Manifestare territori acustici.
Il personaggio in Gadda, Bachtin, Deleuze
Marco Bernini
A volte penso che mi farei rinchiudere in una prigione dieci tese sottoterra, dove non penetrasse un filo di luce, perché in cambio potessi scoprire di che cosa è fatta la luce. E il peggio è che, tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno. Come un amante, come un ubriaco, come un traditore. È un vizio maledetto, mi trascinerà alla rovina. Quanto potrò resistere a parlare solo coi muri? Questo è il problema.
B. Brecht, Vita di Galileo Galilei
Taluni negano il dolore richiamandosi al sole, egli nega il sole richiamandosi al dolore.
F. Kafka, Egli
Sulla struttura, la costruzione tematica, le ragioni compositive del maggiore romanzo di Gadda, sono state avanzate numerose quanto efficaci analisi. Data l’anomalia del testo, tuttavia, e la sua singolare resistenza al commento e alla parafrasi, spero non risulti superfluo aggiungere un’altra ipotesi interpretativa, che deve alle precedenti molte impostazioni e rilievi. (1)
Quella che vorrei proporre è l’idea che la Cognizione del dolore sia un problema di acustica spazializzato oppure, altrimenti detta, un problema etico spazializzato in senso acustico. Questa coordinazione tra questioni di poetica e di etica non è in realtà un’equivalenza, ma una subordinazione del primo termine al secondo; una direzione di lettura che Gadda stesso indica dicendo che, se mai avrà modo di redigere una propria Poetica, «dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più di un capitolo dell’Etica: e questo deriverà dalla Metafisica» (Meditazione breve, SGF I 444). Questa direzione dovrà essere tenuta in conto, come indicatore di precedenza, per tutta l’analisi che tenteremo.
Aggiungo, inoltre, che scandirò l’indagine su tre punti teorici, in rapporto ai quali ritengo che il romanzo si misuri e possa essere misurato: il primo concerne l’anamnesi del soggetto critico, del bersaglio polemico, del tema ossessivo intorno a cui Gadda articola il romanzo, come una risposta; secondariamente, cercherò di rilevare alcune tangenze costruttive del romanzo e del suo principale personaggio, che in realtà vorrei dimostrare essere l’unico, con uno dei suoi espliciti modelli europei, ovvero Dostoevskij, attraverso le analisi di chi ne ha permesso la più completa decodifica, vale a dire Michail Bachtin; infine, cercheremo di vedere se e come il modello venga complicato e in un certo senso superato, attraverso una combinatoria architettonica, tesa a ottenere una strategica dissonanza tra la struttura linguistica del personaggio e il mondo semantico di cui fa esperienza. A questo particolare personaggio, in chiusa, tenteremo di assegnare un nome, una qualifica teorica, sorretti dalla riflessione estetica di Gilles Deleuze.
Raccogliamo allora, prima di tutto, le tracce della polemica, la genesi del concetto. Nelle due coppie di scritti che aprono e chiudono, in una rilevante simmetria, la raccolta di «brevi Saggi eccentrici» dei Viaggi, la morte, non è possibile non notare un’insistenza tematica ai limiti della fissazione: Gadda ingaggia una vera guerriglia lessicale, contro quello che ai suoi occhi è, prima ancora che un problema espressivo, un problema sociale: l’egoismo e la sua postura di pensiero, ossia il solipsismo. Per debilitarne le fondamenta, Gadda è consapevole di dover partire massacrandone linguisticamente le premesse, cioè invalidando la possibilità stessa di un’identità autonoma, sufficiente a se stessa e in continua ronda sulle proprie illusioni di possesso.
Da qui la celebre invettiva diretta all’«idolo io, questo palo» dalla «coglionissima capa» (Come lavoro, SGF I 428). Come abbiamo detto, però, in Gadda il male etico si salda sempre alla colpa espressiva; per questo, poche righe dopo, lo vediamo precisare la mira, stringere sul problema creativo, mentre rincara la dose:
L’io rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza, e nella fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto della credulità tolemaica, in ogni modo, non ha nulla in comune con la mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di «dissociato noètico». D’intorno a me, d’intorno a noi, il mareggiare degli eventi mortiferi, il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si abolisce, nel lento impossibile. L’oceano della stupidità. (SGF I 431)
La prosa critica di Gadda, si sa, gareggia ogni volta con quella letteraria; è in questa preziosa ambiguità che egli, mentre ragiona di scrittura produce pezzi memorabili di letteratura: e, sul versante opposto, mentre scrive un romanzo, getta le basi per la sua teoria. In quest’ottica trasfusiva è lecito seguire il cammino del suo pensiero critico nelle sue traduzioni romanzesche; chiedersi con che tipo di soluzione operativa egli decida di illustrare il problema, creando un possibile estetico alternativo all’abolizione del volere.
Occorre resistere in modo tecnico – vedremo poi l’importanza dell’aggettivo nel romanzo – alla spossatezza ferita, a quella sorta di ubi nihil vales, ibi nihil velis con cui si chiude l’invettiva e che Samuel Beckett, citando Geulincx, metteva in bocca al suo Murphy. (2) Tanto per Beckett, come per Gadda, ritengo sia da respingere in modo netto ogni lettura puramente negativa, ogni tentazione desertica e nichilista, qualunque voto all’afasia. Il piano espressivo serve piuttosto come banco di evidenza, su cui disporre il difetto etico in modo linguistico, non per costatare a freddo quanto questo sia irreversibile e destinato alla pandemìa, bensì per renderlo visibile e soprattutto sensibile nella sua acustica; per farlo, cioè, praticare al lettore nella sua pelle verbale e prepararne l’antidoto all’interno del linguaggio.
Il dire e il fare sono, dunque, l’oggetto di un’unica meditazione, tanto che in uno scritto sono affiancati fin dal titolo. Nella Meditazione breve circa il dire e il fare, infatti, Gadda ribadisce nella premessa la «medesimezza» che lega azione e dizione, in una curiosa contingenza con la teoria degli atti linguistici, che Austin stava in quegli anni mettendo a punto:
Questo primo tema ch’io dico, da costituir vincolo e testimonio, quasi, di medesimezza tra l’operazione dell’esprimere sé e quella di costituir sé in dignitosa persona o ente, mi pare possa così formularsi: «Considerate che un vizio della espressione influisce nei giudizi e però negli atti d’un uomo o d’un collegio di uomini…». (SGF I 444)
La premessa, per Gadda, è resa necessaria a chiarire come la sua tesi non sia orientata sul più classico vettore di lettura, secondo cui l’animo informerebbe la parola, le cose il loro nome – conforme al nomina sunt consequentia rerum di Giustiniano –, ma sostenga al contrario un’opposta direzione epidemica:
Quante volte quest’arte del dire ha deformato il sentire: coi bei risultamenti delle sue parole obbligative ha reso pregiudizio grave tanto al pensare che al fare. Siamo cioè condotti allo studio di un rapporto inverso a quello che costituisce ordinario obiettivo d’osservazione. Ché per solito si ama disquisire dai savi come e quanto il pensiero e, direi, l’interno calore dell’anima informi o accenda la tua parola, o parlata, o scritta: nomina sunt consequentia rerum: io no: io voglio, in questo tema e nelle sue variazioni, farne ridesti a un pericolo che sapete benissimo e pur siete adusati a mettere, per una cagione o per l’altra, in non cale: la parlata falsa falsifica l’animo. (SGF I 445)
Riassumiamo, a costo di apparire didascalici, prima di andare oltre: c’è un problema etico diffuso, il solipsismo egoista ed egotista, che, data la correlazione tra fare e dire, ha il suo corrispettivo nella «parola, o parlata, o scritta». Interessandoci in questa sede solo della parola scritta, siamo portati a porci due domande: che tipo di resa testuale corrisponde al solipsimo? Come riconoscerlo? E veniamo così a Bachtin e alla teoria del romanzo.
Si sarà forse notato come, nei passi citati, una risorsa lessicale cui Gadda attinge, per definire la sfera semantica dell’egoismo, sia riconducibile alla figura di Galileo Galilei, o meglio alla disputa tra la concezione tolemaica del mondo e la rivoluzione copernicana, di cui Galileo si assumerà il rischio della divulgazione. Oltre alla già citata «fissità centrica» di «codesto bambolotto della credulità tolemaica», vi sono altri luoghi testuali in cui la similitudine convoca lo scienziato pisano a fare figura: se, nel dialoghetto L’Egoista, il portatore del male omonimo è definito «tal’e quale come il pianeta ipergravidico» che «acciacca se stesso» per eccessiva gravità (SGF I 659), in Emilio e Narcisso lo scrittore prende a pretesto il romanzo The egoist di George Meredith, per ribadire che «questo senso centrico» è da lui chiamato «fissazione tolemaica» (SGF I 640).
Al di là dell’interesse che avrebbe indagare Galileo come modello di prosa in Gadda, è rilevante qui notare come anche Bachtin, nel momento in cui deve trovare una formula con cui indicare la qualità fondamentale del narratore polifonico, da opporre alla chiusa immobilità della visione monologica, parli di «coscienza linguistica galileiana». (3)
Quest’immagine in Bachtin funziona per coppie, esattamente come in Gadda: l’errore di credere al dogma rassicurante di una terra in equilibrio statico illustra l’errore creativo di comporre un mondo centrato unicamente sulla voce compatta e monologica dell’autore, sull’unità della lingua che esclude o rende periferiche e subordinate le voci testuali. Un errore di centratura, quindi, ma prima di tutto, e ancora, un problema di acustica. Solo chi è in grado di cogliere i bordi linguistici interni al sistema della lingua, la continua mobilità e interazione dei punti voce, può restituire un’immagine attiva delle loro dinamiche; solo quando «sorge un senso acuto dei confini della lingua» (Bachtin 1979a: 177), insomma, si può relativizzare in essa la propria posizione, facendo spazio testuale alla parola altrui:
Il romanzo è l’espressione della coscienza linguistica galileiana che ha rinunziato all’assolutismo di una lingua unica e unitaria, non accettando più la propria lingua come solo centro semantico verbale del mondo ideologico […]; è necessario imparare a sentire «la forma interna» […] della lingua altrui e la «forma interna» della propria lingua come altrui; è necessario imparare a sentire ciò che di oggettivato, tipico, caratteristico c’è non soltanto nelle azioni, nei gesti e nelle singole parole e espressioni, ma anche nei punti di vista, nelle concezioni e nelle sensazioni del mondo, organicamente unite alla lingua che le esprime. (Bachtin 1979a: 174; corsivo mio)
Anche per Bachtin, come si vede, le diverse concezioni del mondo sono «organicamente unite alla lingua che le esprime», di modo che dare una descrizione romanzesca dei movimenti linguistici equivale a raccontare una storia di coscienze, dove – e qui invece è Gadda a parlare di Dostoevskij – i personaggi «si urtano ed errano e peccano e vanno al diavolo quasi comandati, cioè inspirati, insufflati da parole demoniache, da dèmoni divenuti parole» (Meditazione breve, SGF I 453; corsivo mio)
Lo spazio del romanzo diventa una tracciatura di urti linguistici, conflitti in cui l’autore si limita a disporre e stenografare una pluralità che per attrito semantico costruisce l’intreccio. Quest’ultimo, infatti, «è sottomesso a questo compito di correlazione e reciproco svelamento delle lingue. L’intreccio romanzesco deve organizzare lo svelamento delle lingue e delle ideologie sociali, la loro mostra e la loro prova: la prova della parola» (Bachtin 1979a: 173; corsivo mio).
Prima di scendere nello specifico dell’intreccio della Cognizione, per verificarvi l’applicabilità della definizione bachtiniana, fissiamo un’ultima equivalenza sul piano dell’autore: il corrispettivo creativo della posizione solipsistica a livello etico è riscontrabile, a livello compositivo, nella monocromia ricettiva dell’ascolto monologico; nell’ingenua, e non meno colpevole, illusione che ciò che non rientra nel proprio sistema linguistico vada silenziato e ricondotto a unità. Questa tipologia di narratore, conclude Bachtin, «non sente l’essenziale pluridiscorsività», così che «le armoniche sociali, che creano i timbri delle parole, sono da lui scambiati per rumori importuni da eliminare» (Bachtin 1979a: 135).
Il rumore in Gadda non sembra fare difetto. Egli è talmente fornito di un «senso acuto dei confini della lingua» da essere spesso indicato, nella vulgata critica, come paradigma dell’ibridazione stilistica nel Novecento italiano. Abbiamo visto, inoltre, retroilluminato dall’invettiva, quanto il suo pensiero si opponga a qualsivoglia centratura prospettica dell’individuo, tanto sul piano etico che in quello autoriale: quanto la sua coscienza, insomma, sia galileiana.
Ci si aspetterebbe allora, come logica conseguenza, un romanzo di tipo strettamente polifonico, dominato dalla molteplicità di linguaggi organicamente uniti ad altrettante coscienze, svincolate e autonome rispetto alla volontà dell’autore che le dispone. L’essenza della polifonia, infatti, «sta proprio nel fatto che le voci restano indipendenti e come tali si combinano in un’unità di ordine superiore a quella dell’omofonia, […] si compie il superamento di una sola volontà». (4) La polifonia non è un semplice effetto stilistico, ma un riposizionamento dell’autore che, al pari dell’intreccio, arretra e si ricolloca in una contemporaneità dialogica con la «pluralità di voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l’autentica polifonia delle voci pienamente autonome» (Bachtin 1968: 12). Questo è Dostoevskij, coscienza tra le coscienze, voce tra le voci. Eppure, nel capolavoro di Gadda, le cose sembrano stare diversamente.
Lontano da essere la resa testuale di una «totalità d’interazione tra varie coscienze» (Bachtin 1968: 27), il mondo della Cognizione si configura piuttosto come un vuoto di voci, in movimento, in aggressione della sola coscienza dell’eroe. Trattandosi di un narratore ad alta vocazione polifonica – realizzata a pieno nel Pasticciaccio, come rileva giustamente Cesare Segre – non possiamo leggere questa mancanza di coscienze come un rinculo monologico, un errore di officina, una caduta o un’abiura. Mi pare, invece, che Dostoevskij resti anche qui il modello di riferimento, complicato in funzione di uno spostamento di problematica. Se Gadda, come autore, ha risolto il conflitto etico tra una narrazione gravidica e la sua antitesi polifonica, a favore di quest’ultima, sul piano del racconto e dei personaggi egli può forzare la forma a rivelare un’intelaiatura più complessa del problema, costruendo un’immagine del concetto, praticabile dal lettore attraverso un’immagine della lingua.
In un certo senso, la questione egologica nel romanzo si biforca e raddoppia. Da una parte, vedremo come l’egoismo sociale trovi un soggetto esteso nella collettività, e nella sua espressione linguistica: la diceria, la chiacchiera, la doxa – arido contraltare alla polifonia. Dall’altra, in opposizione a questo soggetto collettivo, portatore linguistico di un «egoismo di discendenza fàgica» (L’egoista, SGF I 664) – affamato di voci testuali, di coscienze da neutralizzare – egli ricava la solitudine acustica dell’unico soggetto che resista a questa dinamica vocivora, ma che da essa è generato per separazione e dissociazione. Questa sola coscienza testuale, però, non è presentata in un tenace arrocco solipsistico: al contrario la sua voce è costruita, seguendo la lezione di Dostoevskij, come conato dialogico, destinato dall’autore a essere strategicamente deluso.
Veniamo, dunque, alla costruzione del personaggio. Se la polifonia è la condizione di possibilità per l’emersione testuale di numerose voci e coscienze, il dialogismo è la disposizione interna di queste voci alla crescita relazionale, all’urto e alla modificazione. In breve, è la trasposizione, a livello del personaggio, dell’eteronomia del narratore polifonico; è la contro posizione, sul piano del racconto, all’isolamento monologico.
Questa disposizione non è immediata, ma maturata per fasi. L’approdo al personaggio dialogico, tanto in Dostoevskij quanto in Gadda, è, infatti, il risultato di un percorso del pensiero, di un superamento di stadi successivi. Il male accentrativo, l’esclusione dell’altro, è prima di tutto una tentazione di stabilità che va praticata nella sua menzogna, perché l’apertura non sia pura lacerazione: linguisticamente, è necessario sentire l’incompiutezza della propria parola, il bisogno di metterla alla prova.
L’uomo del sottosuolo è colui che cerca di respingere questo bisogno, facendo tacere o anticipando la parola altrui su di sé, per deriderne la pretesa comunicativa, incapace di sfondare la «barriera solipsistica». (5) Il personaggio del sottosuolo, scrive, infatti, Bachtin:
sta con l’orecchio teso ad afferrare ogni parola degli altri su di lui, si guarda nelle coscienze altrui come in tanti specchi, conosce tutte le sfumature che la sua figura può assumere in esse […]. Ma egli sa altresì che tutte queste determinazioni, sia parziali che obiettive, sono nelle sue mani e non lo definiscono completamente proprio perché egli stesso ha coscienza di esse; egli può uscire dai loro limiti e renderle inadeguate. Egli sa che l’ultima parola è la sua, e si sforza di conservare per sé ad ogni costo quest’ultima parola su di sé. (Bachtin 1968: 72; corsivo mio)
La forza di Dostoevskij sta nel comporre questa figura di grande solipsista non come semplice immagine di una compiaciuta inerzia auditiva, ma come un grande orecchio cognitivo, affaticato nel digerire la parola altrui per attaccarla con l’acido della precomprensione. È una sfida conservativa, spinta all’esterno unicamente per internarlo nei propri confini, e dimostrare che la sua autocoscienza è una geografia normativa, immune da nuove mappature, che solo egli conosce i propri bordi, da cui tagliare i ponti alla parola altrui. Non c’è motivo di uscire dal sottosuolo, niente di nuovo sotto il sole.
è da questo errore del pensiero, da questa figura a enorme densità di massa, che Dostoevskij costruirà, per reazione, la sua infinita gamma di personaggi dialogici, destinati a soffrire del male opposto, ovvero di un’eccessiva esposizione all’aperto, in continua lotta con la parola altrui; nel farlo, però, li priva della possibilità di riparare in un proprio territorio di autocoscienza: il «talento crudele» (6) dello scrittore russo, mentre spinge i personaggi a costruirsi nella dolorosa negoziazione con la parola altrui, gli sbarra definitivamente la porta di casa. Dall’orbita asfittica delle Memorie dal sottosuolo si arriva alle vaste ellittiche, tracciate dall’intersecarsi di voci, dei Fratelli Karamazov. Qui il personaggio, nella rinuncia all’ultima parola, si fa «funzione infinita» (Bachtin 1968: 69).
Anche in Gadda, il personaggio dialogico è il risultato di un attraversamento. A testimoniarlo non abbiamo però un racconto che ospiti una figura d’errore, un campione di solipsismo, ma il già citato dialoghetto tematico sull’Egoista; questo testo potrebbe tuttavia essere letto come un commento eziologico al racconto di Dostoevskij. In esso Gadda compie un’accesa disamina del male per tappe degradanti, una sorta di casistica generativa. Ripercorrerla ci porterà sulla soglia della villa di Gonzalo, ai margini della Cognizione.
Gadda descrive in questo testo quattro tipi di egoismo, derivati l’uno dall’altro. Prima di tutto, però, è definita la matrice generale della colpa: «Egoista è colui che ignora o trascura la condizione di simbiosi, cioè di necessaria convivenza di tutti gli esseri. Egli crede di poter vivere solo, entità eminente nella vera luce su oscure e dimenticabili premesse» (SGF I 654-55). A confortare la nostra impostazione comparativa con il modello russo, poche righe dopo aggiunge che l’egoista «non ha letto, e non ha meditato a sufficienza, la monadologia di Leibniz né i Karamazov di Dostoevskij» (SGF I 654-55).
Vediamo ora i quattro stadi di affezione, lungo cui si sviluppa il male. Il primo vede protagonista «l’egoista economico», che «crede, nella sua dura buonafede, poter salvare sé, la sua donna, la sua prole, il suo pecunio, dal naufragio dei casi» (SGF I 655). A questo segue «l’egoista dell’al di là», che «ritiene di aver potuto recare a salvezza la propria anima sulla perdizione delle rimanenti: cioè che una poltrona di prima fila gli sia riservata in Paradiso»; quest’ultimo ignora, e siamo ancora in Russia, «il riconoscimento dostoiewskiano del gravame comune delle colpe», ed è perciò classificato anche come «egoista morale» (SGF I 656-57).
Da qui si arriva all’«egoista estetico, cioè allo schizzinoso: mentre la casa va a brucio, costui, o costei, è tutto incurvo sulle calie del salotto: aggiusta sui mobili, i soprammobili, gli indispensabili tarabiscots del salottino assettatuzzo: […] ignora, o scorda, che il sudiciume e il disordine sono la più autentica delle proprietà comunizzate» (SGF I 657).
Infine, e siamo alle porte della villa dei Pirobutirro, l’egoista estetico «arriva, per lente, inavvertite sfumature, a costituir se stesso in egoista igienico» (SGF I 658). Quest’ultima posizione, funzionando per noi da raccordo analitico, vale una citazione estesa:
Egoista igienico è quegli che cerca di esimersi, con l’isolamento, col metter maschera al grifo, da contrarre il male epidémico: o anche semplicemente endémico. Ripara in villa ad affabular le belle, mentre il sito de’ cadaveri ammorba tutta la città. Per fare altro esempio: se la collettività cade preda di una irriducibile endemia di cretinismo, l’egoista igienico si studia ciononpertanto, con l’aereare il proprio cervello, con la lettura di Montaigne, evitare a se stesso la calamità comune. (SGF I 658; corsivo mio)
La postura igienica di chi «ripara in villa» per non venire a contatto con l’alterità epidemica – si tratti pure di una malattia del pensiero e del linguaggio, endemica alla collettività – sembrerebbe essere il nitido ritratto di Gonzalo. La sua figura, ritagliata dalla «cattiva stampa» e dalle «voci più straordinarie» (Cognizione, RR I 596), è introdotta tardivamente nel romanzo proprio sotto il profilo di una ripulsa igienica al contatto: «non altezzoso, questo, sembrava escludere dallo sguardo, e forse dallo sguardo dell’anima, la miseria e il giallore della poveraglia» (RR I 597). Inoltre, l’immagine di una clausura libresca, del riparare in una letteratura da camera per «aereare il proprio cervello» nel mondo delle idee, sembra coincidere con l’attitudine del personaggio a consolarsi nella propria stanza, leggendo Platone al posto di Montaigne.
Gadda, però, descrive questa postura come la fase terminale di una catena metamorfica di egoismi, di un processo a cascata; l’esito estremo di una fallace difesa identitaria, che per proteggersi dal caos rinuncia al cosmo. Difficile pensare, quindi, che Gadda costruisca e sia solidale con un eroe della separatezza, che egli semplicemente ceda alla debolezza estetica di dare forma a un solipsista igienico, all’unico scopo di sfogare, nella sua voce, una «cible polemica» borghese contro la collettività.
Quella di Gonzalo è in realtà, credo, una posizione ulteriore: la sola posizione ulteriore. Gadda, anche lui «talento crudele», lo colloca e ce lo presenta nel momento di abrasione della placenta solipsistica, di ogni argine igienico; nella transizione di autocoscienza, in cui la membrana acustica smette di fare cassa a un’inutile egolalia e si spalanca all’aperto: è l’uscita dal sottosuolo, l’ultima torsione che porterà il personaggio a farsi dialogico.
La scelta di Gadda è ancora vicino al modello russo, se è vero, come scrive Bachtin, che Dostoevskij «raffigura sempre l’uomo sulla soglia dell’ultima decisione, nel momento di crisi e di rivolgimento incompiuto – e non predeterminabile – della sua anima» (Bachtin 1968: 83). Questa crisi è prima di tutto un’espropriazione della parola del personaggio su di sé, una crepa verticale che divide la compattezza monologica della parola autonoma e la rende definitivamente «semipropria» (Bachtin 1979a: 154), bisognosa di verificare la propria tenuta di coscienza attraverso l’incontro con la parola altrui: il personaggio dialogico è sempre costretto a questa «prova della parola». È una deterritorializzazione linguistica, in cui il personaggio è forzato a ritracciare i propri confini continuamente, nella mobilità degli urti linguistici con altre voci e altre coscienze, su cui egli non vanta nessun diritto di censura: «le enunciazioni dei protagonisti in Dostoevskij sono un’arena di una lotta senza esito» (Bachtin 1979a: 157).
La pressione linguistica della parola altrui è però una forza costruttiva, è ciò che blocca la tentazione ipergravidica del soggetto, sviluppando l’identità come continua piegatura, e la parola del personaggio come enunciazione infinita. Solo così si rinuncia a un’unica e autoritaria verità sul mondo, senza cadere in un altrettanto colpevole relativismo. L’operazione di piegatura, come scrive Deleuze, «non è una variazione della verità a seconda del soggetto, ma la condizione in cui appare al soggetto la verità di una variazione». (7)
Gonzalo sembra consapevole di questa verità, quando constata che «se un’idea è più moderna di un’altra, è segno che non sono immortali né l’una né l’altra» (RR I 637). Egli è così già disposto alla variazione, al contatto con altre zone di enunciazione, a lasciarsi piegare dalla relazione con altri punti voce, e per questo si mette in cammino, al di fuori della propria casa e della propria parola. Fuori però non troverà nessuno. La sua sete di parole altrui «internamente convincenti» (Bachtin 1979a: 154), in grado di giustificare il dolore legato alla menomazione, da lui stesso inflitta alla propria parola – un’incisione dialogica espropriante –, sarà solo accresciuta da un deserto di voci.
Eppure, il mondo della Cognizione si direbbe stipato di suoni. A produrli, però, non è una viva polifonia di coscienze autonome, di personaggi dialogici, ma un unico animale linguistico che si nutre di coscienze e voci testuali: il «serpente collettivo» (RR I 751), la cui testa inizia a strisciare fin dalle prime pagine. Il Maragadal è abitato da un mostro mitologico, antico come la retorica, la cui connotazione animale si lega al vizio espressivo della menzogna; il suo organismo è composto di «barocche fandonie», «dicerie di ogni genere» (RR I 600-01) che vanno a comporre un «polipaio» (Meditazione, SVP 661) di «cospicue cariche energetiche liberate in lavoro (inutile)» (RR I 716): la sua scrittura è «scrittura di bugìe» (RR I 703), la sua pelle, che muta e si rinnova, è la «pelle delle chiacchiere» (Pasticciaccio, RR II 75).
La parola di questo mostro linguistico è dunque la chiacchiera, la cui natura resiste a ogni contestazione, poiché è puramente accrescitiva, fagocita e non concede attrito: è l’opposto della parola dialogica. Il suo meccanismo è sempre attivo, non ha mai una sorgente prima – in cui sarebbe possibile verificarne il senso, la verità, e contestarla –, ma il suo moto è sempre già originato, consente solo di inserirsi e spegnersi in esso.
Il mostro però sa sedurre, offrendo protezione verso quel particolare dolore che costringe la parola semipropria a spossarsi nella continua piegatura. In Essere e Tempo, Heidegger individua in questo aspetto protettivo le radici della sua diffusione a macchia d’olio:
La parola già parlata, come tale, conquista cerchie più vaste e assume carattere autoritativo. Le cose stanno così, perché lo si dice. In tale riecheggiare e riparlare, […] si costituisce la chiacchiera. L’infondatezza della chiacchiera non le sbarra la strada alla pubblicità, anzi la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di capire tutto senza preliminare appropriazione della cosa: essa protegge infatti dal pericolo di fallire in tale appropriazione […], ma crea una comprensibilità indifferente cui nulla più si sottrae. (8)
Questa endemìa del linguaggio è l’esatto contrario della polifonia, ma la sua forza sta precisamente nel poter essere confusa con essa. Chi, infatti, cede alla chiacchiera, lo fa con l’idea di partecipare a una totalità, illudendosi di non perdere la propria individualità – come vedremo, questo sarà l’errore del dottor Higueroa. Il prezzo di questa seduzione, al contrario, è proprio la cessione senza diritti della propria coscienza, l’irreversibile delega del volere, che a livello di romanzo coincide con la perdita della voce testuale.
Il meccanismo della diceria è così sofisticato poiché funziona come uno strumento di potere e di controllo sociale, come rete tesa a sedurre e sedare coscienze; come tale, deve essere invisibile e inudibile, non deve essere percepita. La parola autoritaria, scrive Bachtin, «esige da noi di essere riconosciuta in modo incondizionato, e non di essere padroneggiata e assimilata liberamente alla nostra parola» (Bachtin 1979a: 151), per esistere deve uccidere ogni resistenza dialogica, indurre al suicidio ogni voce testuale. Il «carattere autoritativo» della parola già parlata viene nascosto dalla seduzione, dal territorio protetto che essa offre, al caro prezzo della propria autonomia di coscienza.
La chiacchiera abita, quindi, uno dei tanti strati di cui si compone l’insieme delle strategie di potere, che Michel Foucault raccoglierà sotto il nome di dispositivo: il suo strato è il linguaggio che, come scrive Agamben, «è forse il più antico dei dispositivi, in cui migliaia di anni fa una primate […] ebbe l’incoscienza di farsi catturare». (9) Ma ogni strato allude e si coordina allo strato successivo, creando una fitta rete di cattura a cui sembra impossibile sottrarsi. Il dispositivo, infatti, chiarisce Foucault, non è solo una pratica discorsiva:
Ciò che cerco di individuare sotto questo nome è, innanzitutto, un insieme assolutamente eterogeneo, che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto, quanto del non detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è la rete che si stabilisce tra questi elementi. (10)
Anche Gadda formula una propria versione del concetto, meno estesa, ma ugualmente orientata a insistere sulle intersezioni, sulla natura espansiva e plastica del dispositivo. Come Foucault precisa che il dispositivo non agisce solo all’interno della parola, così Gadda, quando deve definire la «parlata falsa», allarga il senso del sintagma, e scrive che «se dico parlata falsa, dovete intendere parlata in senso latinissimo, cioè non lingua minutamente o soltanto parola, ma tutto quanto il caos o il cosmo delle immagini e de’ giudizi, dei modi e delle favole, in che s’aggroviglia il vivente polipaio dell’umana comunicativa» (Meditazione breve, SGF I 445).
Lo strato più giuridico e amministrativo del concetto, invece, trova riscontro nell’incipit stesso del romanzo. Non a caso, forse, il racconto inizia proprio con la descrizione di regolamentazioni, leggi e misure amministrative riguardanti la sicurezza pubblica e il suo sistema di vigilanza:
In quegli anni, tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maragadal, che è un paese di non molte risorse, davano facoltà ai proprietari di campagna d’aderire o di non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte – (Nistitúos provinciales de viglancia para la noche). (RR I 571)
Sappiamo quanto questa libertà di scelta resti in realtà solo sulla carta, perché chi non aderisce, come la madre di Gonzalo, pagherà con la vita stessa questo rifiuto a integrarsi nel dispositivo di controllo. La Cognizione può così essere letta come una storia, a più livelli, di un dispositivo di potere e dell’unico personaggio che ad esso cerca di sottrarsi. Occupandoci qui del livello linguistico, torniamo a vedere come la resistenza eroica di Gonzalo si situi nella qualità dialogica della sua parola.
Quale risorsa costruttiva permette a Gonzalo di non cedere al dispositivo della diceria, se questo funziona a pieno regime? La risposta, spero, chiarirà l’aver insistito fino a qui sullo specifico sonoro del romanzo. La parola dialogica, semipropria, che egli ha maturato, lo ha dotato di una capacità di ascolto tale da rilevare la presenza del dispositivo, da superarne i bordi e rendersi marginale al monologo collettivo. Da questo «senso acuto della lingua» nasce la separatezza di Gonzalo e, contemporaneamente, la spazializzazione del romanzo. Nel descrivere il funzionamento del luogo comune, pressoché equivalente a quello della chiacchiera popolare, Roland Barthes scrive infatti che:
Lo spazio sociale si divide in due regioni, ineguali, ma nettamente distinte: un vasto territorio in cui il luogo comune non è percepito come tale e in cui di conseguenza, si è detto, non esiste del tutto; e, a fronte, un territorio esiguo, marginale, un «cammino», all’interno del quale i soggetti parlanti (e ascoltanti) hanno una viva sensibilità alle ripetizioni del linguaggio, le tollerano male e le rifuggono sempre di più. […] La seconda è una regione esigua, chiusa, a partire della quale il luogo comune è percepito, giudicato, respinto: luogo […] di tutti i marginali del linguaggio. (11)
Ecco così dispiegato lo spazio della Cognizione, il suo principio di spazializzazione. Il «vasto territorio» in cui non è percepita la chiacchiera come tale, il luogo della falsa polifonia, corrisponde al paese di Lukones; al polo opposto, in linea orizzontale e alla massima distanza, ai margini stessi del linguaggio, vi è la Villa di Gonzalo: in mezzo a questi due poli, un muro.
E proprio intorno a questo muro, sulla soglia della parola divisa di Gonzalo, avviene l’incontro tra il dottor Higueroa e l’«ultimo hidalgo». Questo muro è il residuo simbolico del vecchio male di Gonzalo, del suo passato igienico, ormai diventato inutile traccia di una difesa monologica, in cui non può più trincerarsi. La similitudine tra il cedimento funzionale del muro e la debolezza costruttiva delle frontiere soggettive, è Gonzalo stesso a formularla, in una duplice irrisione:
… Io, tu… quando l’immensità si coagula, quando la verità si aggrinza in una palandrana… […] Quando l’essere si parzializza, in un sacco, in una lercia trippa, i di cui confini sono più miserabili e più fessi di questo fesso muro pagatasse… che lei me lo scavalca in un salto… quando succede questo bel fatto… allora… è allora che l’io si determina, con la sua brava mònade in coppa, come il cappero sull’acciuga arrotolata sulla fetta di limone sulla costoletta alla viennese… Allora, allora! è allora, proprio, in quel preciso momento, che spunta fuori quello sparagone di un io…. (RR I 637-38; corsivo mio)
Se l’individuo egofonico si costituisce sulle false fondamenta di una parola interamente propria, animato dall’idea del perimetro, dall’ansia di un territorio, il personaggio dialogico emerge dal crollo di queste fondamenta. Nel crollo la sua parola si spezza, si fa semipropria, crea un vuoto acustico che egli cerca di colmare uscendo dal sottosuolo, in cerca della parola altrui. Questo momento di transizione, in cui il personaggio non è ancora dialogico, ma non è più monologante, è stato giustamente descritto da Robert Dombroski come un «paradosso etico», fondante per il romanzo. In quest’istante ibrido:
Il soggetto tenta al tempo stesso di circoscrivere e difendere un’area di esperienza la cui esistenza dipende da ciò che egli non possiede, vale a dire da un’individualità, da un’identità che s’inquadri in una storia personale compresa nella sfera dell’Altro. (Dombroski 2002a: 82)
La postura dialogica, non ancora fissatasi, confonde il personaggio, in un’alternanza tra il desiderio di proteggere il proprio territorio d’esistenza e la consapevolezza che questo non esiste, se non nell’aperto della relazione con l’alterità. La porta del sottosuolo non si può aprire se non scardinandone definitivamente le condizioni di possibilità; una volta aperta, però, non la si può richiudere: l’apertura e lo sbarramento coincidono, costringendo il personaggio a praticare il disagio di un’esposizione costante alla parola altrui. La porta e il muro di Gonzalo ricordano, per paradosso e metafora, un’altra porta letteraria, quella di un personaggio di Kafka, protagonista di una serie di piccoli ritratti comportamentali, raccolti sotto l’oggettivante pronome di terza persona, Egli:
Il suo appartamento ha una strana porta: quando la si chiude, non la si può più aprire, ma bisogna farla levare dai cardini. Per questo egli non la chiude mai; anzi, perché non si chiuda, colloca contro la porta sempre semiaperta un cavalletto di legno. Ciò gli impedisce beninteso di stare in casa a suo agio. I vicini, è vero, sono persone fidate, ma ciò nonostante deve portare con sé tutto il giorno gli oggetti di valore in una borsa, e quando sta in camera coricato sul divano, è come se stesse nel corridoio, d’estate gli entra di lì l’aria afosa, d’inverno quella gelida. (12)
La rottura dialogica inizia sempre da questa zona confusiva. La scoperta dell’aperto, le prime infiltrazioni di alterità, suscitano un disagio, una nudità, una deterritorializzazione violenta, difficile da sostenere. Il personaggio dialogico però, fin dall’inizio, si sostiene proprio su ciò che è difficile da sostenere; una tensione costruttiva lo costringe alla luce dell’aperto per trasformare chimicamente la propria parola: la sua struttura è fotosintetica. (13)
Per questo egli fa di tutto perché la porta non si chiuda. Al contrario, chi non resiste a questo senso di minaccia, di esproprio, di furto cui si lega ogni primo contatto con l’esterno, reagisce barricandosi, dando verifica della sua falsa disponibilità alla relazione, di quella sottile e travestita forma di egoismo che è la «pertinace carità» (RR I 604). Prima della prova della parola, bisogna superare la prova della porta, in cui la madre di Gonzalo mostra l’esasperato e ridicolo risvolto della carità, la sua ansia territoriale:
Quella donna, che non temeva dormir sola in una casa di campagna isolata, viceversa si barricava in casa ogni sera, con una angoscia inimmaginabile. Collocava dietro le porte-finestre del terrazzo, dietro gli scuri sprangati e poi dietro i vari usci delle camere, la più varia ed inopinata suppellettile: poltroncine, tavolini, seggiole, benché con un calcio andavano all’aria, sgabelli, scope, scopini, l’annaffiatoio verde, vuoto, il vaso dei peperoni sott’aceto, che con una spallata, e nemmeno, si sarebbe ugualmente spalancato ogni cosa, nonostante quegli impicci. (RR I 747)
Gonzalo, invece, non trova più riposo nel possesso, la lama dialogica ha tagliato in lui ogni perimetro, ha scavato nel suo orecchio lo spazio per cogliere in modo responsivo ogni singola voce della polifonia dell’aperto. All’aperto, però, non troverà ad accoglierlo il «grande dialogo», con cui Bachtin sintetizza il mondo polifonico di Dostoevskij (Bachtin 1968: 59); al suo posto, si scontrerà con quello che Barthes, citando Brecht, chiama il «Grande Uso», sarà percosso dalle pale di un «mulino a parole» (Barthes 1998: 223, 215), dove ogni coscienza è spenta nella sua affamata macinatura.
Ecco perché Gadda lo chiama «l’ultimo hidalgo» (RR I 605). Il richiamo a El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha non è solo un segnale parodico, ma un’attualizzazione della lotta contro l’ultimo dei mulini, alimentato a raffiche verbali. Nel suo viaggio non ha scudiero, e l’unico eletto alla nomina lo tradirà: egli è uscito inutilmente dal sottosuolo.
Nel suo cammino verso la cognizione di questa solitudine, l’incontro con il dottore compone il quadro del tradimento. Dalla regione della chiacchiera, dal pensiero della folla, dal paesino di Lukones, questi è il solo che risponda alla chiamata di Gonzalo, spingendosi fino ai confini simbolici della sua persona, fino alla cinta protettiva e decaduta della sua parola: il muro. In questo luogo, centrale nel romanzo, e nella spazializzazione linguistica che ne organizza il campo narrativo, si consuma l’ultimo vano tentativo dell’eroe di suscitare la parola altrui verso un atteggiamento responsivo; il tentativo estremo di attivare la propria fotosintesi, che metta in movimento, nel contatto, per prossimità, le rispettive metà semantiche.
Gadda aveva predisposto quest’incontro nel dettaglio e, dobbiamo dedurre, anche il suo esito negativo. Nelle note di lavoro, si legge che «il dottore esprime la funzione sociale di appoggio dell’individuo: il momentaneo sollievo». Nelle ragioni per cui la cura torna subito a trasformarsi in «rancura» (RR I 703), ci sono elementi utili a penetrare ulteriormente la strategica crudeltà gaddiana.
Il dottore comprende solo parole di superficie, non ha orecchio per cogliere la parola interna del personaggio, il suo reale bisogno di salute e di perdono, come accade invece nei dialoghi di Dostoevskij. In questi, scrive Bachtin, «i due personaggi sono sempre presentati […] in modo che ciascuno di essi sia intimamente legato alla voce interiore dell’altro […]. Per questo nel loro dialogo le repliche dell’uno sfiorano ed in parte coincidono con le repliche del dialogo interiore dell’altro» (Bachtin 1968: 335). Il medico, invece, fraintende, minimizza, suggerisce all’eroe di fare un giro in macchina, all’aperto. Ignora che l’unico veramente all’aperto è proprio Gonzalo, e che la diagnosi finale di un «delirio interpretativo» (RR I 650) è una diagnosi a specchio, che illumina in realtà l’endemìa linguistica che ammorba il paese, e di cui egli si fa ambasciatore: ovvero l’incapacità di ascolto e di relazione, l’asservimento non percepito al dispositivo sociale della chiacchiera.
Se Higueroa, inizialmente, sembrava poter resistere a essa, giudicando «barocche fandonie» i ritratti deformati di Gonzalo che circolavano tra la folla, alla fine, e non a caso proprio poco prima dell’incontro con «il figlio», cercherà di primeggiare nella più chiassosa delle mille dicerie in circolazione, quella sul reduce di guerra Gaetano Palumbo e sulla sua discussa sordità. Così facendo, cede alla seduzione, al «potere logogeno» della chiacchiera, dove «l’importante non è comunicare, ma esprimersi» (Barthes 1998: 220-21). Suicida la sua voce testuale, pur di essere per un attimo «signore e padrone della novità del giorno, in vittorioso vantaggio di un quattro o cinque lunghezze sulla mezza voce del popolo. Tanto che, in quei giorni, non pareva più lui» (RR I 595; mio il corsivo). Subisce quindi una trasformazione opposta a quella di Gonzalo; il suo non è un percorso di emersione, ma di regressione, da una possibile dialogicità verso una definitiva trasfigurazione, nel contatto con il mostro linguistico che infesta il paese. Arrivato da Gonzalo, le sue orecchie sono ormai sigillate.
Il mostro, poi, produce mostri. Il noto ritratto della favolosa e terribile voracità di Gonzalo, infatti, è il risultato del potere deformante del dispositivo sociale. Per rendere inoffensivo il pericolo dell’unico personaggio in grado di percepire acusticamente il funzionamento macchinico del «mirabile congegno della società organizzata» (I ritagli di tempo, RR I 410), bisogna marginalizzarlo, porlo a distanza e serrare i controlli: fare di questo «nemico del popolo» un «vigilato della gendarmeria» (RR I 596).
A livello giuridico, però, occorre giustificare quest’operazione; ecco allora venire in soccorso una vecchia categoria, che ha ancora a che fare con lo spazio, intorno a cui Michel Foucault si è interrogato per un intero corso al Collège de France nel 1974-75: ossia l’idea sociale di anormalità.
Al termine di una prima archeologia del concetto, Foucault conclude, provvisoriamente, che le modalità di gestione sociale dell’anormalità si possono ricondurre a due grandi modelli: il primo, inclusivo, riguarda i lebbrosi; un secondo, esclusivo, gli appestati. Aggiunge che:
Mi sembrerebbe di poter dire che il modello dell’esclusione di lebbrosi – il modello dell’individuo che viene cacciato per purificare la comunità – sia scomparso tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Per contro, è stato riattivato (non predisposto) un altro modello, che è quasi altrettanto antico di quello dell’esclusione del lebbroso, e ha a che fare con il problema della peste e della suddivisione della città appestata. Mi sembra che, per quanto riguarda il controllo degli individui, l’Occidente non abbia in sostanza che due grandi modelli. (14)
Se per i lebbrosi, infatti, era prevista l’espulsione dalla città, con tanto di funerale a testimoniarne la morte dell’identità sociale, con gli appestati si procede col porli ai margini, inclusi, in stretta sorveglianza. La dissidenza, l’impartecipazione sociale di Gonzalo, lo porteranno a essere trattato con quest’ultimo protocollo; come, per richiamare un Manzoni carissimo a Gadda, un untore linguistico: reso periferico, forzato ai margini del linguaggio, tramite l’arma della deformazione, verrà poi invitato a farsi vigilare dai Nistitùos de vigilancia. Il suo rifiuto sarà il movente per procedere al delitto finale.
Da igienista a untore, da legislatore normativo a marginale abnorme. La riflessione di Foucault trova un riscontro notevole nell’interesse di Gadda per la nascita giuridica dell’anormalità, con una simile impostazione del problema. Nel Cahier d’études, infatti, egli mette in rilievo come la norma, per stabilizzarsi e sopravvivere, debba costruire un suo opposto categorico: «per cui si ha l’abnorme (ex lege), la cui presenza rende possibile alla norma di sussistere (concetto mio della polarità)» (Racconto italiano, SVP 407). Il discorso in Gadda è teso a dimostrare come questa categoria non sia naturale, ma naturata dalla norma stessa.
è in questa direzione generativa che va intesa la nota in cui l’autore spiega che il male di Gonzalo non è una distorsione spontanea, ma «nasce e discende “dagli altri”, procede dagli altrui errori di giudizio e dalle altrui, singole o collettive, carenze di contegno sociale. Ha per origine, ed elegge quindi a sua cible polemica, la follia e la cretineria “degli altri”» (Editore chiede venia, RR I 764). La sua parola dialogica lo ha distanziato ai margini del campo linguistico e dello spazio narrativo, lo ha formato come dissociale; da questi margini, poi, nello stesso istante separativo, cresce in lui «una continua critica della dissocialità altrui: la quale raggiunge ben più grave fattispecie che non raggiunga la sua» (RR I 764). La follia è, dunque, una questione prospettica.
Per fugare ogni dubbio sul fatto che la posizione di Gonzalo non sia più una posizione igienica e solipsistica, poco dopo l’autore precisa che egli «vive angustiato del comune destino, della comune sofferenza» (RR I 764). Allora, la sua solitudine non può che essere intesa come una costrizione, come una posizione derivata, e la sua malattia essere letta come una salute sofferta. Gli unici farmaci che possono alleviare un poco il dolore della salute, è ancora l’autore a precisarli:
La sua propria dissocialità si limita a chiedere e insieme a prescrivere a se medesimo i due farmaci restauratori della affranta sua lena, dello spento desiderio di vivere: questi farmaci hanno un nome nella farmacologia della realtà, della verità: si chiamano silenzio e solitudine. Il suo male richiede un silenzio tecnico e una solitudine tecnica: Gonzalo è insofferente della imbecillaggine del mondo, delle baggianate della ritualistica borghese; e aborre dai crimini del mondo. (RR I 764)
Uscito dal sottosuolo, al posto delle pulsazioni dialogiche di un «grande dialogo», ha sentito montare l’onda anomala della doxa, dall’«oceano della stupidità», l’avanzata del fond doxique. (15) Per resistere al dispositivo dossico, egli deve essere altrettanto sofisticato, tecnico, nella sua solitudine e nel suo silenzio. Così egli tenta di sottrarsi alla seduzione del mostro linguistico, proteggendo il proprio orecchio dall’intaccarsi, la propria voce dal rifarsi pietra, in attesa di un testimone che attesti la salute della sua parola, di un giudice dialogico che possa perdonarlo. Ancora Bachtin, in un bellissimo passaggio, scrive che:
Con la comparsa della coscienza nel mondo (nell’esistenza) e forse con la comparsa della vita biologica (forse non soltanto le bestie, ma anche le piante testimoniano e giudicano) il mondo (l’esistenza) muta radicalmente. La pietra resta pietrosa, il sole solare, ma l’evento dell’esistenza nella sua totalità (incompibile) diventa completamente diverso, perché sulla scena dell’esistenza terrestre per la prima volta entra un protagonista nuovo e principale dell’evento: il testimone e giudice. E il sole, pur restando fisicamente lo stesso, è diventato altro, perché è diventato oggetto di coscienza del testimone e giudice. (16)
Nel mondo di Lukones le coscienze non compaiono, ma dispaiono, per questo non ci sono né giudici né testimoni, e per questo niente si evolve, muta e diviene altro: ecco la colpevole stabilità tolemaica. Gonzalo ha bisogno di essere giudicato, di sentire muoversi la parola semipropria, scossa e piegata dalla parola altrui, in grado, così, di testimoniare quanto sia falsa l’accusa di dissocialità o misantropia; egli, infatti, «non potrebbe in nessun modo, da giudici senzienti, perspicaci ed equanimi venir definito un dissociale, un misantropo» (RR I 764).
Gonzalo, come Nicolaj Stavrogin, sa di non potersi giudicare da solo, è consapevole che «la giustificazione non può essere autogiustificazione, il riconoscimento non può essere autoriconoscimento», che ogni «autonominazione è usurpazione». La sua stessa vicenda narrativa scaturisce dal pensiero che «l’uomo non ha un territorio interiore sovrano, ma è tutto sempre al confine» (Bachtin 1979b: 324-25): da qui ha inizio il suo cammino cognitivo.
A giudicarlo non troverà nessuno, e tantomeno a perdonarlo. Persino la madre non sente la sua voce interna, agitandosi nelle inutili attenzioni della superficie. È vittima della sua stessa carità, di una falsa eteronomia che sostituisce, all’ascolto dell’aperto, un impermeabile altruismo monologante, che si dibatte nella paura del furto e non sa riconoscere la parola dialogica nemmeno nella propria casa.
Due nature narrative dividono madre e figlio, per questo tra loro il fraintendimento linguistico raggiunge il culmine del dolore. Gonzalo, in sua presenza, «avrebbe voluto inginocchiarsi e dire: “perdonami, perdonami! Mamma, sono io”», ma riconosce in lei i sintomi di affezione al dispositivo, per questo deve allontanarla con l’ira riservata al più intimo dei tradimenti: «Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e loro…» (RR I 737). (17)
La tensione narrativa del personaggio di Gonzalo, e la sua salute, sono il risultato di una specifica eteroflessione che Tzvetan Todorov, traducendo Bachtin, risolve con il termine greco di essotopia: «non un’esteriorità transgrediente, che serve a inglobare l’altro, ma un altrove, non integrabile, irriducibile». (18) L’essotopia comporta un’eccedenza, un desiderio narrativo che squilibra il personaggio fuori di sé. La metà mancante della parola dimidiata diventa, così, la parte del personaggio che lo eccede, lo piega alla ricerca semantica di una parola di perdono, di giudizio, o di semplice amore filiale: insomma, di altre eccedenze responsive. Nell’essotopia, infatti, Bachtin chiarisce che «un momento importantissimo di questa eccedenza è l’amore (amare se stessi è impossibile, si tratta di un rapporto coordinato), poi il riconoscimento, il perdono (il colloquio di Stavrogin con Tichon) e, infine, la semplice comprensione attiva (non duplicante), l’essere sentiti» (Bachtin 1979b: 338, corsivo mio).
Il male di Gonzalo risiede proprio in questa attesa responsiva, nella delusa perlustrazione di un territorio senza voci, privato della possibilità di riterritorializzare la propria. Non è il rumore della «pluralità sconcia» a devastare la sua sensibilità, ma il suo silenzio, vocivoro e compatto. Egli è un «reduce senza endecasillabi», la sua parola non è misurabile da nessuna norma, e la sua menomazione è antitetica alla sordità del chiacchierato Palumbo: «i di lui timpani erano affetti d’altro male, ora, che una lacerazione traumatica, d’altro tedio guasti, si sarebbe detto, che non fosse la nebbia della sordità» (RR I 682, 681). Il suo udito è così acuto che il silenzio si farà assordante.
Raccolti i materiali, non rimane che formulare una conclusione che, come si è detto, vale come ipotesi costruttiva, e non esaurisce certo gli angoli di lettura del romanzo.
L’operazione che Gadda compie è una combinatoria di modelli. Funziona per attrito paradossale ed è diretta a far praticare al lettore un problema etico, attraverso la sua spazializzazione acustica. Egli fa tesoro della lezione di Dostoevskij, ma lo supera in crudeltà, perché rompe il vincolo estetico che legava lo spazio narrativo della polifonia alla qualità dialogica dei personaggi che la abitavano. Se è vero che, come scrive Bachtin, «il romanzo polifonico è tutto dialogico» (Bachtin 1968: 58), Gadda ribalta l’assunto e recide l’equivalenza: costruisce un personaggio dialogico e lo inserisce in un mondo romanzesco non polifonico. Da questa forzatura strutturale, da questa mescola di linguaggi irrelati sono generati, per estensione, lo spazio e l’intreccio del romanzo: e il personaggio dialogico si deposita ai margini del composto estetico.
La conclusione induce a porsi, infine, due domande. Come chiamare questo personaggio destinato dall’autore al fallimento? «Forse avvierò questo tipo al fallimento», scriveva Gadda nel Cahier, lasciando traccia del carattere premeditato del gesto estetico (SVP 397). Sì, ma perché?
La risposta, credo, sta nel fatto che a Gadda non occorre un personaggio che traduca e interpreti una narrazione già scritta nel suo talento creativo, ma un vero e proprio operatore di pensiero: è quel particolare tipo di eroe romanzesco che Deleuze, in Che cos’è la filosofia?, definisce come un «personaggio concettuale». (19) Sotto questa qualifica, il filosofo francese compone una luminosa galleria di figure testuali: dal Dioniso di Nietzsche all’Idiota di Cartesio e Dostoevskij, dal Bartleby di Melville all’agrimensore di Kafka; a queste, credo, può affiancarsi di diritto anche il nome di Gonzalo Pirobutirro.
Eroe fabbricato da Gadda con la precisa funzione di articolare una trama che, prima di essere un percorso narrativo, è una tramatura del pensiero, egli sembra meritare, per qualità operative, di essere incluso in una tanto illustre comitiva. Gonzalo, infatti, spinto dalla parola dialogica a descrivere uno spazio, ritaglia così il piano narrativo di un problema etico, che è il primo passo di un personaggio concettuale. Questa superficie di riflessione è da Deleuze chiamata un «piano di immanenza»: i personaggi concettuali, infatti, «operano i movimenti che descrivono il piano di immanenza dell’autore e intervengono nella creazione stessa dei suoi concetti» (Deleuze 1996a: 53).
Allo stesso modo l’immagine di Deleuze, secondo cui «l’arte e la filosofia ritagliano il caos e l’affrontano» (Deleuze 1996a: 55), sembra illustrare perfettamente la dinamica emersiva del personaggio in Gadda, il primo gesto separativo della creazione, in cui «dal caos dello sfondo devono coagulare e formarsi alcune figure a cui sarà affidata la gestione della favola» (Racconto italiano, SVP 395).
Una giusta cautela porta Deleuze a precisare, fin dall’inizio, che non si può generalizzare l’equivalenza tra arte e filosofia, poiché «non è lo stesso piano di taglio» e, rispetto al piano, «non è lo stesso modo di popolarlo» (Deleuze 1996a: 55). Tuttavia, in alcune particolari opere, come nei romanzi di Melville, di Kafka o di Henry Miller, «questo non impedisce che le due entità passino spesso l’una nell’altra, in un divenire che le trascina entrambe, in un’intensità che le codetermina» (Deleuze 1996a: 56). A queste opere, lo si è capito, ritengo appartenga anche la Cognizione del dolore.
Sono i romanzi del pensiero. In essi l’autore dà forma a un personaggio, gli scolpisce un profilo affilato, con cui questi seziona il caos, ricava un piano di movimento, immanente al problema, e lo anima del suo concetto. Il personaggio e questo piano narrativo del pensiero, in cui il problema si fa spazio, si alimentano reciprocamente, in una mutua costruzione.
Scrive, infatti, Deleuze che:
Il personaggio concettuale e il piano di immanenza stanno in un rapporto di presupposizione reciproca. Ora il personaggio sembra precedere il piano, e ora seguirlo. Questo perché esso appare due volte, interviene due volte. Da una parte affonda nel caos, ne trae delle determinazioni che saranno i tratti diagrammatici di un piano di immanenza: come se sottraesse al caso-caos una manciata di dadi per lanciarli su un tavolo. D’altra parte, a ogni dado che ricade esso fa corrispondere i tratti intensivi di un concetto che viene a occupare una delle regioni del tavolo, come se questo si fendesse secondo le cifre. (Deleuze 1996a: 65)
Traducendo, nei termini che ormai ci sono familiari, potremmo descrivere così questa doppia venuta del personaggio concettuale nella Cognizione: la struttura dialogica di Gonzalo, immersa nel caos del mondo, rende evidente un problema etico, che si spazializza come piano di immanenza e piano del racconto; costituito il piano, la geografia del problema, egli ritorna per popolarla e insistere con il proprio concetto, che lo regionalizza ai margini. La sua parola è una cifra che fende il piano acustico del racconto.
Se la riflessione di Bachtin, sulla parola nel romanzo, prendeva a matrice linguistica la viva plurivocità distribuita nei tipi sociali, nei loro territori fisici, e ne vedeva in Doestoevskij la più fertile applicazione estetica, sotto forma di intreccio, Gadda traspone il modello linguistico sul piano spirituale, su una geografia del pensiero, nei territori dell’animo umano.
Mentre i tipi psicosociali, chiarisce Deleuze, hanno il senso di rendere percettibili «le formazioni di territori, i vettori di deterritorializzazione, i processi di riterritorializzazione» nel mondo fisico, con il personaggio concettuale questi spostamenti informano un altro livello, illustrano altri spazi: «non ci sono forse», si chiede il filosofo, «anche territori e deterritorializzazioni non soltanto fisiche e mentali, ma spirituali, non soltanto relativi, ma assoluti, in un senso ancora da determinare?» (Deleuze 1996a: 58).
Lo spazio narrativo della Cognizione è così, insieme, territorio di una storia e storia di un territorio, entrambi scaturiti dalla natura dialogica del personaggio concettuale di Gonzalo. L’intreccio del romanzo non è altro che la tracciatura dei movimenti di deterritorializzazione (l’uscita di Gonzalo dal sottosuolo), e mancata riterritorializzazione (la sua scomparsa dall’orizzonte del racconto), generati da una tensione motoria, interna alla parola dialogica. Nel personaggio concettuale, infatti, la parola, il pensiero, gli incontri o i mancati incontri, assolvono un unico compito: manifestare territori.
Ed è attraverso quest’idea del territorio che Deleuze collega creazione e ricezione, personaggio concettuale e lettore:
I personaggi concettuali hanno questo ruolo: manifestare i territori, le deterritorializzazioni e le riterritorializzazioni assolute del pensiero. I personaggi concettuali sono dei pensatori, unicamente dei pensatori e i loro tratti personalistici si ricongiungono strettamente ai tratti diagrammatici del pensiero e ai tratti intensivi dei concetti. Tale o talaltro personaggio concettuale pensa in noi, forse senza neanche preesisterci. (Deleuze 1996a: 55)
Come a dire che non siamo più nel campo dell’espressione, in cui possiamo seguire la vicenda di un personaggio per punti discreti, contemplandolo, identificandoci o distanziandoci da lui, ma siamo nel campo della pratica di un pensiero, il cui personaggio concettuale si realizza attraverso di noi, attraverso la pratica del suo concetto. È quello che Deleuze chiamerà «costruttivismo», una modalità cooperativa che «squalifica ogni discussione, che ritarderebbe le costruzioni necessarie, così come denuncia tutti gli Universali, la contemplazione, la riflessione, la comunicazione come fonti dei cosidetti “falsi problemi”».
In questa pratica non ci sono garanzie di successo, niente si compie e tutto si agita, perché lo stesso autore pensa mentre dispone, ed è dai materiali che ha disposto che la storia si ricava, si complica e, spesso, non conclude: «il piano opera a forza di scosse e i concetti procedono a raffica, i personaggi a sobbalzi» (Deleuze 1996a: 73). Così, il suo personaggio è vincolato al destino di una parola, si costruisce in essa, e, in questo, ogni riflessione sulla parola è sempre una riflessione sull’intero sistema della lingua:
Per esempio, se si dice che un personaggio concettuale balbetta, non si tratta affatto di un tipo che balbetta in una certa lingua, ma di un pensatore che fa balbettare tutto il linguaggio, e che fa balbettare il tratto del pensiero stesso in quanto linguaggio: interessante è allora sapere «qual è questo pensiero che non può che balbettare». (Deleuze 1996a: 59)
E Gonzalo è allora un grande balbuziente, che negli spazi vuoti della sua parola semipropria fa intravedere e brillare il negativo del suo concetto, ovvero il silenzio assordante del monologo, il male interno al linguaggio non percepito, cui si aderisce dall’interno, per debolezza creativa o difetto morale. Nella sua figura Gadda pensa il linguaggio dal di fuori, opera una bordatura dell’egoismo etico in forma linguistica; e questo attraverso un personaggio concettuale che si apre un varco in essa, che resiste al potere plastico della lingua non percepita e guadagna, con la solitudine di una parola dialogica, quello che Foucault chiama il «pensiero del di fuori»:
Questo pensiero che si tiene lontano da qualsiasi soggettività, per farne sorgere come dall’esterno i limiti, enunciarne la fine, farne scintillare la dispersione e non raccoglierne che l’invincibile assenza, e che al tempo stesso si tiene sulla soglia di qualsiasi positività, non tanto per afferrarne il fondamento e la giustificazione, ma per ritrovare lo spazio dove essa si dispiega, il vuoto che le serve da luogo, la distanza nella quale essa si costituisce e dove sfuggono, non appena osservate, le sue certezze immediate. (20)
Gadda, attraverso Gonzalo, compie questo esproprio, questa avanzata cognitiva, fino alle soglie di un vuoto di parola, dove il linguaggio delude ogni presa soggettiva, e si dimostra nella sua priorità; decidere come attualizzarsi in esso sarà il compito, dirà Deleuze, di un «popolo che manca», nel futuro di una collettività da costruire, di un linguaggio risanato. (21)
In questo senso il fallimento di Gonzalo si configura come un esercizio di lettura, da praticare come un cammino di formazione acustica, per fare in modo che da questa soglia non rinasca un silenzio assordante, ma una costellazione di voci dialogiche. Il suo fallimento è l’ultima piega del romanzo, ma è nel suo risvolto che la positività del pensiero di Gadda si dispiega: la linea di fuga di Gonzalo, che viene meno al racconto per deviazione di rotta, è in realtà una pista etica.
Per destabilizzare un sistema serve energia, è necessario un accumulo di fallimenti operativi, per trasformare il dolore della letteratura nella sua salute. Non si deve, insomma, arrestare questo processo: «la malattia non è un processo, ma l’interruzione di un processo»; a questo serve l’incompiutezza dei personaggi concettuali, la loro infinita funzione, a fare della letteratura «un’impresa di salute» (Deleuze 1996b: 13). (22)
C’è una carenza costante di originali romanzeschi, come Deleuze, citando Melville, chiama queste grandi figure narrative, che siano disposti a muovere concetti destinati a fallire. (23) Bisogna produrre una scrittura in grado di piegare la forma, di fare balbettare la lingua e i concetti attraverso i propri personaggi. Sono necessari, infine, autori capaci di dare forma a personaggi che sappiano imprimere al proprio fallimento il sapore di un’insistenza, di quel paradossale adagio etico di Beckett, che è un imperativo di resistenza: «Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio». (24)
Gonzalo, come ho cercato di sostenere, è uno di questi originali. E Gadda, che ha il merito di averlo ritagliato dal caos, per muoversi e muoverci nell’orizzonte del suo concetto, va ascritto alla rosa creativa di questi «genii ibridi»; autori che abitano il confine tra filosofia e letteratura, tra pensiero ed espressione, tra questi due differenti piani di ritaglio, e che «fanno in modo che tutte le risorse del loro atletismo servano a installarsi in questa stessa differenza, acrobati dilaniati in una perpetua impresa disperata».
Interpretarli è difficile, forse la critica deve rassegnarsi anch’essa a un certo fallimento. Per compensarlo, a volte si è tentati di ritornare semplici lettori, rinunciare a indagarne le disarmonie e chiudere, come fa Deleuze, con un’altrettanto semplice constatazione: «che forza in queste opere dai piedi squilibrati» (Deleuze 1996a: 56).
Università di ParmaNote
1. In particolare, sulla costruzione del romanzo come «trama verbale», l’importanza dell’aspetto sonoro e alcuni rilievi sul tempo dell’intreccio in Gadda e Dostoevskij, rimando a Donnarumma 2001a: 45-63 e 2006: 29-75; altri interessanti rilievi sulla partizione tematica e il personaggio si devono a Cristina Savettieri (Savettieri 2008a: 135-69). Per Gadda e Dostoevskij, poi, una prima approfondita comparazione è stata compiuta da Sergia Adamo (Adamo 2004), mentre la prima applicazione teorica delle categorie bachtiniane in Gadda appartiene, come è noto, a Cesare Segre (Segre 1985 e 2005). A Segre devo molto, quindi, per l’impostazione del problema, pur divergendo, come si vedrà, nella conclusione; egli, infatti, estende la qualifica polifonica tanto al Pasticciaccio quanto alla Cognizione, mentre la mia ipotesi teorica la esclude da quest’ultimo romanzo. Va detto, infine, che il mio lavoro non entra nello specifico narratologico e linguistico, dove avanza invece Segre, e si limita a indagare un solo tipo di dialogismo, quello interno ai personaggi, escludendo quello tra autore e personaggio, e tra opera e tradizione letteraria. Per le più recenti dispute intorno alle categorie di Bachtin, si vedano gli Atti del convegno di Cerisy in Dialogisme et Poliphonie. Approches linguistiques, a cura di J. Bres, P. Haillet, S. Mellet, H. Nolke, L. Rosier (Bruxelles: éditions Duculot, 2005). L’idea che l’acustica sia la modalità di costruzione privilegiata per l’indagine scrittoria che Gadda compie nella Cognizione è già presente, con significative tangenze rispetto a quanto cerco di sostenere, in Pedriali 2002b, poi in Pedriali 2007 (ma v. anche Pedriali 2003); ad esempio quando Pedriali sostiene che «Gadda [ma questo vale anche per Gonzalo] non chiede che “l’ottusità generale del sensorio”, che il mondo non lo raggiunga, non si faccia percepire. Poi però mangia con gli occhi, vede coi timpani, la sinestesia è per lui una vera maieutica» (51). Le convergenze tra l’ipotesi che qui sviluppo e la prospettiva ermeneutica di Pedriali non si limitano a questa considerazione più generale, ma vengono quasi a coincidere nella definizione che lei dà di Gonzalo come un «orecchio massimo» (221) e la comparazione che propongo tra l’anti-eroe della Cognizione e il narratore delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij come due esempi di grandi ricettori acustici; tuttavia, lo si vedrà, la mia idea è che tra questi due modelli di esistenti in ascolto, tra questi due personaggi concettuali, vi sia una differenza importante che fa del personaggio di Gadda un avanzamento strategico rispetto al precedente dostoevskiano. Infine, un’importante riflessione sul personaggio nella modernità letteraria, che indaga gli esiti del romanzo di formazione anche in Gonzalo, la si deve, invece, ad Andrea Inglese, L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (Cassino: Laboratorio di Comparatistica, 2003).
2. S. Beckett, Murphy (Torino: Einaudi, 2003), 126.
3. M. Bachtin, Estetica e romanzo (Torino: Einaudi, 1979), 174. D’ora in poi, il saggio sarà citato come Bachtin 1979a.
4. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica (Torino: Einaudi, 1968), 32.
5. La formula è di Inglese, che alla «barriera solipsistica» dedica una sottosezione del suo libro (Inglese 2003: 61-70).
6. L’epiteto, citato da Bachtin, è coniato da N.K. Michailosvkij (Bachtin 1968: 72).
7. G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco (Torino: Einaudi, 1990), 32; corsivo mio.
8. M. Heidegger, Essere e tempo, edizione it. a cura di A. Marini (Milano: Mondadori, 2006), 483. Corsivo mio.
9. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo? (Roma: Nottetempo, 2006), 22.
10. M. Foucault, Dits et écrits II. 1976-1988 (Paris: Gallimard, 2001), 299. Il testo è dato nella traduzione che ne fa Giorgio Agamben, all’interno del suo Che cos’è un dispositivo? (Agamben 2006: 6). Non essendo ancora disponibile una traduzione autonoma, mettiamo in nota anche l’originale: «Ce que j’essaie de repérer sous ce nom, c’est, premièrement, un ensemble résolument hétérogène, comportant des discours, des insitutions, des aménagement architecturaux, des décision réglementaires, des lois, des mesures administratives, des énoncés scientifiques, des propositions philosophiques, morales, philantropiques, bref: du dit, aussi bien que du non-dit, voilà les éléments du dispositif. Le dispositif lui-même, c’est le reseau qu’on peut établir entre ces elements». Chi volesse, poi, approfondire il concetto di dispositivo in Foucault, oltre al testo di Agamben, può rifarsi all’omonimo libro di Deleuze (Che cos’è un dispositivo?, Napoli: Cronopio, 2007).
11. R. Barthes, Scritti (Torino: Einaudi, 1998), 222; mio il corsivo.
12. F. Kafka, Egli, in Confessioni e Diari (Milano: Mondadori, 1972), 810-11.
13. Sviluppo un’immagine di Bachtin, che descrive come, nel personaggio dialogico, «la parola altrui introdotta nel contesto di un discorso stabilisce con questo che l’incornicia non un contatto meccanico, bensì una combinazione chimica (sul piano semantico e espressivo); il grado di reciproco influsso dialogizzante può essere enorme» (Bachtin 1979a: 148, corsivo mio).
14. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975) (Milano: Feltrinelli, 2000), 48.
15. In questa idea di un fondo dossico, Ruth Amossy vede la condizione di possibilità stessa del dialogismo, un codice soggiacente che permette al soggetto di formare un progetto discorsivo in grado di essere compreso dal suo allocutario: «C’est seulment sur ce fond doxique que peut se former un projet argumentatif qui intègre la parole de l’autre à celle du sujet. En d’autres termes, le locuteur est à la fois constitué par la parole de l’autre qui le traverse à son insu (il ne peut dire ni se dire en-dehors de la doxa de son temps: c’est le dialogisme); et sujet intentionnel mobilisant les voix et les points de vue pour agir sur son allocutaire (c’est la polyphonie)» (R. Amossy, De l’apport d’une distinction: dialogisme vs poyphonie dans l’analys argumentative, in Bres et alii 2005: 69). Il rilievo mi pare giusto, da un punto di vista strettamente sociolinguistico, ma parziale rispetto alle dinamiche oppositive che il soggetto può intrattenere con il fondo dossico, e alla spinta sottrattiva che decide di operare, se questo si configura come un intransigente dispositivo sociale. Infine, questo appoggiarsi sul fondo dossico per sollevare la propria voce dà per scontato che ci sia almeno una coscienza allocutaria in grado di riceverla, e non è il caso della Cognizione, dove Gonzalo è per destino narrativo situato en-dehors della doxa. L’idea di Gonzalo stagliato contro e tagliato fuori da un fondo dossico mia pare vicina anche a quanto scrive Pedriali sulla percezione di Gadda e Gonzalo – è il critico ad accomunare in quest’attitudine autore e personaggio – della lingua sociale come un’insistenza che, se nella smisurata ripetizione e circolazione ha usurato il suo senso, non smette di farsi percepire come barriera, fondo e sfondo da cui il personaggio viene allo stesso tempo isolato e identificato per contrasto: insieme al battito di un tempo universale, scrive infatti Pedriali, Gadda «con orecchio tuttavia più fine, più nevrotico ancora, sente però anche altro, sente cioè terribilmente nelle parole: rese, sì, inudibili dalla pronuncia continua che ne è stata fatta, ma certo anche fissatesi in un ritmo-nel-ritmo che non cessa di farsi cogliere (Pedriali 2002b e 2007: 52).
16. M. Bachtin, L’autore e l’eroe (Torino: Einaudi, 1979), 374. D’ora in poi, il saggio sarà citato come Bachtin 1979b.
17. Alla lista di affetti delusi, di eccedenze sottratte, andrebbe ovviamente aggiunta la figura del fratello di Gonzalo, morto in guerra. Di questo si è occupata, in più sedi, Federica Pedriali (Pedriali 1997, Pedriali 2006: 58-73, Pedriali 2007: 54-55): dalle sue intuizioni, prende spunto un’interessante ripresa del problema da parte di Robert Dombroski (Dombroski 2002a: 91).
18. T. Todorov, Michail Bachtin. Il principio dialogico (Torino: Einaudi, 1990), 145.
19. G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (Torino: Einaudi, 1996), 55-75. D’ora in poi, il saggio sarà citato come Deleuze 1996a.
20. M. Foucault, Scritti letterari (Milano: Feltrinelli, 1971), 114.
21. G. Deleuze, Critica e clinica (Torino: Einaudi, 1996), 16. Il saggio sarà citato come Deleuze 1996b.
22. Sulla differenza tra l’incompiutezza e l’incompletezza della Cognizione, suscita una giusta riflessione Giuseppe Stellardi: «Si tratta di due cose distinte, anche gerarchicamente: mentre la seconda indica presumibilmente lo stato di pura e semplice mutilazione materiale del testo (la mancanza della parte finale), la prima sembra fare riferimento a un più intimo e complesso stato di indigenza, un’imperfezione non solo contabile ma anche estetica, formale, ideale, profonda» (Stellardi 2007b: 188).
23. Il concetto di originale, oltre che in Critica e clinica, è anticipato da Deleuze nel suo scritto su Bartleby o la formula, poi incluso nel volume: «Ogni originale è una potente Figura solitaria che travalica ogni forma spiegabile: scaglia tratti di espressione fiammeggianti che manifestano la caparbietà di un pensiero senza immagine, di una domanda senza risposta, di una logica estrema e senza razionalità. Non hanno nulla di generale, e non sono particolari; sfuggono la conoscenza, sfidano la psicologia. Anche le parole che pronunciano travalicano le leggi generali della lingua (“i presupposti”), tanto quanto le semplici particolarità del discorso, perché sono come le vestigia o le proiezioni di una lingua originale, unica, prima, e portano il linguaggio intero al limite del silenzio o della musica» (Deleuze 1996b: 31). Questo «pensiero senza immagini» richiama il linguaggio di Gonzalo, descritto dall’autore come «scarnamente figurativo» (RR I 762); all’opposto Freud, in un contrasto che in chiusura d’analisi dovrebbe risultare altamente significativo, quando deve indicare una qualità specifica del pensiero della folla, scrive che essa «pensa per immagini». Cfr. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io (Torino: Bollati Boringhieri, 1975), 19.
24. S. Beckett, In nessun modo ancora (Torino: Einaudi, 2008), 66.
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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-20-5
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