Crivelli St Peter's Detail

Onnipotenziali e monacati:
Manzoni, Verga, Gadda

Federica G. Pedriali

Tre massimi prendono il velo: il più improbabile, il più travestito dei travestimenti maschili. Lo spunto – tre storie di capinere – mi invita a rischiare sui tecnicismi, sulla definizione tecnica di travestimento. A rigori, infatti, Manzoni e Gadda non si travestono. A dispetto del velo cioè non cedono, non mollano la presa diegetica che hanno sulla parola narrativa. Cosa peraltro vera anche per Verga – nonostante la soluzione tecnica della Capinera. E poi da come lo intendo il velo è per la vita. Poco riguarda un’opera più che un’altra.

Ed eccomi al punto. Un trio di monache onnipotenti. Nel senso di narratori parzializzati-onnipotenti. E per quanto predichino la poetica dell’impersonalità (Verga), o pratichino quella della dispersione diegetica (Gadda). Figure sessuate, a volte paradossalmente sessuate – in un massimo di esclusione, segregazione, morte in vita. Figure della perduta onnipotenzialità originale, con perdita che in certe speciali occorrenze viene giocata sul versante di una doppia parzialità. E dunque con immedesimazione nel personaggio femminile clausurizzato: ma nel mantenimento del privilegio discorsivo di marca opposta. Anche nel caso della Capinera, perché non si dà autentica separazione diegetica tra narratrice (la voce epistolare) e paratesto (la prefazione), di tratto maschile-autoriale.

Ne emerge, a così raggruppare, una linea, una storia – un mito di perdita e di privazione –, e una prassi: una mantenuta, una moltiplicata illusione di potenza, per rivendicazione, a suo modo demiurgica, del maltolto. È Gadda a scrivere: «siamo degli onnipotenziali» – intendendo proprio questo: eravamo entrambe le potenze. È ancora Gadda a pronunciarsi: «ogni vizio ci singolarizza, perché ogni vizio ci separa, ci astrae dal nostro destino più vero». Ho un’unica obiezione, ma trova il citato concorde: quale sarebbe un nostro destino più vero? (1)

Manzoni, per entrare nel vivo della tesi, ha qui il ruolo ridotto della comparsa, del modello sin troppo riuscito di signorilità. Di tal genere, se non tali appunto – e non solo relativamente al pensiero di Lucia. Ovvero privazione anche per lui ad un livello esistenziale che erompe, s’impone al racconto storico, forza la digressione, il capitolo della Signora poi non così signorile, La signora, tuttavia, capitolo 2 e seguenti, tomo 2 del Fermo e Lucia. «Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto sull’altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non l’offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr’esso» – questo all’assunzione dell’abito.

E più avanti, con le novizie: «provava un certo rancore contra quelle giovanette destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di vederle liete d’una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto per toglierla loro, cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la pazza ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava». O all’altezza dell’omicidio della conversa, circolarmente rispetto all’assassinio dell’io: «L’albero della scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell’animo e il serpente al fianco; e lo colse».

Solo col sesto capitolo, il dubbio – in apparenza risolto lì per lì. Ma da cui anche parte, col processo correttorio, il formidabile taglio, la riduzione agli attuali Promessi sposi, capitoli 9-10: «Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci avventure; ma esaminando l’impressione che ce n’era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo trovato che era un’impressione d’orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando ne produce l’orrore sia non solo innocua ma utile». (2)

Manzoni, cioè, col suo resistito e più signorilmente reso Gertrude c’est moi. Con la sua capacità di dire: che qui si tagli, e formidabilmente. Con quel suo conquistato, super attrezzato controllo dei propri mezzi, pur continuando ad usare materiali comuni all’uman genere. Controllo che è poi autocontrollo, e con cui diviene miracolosamente possibile, o ridicolmente semplice, la misura dell’abilità: del cedere non per perdita di tenuta, ma per sfizio, per celia. Per suprema ironia.

Quasi dunque (come quasi dirà Gadda) un totem jettatore per chiunque si sia ritrovata addosso l’ambizioncella di competere per il posto di secondo dopo il Manzoni, la prima posizione non più risultando, evidentemente, cedibile; la formula di quella signorilità essendo andata, a quanto pare, perduta. Qui, quel monito, il modello di autosuperamento e di esemplarità nella fatica creativa non è che un punto di riferimento in effetti già speso, nelle righe appena trascorse – punto in una linea che forse mi riuscirà di chiamare evolutiva, da Manzoni a Gadda, passando per Verga. Da onnipotenziale a onnipotenziale. Da nevrotico a nevrotico. Da canonico a canonico. Nel senso di scrittore canonico, e non di clero. Perché le monache in questione non hanno nulla di clericale; solo la morte, quella vera, ne ha infine regolarizzato, esaltandola, la posizione. (3)

Molto in comune, in questo primo accenno di linea, tra Gadda e Verga, manzonisti anche per desiderio di successione. E molto non in comune. I gaddisti si rinfrancano, alla seconda affermazione, temendo una recrudescenza della prima. Il Gadda dialettale, realista, neorealista, persino bozzettista, dio ce ne scampi e liberi – eppure c’è chi vi ha creduto. Un faticoso superamento, in una storia di fatiche di Sisifo, ecco riassunta la complessa storia della creazione del Gadda in cui ci riconosciamo: superato il calligrafo, l’espressionista, il realista: essendo infine riusciti a spingere il masso del Gadda vincente, tutto sistemi di sistemi, tutto tensione conoscitiva e dispersione diegetica: ma dovendo, eh già, superare anche quello, perché ancora ci tormenta la prima delle domande, ancora non sappiamo rispondere – fu romanziere Gadda?

Meglio allora evitare i malori, e passare per drastici, rischiando l’assurdità piuttosto che un sospetto di recrudescenza. Meglio cioè rinfrancare subito i verghisti, in questa preliminare definizione del cast, dichiarando enumerativamente, cumulativamente, per bisogno di esecuzione ultrarapida, cosa s’intende per Verga – ed ecco subito riassunto pure lui per l’occasione.

Una poetica che non salva. Un mestiere che non salva. L’investimento passionale, sentimentale in una teoria del sé e dell’operare artistico. Una teoria flessibile, in fieri – ma con punti fissi, con fissazioni. Una prassi per tentativi, per fallimenti, per sentito dire di nuove prassi: per cattive nottate sulla teoria. Momenti estremamente felici, riusciti, tra soprassalti d’intenzione creativa – ma con realismo anche incattivito, paradossalmente incattivito, dalle conquiste di continuità. O più probabilmente, un’insoddisfazione immedicabile per l’arte, la contemporaneità, la vita tutta: dietro la scusa e lo spunto della delusione postunitaria del provinciale.

Le tentazioni del provinciale. Le donne Aglae, le Eve dell’ultimo fondo di palcoscenico. Quelle stellette di provincia che forzano a dirla lunga sull’arte. Sulle colpe dell’arte: sulla letteratura come colpa. Le cadute di tenuta, gli stalli, le insuperabili difficoltà del mestiere nelle sue ore peggiori. La difficoltà con la Leyra, prima ancora che sia duchessa di Leyra: quando ancora, cioè, è Isabella Trao. Quei volumetti di letteratura sentimentale tenuti nascosti sotto la biancheria – «la sua anima errava vagamente dietro i rumori della campagna»:

Lassù, lassù, nella luce d’argento, le pareva di sollevarsi in quei pensieri quasi avesse le ali, e le tornavano sulle labbra delle parole soavi, delle voci armoniose, dei versi che facevano piangere, come quelli che fiorivano in cuore al cugino La Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non si vedeva quasi mai, che stava chiuso nella sua stanzetta, a fantasticare, a sognare come lei. Laggiù, dietro quel monticello, la stessa luna doveva scintillare sui vetri della sua finestra, la stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che faceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendeva di tratto in tratto come gli alberi stormivano e le portavano tante voci da lontano. – Luna bianca, luna bella! Che fai, luna? dove vai? che pensi anche tu? (4)

Il ricadere stanchi da tanta altezza – da simili fesserie. Con rinuncia al mestiere, anzitempo, e, prima fra tutte le rinunce, con intermissione del romanzo, del ciclo di romanzi: dacché il materiale non rinuncia al proprio mestiere, non si lascia esorcizzare. Il ridicolo ci insegue – insegue Verga di sicuro. Ha a che fare con lo stato di desiderio per cui si chiede più vita, altre vite, superiorità di sentimento, superiorità d’arte. Ci insegue perché abbiamo ceduto: perché nessuna onnipotenza o fantasia di gioco onnipotenziale è riuscita a scongiurare quegli automatismi del narrabile in cui, ogni volta, e a dispetto del mestiere, si ridecompone la distanza dalla materia della nostra sofferenza. Bisognava non lasciarsi involgarire e incattivire; bisognava davvero essere come don Lisander:

Nei chiusi palazzi vi sono sale con volte dipinte, tubi di penombra [...]. Quivi dietro grate ingiuste e irremovibili pallidi visi, occhî cerchiati di rinunce distruggitrici scrutano la sana vita degli altri e la luce, la perduta luce del mondo polveroso e rivoltolato [...]. Negli atroci silenzi la legge si fa irreale, perché nessun termine di giusto riferimento le è conceduto.

Nulla esiste più, nulla è più possibile socialmente: soltanto sono reali gli impulsi di una fuggente individualità. Domani, sarà tardi. Memento quia pulvis es. L’ammonizione discende fra gli orrori dell’anima, ardente come i soli della Spagna, come l’espressione unica del conoscibile ed acquista un senso individuale e bestia esattamente antinomico a quello sociale e legatore per cui fu pronunciata. Non vi è legge se non nelle viscere torturate.

Dall’Apologia manzoniana, testo con cui, esordiente, Gadda avvia la gaddizzazione di Manzoni, a partire (di tutte le partenze possibili) dalla clausurizzazione della monaca di Monza. Già sa d’essere volgare e malvagio animale; già cioè tira fuori l’anima al padre correggendogli il Gertrude c’est moi. (5)

Le geometrie della clausura. Le sbarre, gli occhi cerchiati, la crudele contiguità del dentro e del fuori. Dentro, volumi chiusi: la tortura della luce che non arriva che per decutarzioni architettoniche: le finestrette, le volte minori. La tortura del suono, con occhi in ascolto anche di notte, a tarda notte: perché il di fuori è magnificamente vivo, oltre che contiguo. L’irrealtà della legge, il farsi irreale del principio per cui l’essere si struttura – fino a che «nulla esiste più, nulla è più possibile socialmente: soltanto sono reali gli impulsi di una fuggente individualità».

Ovvero la terribile identità dell’inesistenza, in bestiale antinomia con l’esistente: in bestiale autonomia dai vincoli sociali, caduto il patto legatore. Gadda sventuratamente risponde come a un destino già proprio, come a una necessità diegetica non più assicurabile a finzione narratoriale sicura: il destino, un disegno da osservarsi perché è orrore, perché è ridicolo, perché è l’unica fonte di metodo e di conoscenza. Perché la geometria dell’esistente la si impara con occhi cerchiati di rinunce, in una pericolosa professione di empiria che investe pure il progetto filosofico, e in quello la Meditazione milanese; che investe certo il romanzo da farsi, sempre da farsi, in stato perenne di abbozzo per troppo azzardo psicopatico e caravaggesco sull’intertesto manzoniano.

Gadda è cioè davvero l’ultimo degli scrittori a poter essere salvato dal mestiere. Eppure l’accumulo di perizia, in un diverso secolo, gli dà un diverso vantaggio – ecco un ulteriore accenno di linea evolutiva. Il sé incarcerato come sito di difformità, autocensura, esibizione, negazione, indagine conoscitiva. Perché, come con le pipe, questa non è un’opera – non la si tagli formidabilmente, non la si recuperi a un ordine di funzionalità. L’ordine è difatti comunque un falso: e questo disordine nasconde comunque un ordine, altro falso.

«Due vite. Lei lui. Assassinio. Lui finto donnaiolo e cupido di denaro. Lei finta santa. Il terzo. L’uccisione». Gadda fa una fatica da non dirsi con gli automatismi del narrabile – non è un Pirandello o un Calvino. E tuttavia cede eccome, cede anzi alla grande, come Pirandello e Calvino, o Verga: non è Manzoni redivivo, per quanto ci sperasse. Cede all’intrigo di quart’ordine, al personaggio da romanzetto d’appendice, all’attesa di soluzione pacchiana poi disattesa ma recuperabile, sempre riciclabile, nello spreco schizoide dei materiali – dispersione diegetica per pretesa di onnipotenza diegetica: ma tra cadute che lasciano interdetti. (6)

La fatica è disumana perché qui governa un particolare automatismo fondante: il nessuno subumano, imbestiato nell’ombra della negazione. Ovvero e a monte, con sopravvivente mito delle origini, la tradita purezza originaria: la bimba a cui ogni luce è stata preclusa. Il lasciarsene governare è allora anche una forma di giustizia, di risarcimento, dopo l’errore del sacrificio perpetrato dalla collettività. Un trovar voce, ed avere voce: per quanto questa sia pure una non voce, e comporti nuovi errori. Non a caso, nella proliferazione diegetica Gadda si gioca quella chance romanzesca che era nell’ardore dei suoi voti. Come il silenzio: come l’intermissione della fatica dello scrivere. (7)

Gadda, in tutto ciò, investe anche in donne splendide, vive – corpi vivi, viva corporeità. Eppure passa, forse giustamente, per misogino. A rigori, come Manzoni non si qualifica per un intervento su fenomeni di diegesi travestita. S’immedesima, certo, ci prova, e quasi ci riesce, nel personaggio femminile, in una mentalità femminile. Ma non arriva, non intende arrivare alla finzione discorsiva della Capinera verghiana.

Forse, però, sono le nostre categorie a non arrivare a lui, alla sua scommessa. Quella giovanile Apologia difatti già annuncia il Pasticciaccio, la futura babelificazione della voce narrante: la sua implosione in una alterità diegetica totale che riapproda al femminile perché pure da lì partiva. Il caso merita, forse, un’eccezione. Perché, come anche Diderot insegna, non ci si identifica con la monaca per burla.

La monaca non è un gene

La reclusa non gradisce il carcere? Contesta il sacrificio dell’uno – l’estromissione, in una reclusione – per il beneficio dei molti? Lei malaticcia, infermiccia, e soprattutto, lei povera, lei inutile alla continuità? C’è polemica in questo convento. Povertà, necessità, malattia, ergo reclusione, ergo non vita – in nome di un mito sacrificale, o della selezione della specie: questa pure, a suo modo, un principio di catarsi. Tutti invero ottimi ragionari, ma che suonano ben vuoti, a riragionarseli da dietro le grate: anche a farli passare per scienza positiva. Anche a chiamarli principio di realtà.

Per protesta Gadda si aggiorna al ventesimo secolo, tenta in proprio la teoresi. Il sistema di sistemi, la coinvoluzione di sistemi – dilettante geniale, anticipa Gödel, l’impossibilità di chiusura sistemica. Escogita un reale infinitamente diffusivo, continuamente germinante, in una matematica del complesso che può permettersi la semplicità numerica del mito fondativo: «dov’era una cellula se ne fanno due, e dove due quattro» (Meditazione, SVP 652).

Eppure, vera assurdità tant’è logica, anche il suo schema – la coinvoluzione universale – coinvolge il molteplice solo selettivamente. Il reale difatti non sostiene ugualmente il prodotto. Non sostiene cioè tutto il prodotto. Come una qualunque organizzazione economica, o come la migliore delle famiglie. Prassi elettiva su dati spaziali, su dati strutturali – priva, assolutamente priva di fondamento etico. Ma con conseguenze etiche, e quali, nel sistema di sistemi umanità. Dalla Meditazione, paragrafo 9, Il male:

Nel mezzo del tessuto gli eletti si ergono, come parole di verità, sulla confusione tenebrosa che viene indotta in chi deve delinquere ed è margine doloroso del compatto tessuto. La maglia liscia e ben fatta del centro dice a quella della periferia o margine o vivagno: «come sei brutta! Tu delinquis naturam communem». Respondo patronus: «Non quidem delinquit. Est quod est. Ex illius enim forma constituitur realitas». Il male è una coesistenza eticamente periferica del bene. (SVP 681)

Ovvero il circolo vizioso dell’obbligo conoscitivo. Non esistono due cose uguali. Ma due cose disuguali possono avere la stessa origine. E qui o il soggetto si è fermato al pliocene nei suoi aggiornamenti, oppure l’inghippo universale si regge su davvero poco. Il soggetto non opera forse sul reale in forza della sua capacità di nucleare, di costringere la materia in categorie? capace e costretto ad un tempo – materia condizionata, polarizzata a sua volta dall’atto di conoscenza? Ma il valore? chi iscrive, chi decide il valore, in questo vizio? Le possibili agenzie non danno di che ben sperare. Una ragione avanzante finalisticamente in una biologia? O non sarà, piuttosto, un torpido dinamismo materico – tendente alla continuità? narcisisticamente intento alla progettazione dell’erede?

Ancora e sempre, dunque, anche in questa riforma degli schemi, il problema dello scarto: ossia dell’individuo diversamente euristico, ma non diversamente erede – forse, anche, migliore erede. In piena Meditazione si riaccende, cioè, nonostante le consolazioni della filosofia, il delirio di parte: di parte lesa ed offesa. Perché la collettività è l’insieme necessario di relazioni che legano ad un patto, il patto dell’esistenza. Perché l’individuo, pensato da solo, in isolamento, equivale a un puro nulla. Perché non si dà rilancio di identità, non conquista di onnipotenza discorsiva che compensi la categorizzazione subita, l’ineleggibilità originale all’ordine del discorso in quanto prova difettiva di natura. Inutile argomentare che la monaca non è un gene. È un gene se così la classifica il reale. (8)

«Che è mai questa cosa meschina ch’è dentro di me, che geme, che soffre? [...] Mi hanno portato i rinfreschi della festa, sai! Non si rammentarono che sono malata e che mi farebbero male? Come avrebbero potuto pensarci? Tutti sono allegri». Parole di capinera. Parole del ridicolo: della rabbia mal rattenuta, della pena per il proprio destino. Si prestano ad essere ripetute macchinalmente di vittima in vittima, di generazione in generazione. Qui si prestano a trascorrere da Verga a Gadda, e viceversa, a dispetto degli acquisti di scienza del secondo rispetto al primo.

Gadda, si vuol dire, è stato educato, soprattutto educato – anche dai saperi. Né più né meno di una brava educanda: educato alla negazione del sé. Negazione nella titillazione continua dei sensi, così che il convento identitario risulti tortura particolarmente sopraffina. Non per nulla i viventi, sempre generosi con i reclusi e gli scartati, vi si affacciano come a una tomba, curiosi di osservare corpi che si sono visti morire l’anima, materia che sopravvive allo spirito. Eppure lì, nella reclusione, ogni cosa dovrebbe servire a rinchiudersi nello spirito, circoscriversi, rendersi muti, ciechi, sordi a quanto non è Dio.

Mai invece stati così allerta i sensi come in convento: perché tutto fuori è tumulto, sensazione, piacere – un esser vivi che non comporta peccato. Di nuovo, cioè, dure parole di capinera, in parafrasi libera attivata su spunto gaddiano. Ossia ulteriore prova in parallelo dell’istintiva scienza verghiana della reiezione. Scienza già perfettamente formata a questa altezza – educata a sua volta, benché pre-programmatica, pre-verista: già a un passo dal novecento di Gadda. Il segmento di linea che unisce i nostri due punti distinti si conferma invero assai breve. (9)

E dunque, ad essere stati correttamente educati, tocca pure la consapevolezza di trovarsi coinvolti in una cosmogonia errata, strutturalmente autorizzata a perseguire la nefandezza, «il bene d’uno senza quello di tutti, l’amare suo figlio e non la sua figlia, il seppellire da vivo chi è nato come noi e la luce deve, deve arrivare ad ognuno». Quella luce in cui dovrebbe consistere la funzione del Re Cattolico: «un eguale pensiero e volere», «il bene di tutta la Cristianità, la salute di tutti». Qui la parola è tornata interamente gaddiana, dall’Apologia, ma potrebbe continuare a declinare in quella del collega.

Ovvero l’aporia costitutiva dell’atto di conoscenza. Polarizzazione partigiana, ad un fine. Un negare qualcosa, per affermare qualcosa. Tra finzioni autogiustificative, miti compensativi di totalità, di sogno democratico, sogno utopico, riforma degli schemi, armonia prestabilita, armonia pregressa. Dal Gadda saggista:

Il «bene» si separa dialetticamente dal «male» attraverso le disgiunzioni operate ed espresse da una storia, vale a dire da un’esperienza: non è bene dove non è altrettanto male nella dialessi del mondo: bene-male sono i due diòscuri altalenanti sulla linea d’orizzonte, che quando l’uno sorge, l’altro sommerge. (10)

Persino il recluso, in veste di reclusa, e aspirante, in certe ore, alla cecità dei sensi per l’auspicato salto esistenziale – l’emendazione del soggetto di conoscenza –, non si riscatta, benché vittima, dal peccato universale, tutt’altro. Individuo nullo, nullificato, nei lunghi giorni privi d’opera confeziona infatti maniacalmente, con la fredda furia dell’ossesso, il suo giudizio del mondo, sul mondo, la sua non opera: confezionato ed accluso quindi già pure il giudizio che di quella sarà dato – la linea di sviluppo che approda al Pasticciaccio, essendo passata, com’è giusto (verghianamente giusto), anche per i sarcasmi del Gesualdo.

Approdo romanzesco conclusivo della fattività carceraria gaddiana, il Pasticciaccio sconta l’acquisita terribilità del ventriloquismo accusatore nella trama di sempre, banalissima – lei lui: assassinio. Lui finto donnaiolo e cupido di denaro, lei finta santa. Uccisione. Nessun obbligo, nemmeno questa volta, di includere nel calcolo il terzo, che qui sarebbe il commissario, l’uomo della legge: il numero delle vite, delle vite davvero vive e vivibili resta fisso a due nel settore protagonisti. Il donnaiolo è però innocente, come già in passato. Inutile insistere a costruirselo come il carcerabile non Sé, come l’Altro e Rivale – al commissario non varrà una permutazione di destino.

Ma se l’assassino non è l’Altro allora deve essere un Sé – una quarta dramatis persona, un secondo non vivo, uno che cioè non altera i totali esistenziali: un qualche doppio ex lege, ossia di fuori territorio, in tutti i sensi: anche in quello di spazio discorsivo. Difatti. «La Virginia! (l’immagine fu un lampo di gloria, un repentino fulgore nella tenebra)». Un’assassina, dunque, e non un assassino: un’assassina di fuori porta, venuta ad urbe dalla demonica campagna albana – sì, perché lì, oltre porta, ossia fuori Bene (b seriamente maiuscola), sono dislocati pure i ladri, i ruffiani, le tenutarie di bordello, le prostitute, tutti i più prevedibili scarti della specie: raccolti in nodi o gnommeri di tentazione criminosa per la discesa collettiva-retributiva alla Roma fascista, nel «vigor nuovo del Mascellone» (e carnevalata di vera virtù).

Un’assassina che agisce, che retribuisce per gola di inclusione. Che cioè taglia, guarda caso, una gola per punirne il peccato mortale di gola selettiva (il campo semantico è affatto chiuso in un unico giro): colta in peccato categoriale per questo e non quell’oggetto del desiderio. Verrà, l’omicida, a sua volta quasi tagliata fuori dal romanzo (la versione definitiva, in volume, del ’57), con taglio invero poco signorile e formidabile. Il danno di cui è capace rimane difatti ben in vista, capitolo cinque, nel finale, nel più trito feuilleton e punto di massima flessione: punto di incomprensibile degradazione, di eliminabilissimo (a volerlo e a riuscirci) scadimento della conquistata onnipotenza discorsiva dell’ex-onnipotenziale. Per non dire del rischio, più reale del re, di agnizione e catarsi – a volere agnizione e catarsi. A dover proprio pronunciare, a brutte lettere, il dovuto, il commesso Virginia c’est moi. (11)

è questa la chiave, la soluzione tutta diegetica del mistero? intendendo cioè per mistero non già l’identità stretta, di arrestanda, della persona e personaggio dell’omicida, quanto il pericolo, a quella sì strettamente connesso, del tracollo dei materiali: del tracollo della scrittura stessa in quanto vicissitudine coatta, a tappe obbligate, sempre le stesse – come confermano, a riguardarli da questa esperienza tarda, gli annosi «problemi d’officina»: la progettualità maniacale, l’iniziale urgenza, l’immancabile ristagno, la difficile ripresa, la chiusura perentoria così da escludere altri «soprassalti applicativi». (12) Evidentemente, la materia non rinuncia al proprio mestiere – la storia di Verga, e non di Manzoni: non si lascia esorcizzare. Col tempo, anzi, evoca potenze sempre più esibitive, inscongiurabili – pur di farsi, come dire, segretamente arrestare?

Anche in questi tardi anni il commissariato autoriale risulta impreparato, categorialmente impreparato per tanta aberranza: per il personaggio-funzione che minaccia di tirarsi dietro, nel tracollo, tutto il castello, o baracca, della scrittura. Il Pasticciaccio ufficiale, quello dato alle stampe, difatti passa, declina l’offerta, fa strategicamente a meno riducendo Virginia a una pista clandestina per gli inseguitori più ostinati – ufficialmente, capitolo dieci, il testo mima un’agnizione, conclude in un drammatico faccia a faccia, in una straordinaria paralisi questurinesca quanto mai opportuna, di fronte all’Altro, non il donnaiolo, ma l’Alterità ultima.

Che qui paradossalmente è la Vita (v maiuscola, com’è delle cose che hanno speciale importanza) – Vita come fede imperterrita negli enunciati della carne: Biologia che s’afferma vittoriosa sulla Morte-in-vita dell’inquirente (anche questa maiuscola, ma solo per simmetria: per riempire di qualcosa il polo privativo, privato della buona fortuna degli altri), perché polarizzata ad un più felice fine. Meglio, cioè, evitare di entrare in polemica con la felicità e l’infelicità dei fini persino nell’explicit. E dunque case solved, per lo meno testualmente – cedimento brillantemente recuperato.

Ma il Pasticciaccio inufficiale, meglio noto come Il palazzo degli ori, il trattamento cinematografico buttato giù nel massimo della crisi Virginia ben prima delle felicitazioni per il salvataggio in extremis della non opera maggiore, si chiude, per il finale («Scena 30a e ultima. Soluzione del giallo. Catarsi»), nella povertà chiusa e squallente di una fantasia di potenza degenerata in follia. Flashbacks, primi piani sulla violenza commessa, sulla macchia di sangue che si allarga, su gioielli e ori a cascata. Un onirismo proiettivo ingovernabile, improponibile – eppure da Gadda a suo modo governato e proposto: impossibilmente gestito da un punto di vista ancora sostanzialmente esterno all’abisso mentale e creativo in cui versa, nella più intima e vergognosa cella scrittoria, colei, colui cui nulla o nessuno può più fare da legge, perché dentro non è legge che di viscere torturate.

Entra in scena però il commissario: nera figura dell’arresto, in controluce, per un attimo, nel vano della porta. Poi, una variante rispetto all’altro finale, quello ancora tutto da scrivere all’altro capo di una crisi ancora tutta da superarsi: un volto, uno solo. Dunque, non l’altro faccia a faccia, quello di Vita e Morte-in-vita, osservato da fuori duo, nel finale ufficiale. Qui un solo volto, ossedente, portato «per carrellata surreale» in improvviso primo piano, a tutto schermo – «il viso durissimo del commissario». Dai nuovi termini di occupazione del campo visivo scatta l’agnizione: chi ne è stato rimosso sta infatti guardando in faccia chi ci arresterà. Ci arresterà? Perché, sì, la sala buia di questa proiezione immaginaria – cinema privatissimo – è popolosa d’ombre tutt’occhi: occhi che bruciano per l’immedesimazione, unica, univoca, cui il confronto frontale le obbliga risingolarizzandole in un punto, in un’identità. Confrontata frontalmente, corpo non più veduto (non più ripreso), Virginia, cioè, per la prima volta vede. (13)

Conta, in tutto questo, che chi chiamiamo Gertrude e Monaca di Monza, al secolo Marianna de Leyva, sia stata, nella banalità vera della Storia (s maiuscola: anche la banalità va celebrata), una molto atroce Suor Virginia?

University of Edinburgh

Note

1. Cit. da Racconto italiano, SVP 463 (alla stessa pagina: «siamo semplicemente dei polarizzati e potenzialmente possiamo essere l’uno o l’altro»), e Una mostra di Ensor, SGF I 593.

2. Rispettivamente A. Manzoni, Fermo e Lucia, in I promessi sposi, a cura di L. Caretti (Torino: Einaudi, 1971), I, 183 («Il sacrificio fu consumato [...]»), 186 («[...] provava un certo rancore [...]»), 196 («L’albero della scienza aveva maturato [...]»), 204 («Siamo stati più volte in dubbio [...]»).

3. In fatto (o in sospetto) di totemica jettatura manzoniana, v. Dalle specchiere dei laghi, SGF I 227 («“Talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte...”. Ero, ero, di fronte. Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, gastigo ingente [...]»), o Cognizione, RR I 575, dove un Serruchón-Resegone, quasi «groppa-minaccia del dinosauro», incombe sull’idillio faticosamente incipitario del nuovo romanzo. In questo contesto ha però lavorato anche uno spunto critico addizionale rispetto ai materiali gaddiani – cfr. Manzotti 2004b: 175 («[...] possiede tutti i tratti di Totem jettatore che sono prestati altrove al “sauro Talché” manzoniano [...]»).

4. G. Verga, Mastro-don Gesualdo, edizione critica a cura di C. Riccardi (Milano: Mondadori, 1978), 303, 304.

5. Malvagio e volgare animale Gadda si definisce a più riprese, e certo sin dalle prime battute di Meditazione, SVP 621. Per la citazione, v. Apologia manzoniana, qui riportata nella prima versione, dagli abbozzi per Racconto italiano, SVP 594 – ma si veda anche, per la caduta di alcuni nessi (specie quel senso individuale e bestia che è centrale alla ricostruzione gaddiana dei casi della monaca di Monza), la versione parzialmente ripulita del passo, poi pubblicata autonomamente, su Solaria, nel ’27 (SGF I 682).

6. Dalla dispersione (degli automatismi) di Fulmine, da cui si cita (Gadda 2000b: 271), nascono però i compiutissimi disegni milanesi e terzo romanzo maggiore (Pedriali 2007a: 120-136 e nota).

7. Cfr. ancora dall’Apologia, SGF I 680 (dove la bimba sacrificata è la Gertrude: «la bimba a cui ogni luce è preclusa»). Di ardore dei propri voti nell’augurarsi il silenzio («farà la migliore delle opere») Gadda fa esibizione nel saggio, del ’57, Il pasticciaccio (SGF I 511), pubblicato a ridosso dell’uscita in volume del giallo romano, e con intenzione che dalla critica è stata a più riprese definita testamentaria.

8. Prova difettiva di natura è prestito, verbatim, da Cognizione, RR I 678. Ma il motivo, variatamente reiterato, è davvero pangaddiano. Come lo è pure quello dell’annullamento dell’io per caduta e conseguente rifiuto del patto legatore. Buon testimone in proposito è L’egoista, SGF I 654 – in particolare: «Chi immagina e percepisce se medesimo come un essere isolatodalla totalità degli esseri, porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto».

9. Prelievi liberi, in questi paragrafi, in reazione a spunti gaddiani, da G. Verga, Storia di una capinera (Milano: Treves, 1893), rispettivamente pp. 149 («Che è mai questa cosa meschina [...]»), 159 («mi hanno portato i rinfreschi della festa [...]»), 140 («[...] mi guardano attraverso le grate della gelosia come viventi che si affacciano alla tomba per vedere cadaveri che parlano e si muovono [...]»), 143 («Ogni cosa qui serve a rinchiudere l’anima in se stessa, a circoscriverla, a renderla muta, cieca sorda, per tutto quello che non è Dio»), 52 («sono convinta che a noi [...] tutto cotesto tumulto del mondo, tutte codeste sensazioni, tutti cotesti piaceri facciano un male immenso»), 82 («Io domando a me stessa se questo amore, questo peccato, questa mostruosità, non è parte di Dio! [...] non fanno peccato se amano come me [...]»).

10. Cit. da Il faut d’abord être coupable, SGF I 613. E sopra, spunti-citazione da Apologia, SVP 597 («[...] il bene d’uno senza quello di tutti [...]»), 593 («[...] eguale pensiero e volere: il bene di tutta la Cristianità, la salute di tutti [...]» – versione che si preferisce a quella per Solaria, invero con varianti minime, cf. SGF I 685). Analogamente egalitaria, per ovvio interesse di parte lesa, la Capinera – cfr. Verga 1893: 4 («Dio non ha forse fatto per tutti queste belle cose?»), 8 («[...] benedizioni che il Signore ha date a tutti: l’aria, la luce, la libertà!»).

11. I pareri invero discordano a proposito di un gaddiano Virginia c’est moi. Per l’opposto Assunta c’est moi, v., tra gli altri, e già solo in questa edizione di EJGS, Marchesini 2007. Per una ricapitolazione delle posizioni cfr. Papponetti 2004. Del partito dei colpevolisti relativamente a Virginia v. in particolare Pinotti 2003b, o Pedriali 2004c e 1999a (ora in Pedriali 2007a). Le cit. in corpo al testo vengono da Pasticciaccio, RR II 23 («La Virginia! [...]»), 73 («vigor nuovo del Mascellone»).

12. Cit. rispettivamente Come lavoro, SGF I 427 («problemi d’officina»), e Il pasticciaccio, SGF I 510 («soprassalti applicativi»).

13. Cit. da Palazzo degli ori, SVP 984 («Scena 30a [...]»), 987 («carrellata surreale [...] il viso durissimo [...]»). Cfr. Pasticciaccio, RR II 276, per l’opposta soluzione dell’explicit in paralisi da arresto, non del colpevole ma del commissario. Il quale lì risulta bloccato dalla Biologia dell’Altro in un faccia a faccia che respinge immedesimazioni, osservato dall’esterno – come se ci si potesse davvero far scudo della fede biologica («fede imperterrita [...]») o certezza categorizzante delle carni altrui (carni di Assunta) per distogliersi dalla spinta profonda all’identificazione: a prendere occhi, infine, negli occhi di Virginia.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-15-9

© 2007-2025 Federica G. Pedriali & EJGS. Previously published in F.G. Pedriali & R. Riccobono (eds), Vested Voices II. Creating With Transvestism: from Bertolucci to Boccaccio (Ravenna: Longo, 2007), 87-97.

Artwork © 2007-2025 G. & F. Pedriali. Framed image: after a detail (St Peter’s shoe) from Carlo Crivelli, Madonna con il Bambino ed i SS. Pietro, Daverio, Pietro martire e Venanzio («Trittico di Camerino»), 1482, Pinacoteca di Brera, Milan.

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