciso di Gadda, E. Montale, Difficile distinguere l’arte dalla poesia, in Il Corriere della sera, 20.02.1966, ora in Sulla poesia (1976) (Milano: Mondadori, 1997), 151; e in Il secondo mestiere. Prose, II (Milano: Mondadori, 1996), 2777. Chi sapesse veramente cosa sia una patata, potrebbe rispondere a tutte le domande.

29. Non scelgo la parola per pura metafora, ma perché le valanghe sono fenomeni la cui modellizzazione pertiene ai sistemi caotici: la caduta di un sassolino può sfociare sul travolgimento di un paese. Così anche gli ingorghi stradali, che possono avverarsi per una semplice e breve frenata di un veicolo iniziale. Ringrazio il collega Draghi Karevski, professore di fisica all’Université Nancy 1, di questi suggerimenti.

30. E così anche Dino Buzzati, in Il crollo della Baliverna – il protagonista narratore provoca il crollo di un edificio per aver solo preso in mano una sbarra di ferro che spuntava da un muro.

31. Roscioni ha perfettamente visto che Gadda qui riecheggia ancora la leibniziana «connexion universelle des choses» – Roscioni 1995a: 74.

32. Cfr. J.D. Barrow, Theories of Everything – The Quest for Ultimate Explanation (1991), trad. it. Teorie del Tutto – La ricerca della spiegazione ultima (Milano: Adelphi, 1992).

33. Traduco da L. De Broglie, La physique nouvelle et les quanta (Parigi: Flammarion, 1937), 11.

34. La matematica va concepita come attività immaginaria, come la poesia (si pensi a Carroll). Non si cura neanche di inglobare in ogni suo discorso il mondo intero. Si possono inventare mondi matematici che non servono a nulla, per lo meno nel momento in cui si inventano. Si può inventare un numero il cui quadrato sia negativo (i2 = -1) senza che questo serva minimamente per pagare la spesa. Si possono effettuare operazioni matriciali in spazi a 48 dimensioni dove si farebbe fatica a costruire una casa, ecc.

35. E. Poe, Eureka, in Contes - Essais - Poèmes, traductions de Baudelaire et de Mallarmé, complétées de nouvelles traductions de J.M. Manguin et de C. Richard (Parigi: Laffont, 1989), 1114.

36. Traduco da W. Heisenberg, Les principes physiques de la théorie des quanta (Parigi: Gauthier-Villars, 1932), 1-2. Com’è noto, Heinseberg ha posto alla fisica un principio d’indeterminazione da cui consegue la nebulizzazione dello spazio-tempo empirico.

37. Cosa sappiamo di quel che sanno i gatti, le amebe o i delfini? Il loro sapere sul mondo, assai più del nostro scevro da costrizioni (e costruzioni) di ragione, deve quindi per forza essere meno vero? Sbaglia, la farfalla maschio, a sentire a distanza di chilometri l’odore della farfalla femmina? O piuttosto conosce olfattivamente il mondo più a fondo di noi? Sarebbe errato credere che con simili domande, ci si dà ai sollazzi: «Per ogni specie, il mondo esteriore quale è percepito dipende sia dagli organi sia dal modo in cui il cervello integra gli eventi sensoriali e motori. Anche quando delle specie differenti percepiscono una stessa gamma di stimoli, il loro cervello può essere organizzato in modo tale da selezionare particolarità differenti. L’ambiente così come è percepito da specie differenti può, a seconda di come viene elaborata l’informazione, variare tanto profondamente quanto se gli stimoli provenissero da mondi differenti». Traduco dal saggio stupendo del biologo F. Jacob, Le jeu des possibles (Parigi: Fayard, 1997), 100. Tali osservazioni non comportano nessuna menomazione delle facoltà intellettive umane, ma mostrano quanto sia ingenuo dire che l’uomo veda mai una cosa qual è veramente. Ne consegue anche che i vari modi umani di approccio e di semantizzazione del mondo sono ugualmente incompleti, e a priori ugualmente degni di essere considerati, non essendo il successo quantitativo di un determinato modo pegno di un maggiore grado di verità o bellezza. L’opera lirica non è un’arte migliore-in-sé del rap, il romanzo non ha ragione più della poesia. Per dirla diversamente, non verrebbe in mente a nessuno dire che il successo editoriale di Eco attesta che i suoi scritti sono più veri di quelli di Rebora.

38. Quello che Gadda ritiene un motivo di inorgoglirsi (che la realtà non sia che una costruzione mentale) vice versa mi sembra proprio un argomento a favore dell’umiltà (v. nota supra).

39. V. ad es. Barrow 1992: 175.

40. Tendenzialmente, mi pare gli scienziati propendano per una separazione drastica fra la realtà come ci appare e la Realtà com’è. Secondo Einstein, con la rivoluzione quantistica, la fisica ha finito di occuparsi della realtà stessa, per agire ormai solo all’interno dei propri schemi. Altri puntellano questa tesi: per Barrow, le stesse costanti della fisica, nonché le nozioni matematiche più fondamentali, sono certamente dipendenti dalle condizioni e dai problemi specifici del pianeta Terra (Barrow 1992: 188-89). Ipotetiche civiltà extraterrestri potrebbero aver coniato presupposti fondamentali di tutt’altro tipo. Pure il biologo (Jacob 1997: 101) lo dice a modo suo: «il mondo esteriore […] sembra quindi essere una creazione del sistema nervoso. In un certo senso, è un mondo possibile, un modello». Niente cioè ci permette, a partire da questo mondo, di raggiungere la seppur minima certezza sul Mondo – «denn wir leben wahrhaft in Figuren» (R.M. Rilke, Sonetti a Orfeo, XII).

41. Ho già ricordato come nelle pagine del Giornale, Gadda segnalasse il determinismo come chiave di volta del suo pensare. Ed è una professione di fede sempre osteggiata, ma giammai ricusata, anzi ogni volta riafferrata, se nel 1944-45, Gadda ancora propone fra i suoi maestri intellettuali il nome di Darwin (Miti del somaro, SVP 913), o rimprovera al fascismo di aver contrariato il normale corso della storia, da secoli avviata (secondo Gadda) verso la perfezione della conoscenza vera (909).

42. Mentre, stando a un altro scrittore e scienziato, «Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana sia un processo deterministico» – P. Levi, I sommersi e i salvati (Torino: Einaudi, 1986), 122. Oppure, in chiave più crudele: «Il Progresso è quell’ingiustizia che ogni generazione compie verso quella che l’ha preceduta» – E. Cioran, De l’inconvénient d’être né (1973) (Parigi: Gallimard, 1988), 150.

43. «Noi affermiamo invece come principio assoluto del Futurismo il divenire continuo e l’indefinito progredire, fisiologico ed intellettuale, dell’uomo» – F.T. Marinetti, La guerra, sola igiene del mondo (1915), in Marinetti e il Futurismo, a c. di L. De Maria (Milano: Mondadori, 1973), 218.

44. «Ora è possibile che solo il sistema della conoscenza umana debba essere in sé chiuso e perfetto? Unica eccezione alla regola? No. E così tutti i sistemi filosofici contengono certamente un residuo o errore di chiusura». Si vede come Gadda, affermando che il pensiero non può far altro che ripetere sempre quell’errore – «Ogni sistema filosofico cioè sforzo conoscitivo integratore della realtà ha un punto maligno o punto difettoso» (Meditazione, SVP 740) –, annienti in nuce le fondamenta cognitive che confessa d’altra parte di voler, per primo, porre: «Non ripetiamo noi lo stesso errore» (743).

45. Il nome dato da Gadda al suo brigadiere, è quello di un filosofo e pedagogista svizzero (Johann Heinrich Pestalozzi, 1746-1827). Non credo sia un caso, come non è un caso che il personaggio sia un militare. Ordine razionale e disciplina militare per Gadda sono connaturati. Il Pestalozzi gaddiano è però abbastanza grullo e ridicolo, troppo sicuro di sé. Da un lato, vi si può vedere una ennesima riprova dell’autocontraddizione di un autore che sempre deride ciò che ama (la filosofia, l’esercito). Ma d’altro lato, si può anche supporre che vi siano, nel pensiero del filosofo svizzero, elementi che Gadda intende canzonare. Ora, l’idea chiave del pedagogista, il suo contributo più rilevante e innovativo, consiste nel propugnare che ci siano fra gli umili, i miseri, i diseredati dell’ordine sociale, alti ingegni; che non possono emergere a causa del «sistema educativo dominante, che è poco idoneo a favorire l’indipendenza di carattere» – J.H. Pestalozzi, L’educazione, cit. da P. Leandri, Pestalozzi e l’educazione alla socialità, in Cultura & Libri 82 (novembre 1992): 47. Una concezione che porta quindi in nuce una fondamentale relativizzazione critica della gerarchia sociale attuale. Numerosi passi degli scritti di Gadda (v. ad es. Castello, RR I 132, 147) permettono di accertare che l’ingegnere ex-tenente rimase, in effetti, sempre convinto che la scala sociale dei ruoli rispecchiasse esattamente la scala morale dei meriti (questa anche l’analisi di Isnenghi 1970: 267). Di nuovo, l’ordine costruito si spaccia per Ordine-in-sé.

46. Si è già detto che a redazione ultimata, Gadda additava il carattere (la sottolineatura è mia) «letterariamente assai confuso e incomposto» della sua Meditazione. Le poche pagine della seconda stesura cui si accinse, prima di abbandonare per sempre il progetto, attestano preoccupazioni stilistiche e autobiografiche, piuttosto che concettuali. Si consideri questa aggiunta all’inizio del primo capitolo: «Quando le nuvole sorgono, come sogni, dai monti e dalle foreste: diademate di folgori le montagne attendono i battaglioni d’assalto: il soldato si ferma, guarda lontano e pensa: “Quali saranno i miei atti?” Ma già sono» (SVP 859). Queste righe verranno poi riversate in parte in Preghiera, secondo degli Studi Imperfetti di Madonna dei Filosofi: «Vi sono monti lontani, terribili: ed ecco le nuvole sorgono, come sogni, o come pensieri, dai monti e dalle foreste» (RR I 38).

47. è questo ovviamente un argomento assai sensibile, che qualche volta la critica ha preferito eludere. A mio avviso, va invece affrontato con chiarezza di idee e fermezza etica, ed evitando il sin troppo facile sotterfugio che consiste nel dire, davanti a una pagina imbarazzante: è solo letteratura (o magari letteratura tanto più grande quanto più discutibili siano i presupposti morali?). Questo non può andar più bene per il nostro tempo, in cui si sa ormai che figurazioni letterarie si possono intrecciare con tragedie collettive e stragi del tutto fisiche. Non credo poi che da una disamina eticopolitica rigorosa l’opera di Gadda debba uscire deturpata, ma anzi più giustamente restituita a se stessa, che di etica e politica fece aperta professione.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-14-0

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