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Le «opere» e i commenti
(A proposito di M. Gaetani,
Lo sguardo di Giano.
«Il tempo e le opere» di C.E. Gadda
)

Emilio Manzotti

Tra le stravaganze (1) più recenti ma certo non postreme degli studi gaddiani occupa un posto di rilievo il volume qui discusso di Marco Gaetani. (2) L’autore vi propone per l’essenziale un megacommento (3) al microscopio elettronico, disteso su circa 200 fitte pagine, di un breve (tre pagine!) scritto minore del Gran Lombardo, Il tempo e le opere (= TO) o Il dolce riaversi della luce, (4) uscito a stampa nella Fiera letteraria del 13 gennaio 1966, e verosimilmente composto nelle settimane immediatamente precedenti (a prestar fede agli indizi cronologici del V capoverso: «Ecco lo schiarire tardo e manchevole, decembrine sere: ecc.»). Uno dei rari testi, Il tempo e le opere, ascrivibili all’ultimo decennio dell’autore, di quelli, si sa, che inclinano a cristallizzare in maniera, sulla falsariga dell’amato Crivelli, il registro alto, solenne, repertoriato nel Cahier d’études e che per il loro procedere essenzialmente associativo e divagatorio, così come per i continui ritorni parafrastici ad uno stesso tema senza posa variato, mettono a dura prova, specie nelle transizioni da periodo a periodo, le facoltà logiche del lettore.

La dismisura dell’operazione di Marco Gaetani, il suo fare astrazione da ogni norma o opportunità editoriale e accademica, merita la simpatia del lettore e del recensore. Il quale sarebbe tentato – a torto – di scorgervi un avatar del gioco nabokoviano di Pale Fire; o un ammicco al versante analitico, oltralpe, dell’Oulipo. Ma non c’è ombra di scherzo nelle serissime note di Gaetani: se esse eccedono in maniera parossistica la normale misura è perché – non tacendo niente, non rinunciando ad alcuna associazione o sviluppo, configurandosi (a volte con qualche sacrificio di pertinenza) in piccoli o meno piccoli saggi tematici intertestuali sul termine d’appicco – vogliono in ultima istanza essere uno studio a tutto tondo sull’opera dell’autore. Ne è del resto ben consapevole Gaetani stesso nella sua Introduzione: «il commento si propone – come ci si augura possa essere evidente a lettura ultimata [di questo non v’è dubbio!] – come abbozzo pur molto imperfetto di una interpretazione di tutto Gadda» (p. 35). Certo la contraddizione non è di poco momento: perché mai aver adottato la forma commento per fare, stravolgendo completamente la ratio di questa forma, tutt’altra cosa?

A libro ex lege, recensione ex lege. Ecco allora che prima di entrare nel merito del volume cerco di seguire, messi i panni del lettore non specialista, il filo mal visibile del discorso gaddiano per fissare schematicamente per punti (corrispondenti solo inizialmente ai capoversi) cosa nel testo si riesce di primo acchito a capire, e poter valutare così l’apporto prima filologico poi esegetico del commento. E vista la sua brevità – e qualità – riproduco qui integralmente il testo gaddiano (SGF II 1208-211), a cui del resto dovremo continuamente riandare. Del titolo parleremo poi.

Il filo di questo complesso discorso mi sembra allora ricostruibile, tralasciati i dettagli, nei punti che seguono.

1. All’inizio (rr. 1-5) sta l’affermazione perentoria con cui Gadda apriva molti anni prima il Racconto italiano: (5) l’assenza, in certuni almeno («non in tutti», mentre nel Racconto la negazione portava – «non sempre» – sull’universalità delle circostanze), (6) di una certa idea, da intendere in prima approssimazione come idea-guida per l’intraprendere, per l’edificare nel mondo opere, quali esse siano, ma anche, più specificamente, come idea-previsione del futuro, come Cognizione di quel che avverrà di tali opere. (7) Segue (rr. 2-5), dopo i due punti, una giustificazione dell’affermazione iniziale (è così perché le opere saranno perfette in un futuro magari remoto, inaccessibile al nostro debole o nullo antivedere). Il resto (rr. 5-27) del lungo capoverso funge (credo) da sviluppo illustrativo della malagevole prevedibilità del futuro delle opere, con:

a) un’oscura alternativa ternaria (rr. 5-8): «Molti […] edifici […] andarono consunti o […] proni […] o già rovinarono...», da intendere come mini-tipologia del decadimento, della rovina cui sono votate le opere (ma occorrerebbe delucidare la gerarchia semantica delle disgiunzioni);

b) il tema dell’indispensabile e onerosa manutenzione (rr. 8-10), tema molto caro a Gadda; (8)

c) una digressione (rr. 11-14) sulla connotazione temporale senza fine, con manutenzione integrata alla stessa costruzione, che talora i concetti di fabbrica o opera vengono ad assumere (l’allusione (9) sarà in particolare alla proverbiale, in ambito milanese-lombardo, fabrica del Domm, opera che non ha mai termine, fatica di Sisifo);

d) infine (rr. 14-27), una coda doppia (a membri contrapposti) alla digressione sui tempi lunghi delle opere:

d1) il popolo, gli umili, loro sì che hanno esperienza del tempo necessario alla estruzione delle interminabili opere, tanto da lamentarsi e farne proverbi (rr. 14-21);

d2) mentre che (rr. 21-27) i capitani di dette opere, e in particolare i capitani generali (è tema che Gadda si porta dietro dal Giornale) improvvisano senza tener conto dei vincoli materiali, del tempo necessario, procurando così la rovina dei sottoposti.

2. Ripresa (rr. 28-34) in termini più espliciti dell’affermazione negativa iniziale: «No: una meditata previsione dell’evento non soccorre ecc.», a cui fanno forse eccezione le opere necessarie, le esiodee opere dei campi, che assicurano agli umani il «perenne pane» (così nella Cognizione, RR I 680) della vita. Segue (rr. 35-49), piuttosto criptico, uno sviluppo sull’accordo profondo (da attribuire alla «sola e provvida enunciazione» che tutto regge) tra il ritmo delle alternanze di luce e di ombra e di stagioni da una parte e il ritmo della vita dall’altra – una sorta di pulsazione vitale che il mito avrebbe ipostatizzato nella figura del nume bifronte Giano, riguardante ad un tempo all’indietro verso il passato e in avanti verso il futuro.

3. Questo nume di confine, questo nume-siepe viene nel mito a presiedere severamente anche ad altra disgiunzione molto cara all’Autore, (10) quella tra mio e tuo nella fattispecie del fondo rustico: a difendere insomma da ogni intrusione di vicini o di estranei i rispettivi possedimenti (solo così, par di capire, ci si potrà consacrare, ognuno sul suo, alle impellenti opere; III capoverso, rr. 50-57).

4. Ritorno esemplificativo (rr. 58-68) ai lavori dei campi, trascelti secondo un criterio oltre che di attualità cronologica (l’ora della scrittura: siamo nei giorni brevi attorno a Santa Lucia) di essenzialità vitale: nell’ordine, l’olio, il pane, il vino. Vale a dire: a) la raccolta delle olive; b) l’aratura e la semina; e c) la vendemmia e la svinatura (il vino è già nei tini a ribollire). L’anno, messi al sicuro i raccolti, può giungere al suo termine (rr. 68-71).

5. Sul pedale dello smorire e riaversi dell’anno, ritorno (rr. 72-76) al tema del Tempo nella figura di Kronos, (11) il signore «delle stagioni e degli evi», dei lavori già compiuti, dei raccolti premeditati. Ma (rr. 76-81) Kronos-Saturno, oltre che fautore e patrocinatore delle messi future, è anche Tempus edax, e fissa il suo (mal)occhio (uno guardo iettatorio analogo a quello del Serruchón-Resegone nella Cognizione e nelle Meraviglie) sulle «nuove estruzioni», sulle «nuove torri»: sue creature che egli ineluttabilmente finirà per divorare. Segue (rr. 81-95) una lunga digressione-similitudine (voracità del Tempo ≈ voracità degli umani «ai cibi loro») sopra il passo del De bello gallico in cui il volpone Cesare illude di promesse sul raccolto a venire la fame dei suoi.

6. Ritorno brusco (malgrado la coordinazione testuale di «E il nume degli evi …»), dopo la digressione ginnasiale, al tema del Tempus edax, «inesorabile se pur lento consumatore dell’opere» (VII capoverso, rr. 98-100).

7. E per concludere (capoverso finale) si riprende, in parziale opposizione a 6 (e a 5), l’eccezione delle opere necessarie dei campi, a cui, come si era asserito sopra, non fa difetto l’idea-previsione del futuro, di quel che terrà dietro al lavoro (la «consecuzione loro») – anche se questa idea viene presentata come del tutto volontaristica: più speranza (12) o autoillusione («le operose genti neppur vollero credere ...») che ragionata certezza. Illusione necessaria, che dopo l’ulteriore mini-digressione ai «villan vispi e sciolti» del Parini, anch’essi certi in lor cuore del raccolto futuro, viene estesa (13) alle opere non georgiche: i monumenta romani delle mura, delle porte e dei loro fòrnici, delle viae, dei ponti e degli acquedotti. Opere che dureranno (rr. 108-112), secondo il vaticinio oraziano dell’ode che chiude il III libro, (14) «fino a tanto che» sussisterà Roma nelle sue cerimonie civili e religiose, cioè sino a che durerà l’organizzazione sociale.

In definitiva, secondo questo mio regesto, in TO si discorre effettivamente a norma del titolo binario (15) di tempo; di opere, cioè di lavoro o lavori e delle opere che ne risultano; e di rapporti tra il tempo e le opere, e in particolare dell’influsso divorante del tempo sulle opere, votate dal sorgere alla rovina, non vi si opponesse il lavoro (un tema classico, lucreziano ad esempio, (16) che Virgilio, Georg. I, vv. 199-200 affidava alla sentenza «sic omnia fatis | in peius ruere ac retro sublapsa referri»). Certo vi si parla anche per divagazioni e digressioni, secondo una modalità propria al Gadda estremo (lo si era accennato sopra – e v. per questo il caso limite, nel 1968, di Divagazioni e garbuglio, in SGF I 1221-224), di tante altre cose: dei vispi e sciolti contadini brianzoli di Parini, di soldati di Cesare in tournée nelle Gallie, del poco cervello dei generali della Grande Guerra, degli occhi di Santa Lucia, e via dicendo. Comunque l’affermazione iniziale dell’imprevedibilità dell’esito delle opere umane, votate nel tempo al nulla (esito a cui le genti salutarmente rifiutano di credere), domina, affiorandovi in successive istanze, tutto il testo; che si conclude ribadendo proprio la magnanima illusione di una continuità e stabilità nel futuro («Dureranno l’opere…») – da intendere naturalmente alla luce del passo, di quasi un trentennio prima, della Cognizione, anch’esso con un «ma» iniziale contro l’opacità dell’immutato divenire: «Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!.... e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni prassi è un’immagine,.... zendado, impresa, nel vento bandiera....» (RR I 604). Nessuno di questi temi e sottotemi e temi associati è nuovo nell’opera di Gadda, e molti risuonano già con evidenza nei primi anni – è tuttavia toccante vederli riaffiorare in fine con simile investimento di pathos.

* * *

Il volume di Gaetani, ora. Esso comprende, sotto un titolo che focalizza lo sguardo bi-verso di Giano – mentre il sottotitolo menziona lo scritto gaddiano come Il tempo e le opere –, una Nota al testo (che è sorprendentemente in primo luogo una nota al proprio testo, e solo nel secondo capoverso una nota al testo di Gadda), una introduzione (pp. 9-38) corredata di ben 107 note (pp. 39-46); indi, sotto il titolo doppio con cui Dante Isella lo aveva reso noto, il testo di TO (pp. 47-50), con una lunga (pp. 51-54) nota appunto sulla corretta scelta del titolo. Viene quindi il corpo del commento, disposto per capoversi: gli otto di TO, che vengono successivamente riprodotti e esaurientemente (è dir poco) annotati. Dunque otto blocchi di testo-commento. Per dare un’idea delle dimensioni dell’annotazione, il primo capoverso, di sei periodi, che occupa circa tre quarti della p. 55, è svolto da 79 note (21 per il solo primo periodo), note che si distendono in corpo minore (9 punti, forse) da p. 48 a p. 109. Chiudono il volume 12 pagine di riferimenti bibliografici, distinti in 4 sezioni: Opere di Carlo Emilio Gadda, Epistolarî, interviste, biografie, testimonianze, Contributi critici per un totale di 86 voci, e infine Altri testi: classici greci e latini, filosofi, studi di storia antica, ma anche Kerény, Panofsky, Zanzotto e la Grammatica della moltitudine (non molitudine) (17) di Paolo Virno.

Da segnalare ancora tre (potenzialmente) preziose riproduzioni di pagine della Fiera letteraria del gennaio ’66: la copertina, la p. 2 del sommario, e la p. 8 con la prima parte di TO (perché non anche la p. 9 con la seconda parte?) – distribuite nel volume, secondo un principio che mi rimane oscuro, alle pp. 6, 170 e 234. Credo che il lettore queste illustrazioni le avrebbe desiderate una di seguito all’altra, e collocate là dove nelle note (pp. 51 sgg.) esse vengono descritte con abbondanza di particolari; ma soprattutto le avrebbe gradite leggibili, cosa che purtroppo, per insufficienti dimensioni e risoluzione, proprio non sono.

L’introduzione (che non lascia a dire il vero un ricordo imperituro, e non solo a causa della sua prolissità e verbosità) (18) consta di due parti: la prima più breve, ripresa (fatta salva una espunzione segnalata in parentesi quadre) dalla sede originale di Per leggere, fornisce indicazioni sulle misure del commento (TO, ad «altissima concentrazione», conterrebbe tutto Gadda, onde la necessità di dire quasi tutto), sul taglio adottato (molto auto-commento mediante luoghi paralleli, ecc.), e sui limiti (l’analisi non ha potuto risolvere tutti i dubbi del testo, ecc.). La seconda parte è di 5 lunghi paragrafi. Sfrondato dei molti dettagli il discorso, ne risulta quanto segue. § 1 colma l’accennata lacuna della prima parte: a differenza della stampa parziale in rivista, stavolta si sono estesi gli spogli anche alla corrispondenza gaddiana, e se ne approfitta per affrontare il problema, a dire il vero qui piuttosto ozioso, della sua «rilevanza letteraria e creativa», negata o ridimensionata da certi critici, celebrata da altri. § 2 tematizza la notoria intertestualità e allusività gaddiana, e ciò che essa comporta per il commentatore. § 3 prosegue apparentemente l’apologia del commentatore, per quel che almeno consente di capire la scrittura particolarmente faticosa (massicci capoversi-periodo (19) i cui dettagli tolgono il respiro, o peggio rebus deittici come a p. 22: «Non si esclude tuttavia che quella di un tentativo di “chiudere” il testo, di imprigionarlo per fargli dire tutto (e fatalmente troppo), possa essere l’impressione che un lavoro come quello che qui si presenta, può suscitare nel lettore, si collochi esso agli estremi di un massimo o di un minimo di competenza»). (20) § 4. affronta il tema molto generale della artificiosa scrittura gaddiana, e in sostanza dei rapporti nell’autore tra forma e contenuti, tra artificio-menzogna e autenticità-verità (osserverei però (21) che la questione delle «celeberrime cinque maniere», non è affatto, in assenza di studi stilistico-tipologici seri, così pacifica come ritiene Gaetani). § 5 accenna di nuovo alle possibili obiezioni ad una lettura esageratamente microscopica e al peso eccessivo conferito ad uno scritto minore, e conclude bene sul senso delle scelte tematiche di TO – inno al fluire della vita, e al lavoro faticoso che ne assicura la perennità, inno a ciò che è profondo, essenziale – per un Gadda ormai vecchio ed estraneo alla società del miracolo economico e dell’inessenziale.

Questa introduzione di pagine trenta avrebbe molto guadagnato a mio avviso ad essere concentrata in pagine cinque. Meno parole – salutare contrappasso critico per autori verbalmente debordanti – onde lasciare il primo piano alle informazioni significative. Di passaggio non posso tacere il fastidio per le continue valutazioni di cui l’introduzione è costellata: Isella intitola «opportunamente» un volumetto adelphiano, la cui breve nota al testo mostra «l’istinto non meno che l’intelligenza del critico» (p. 10); Roscioni non si limita a individuare qualcosa, ma lo fa «con la consueta puntualità» (p. 17); Dombroski osserva «esattamente» (p. 17), e così via.

Ma, entrando ora nel vivo del lavoro, esaminiamo anzitutto la questione del titolo doppio di TO, come essa è minutamente affrontata e risolta da Gaetani nella Nota di pp. 51-54, che propone (22) intelligenti considerazioni di sociologia diciamo editoriale. Dante Isella, ristampando nel volume omonimo TO, aveva interpretato i due titoli nella p. 8 del fascicolo della Fiera – in alto a piena pagina IL DOLCE RIAVERSI DELLA LUCE, e più in basso, sotto la fotografia dell’autore “IL TEMPO E LE OPERE” | DI | CARLO EMILIO GADDA – nel senso di titolo e sottotitolo, o meglio di una alternativa. Donde la sua scelta, confermata nel I volume garzantiano dei Saggi Giornali Favole, così come nel vol. Bibliografia e Indici, di privilegiare il primo titolo (quello che in rivista è in grassetto e corpo maggiore), chiudendo il secondo tra parentesi:

IL DOLCE RIAVERSI DELLA LUCE
(IL TEMPO E LE OPERE)

Ma, come mostra Gaetani, sulla copertina del fascicolo e nella p. 2 del Sommario, TO figura come IL TEMPO E LE OPERE o come «Il tempo e le opere»; (23) il che attribuisce al dolce riaversi della luce, che oltretutto non ha niente d’un titolo gaddiano, lo statuto di un richiamo al testo, di cui cita un significativo sintagma (rr. 42-44 «Lo smorire e il dolce riaversi della luce, codesta pausa…» e poi sotto, r. 73, in termini quasi equivalenti «lo smorire e ’l riaversi dell’anno»). La sola ragionevole obiezione, che Il tempo e le opere fosse titolo di una ipotetica rubrica affidata a Gadda, e Il dolce riaversi della luce quello della prima (e unica) puntata della rubrica, non regge per tante ragioni, prima di tutte la stessa presentazione editoriale («Il brano inedito che pubblichiamo e che Gadda ha avuto la cordialità di offrirci ecc.»). Non v’è dubbio, insomma – né per Gaetani né per me – che il vero titolo di TO sia Il tempo e le opere. Ma mi risulta allora mal comprensibile che nel volume TO sia riprodotto, alle pp. 46-50, sotto il doppio titolo vulgato; e che, peggio, il titolo corrente nel margine superiore delle pagine destre sia Il dolce riaversi della luce.

Ora, finalmente, il commento. Impossibile, si sarà capito, parlarne in maniera esauriente, o anche solo accennare ai tesori di erudizione gaddiana e di cultura letteraria che esso nasconde (il verbo non è anodino). L’autore fa prova di una conoscenza rara, invidiabile, di tutta l’opera gaddiana – una conoscenza dei temi, in particolare, che va molto al di là delle identità lessicali registrate meccanicamente dalle concordanze. Vien voglia d’andar subito, per misurare l’efficacia dell’annotazione, ai passi che risultano più oscuri al lettore, ad esempio, come si era detto, al punto a) di 1 o alla seconda parte di 2 della scansione logica del testo che si è proposta sopra.

Ma fermiamoci lo stesso sull’inizio, anzi sulle primissime righe di TO, tutte un fiorire di esponenti di note, le quali riservano sorprese di vario genere. Per Gaetani, in effetti, l’assenza dell’«idea» (r. 1) non è provata, giustificata, come credevo, dalla semi-coordinazione in «mentre» aperta dai due punti di r. 2 («l’opere saranno perfette… mentre che…»), ma è invece «enunciata compiutamente» proprio da essa coordinazione. Il periodo iniziale risulterebbe dunque parafrasabile, se seguiamo il commentatore, con «Un’idea non in tutti è viva al momento del disegnare ecc.: l’idea che l’opere saranno perfette in un domani ecc. mentre che il disegno è dell’oggi ecc.», e i due punti introdurrebbero non una giustificazione dell’assenza dell’idea, ma una riformulazione (specificante, esplicitante) (24) della stessa idea. Così, certo, l’«idea» di TO non può davvero essere la stessa «idea» che fa difetto nell’incipit di Notte di luna, l’idea centrale, organizzatrice dell’opera in divenire, quell’idea che era un po’ un luogo comune dei primi decenni del Novecento, e che l’ammiratissimo (da Gadda) ingegnere elettrotecnico Ettore Conti (un po’ di famiglia coi Gadda, oltretutto), in una annotazione datata «Milano, 2 luglio 1927» formulava in questi termini: «Anche le opere più complesse nascono da un’idea centrale che le organizza. Sulle prime, attraverso tanti elementi, l’idea centrale pare sfuggire, ma poi affiora la sintesi, e mi lascia l’impressione che la mia è stata opera non da poco». (25) Perché no? L’idea di TO sarà pure quella che dice Gaetani, tutto è possibile. Peccato però che in questo modo:

a) va perduto il bell’effetto della ripresa tematica di rr. 28-29 (vd. il punto 2 sopra): «No: una meditata previsione dell’evento non soccorre in ogni occasione e in misura costante agli umani», che mi pare proprio, con buona pace di Gaetani, una riformulazione esplicitante (e molto esplicita) di r. 1 «Un’idea non in tutti è viva al momento di…»;

b) si attribuisce l’importante statuto di idea – lessicalmente e quindi concettualmente semplice – ad una contrapposizione di concetti neanche poi tanto peregrini: le opere saranno compiute nel futuro, invece la progettazione è dell’oggi;

c) risulta meno evidente il legame tra l’idea e il divenire delle opere – col relativo fatale fardello della manutenzione;

d) diviene problematico lo statuto dell’avverbio «forse» di r. 2 («forse ancora invisibile»); esso, ben adeguato, anzi indispensabile a giustificare che «Un’idea non in tutti è viva», appare a ben guardare mal compatibile con la lettura riformulativa (la n. 13 relativa a «forse» non fa parola di questo);

e) si è tentati – e lo fa senz’altro il commentatore – di ipotizzare, onde regolarizzare grammaticalmente e informativamente il testo, in luogo dell’articolo indeterminativo un di «Un’idea», un sottostante determinativo o dimostrativo cataforico (qualcosa come L’idea che..., Questa idea che…). Il passo successivo di percepire conseguentemente, in modo un po’ avventuroso, nell’ano-malo «un[a]» di «Un’idea» uno «scarto stilistico minimo che consegue un effetto di “sfocatura”, di lieve tentennamento e sospensione semantica», un effetto «rafforzato dalla differita, ancorché soltanto brevemente, enunciazione esplicita dell’“idea” in questione». Di più, come da cosa nasce cosa, così Gaetani arriva a vedere qui il preludio dell’«andamento generale, non soltanto linguistico, dell’intero capitolo [= TO? oppure solo il primo capoverso?]»,

il quale [capitolo] si porrà tutto, appunto, all’insegna del senso di una di volta in volta più o meno accentuata incertezza, di un tono di scepsi saggia e prudente piuttosto che di asseverativa perentorietà: conformemente ad un atteggiamento «filosofico» di prudenza che accompagna l’autore dagli anni giovanili […] fino alla maturità. (p. 56 – seguono dieci righe di citazioni)

Il resto della n. 2, che è poi la nota iniziale, la n. 1 essendo come si è visto apposta al titolo, è rivolto per quasi due fitte pagine a ricostruire minutamente gli impieghi e i valori del termine «idea» nell’opera gaddiana. Noi salteremo invece alle note che costellano il secondo periodo, rr. 5-8, del primo capoverso. Forse qui sarebbe stato illuminante addurre per lo «spirito della magnificenza e dell’orgoglio di quelli che ecc.» un ulteriore rimando – caso raro, poter lamentare un’assenza in questo commento! – al passo di uno scritto del ’55, Quartieri suburbani (che pure è citato per le «magnificenze rimaste a mezzo» appena sopra), là dove si osserva che il

concetto di limite economico, limite delle possibilità di edificazione e di manutenzione, non sembra essere tra i più connaturati e ingredienti nello slancio vitale dei nostri. Il signore, o il mestapopolo, vedeva la sua propria burbanza come gloria verace, impersonata in un colosso, proiettata nell’eternità perché allogata in un mausoleo indelebile: che crepò viceversa insieme a lui, come Dio volle, e qualche volta anche prima di lui. Che ne è del mausoleo carrarese di Evita, entrata nell’immortalità alle otto e quarantacinque? (SGF I 1129)

Ma a porre un problema basico di lettura, è appunto l’alternativa ternaria, oscura come si era detto, che costituisce l’ossatura sintattico-semantica del periodo: «Molti […] edifici […] andarono consunti o […] proni […], o già rovinarono ...». Come andranno intese esattamente queste disgiunzioni? Qui il commento (a meno che non mi sia sfuggito qualcosa), non mi è di grande aiuto. Che le disgiunzioni siano gerarchicamente sullo stesso piano (= pqr), o che l’ultima sia dello stesso livello delle prime due prese assieme (interne cioè alle predicazione), come suggerirebbe la virgola prima di «o già», (26) mi pare egualmente per diverse ragioni implausibile. E implausibile mi sembra anche che «proni», dal canto suo, sia da collegare come «consunti» ad «andarono». Sospetterei piuttosto che quel che si presenta come una alternativa ternaria sia invece un costrutto correlativo o… o, inquadrante due possibili circostanze modali-causali dell’andar consunti (27) di «Molti e molti edifici nel mondo»: un’alternativa binaria di circostanze di un unico stato di cose, dunque, e non un’alternativa ternaria di stati di cose indipendenti. Una parafrasi sensata sarebbe allora, se la mia ipotesi è corretta, del tipo: «Molti e molti edifici nel mondo andarono consunti: o in quanto / perché proni… o in quanto / perché già rovinarono...», o forse meglio, senza troppo esplicitare la funzione della circostanziale, con un gerundio in parallelo all’aggettivo «proni»: «Molti e molti edifici nel mondo andarono consunti: o proni …. o già rovinando...». Ma la questione mi sembra ancora sub judice.

Problemi ancora più terra terra non tanto di interpretazione quanto di comprensione letterale del testo – per spostarci più avanti nel commento – mi sembra porre il passo di rr. 72-76, di cui riprendo l’inizio:

Le pigre pallide albe, quasi premature le sere a ogni antico e nuovo modo rituale, o suono o voce, non meno che lo smorire e ’l riaversi dell’anno, furono sacri al nume persistente delle stagioni e degli evi ecc.

Complessivamente una struttura copulativa – furono sacri – con un soggetto, direi, plurimo e sintatticamente variato. L’idea di base, abbastanza chiara, è che l’inizio e la fine di una misura temporale, giorno o anno, furono sacri a Kronos: le «albe», le «sere», nonché, ancora chiasticamente, gli ultimi e i primi giorni dell’anno. Ma sta di fatto che «quasi premature le sere a ogni antico e nuovo modo rituale» è per la sintassi dell’italiano (anche letterario) uno strano soggetto, un soggetto impossibile, perché esso, adottando la sintassi di una frase copulativa ellittica del verbo, risulta incompatibile con quella dei sintagmi nominali che lo inquadrano. Su questa contraddizione, che tenderei ad ascrivere, come spesso accade in Gadda, a una conseguenza delle varianti instaurative, in particolare ad aggiunte o spostamenti mal integrabili o mal compresi dagli editori, sarebbe piaciuto avere un parere puntuale del commentatore.

Nonostante la frequenza nel commento di analitiche descrizioni linguistiche del dettato gaddiano, e di tutta la terminologia tecnica, (28) grammaticale e retorica, qui va avec, la mia impressione è che Gaetani si trovi più a suo agio, almeno a giudicare dai risultati, sui piani alti del commento, quelli dei temi e dell’interpretazione su di essi fondata. Alcune delle analisi linguistiche sono parafrasi complicate di qualcosa di semplice; altre risultano discutibili in quanto analisi. (29) Particolarmente infelice mi pare la tendenza a interpretare, a sovra-interpretare stilisticamente il dato linguistico, come accade ad esempio (ma gli esempi si possono moltiplicare) nella n. 75 di p. 107 a proposito della ripetizione di rr. 24-26 «… le difese loro, mentre che un nemico più consapevole e più deliberato allo sterminio aggirò le difese…». Annota Gaetani:

La ripetizione […] sembra collocarsi qui al di fuori di ogni intenzionalità stilistica, e sfuggire tanto all’attenta calibratura fonico-prosodica che regola la figura dell’iteratio nel testo quanto ad ogni consueto studio posto dall’autore nello scongiurare ritorni espressivi incontrollati […]: e dunque da considerare quasi riflesso dei momenti convulsi in cui si realizzò storicamente il disastro, registrazione mimetico-espressiva dei concomitanti sgomento e perdita di presa sul reale verificatisi in quanti si trovarono improvvisamente esposti al pericolo estremo […]; ma tradisce anche, l’iteratio, la piena emotiva che travolge il soggetto rammemorante e ne condiziona la scrittura.

Tutto questo po’ po’ d’illazioni interpretative sul fragile zoccolo di una ripetizione neanche poi tanto evidente (si rileggano le rr. 21-27), e che comunque nella prima occorrenza ma non nella seconda appare accompagnata da «loro» («difese loro»), così che quello inteso è semmai un effetto contrastivo, tra le difese pensate, immaginate, e le difese effettuali (diverso mi sembra il caso addotto come parallelo, sempre nella stessa nota, di croconsuelo nella Cognizione: «Quando poi fu la volta del croconsuelo, usò del coltello per deporre croconsuelo sulla lingua»).

Positiva, per contro, quasi sempre positiva, è invece nel lettore la reazione all’annotazione tematica o più generalmente filosofico-culturale di Gaetani. Così, nel passo, relativamente criptico a prima lettura (lo si era già avvertito), di rr. 35-49 e delle due-tre righe precedenti il commentatore si sofferma estesamente ma utilmente su tante cose: sulle possibilità della vita (n. 108: «Più che le molteplici e diverse forme in cui la vita e in generale l’essere fenomenico si offrono, ad essere dislocato in “lontananze strutturali” […] è il fatto stesso di poter sopravvivere o meno ecc.»); sulle lontananze strutturali (n. 106), che non devono essere intese «né in senso cronico né in senso spaziale. Si argomenta infatti ora intorno ad una dimensione metafisica, acronica ed inestesa per eccellenza», per cui la lontananza in causa sarà piuttosto «il punto di fuga del destino cosmico, il senso finalistico dell’Essere che appare allontanarsi in regioni in-definite ecc.»; sulle implicazioni ontologiche generali di «rigirio» e di «rivolversi» (nn. 98 e 102); e così via. La perspicuità del testo ne esce effettivamente e di molto incrementata (anche se non sono convinto che l’«incognito procuratore» di r. 34 – si badi: incognito! – vada davvero così perentoriamente identificato (n. 96) con l’«anno» del periodo susseguente, e propenderei piuttosto a collegarlo alla «sola e provvida enunciazione» di r. 40). (30)

* * *

A voler ora caratterizzare in modo neutro, non valutativo, l’annotazione di Gaetani secondo i suoi principî, direi che essa tende ad essere ad un tempo associativa e generalizzante. Secondo questi due complementari procedimenti concettuali mi sembra in effetti costruita la glossa tipica di questo commento: così, ad esempio, una delle ultime, la n. 211 di pp. 227-29 sulle «vertebre de’ ponti e degli acquedotti». Prescindendo dai molti altri sviluppi collaterali in essa contenuti, vi troviamo una prima intertestualità: «Per l’[…]immagine […] delle “vertebre degli acquedotti”, si veda […] la Meditazione milanese: “e qui parrà, vertebre delli acquedotti […]”; ed anche, più oltre: “Siamo le ‘vertebre degli acquedotti’ correnti la campagna romana […]”», seguìta dall’indicazione della fonte dannunziana dell’espressione secondo Roscioni, e da una seconda fascia d’intertestualità meno stretta: «Per l’immagine cfr. pure “i taciti archi degli acquedotti” […]» – a cui tiene dietro poi (e qui si generalizza) la collocazione dell’immagine entro i “motivi ingegnereschi” legati al «gran tema del lavoro e del pane, della civilizzazione», e più sotto, con ulteriore e più ampia generalizzazione riepilogante (31) (si noti la presenza dell’avverbio insomma): «Ponti, acquedotti – come anche i filari di pioppi e le ferrovie – rientrano insomma, senz’altro, in quelle “figurazioni sublimanti” di cui scrive Gioanola […]», con la sua bella alternativa in forma di riserva: (32): «a patto di non vedere poi in tali figurazioni […] altrettante “forme trascendentali di un’architettura che riflette un rigoroso ordine mentale”» – interpretazione alternativa poi rifiutata («G. infatti non è semplicemente “un razionalista forzoso in lotta con le invincibile bufere irrazionalistiche” ecc.»).

Aggiungerò che i procedimenti associativi (luoghi paralleli eccetera) seguono determinate linee di forza, cioè di minor resistenza, che a volte non sono necessariamente quelle che il testo in prima istanza richiederebbe. Vedasi il caso della coppia «fondovalle»/«strettura» di n. 79 a p. 109, che riceve un trattamento disomogeneo: 23 righe per il primo termine, il tutto sommato abbastanza anodino «fondovalle», con ampia esemplificazione (e un excursus generalizzante); due righe per la povera «strettura», con rimando a tre sole altre occorrenze, del resto «di tutt’altro valore». Ma strettura, stretture è termine impiegato, proprio nell’accezione gaddiana di TO, da Machiavelli nell’Arte della guerra, e quel che più conta, dal sodale Bonaventura Tecchi in un passo significativo (anche per la Cognizione) de Il vento tra le case del ’28: «A un certo punto un rabbuffo di vento dovè aver infilato la strettura della calle perché lo si sentì correre lungo tutta la viuzza, come se fosse imprigionato, passar vibrando sui vetri della piccola finestra, e poi riscappar su, trovato uno sbocco, fra i tetti» – un passo che Gadda nella sua recensione (33) del ’30 sembra in qualche modo parafrasare: «Quando il vento […] soffia tra le case…». Diverso interprete, diversa preminenza...

Sia come sia, questo di Marco Gaetani è insomma un lavoro di grande impegno: sia per lo sforzo d’approfondimento analitico del testo di TO, sia per il ripensamento di tutto l’universo mentale dell’autore. Peccato solo aver forzato ai suoi scopi la forma commento, costringendo in essa, senza filtri, senza gerarchie di rilevanza informativa per il lettore, esplicitando a volte anche l’ovvio, quel che molto meglio poteva configurarsi in saggio: in un bel volume sulla tematica, centrale in Gadda, del Tempo e delle Opere.

Université de Genève

Note

1. Stravaganze nel senso usuale, non in quello filologico evocato da Gadda a proposito delle «pagine sparse» di Giorgio Pasquali in SGF I 1019 («I volumi in parola hanno avuto titolo al vocabolo “stravaganti”, che rifà in italiano un termine della filologia: si chiamano extra-vagantes dai filologi , le rime o le pagine ecc.»), e 1026 («… i quattro volumi di saggi extra o parafilologici … Speravo di leggere le Stravaganze quinte, che ci aveva promesso a Firenze mesi fa»).

2. Lecce: Pensa MultiMedia (Quaderni Per Leggere – Strumenti, n. 6), 2006, 246 pp.

3. Un saggio di questo commento era stato anticipato nel n. 7 della rivista Per leggere (autunno 2004, pp. 91-163), quella che ora, appunto, ospita nei suoi quaderni la versione integrale.

4. Sulla questione del titolo o al plurale dei titoli, si veda sotto.

5. Che nel primissimo getto (vd. l’apparato dall’ed. critica di Isella, in Gadda 1983a: 284) non era geminata: «Non sempre sovviene un’idea quando …». Si vedano comunque sull’incipit di Notte di luna nell’Adalgisa e nel Racconto le pagine relative di Manzotti 2004b.

6. Ma si sospetterà in entrambi i casi la litote di una quantificazione (quasi) universale: quasi sempre, quasi in tutti.

7. Un caso particolare, dunque, della «più cauta e più ponderante considerazione del fatto», della «più vasta ragione», di cui è questione in SGF I 1129.

8. Si vedano i luoghi addotti in Manzotti 2007a.

9. Come nota anche Gaetani 2006: 78 n. 32.

10. E ad uno dei suoi costanti riferimenti, l’abate Parini, che negli sciolti di Sopra la guerra lamenta la sorte riservata al «santo dio | Termin», scalzato «da le antiche sue sedi» (vv. 101-02).

11. In cui si fondono, come ben vede Gaetani, Chronos e Crono e naturalmente Saturno, ma anche, direi, lo stesso Giano.

12. Vd. anche lo splendido passo di Dicembre (SGF I 1004-005): «Quegli che ha seminato e mietuto, quegli si raccoglie nella sua speranza e pensa: “La verità delle cose non muore, il dio del silenzio ci guarda [= custodisce] i frumenti dalla sua reggia, che ha nome l’eternità. Le acque irromperanno ancora da tutte le vene del ghiacciaio, fatte anima e sangue nelle pale di vertiginose turbine. Kilowattora indefettibili daranno lume al nostro foglio, al quaderno. Nuove gemme si apprestano per ogni più tenero stelo, tutto il popolo delle piante sarà rivestito, nei roridi giardini della primavera. E i semi del frumento lavorano, lavorano, dentro il buio della terra, perché anche domani il popolo affaticato degli uomini possa deglutire il suo pane”».

13. «… le genti operose nemmen vollero pensare...».

14. Relativo a dire il vero al monumento immateriale della propria opera.

15. Costruito sul modello vulgato esiodeo (e dannunziano dell’Alcyone) de Le opere e i giorni, operante forse anche per I sogni e la folgore e le sue prove: I segni e il silenzio o I sogni e le bizze: ma si ricorderanno più in generale le molte etichette binarie gaddiane, sindetiche o non sindetiche: I viaggi la morte, ecc. Il nostro titolo, come aveva osservato Liliana Orlando (SGF I 1254), viene a parafrasare in Letteratura quello degli Anni: «… gli anni, cioè alcuni momenti della fatica del dolore e della conoscenza registrati in una parodia che si leva dal tempo e dalle opere», e sempre secondo la Orlando potrebbe fungere «da sottotitolo al volume» de Gli anni, e comunque individua il «denominatore comune» dei vari pezzi (p. 1263).

16. V. v. 207: «ni vis humana resistat».

17. Converrà anche correggere la data della traduzione italiana di P. Feyerabend, Against Method, che un refuso proietta nel 20.053. E «Zurich» alla francese per Kerény dovrebbe forse recuperare la sua Umlaut.

18. Un esempio, ma dei meno estremi, tra i tanti: «è inoltre abbastanza evidente come alla radice del fenomeno [= la migrazione di temi e formule espressive da un testo all’altro] cui ora ci si riferisce possa essere intravista tanto la presenza di un compatto, ancorché dinamico e vitalmente pulsante, nucleo poetico, originario e costante in ragione del suo innervarsi profondo rispetto alla dimensione psico-esistenziale dell’autore; quanto la attitudine ad una scaltrita pratica combinatoria, l’ars di quel “grande giocoliere della scrittura” che indubbiamente fu (anche) Gadda; con l’avvertenza, da ritenersi capitale, che in un autore ‘argenteo’ come il Gran lombardo ecc.» (p. 17). Cum flueret lutulentus...

19. Come il secondo di p. 23, che distende su 15 righe la struttura Così, se è stato possibile avanzare l’ipotesi di… e farne l’equivalente di…, ciò non si è fatto perché… ma piuttosto nell’intento di...

20. Strana la discrepanza tra la minuta cura al dettato testuale da una parte e l’atteggiamento corrivo nei confronti della propria scrittura dall’altro.

21. D’accordo in questo con Roscioni 1997: 220-24: «Non bisogna fidarsi troppo dell’elenco che Gadda fa, in una nota compositiva, delle sue cinque maniere […] perché le maniere di Gadda non sono soltanto cinque. Ecc.».

22. Avvolte, ahimè, nei soliti periodi di venti e passa righe (a p. 53 uno di essi contiene un inciso in parentesi tonda di righe dieci).

23. Se leggo correttamente la riproduzione di p. 170.

24. Uno dei sottotipi della riformulazione, dunque.

25. Dal taccuino di un borghese (Bologna: Il Mulino, 1986), 253.

26. Virgola che d’altra parte sembra favorire l’accettabilità della variazione sintattica nei membri nel costrutto correlativo «o unicamente proni…, o già rovinarono…», di cui sotto.

27. Circostanze legate a loro volta chiasticamente agli stati di cose contrapposti appena sopra da «mentre»: l’essere proni alla gloria transeunte richiama la limitata visione ancorata all’oggi, mentre la rovina in corso d’opera è la negazione del presupposto di «saranno perfette in un domani a noi forse ancora invisibile».

28. Tra cui con una certa sorpresa rilevo, ad esempio a p. 139, n. 132; p. 142, n. 133 e a p. 155 n. 144, il termine «recursivo» (che poi in italiano, al di fuori delle traduzioni di certa manualistica linguistica – ingl. recursive, ted. rekursiv... – sarebbe un normale ricorsivo), impiegato non nell’accezione tecnica di: con applicazione ripetuta d’una serie di operazioni, ma in quella generica del più piano ricorrente. Per fortuna a p. 136, n. 123 la congiunzione dacché è semplicemente «voce ritornante».

29. E discutibili sembrano certe sinonimie: mentre, ad esempio, non vale al contrario, come si afferma a p. 124, n. 1. Il significato oppositivo di mentre è molto diverso da quello di al contrario, che del resto può mal sostituirsi a mentre nel contesto del passo in questione.

30. «Procuratore» e «provvida», del resto, sono semanticamente affini.

31. La quale contiene di nuovo un mini-sviluppo associativo orizzontale: «come anche ecc.».

32. La riserva p, a meno / a patto / ... che q, con p e q appartenenti alla stessa classe di stati di cose è notoriamente una delle realizzazioni possibili dell’alternativa.

33. Un narratore: Bonaventura Tecchi, SGF I 700.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-15-9

© 2007-2024 Emilio Manzotti & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 6, EJGS 6/2007.

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