Fistola in succhio
Il romanzo come regime idraulico *

Federica G. Pedriali

Quanto più esaminiamo il linguaggio, tanto più quello entra in conflitto con le nostre esigenze (la purezza cristallina della logica non era affatto il risultato dell’indagine: era un requisito). Il conflitto diviene intollerabile, il requisito rischia di non aver più senso. È come esser finiti su del ghiaccio, manca l’attrito: in un certo senso le condizioni sono ideali, ma, proprio per quello, non possiamo far un passo. Vogliamo muoverci, dunque abbiamo bisogno di attrito. E allora indietro: al terreno accidentato!

Wittgenstein

Il dio seduto sulla riva

La lezione è semplice, tutto scorre, e la metafora è quella del fiume, anche se per ben usarla occorre saper vincere le tentazioni della fissità dell’osservazione dalla sponda. Ma anche a sentirsi del fiume e nel fiume, ecco subito emergere, dal flusso bio-psichico, l’immagine dell’io natante e battello, partecipe, sì, della promiscua fluidità esterna e immerso in una sua non meno paurosa liquidità interna, eppure paradossalmente garantito, protetto, confermato entro i confini magici del corpo e della mente. La lezione è semplice, ma le strategie per sopravviverle si fanno presto azzardate.

Gadda lascia subito tracce di fiumi nei suoi scritti. L’Isonzo, dopo il crollo del fronte italiano a Caporetto, non si fa attraversare, e il Giornale di guerra, con schizzo sommario, mette anche quella impossibilità agli atti della cattura. Questioni di portata e di impoverimento delle «defluenze imbrifere» patrie suggeriscono al neo-ingegnere, nel ’21, il primo intervento tecnico, la prima pubblicazione saggistica; questioni di «chiamata imperiosa dell’io categorizzante» rammentano all’aspirante filosofo, nel ’28, tra le molte metafore aventi a che fare con l’acqua, un tecnicismo fluviale, la chiamata della cateratta, anche lì con schizzo. Un fiume, nel ’24, ossia ai primi seri abbozzi di romanzo, assume il violento straparlare di chi è impedito nella fantasia di potenza; mentre una nave, ancora con disegno, conferma, in una lettera del ’22, l’instabile navigazione mentale del mittente. Tra le due date, del resto, l’esperienza della «turpe risacca» dei sargassi umani – la traversata atlantica, il periodo argentino – e la scoperta della diluviale «broda biblica» – gli immensi fiumi sudamericani. Del ’27, invece, il costituirsi in motivo poetico ufficialmente gaddiano dell’immagine del battello ebbro e alla deriva tra le parvenze; e di nuovo del ’28, anno sempre degno di nota per Gadda, il primo configurarsi, nel proemio della Meccanica, della metafora infine completa:

Ma per piani aridi e illuni o nell’aggrovigliata paura delle giungle immense udrà forse taluno di là da ogni voce de’ viventi come segui il torbido fiume delle generazioni a devolversi e penserà che sciabordi contro sue prode le rame e li steli dalle selve divelti; e verdastre, con i quattro piffari all’aria, le carogne pallonate de’ più fetidi e malvagi animali, quali furono in vita e saran pecore, jene, sanguinolenti sciacalli, saltabeccanti scimie, asini con crine de’ lioni e gran baffi: e il branco lurido e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte.
Ma la sacra corrente seguiterà defluendo, con una mormorazione delle tenebre, verso lontane stelle. E resupino sulla cóltrice nera del flutto e come adagiato nel silenzio e nella solitudine della sua morte, trapasserà segno o corpo che parerà fatto di cerea luce: greve per tutte le membra della fatica mortale, di che solo avrà voluto vestir il fulgore di sua giovinezza: e avrà il capo stancamente nel flutto, il viso rivolto verso i cieli gelidi. Così composto nella sua morte parerà un fiore pallido della eternità.
Ma è meglio cambiare discorso. (1)

Tutto scorre, non si sfugge. Ma la lezione, a manometterla con accortezza, predicherà durata, valore, essenza (è la chiamata dell’io categorizzante), ovvero contrapporrà un’eternità corporea, in perpetuo disfacimento, ad un’altra, non meno materiale, ma traguardata, tramite la forma, sui traguardi di permanenza dell’infinito. Così, cioè, l’io si costruisce un mondo, lo organizza e si organizza, pur non facendo mostra di ascriversi tra gli aventi valore, tra i portatori di corpo-segno sublimato: un mondo-fiume chiamato agli incredibili approdi dal comando sin troppo temuto di una Biologia e dal potere fittizio di un Sé in ascolto dalla riva (vede ciò che ode, e decide, così crede, gli esiti dei decorsi). Non è generoso né divino, questo osservatore apparentemente all’asciutto, e azzarda mosse, è chiaro, che non gli competono. Com’è chiaro, nonostante l’oscurità a tratti del dettato, che il discorso, appena impostato all’altezza del ’28, non cambierà.


Una Meccanica latrice di prosciutti

I corpi a Gadda germinano di carnevale, spuntano in primavera, tant’è vero che la loro stagione si chiude, puntualmente, ritualisticamente, e con trapasso violento, d’autunno. Ma è una violenta lotta tra forze anche la primavera, per quanto, poi, le forze battaglianti si rivelino dello stesso segno in entrambe stagioni, nel segno unico del corporeo, ossia del corporeo puro, che è tuttavia pur sempre segno, perché non esistono corpi non iscritti nell’ordine dei segni, o meglio, non si danno manifestazioni del corpo, e dunque della realtà, in assenza di una gestione di segni; questo per lo meno nell’ambito delle faccende umane, di altri più funzionali ambiti è impossibile dire.

Anche il corpo dei corpi, pertanto, quello privo o quasi di vita, e più ancora quello la cui vita è stata violentemente intermessa dai riti di stagione – il corpo violato, quaresimale ed osservatissimo di Liliana nel Pasticciaccio (lo osserva il testo, lo osserva voyeuristicamente l’inchiodato lettore), o quello ferito, autunnale, già al trapasso, già lambito da lingue di tenebra della madre nella Cognizione (tecnicamente ancora vivo, già si offre all’ossessione dei viventi per il Sé definitivamente restituito alla Materia) –, anche quel corpo-corpo risulta deciso e consegnato, dalla codifica, ai registri di stato della specie: anche, cioè, l’orrore aperto che isola nel testo e dal testo il corpo ferito, oltraggiato, quasi non fosse mai appartenuto alla propria storia, costituisce un preciso sistema di segni, un giudizio bene impresso su carni. (2)

Tanto più iscritti, allora, se il grado comparativo è ammissibile, i corpi vivi e guizzanti dei viventi: vivi per evoluzione, germinazione, cognazione, tutti vocaboli prettamente gaddiani: per emersione dalle acque, resurrezione alla forma, elezione della vita. Per desiderio, insomma, ed esibizione del desiderio. E senza scarto tra corpo e segno, nonostante le insaziabili proposizioni vive dell’essere: nonostante, cioè, il corpo chieda o creda di chiedere più vita, più guizzo, meno segno. (3)

Quelli di Gadda, si vuol dire, sono corpi-persona, materia scritta e individuata, generata dal luogo, dalla stagione, dalla congiunzione astronomico-liturgica, dalla banalità della Storia. Vivono, se ciò è possibile, per metà dell’anno soltanto, schiusi alla più scontata corporeità, quella sessuale, dalla promiscuità del carnevale, dall’aequo pede dell’equinozio, dalla crudeltà dell’aprile, dalla lancia penetrante del San Giorgio, dall’esuberanza passionale del maggio, le sere più belle! Tendono, nel loro breve arco, al fuoco fermo del luglio, alla terra vestita d’agosto, agli uragani punitivi di fine estate, alla posa imperdonabile dell’Addolorata, alla seconda ed ultima chance di equinozio, al diavolìo dell’autunno, nome sempre utile, quello del diavolo, in un calendario del corpo sensibilissimo ad una particolare nozione di sacro. (4)

Esiste, cioè, il male. E si manifesta, si incarna nel ciclo manifesto del corpo, nella metà dell’anno in cui i viventi sono osservabili, e conoscono oggetti del desiderio, hanno antagonisti da eliminare, amano terribilmente la propria immagine, tanto da esibirsi come immagini di potenza sessuale e fondare su quella altri simulacri, la famiglia, la città, la nazione, la cultura. È quello, ovviamente, il tempo del Duce, fallo massimo, iscrizione ed esibizione massime di fertilità, modello supremo per i falli minimi raccolti a fare da oceano in piazza: coglione massimo, perché altro era il compito della nazione o la missione vitale della famiglia, perché il fiume doveva esser reso sacro col lavoro, con l’utilizzo dell’elaborante plasma della specie a scopi di costruzione civile.

Non diversamente, in questo tempo e decorso del corpo, si esibiscono le donne, splendide. Ed ecco di nuovo trascorrere e farsi notare, nella corrente, Liliana, nobile, melancolica, appassionata, bellissima; o la Tina, viva, imperiosa, negli occhi due fieri lampi, bellissima; o la Ines, sdrucita, bugiarda, profumo caldo di viscere, pure lei bellissima; o la Virginia, procace, prepotente, come diavola fasciata in pelle d’avorio, sì, come corpo in combutta col diavolo di cui sopra. Troppo splendide, queste donne del Pasticciaccio, e non solo di quello – troppo vivo segno. Troppo, cioè, prese da una loro vividezza: e vendute, per quel tramite, al regime dei segni e delle iscrizioni. Sono tutte, difatti, a lor modo, figlie, spose e madri del Fallo. Le smascherano, tra gli altri, a seconda dei casi, la stessa bellezza – formulare, a tratti relativamente fissi, pur nella grandiosa inventività espressiva del giudice fuori campo –, o le ipersessuate consorelle, le megere – la Zamira, osceno fornice sdentato, la maga Circia, laida ubriacatura, laido sesso-trappola –, o il carnefice, che espone, appunto, la carne di Liliana, carne fina, carne scritta: prosciutto dei migliori tra quelli usciti dalla meccanica, ben tetra, di corpo e linguaggio, corpo e potere. Gadda, gran studioso di meccanica, oltre che impietoso giudice non divino, non cessa di denunciare l’inutilità, il peccato di tali corpi, e il suo è elegiaco, satirico elogio:

Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!…. che recede, recede…. opaca…. dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!…. e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni prassi è un’immagine,…. zenzado, impresa, nel vento bandiera…. La luce, la luce recedeva…. e l’impresa chiamava avanti, avanti i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo […].

[…] Oh confortevole aura, salubre terra e clima dell’Olona e del Lambro! oh, Sèveso! Oh, pioppi! Oh! plasma germinativo della gente! Dove tu, per quanto minchione te tu sia, o anzi proprio e precisamente per quello, che ci hai nella testa un bel turàcciolo, te tu ti senti tenuto a galla come un papa senza neanche darti pena nuotare: da un clima unto e fraterno, da una pégola vivificatrice. Come una sagace broda: o lardo sfriggente, che si strugga nelle opere, e nella padella de’ civili soccorsi. Come feeders (barre alimentatrici) da cui ogni derivato circuito ripeta il flusso metallopermeante dell’elettrico. […] Oh, vada, vada la nera Olona delle tintorie gallaratesi a intrefolarsi nel fiotto decumano della Vettabbia, cui rugginosi pitali decorano, alle due sponde, d’un fiore: il verde e tenero fiore del basilico. Vada il Sèveso color caffè a scolarsi in trincera, nella fossa buia e profonda del Redefossus, più profonda del riposo dei morti: il ri-scavato, il re-de’-fossi. Vada, deceda lungo il settembre l’elegia lenta del Lambro, con guardia de’ suoi pioppi su specchianti ambagi, verso i pascoli rintronati di Marignano. Qui è il groppo, il nodo, qui è il plasma valido e vitale della gente, come un coàgulo di peccati. (5)

Viti destrogire, sinistrogire

Tutto scorre, e il romanzo, broda sagace, sospinge allineate di corpi verso esiti che chiama decreti divini. Scorrono, cioè, le storie, banalissime. Ma c’è qualcosa di più e di più grave della bischeraggine grassa del mondo. C’è un giudizio, difatti, che riguarda il giudice, lui solo. È, anzi, proprio questo a renderlo giudice severo: un giudizio inappellabile, intollerabile, sulla sua persona.

Al parco, in una sera di maggio dell’Adalgisa, due che ancora non sono amanti, quasi s’incontrano. La passione, non ammessa, dà fiamme, con banale metafora innestata per comando antropologico. Fiamma è lui, Bruno: il giudice ne cova la figura da tempo. Fiamma è lei, nelle definizioni di lui – lei, Elsa, con invariato paradigma di bellezza, nobiltà, eleganza: con occhi dilatati che inseguono lui che giravolta e ripassa, sulla sua bicicletta, come un «pensiero inesorabile e fulgido». Sono fiamme, in tale ora di fulgore, anche l’aria della sera, pura, liquida, e le fronde alte dei pioppi. Il tutto si nota appena; è tra quanto di meglio sopravvive dell’avantesto, il romanzo abbandonato del «garzone del macellaio» dei primi anni Trenta. (6)

Nel rinato romanzo continua, però, ad osservarli l’agenzia che ostina a pensarsi giudice e dio del proprio minimo mondo, facendo scorrere, attorno ai due, per meglio coglierli, un’intera città-corpo centro-gravitata sul giardino pubblico, luogo deputato dalla specie alle perdizioni della materia. Così il giudice fuori campo si manifesta, prende forma a sua volta, entra nella storia. Sarà il commento salace, il racconto-diversione e romanzo-nel-romanzo che non intende cedere all’incanto, al trionfo della vita, ed ostacola gli amanti, consegna la coppia ai consueti approdi mortiferi per il tramite di un irresistibile memento mori, la scena al Monumentale, la pagina conclusiva dei disegni milanesi: consegna che permette, tra l’altro, di evitare la banalità, davvero ineseguibile, di un’accidentale retribuzione per incendio. (7)

E sarà più ancora il corpo-porcheria privo di parola del reietto, il nero figuro di disgraziato vagolante sulla scena sin dagli abbozzi del Fulmine sul 220 e meglio noto, altrove, come l’uomo del sacco: intrigante correlativo oggettivo di un’esclusione sancita a partire dal dato fisiologico, e forse, da un dato di destino: risibile emanazione figurale di un’enorme stanchezza, la stanchezza del dover essere stati, troppo a lungo, cattivi. Sul quel corpo gli astanti esercitano, a turno, il proprio rifiuto, rifiutandosi di registrarne l’esistenza, mentre il narratore, parimenti non accolto tra i vivi, si ritaglia per l’occasione un plurale majestatis di marca straordinariamente singolare, autoriale, la classica, per quanto strategicamente dissimulata posizione del soggetto gaddiano:

Il risultato complessivo era, in noi, nell’animo nostro, e in quel declino dell’ora, un disperato sgomento: un male sconosciuto e remoto: presagi, rimpianti: come il ricordo d’una irripetibile gioia del vivere, d’una luce, che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre: poiché tutto, di lei, pareva significare senza nostra speranza, dopo bruni alberi: «son io, sì! Quella che avete veduta e sognata: ancora per un poco, oggi, sono con voi!». (RR I 499; cfr. Gadda 2000b: 138)

Il male esiste, origina dall’esclusione. Suggerisce la cernita malevola dell’Olona e del Lambro delle genti; fa respingere, contraffacendolo, il giudizio, altrettanto inappellabile, di chi è nella pienezza della vita. Provoca domande sulla gestione, sulla costituzione dei corpi. È un problema, quello della meccanica e della differenziazione di ciò che è vivo, su cui Gadda non smette di interrogarsi, specie da quando, e si ritorna sempre al ’28, la riflessione gli ha dato il trattato filosofico, e la prima struttura compiuta di romanzo in un quadro:

Appariva allora la Purissima con il Bambino, sopra un plinto magnifico, che aveva i colori del diaspro e della malachite, del porfido, del lapislàzuli: ed era vista, dagli archi del sontuoso tempietto, sui sereni colli e sfondo dei lor alberi e cielo: ma il demonio subsannante dell’educandato, la Gemma Nuttis, avida, perfida, con i labbri contratti in un ghigno, aveva suggerito a Zoraide, un pensiero diabolico. Così, mentre le monache la facevan segnare e poi ripetere basso il nome del dipintore, Barbarelli Giorgio, Barbarelli Giorgio, gloria di Castelfranco, ella pensava «l’amante»: una misteriosa e torbida felicità, un peccato atroce e meraviglioso, l’amante, l’amante. A destra della Vergine, San Francesco le andava pochissimo a genio: ma a sinistra San Giorgio, un giovanetto biondo e chiuso tutta la persona nell’arme, le piaceva immensamente: seppe che era un ragazzo de’ tempi di allora, morto in una guerra di allora: e il padre, un nobile, non s’era dato più pace; finché il Giorgione glie lo dipinse per i secoli e santificò nella pala. Zoraide lo sognò di notte. (8)

La vicenda è, come al solito, banale. Ma anche la banalità impone domande: domande partite dall’osservazione minuta della tela, dal dato anagrafico-ritmico ribattuto – il Barbarelli Giorgio Barbarelli Giorgio evocato dalle monache –, dalla licenza poetica con cui, prendendo il la dall’effetto di ribattuto, la tentazione incarnata – Gemma Nuttis non a caso – attribuisce a San Giorgio, il più noto, il più primaverile e gaddiano cavaliere dei santi, le spoglie mortali di San Liberale: domande nate dalla banalità, ma che Gadda, da buon meccanico, si intestardisce a ritenere tecniche.

Perché i corpi, quelli del Giorgione inclusi, si assomigliano terribilmente. Perché se le cose stanno così, se l’occhio non s’inganna, c’è davvero da chiedersi com’è che funziona la vita, com’è che opera dal suo plinto magnifico: com’è, sì, che si sceglie il santo, che si dà all’uno e non all’altro. È una questione di mere apparenze? superfici? stagione? San Francesco, chiuso nel saio e nell’autunno della rinuncia alla carne, non può certo competere con l’irresistibile annuncio di primavera e forze vive, in lotta, di una lucida armatura.

O è una questione di sostanza: di minute, impercettibili differenze? Nemmeno alla Ford, dopo tutto, vengono due macchine uguali. Una questione di materia uguale all’origine, nella matrice, ma che poi ha preso, come a dire, due pieghe diverse? distribuendosi, cioè, come accade ai cristalli, in «due strutture molecolari simmetriche»: ossia «metricamente eguali, ma non sovrapponibili»? Strutture destrogiri, sinistrogiri, a seconda della piega: ecco il termine che fa al caso, se questo è il caso della vita. «Vite destra e vite sinistra», ai piedi del plinto. Ovvero i santi, come i corpi, come le viti? Giorgione non ne fa mistero. Ci si consola così del lungo buio francescano, dei lunghi semestri dell’inesistenza che ci è toccata per vita? (9)

Col fare insonnolito dell’oracolo

L’occhio fissa la corrente. Cerca, è programmato per farlo, una stazione di sosta, un principio di comprensione del reale. Sintetizza un’icona, un enigma: una sacra conversazione. Traccia linee di tendenza che sono persone: i protagonisti del dramma, pochi e non permutabili – il numero è chiuso, i ruoli decisi. La Purissima, col Bimbo: alta sul plinto, su una rarefazione della carne: nella presenza della carne – la carne, indistinguibile, dei Santi. Il Desiderio osserva, giudica, sceglie: istigato dai Sensi, e più, da un suo diabolico Doppio. Provoca la corruzione – o è uno smascheramento? – delle forme superiori del corpo e delle relazioni: sempre ammesso, cioè, che quelle forme e quell’ordine – una diversa patria d’anime – non siano un inganno della superficie chiusa: effetto pala e palo verticale. Effetto soggetto. (10)

Gadda frequenta certo i saperi, butta giù liste di scibile: studierà, già studia – migliorerà, si renderà utile ad una patria d’anime: crede nei rimedi. Ma quelli, i saperi, gli accentuano, paradossalmente, uno stato già accentuato di desiderio, dimostrandogli l’infinità dell’impresa, la totalità del mondo, l’impossibilità di pienezza per il Sé. Che chiamano insostanziale, e che ributtano, a riprova, nell’ordine banale e poco tecnico delle storie, con provocazione del codice fondante ed ennesimo ricostituirsi della storia prima, icona ed enigma, presso nuova stazione, come in una via crucis, tra variabili minime che tuttavia significano svolgimento e progresso – l’ordine dell’inane e del vano, dei ruoli e dei numeri chiusi, delle conversazioni profane ad argomento unico (la discendenza del corpo: del corpo prescelto), tra coppie di viti e di santi che s’allineano, si moltiplicano, in una speranza di prospettiva di fuga: in una riaffermazione di prospettiva ben serrata. Il rapporto coi saperi tira, almeno per Gadda, ad un incremento di sofferenza, e all’aporia:

La scienza della realtà e della necessità, delle cause e degli effetti, de’ congegni di puntamento, di percussione e di pròtasi, quella sola può leggere dal suo quaderno che in sul capo all’Autore cadrà il pomo dall’albero, piantato nel prato, e disgregatasi invece dalle torri erme dell’alpe cadrà la pietra, cercando il profondo; che il giusto colpo springherà tremendo sopra il bersaglio; e che l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà. Ma, davanti l’ombra de’ monti e sotto li stellati cieli della notte, per entro e per fuora le vene delli umani e il popolo immenso delle foreste, de’ tenebrosi fatti delle lor anime non ha sortilegio da predir se non pochi, nel gioco riconoscendo delle sue carte tutti quelli che finalmente, consumata alla faccia de’ gabbati santi la festa, anche il gufo barbagianni dottor grandissimo fattosi in sue sentenzie sapientissimamente dirà.
Est quod est. (Meccanica, RR II 467)

Ovvero uno sragionare apparente, da dilettante geniale, e più, da dilettante insonnolito che pronuncia oracoli, dice ma, espone la ragione al suo rovescio, facendole ammettere, su quel rovescio e nel rispetto blasfemo che le porta, la frode in cui è coinvolta. Il rialzo aporetico è cioè ben d’obbligo, vista la preclusione dalla vera scienza (se l’idea stessa già non è un mito), la situazione denunciata dal primo proemio della Meccanica. S’innestano pertanto, qui e altrove, motivi spuri, metafore di pertinenza di altri discorsi (colpi giusti che springano tremendi… riconoscimenti di figure nel gioco delle carte…). S’innesta, qui, esemplarmente, emblematicamente, a chiudere il testo, la figura del gufo. Immagine di solitudine, nel bestiario gaddiano: di destino singolo che si accompagna, non a caso, alla coazione al vedere. Nel Pasticciaccio, in contesto analogo, il laboratorio di lettura delle sorti della Zamira, sarà gufo imbalsamato e divorato dalle tarme. Ne avanza però sempre; resistono gli occhi, spalancati, mineralizzati in topazi, un far tanto d’occhi sulle rovine del tempo. Come dire: tra scarti prelogici e acquisti motivici, il discorso – ogni emblema di discorso, e certamente il discorso in proemio alla Meccanica – declina, con la sua costitutiva pochezza sapienziale, verso un Sé esibito in figura. (11)

Sarà quindi il caso di servirsene fino in fondo, di questo strumento da tavolo, sul tavolo della strega: strumento non di vera conoscenza, e nemmeno di divinazione, ma che tuttavia s’ingegna a capire l’esistenza, l’esistente, e che a furia di ingegno riesce, con poco, con finti oracoli da ultimo giorno del mondo, a rendere numinosa la trivialità. È costretto alla visione, all’ascolto: costretto a riconoscere il proprio segno, i «limiti di validità», il «campo di applicabilità» del segno, traccia fonico-iconica prima che verbale. Che sfrutti, allora, la visione, l’ascolto, e starà qui il rialzo. Che dalla nozione critica del limite, o meglio, che da questioni di principio che non intende né può risolvere si ritagli – ed è suo modo una taumaturgia – un concreto spazio operativo, gestito al singolare, di controllo sempre più tecnico della pluralità dell’oggetto del riconoscimento. Scriverà da filosofo, da biologo, da mineralogista, e da quant’altri mai: scriverà da dio, e non perché l’espressione è idiomatica.

Consumata la festa, gabbati i santi – gli eletti all’ordine del discorso –, il gufo della Meccanica, autoelettosi, dunque dirà. In tale regime di pensiero e di contraddizione, attacca peraltro subito a dire, nel presente del processo discorsivo, col secondo proemio – un gioco subito di carte e di riconoscimenti, con seguito strutturale senza soluzione di continuità, e come da supporto pittorico: un santo per scomparto e unità di testo; un San Giorgio o un San Francesco per scomparto ed unità organica. Con al centro la Vita, come da progamma per altari.

I Semplici

Chi scorre tende al raggruppamento, nonostante la «fistola in succhio»: nonostante, nel succhio, debba patire o agire, e comunque buttarsi (e urtarsi ed errare e peccare e andare al diavolo quasi comandato, cioè ispirato, insufflato, «da parole demoniache, da dèmoni divenuti parole»). (12)

Sono i Semplici: i personaggi di Gadda. I «semplificati» dalla gestione autoriale del segno, oltre che dalla storia e dalla condizione umana. Protagonisti, si presentano nelle combinazioni matematiche del numero chiuso, con turni di presenza e raddoppio che danno occasione ad assenze. Non si scambiano però di funzione: non ammettono «debito di equità». Eppure hanno origine da un unico plasma; ancora se ne ricordano come di una prima collettività perduta. (13)

Entrano in tensione. Tendono all’incontro, all’antagonismo, alla verifica del ruolo nella rotazione e nei turni – con risultato complessivo destinato alla sintesi da parte del più Semplice e Teso, nell’aggiornamento dei dati in un punto e in un momento precisi. Nel rischio d’errore, e conseguente emblematizzazione dell’errore, in cui incorre qualunque elezione di punti e di momenti.

Gadda comprende tutto ciò, ne accetta la regola con la Meccanica, stringendo un patto col suo diavolo nella stagione teoretica della Meditazione. Deve imparare ad eleggere, cosa che peraltro già fa, costitutivamente; ma ha ripiegato almeno due volte, per errori d’elezione, dal progetto di romanzo italiano e storico, nel senso storico che ha per lui la nozione di contemporaneo, e, per rimediare, ora metterà in campo, ha dell’incredibile, Crispino, la Comare, Ermete, e il Pustoloso. Ha un suo sogno, bisogna capirlo, di fuochi occidentali, di approdi meravigliosi, d’integrazione in una patria d’anime, che sogna con eccesso di zelo, e dunque ritenendosi in qualche modo in diritto.

La Comare gli porta doni di splendore e perfidia, le «proposizioni vive dell’essere, compiutamente affermate» in codici usurati, rivivificati ad ogni nuova usura di mano gaddiana. Veste colori dogali, porpora e oro, in metafora, per contiguità col pittorico; decide le sorti, consultando Giorgione. Popola di «sogni viventi» giardini misteriosi, insegue pensieri vagabondi: nella resurrezione ci sarà il suo amore, strano pensiero. Quel suo corpo è, cioè, vivo e destinato. In questo la sua fede, e per questo la «ruga verticale» di rifiuto di chi vivo non è: improvvisa e dritta, sulla fronte. La osserva, almeno inizialmente, il solo narratore, in un «attacco di zolianesimo» in anticipo su altri specchi. Non c’è che lui sulla scena, un convenzionato nessuno. (14)

Subentra il Pustoloso, con diversa convenzione di inidentità. Fa le veci di Crispino, meglio noto come il Gramo e protagonista: sostituzione di marchio genetico, in questo caso, trattandosi di cugini (motivo fortunato, in Gadda, quello della cognazione specializzata, il rapporto di cuginanza; qui trova avvio ufficiale). Ha il suo dramma del rifiuto, avrà il destino che si merita; a sentire Zoraide, mangia lucertole – è invero la viltà del serpe, muove le storie da anonimo, da delatore, da rivale del rivale del protagonista: è un meccanismo del narrabile; serve magnificamente a discolpare chi altrimenti avrebbe troppe colpe. Si reincarnerà, in futuro, in ambo i sessi. (15)

Ha il suo paragrafo, com’è giusto, pure Crispino, per quanto non ci sia molto altro di giusto nella sua vita. Crede nella fratellanza, nell’«organizzazione totalitaria della realtà collettiva»: che si debba «sorreggere negli anni buoni ogni nato», che anche la moglie vada baciata come un fratello. È autodidatta, operaio, socialista, soldato – non ha avuto gioia, a suo dire: «nessun sogno vagabondo nel maggio». Eppure possiede, legalmente, Zoraide, suo scopo e premio, sebbene non si capisca proprio come sia arrivato a quel possesso, tanto da far sospettare un possesso teorico e a tesi. È un san Francesco, nei fatti e per frequentazione di luoghi, o un san Giuseppe, nel nome dei padri, benché all’anagrafe non si chiami Francesco o Giuseppe, né tantomeno Crispino. Ma è Crispino quando gli viene mostrata la sua vita da chi, spacciandosi per Dio, ne gestisce, da Comare, il brutto «favolone»: nessuno gli dirà «Bravo Pessina!», nonostante abbia fatto tutto il suo dovere – e morirà a tesi: «tutto il suo sangue» di tubercoloso lo soffocherà, con perfida realizzazione di totalità ben prevista dalle sue scienze. In morte farà gli occhi del gufo, perché Zoraide non attende resurrezioni in un’altra ancor più splendida carne per godersi le sue proposizioni – alla scena, che all’altro capo del romanzo perfeziona la parabola iconica da lei scelta in destino, arriverà in declinazione accelerata, portatovi a guidata pazza da Ermete, l’«Adamo risorgente» del rivale, «fiammata di capelli», libero corso, ossia autentico andar franco, anche qui di nome e di fatto. Perché la vita è lotta, e risorgere di forme o nell’un campo o nell’altro – in questo, sì, Zoraide ha ragione –, da un unico «centro morfologico nucleatore». E soltanto ad alcuni dà la corsa d’un «sangue fervido», ricco, «nucleato di realtà e di vita»: «da non buttare». (16)

A turno, cioè, i Semplici portano doni preziosi di funzionalità, stabilità, connettività, tematicità, formularità, argomentatività, emblematicità, respiro narrativo. E sequenzialità, ovviamente, trattandosi di turni. Tra i lettori di Gadda la cosa passa per omaggio tardivo, un sistemare i conti con la discorsività altrui, con una superata tradizione di romanzo, in una fin troppo drastica, per quanto assai notevole, messa in ordine del proprio mestiere. La soluzione passa anche per un grido di solidarietà con la vita, con i vincenti, con la coppia che butterà via il sangue, inutile, poco vitale, di Crispino, contribuendo a farglielo dare in una eliminazione doppia, simbolica, di genia e patrimonio genetico, di Gramo ed emanazione maligna. Ma è più corretto dire che Gadda qui passa di livello, accede all’n + 1 della sua invenzione, si lascia superordinare dall’io delle storie, essendosi affidato, dietro patto a filo doppio, all’unità dell’esperienza ed esperienza dell’unità pur di riaprire il pacco postale di strutture pronte all’uso che quelle gli offrono; avendo aperto, di quel pacco del soccorso, un pacchetto che in realtà già conosce, che già gli ha dato problemi: che tornerà a dargli problemi, nonostante il progresso della Meccanica, ma con regressi a posizioni n o n - 1 più facilmente sanabili grazie a quel punto fermo. Il nodo di mancata solidarietà stretto tra i tre Semplici, con estensione all’indispensabile quarto, il villain, impone cioè aggiustamenti, verifiche: elezione di punti relativi, nello stato di stretta, a cui aggiornare, di opera in opera, il grado di variabilità dell’invariabile.

Un’icona di resistenza strutturale coincide, a riprova, con la prima unità autonoma di racconto, estratta dalla primissima traccia di romanzo sociale gaddiano. Sei personaggi presto ridotti a tre, una baita in montagna, un trapasso stagionale, una linea di tendenza antagonistica, fuori, nel mondo e, dentro, nel gruppo – un lui che gli somiglia (chiede uno sguardo che dia esistenza, lo sguardo di lei); una lei che gli somiglia (ma guarda altrove, in direzione dell’altro, un fuggente, obbligando lui a prender nota del tipo); un tipo mobile di perseguitato (cui lei somiglia, o così si illude; cui lui resiste, perché lei lo esclude dal circuito delle somiglianze). E già viene sintetizzato un disegno, una proiezione materiale di tre ombre, fissando un primo fondamentale punto, nel finale.

Ancora a riprova. All’altezza del ritentato romanzo italiano, nel brano che avrebbe dovuto far da incipit al Racconto – il secondo studio compositivo –, Gadda mette in emblema un principio di focalizzazione sempre più bipolare di organizzazione del reale, muovendo dalla consonanza originaria delle cose, invero già polare, alla classificazione degli aspetti del mondo per cernita dell’avvenuta differenziazione, e da questa all’estrazione conclusiva della coppia, prima lui, cioè un altro da sé, poi lei – poi il male: il vedere come male, come un provar male, di fronte al disegno della forma di lei, e di lui, disegnato dalla fatica, iconizzato, nell’anonimia, dall’ora e dalla connotazione di mobilità, la bicicletta allato. (17)

Il tutto in contiguità compositiva col primo studio, dove per prima cosa Gadda riabbozza proprio quella lontananza dello sguardo di lei, la materia della Passeggiata autunnale, ma con aggiornamento alla tensione criminale di lui. Che non è l’altro, e che prima o poi si vendicherebbe, se il testo non cedesse alla moltiplicazione di personaggi senza seguito, o con seguito altrove ma con trapasso in altro tipo o scena, di fatto e significativamente rinunciando all’identificazione esplicita della figura dell’antagonista, e così stabilendo un secondo punto fermo – la dispersione dei materiali per reazione traumatica alle forze che li governano – in rapporto non casuale col primo, visto che il primo, alla diversa riprova dei conti presentati dalla vita, risultava essersi dato quella figura con fin troppa certezza, usandola oltretutto per farsi dichiarare vincente, nell’explicit, con peccato non di tesi o di teoria, ma proprio per desiderio. Di inclusione, di integrazione: ai danni dell’altro. (18)

La meccanica, su questi trascorsi, elegge il primo dei supporti pittorici, stringe patti ottenendone la prima narrativa di tenuta, concede vittime nel campo dei Grami. All’altro capo del romanzesco, il Pasticciaccio dichiarerà il lavoro concluso, nella sua inanità di non lavoro, alzando non a caso, nell’ottavo capitolo, ossia in fase terminale, col supporto dell’edicola dei due Santi, un’ultima icona di antagonismo senile, diseguale, privo di oggetto del desiderio, ma ancora perfettamente risorgente. Tra i due estremi, ripetuti approcci alla forma romanzo: ciascuno una diversa tipologia di test di prova, in un regime specifico di verifica dei materiali, e con polittico dei Semplici stilizzato dal flusso, in punti singolari, e nel variare dei supporti, cartoni di scena, quadri, geometrie del fenomenico, false congiunzioni di stelle, scorrimenti di città; ciascuno aggiornato, sulle lunghe distanze, al senso complessivo d’una carriera.

è convinzione critica diffusa che tutto ciò non sia possibile, perché Gadda non sa scegliere, perché a queste cose non crede, perché crede nell’universale coimplicazione dell’esistente: perché sarebbe assurdo, non credendoci, credere con sotterfugio, per obliquità, per amore perverso dei retroscena, quando apertamente rifiuta il rapporto singolare, inquina il rapporto lineare, coltiva la multidirezionalità, l’arbitrio, il disordine, tanto da aspirare alla aselettività, alla onnipervasività, nella perdita di necessità biunivoca dei rapporti causali e contiguità ad oltranza dei materiali, ed effettivamente riuscendo, nell’aspirazione, a decostruire la catena del narrabile. Non più catena, quindi, non più ordine delle priorità e della successione, non più elezione, ma dispersione per dilatazione di un nucleo germinale e progressiva iperdeterminazione del dettaglio, moltiplicando, sul numero, «l’inane similitudine del numero», fino ad esibire come incapacità costruttiva la perfetta inutilità dell’intenzione narrativa. L’invenzione della realtà non è cioè mai stata altrettanto sospetta, e dichiaratamente. Quale testo, difatti, e in genere, quale operazione conoscitiva registra più verità? Anzi, e superando anche quella remora: quando mai se ne sono registrate? (19)

Sono condizioni di lavoro invero ideali, quelle create collettivamente intorno al Gadda maggiore a partire dalla teoria, dalla teoresi, dalla filologia, dall’intertestualità. Un Gadda ripulito del ghigno, salvo, come già è capitato di dire. Una neutralizzazione delle scorie della soggettività, della confessione di un peccato inesistente (l’opera esteticamente sbagliata), dell’onestà-disonestà con cui, contraddittoriamente, Gadda crede di non aver potuto dire, pur avendo detto – perché il male «non deve esistere, no, per i lettori seri, per le stupende lettrici» e, più ancora, perché «carità e pudore filiale» gli hanno «frenato e distorto la penna», il tipo di «significazione impossibile» confessato a Contini. Una frequentazione dei testi selettiva, preselezionata dalla formula critica del giorno, vincente: doppiamente vincente, perché formula che si presume corretta, e perché elogio riuscito dell’economicità rispetto al dato, quei testi impossibili (rasoio di Occam liberamente reso). Una radicata tabuizzazione dell’idea, della nozione stessa di romanzo gaddiano, della continuità della sua leggibilità: dello sviluppo e dell’identificabilità di una sua forma. Una conclusiva perdita di attrito in coincidenza con le posizioni della più recente modernità – condizione a sua volta appunto ideale, generata dal pensiero, che a suo modo pur sempre cerca e pensa lo strumento della propria purezza, della propria autonomia. La si chiami, per comodità, ghiaccio di Wittgenstein, dalla citazione in epigrafe. (20)

Sul ghiaccio delle condizioni ideali tuttavia non si cammina, ancora Wittgenstein. Si vorrebbe rinunciare al moto, la tentazione c’è. Sta lì paradossalmente il problema: le condizioni ideali possono bastare. Così però l’immaginario critico rischia la stasi, corre cioè il rischio di continuare a perfezionare il Gadda ripulito e impacchettato (insieme a un «bel busto di stucco» aggiungerebbe il Nostro) all’indirizzo dei «bidelli del Walalla» per l’entrata nel Canone dei Massimi, dove anche uno scrittore non vatesco come l’interessato verrà ammesso, è già ammesso, a patto che la sua cognizione delle cose ci includa. Ci include Gadda? Dall’impegno richiesto all’interprete sui testi verrebbe da rispondere: just. Nasce allora il sospetto (e così sospettiamo di chi sospetta le costruzioni d’autore) che sia per questo, per non mettere dunque a rischio le condizioni ideali, che la gaddistica cammina il meno continuatamente possibile nel romanzo gaddiano, estrae brani, dai brani elabora analisi di brani, o teorie, o punta sull’allusività, fenomeno quest’ultimo sempre esterno, con tale o tal’altro autore, o con la letteratura tutta, perché di scrittura vorace si tratta – tutte verifiche invero affatto legittime, ma che stranamente escludono l’interesse per un’allusività pangaddiana, per il rimando di opera in opera, da insieme a insieme, da macchina a macchina, ciascun testo un ritrovato, una soluzione a problemi di collegamento: preferendo dirci, lui e noi, indifferenti a tali operazioni strutturali, per quanto anche invocando, al contempo, indagini in tal senso, per il futuro, sempre al futuro, come auspicabili e necessarie.

Eppure Gadda vuole camminare (è sempre Wittgenstein a suggerire la ripresa avversativa: «Wir wollen gehen, dann brauchen wir die Reibung», abbiamo bisogno di attrito). Per questo si ostina a tentare la forma romanzo, s’ingegna a far immagine e racconto delle vicende compositive – gli annosi «problemi d’officina», la progettualità maniacale, l’iniziale urgenza, l’immancabile ristagno, la difficile ripresa, la chiusura perentoria: così da escludere altri «soprassalti applicativi». Le storie lo scelgono, lo appassionano più d’una utopia (per quanto esprimano anche la sua utopia): brutte storie, sempre le stesse, cui tira fuori però l’enigma, il quesito, il dato tecnico, il dato strutturale, la contraddizione con quanto apertamente crede. A cui dà, in più, una «falda scura e lenta», modello inclinazione minima, modello tetto milanese, facendone l’andare appena percettibile ma sicuro di un’acqua, per scarsa perdenza lombarda: calcolatone il «prezioso ingrediente che è il dislivello» di catastrofe in potenza. (21)

Perché la conseguenza è un meccanismo segreto dell’essere, dell’essere della specie, e arriva proprio là dove gli esiti attendono; perché le prospettive di fuga, la multidirezionalità, l’arbitrio, il disordine, ci tentano, come un inganno evocato, risorto a comando quando più ce n’è bisogno, per scherzuccio nemmeno tanto sottile del desiderio. Perché ad appropriarsi con disperazione epistemologica della sapienza e della sofferenza del mondo si perviene a tale accumulo di perizia da riuscire a fare, del mondo, del mondo com’è, se solo si sapesse cosa si fa quando ci si impone la resa notarile della realtà, il racconto del proprio lavoro di soggetto. Anche le acque luride hanno il loro piano regolatore, una «disciplina di sorpassi e di comunicazioni». Ancora una volta, cioè, il discorso va messo altrimenti, con diversa formula: con diverso elogio dell’economicità. (22)

University of Edinburgh

Note

* Questo intervento è parte di un lavoro più ampio – L’Adalgisa, la terza struttura romanzesca maggiore, ne costituirà il punto d’arrivo e conclusivo banco di prova.

1. Meccanica, RR II 469. E al paragrafo precedente, molto selettivamente in tema di fiumi, echi e spunti da: Giornale, SGF II 729 (schizzo dell’Isonzo); Gadda 1986a: 19 (defluenze imbrifere); Meditazione, SVP 779 (chiamata dell’io categorizzante, chiamata della cateratta); Racconto, SVP 535-42 (fiume che parla, ovvero episodio del Devero); Gadda 1984a: 74 (lettera a Ugo Betti del 26 ottobre 1922, con disegno); Cognizione, RR I 693 (turpe risacca); Meraviglie, SGF I 109 (broda biblica); I viaggi, la morte, SGF I 561-86, in particolare 571 sgg. (battello ebbro e alla deriva tra le parvenze). Vari preannunci comunque già nelle poesie – qui si riporta il più notevole, da O mio buon genio, del ’15: «non voglio neppure che il fiume rabbiosamente mi sommerga e mi circonfonda delle sue prede, | Epperò nuoto e ti chiedo che il mio cuore sia franco, | Che sia duro il polso e il bicipite, e guizzante la mano» (Gadda 1993a: 6).

2. Sul corpo di Liliana, il più osservato, e anche il più isolato dall’atto critico, cfr. Agosti 1995: 247-63; Manganaro 1996a: 211-22; Bertoni 2001: 5-38; Dombroski 2002: 50-80 – con un tentativo di reintegrazione nel testo complessivamente inteso in Pedriali 1999a e 2001b.

3. Come la mano dei versi di O mio buon genio, citati sopra, vivo e guizzante, prima di rendersi disperso per l’eternità, è l’Emilio della Madonna dei Filosofi (RR I 78, 79). Da cui la metafora nel paragrafo.

4. Tra i molti spunti gaddiani liberamente confluiti in questo paragrafo: Gadda 2000b: 72 e Adalgisa, RR I 325 (aequo pede); Al parco, in una sera di maggio, RR I 504 (la lancia del San Giorgio di Cosmè Tura) e 499 (maturazione della passione col maggio, motivo che struttura L’Adalgisa, come dirò più avanti, a partire dall’avantesto, Un fulmine sul 220, e relativo refrain, «la sera più bella!», Gadda 2000b: 191 e SGF I 98, e includendo il brano passato alle Meraviglie d’Italia, Ronda al Castello, SGF I 97-101); Cognizione, RR I 629, 674-77, 575, 740 (rispettivamente: terra vestita d’agosto, uragani punitivi, Addolorata – riguardo alla posa imperdonabile di quest’ultima e al suo utilizzo per fissare il calendario della Cognizione, rimando a Pedriali 1997: 132-58 e 2002b); Passeggiata autunnale, RR II 940 (diavolìo dell’autunno). Sui luoghi e sulle congiunzioni astronomico-liturgiche legate all’equinozio nei due romanzi maggiori, v. Pedriali 2001b e ancora 2002b, con rinvio a Pedriali 2002c per un’estensione del discorso al Gadda minore, e a Pedriali 1997: 132-58 e 2002e per vari accenni all’icona stagionale e biografica del San Giorgio.

5. Rispettivamente, Cognizione, RR I 640 – da cui è tratto pure il sintagma «una Meccanica latrice di prosciutti» (RR I 713) che dà titolo al paragrafo –, e Adalgisa, RR I 306-07.

6. Quasi verbatim, da più punti dei due disegni conclusivi dell’Adalgisa, e prendendo a segnalare, con suggerimenti anche dall’avantesto, i tratti distintivi dei due e della scena del loro incontro: RR I 496 (giravoltare e ripassare di lui, Bruno; suoi capelli a vampata; suo rivolgersi col sorriso nel volto) & 513, 519-20 (suo ripassare lento e preciso, come pensiero inesorabile e fulgido); 489, 493, 496, 499, 500 (occhio allucinato, dilatato, sognante, inseguente di lei, Elsa; capelli sognanti sottoposti alla legge del pettine; viva proposizione femminile e immagine musiva; viva sonnambula sul cui sogno prevarranno tanto la cognata che la categoria di causa); Gadda 2000b: 31, 83, 85 (fiammata, vampa di capelli), 91 («la mia fiamma»); Ronda al Castello, SGF I 101 (aria a guisa di fiamma). Per notizie sul progresso del racconto del garzone del macellaio, v. Gadda Conti 1974: 39, e Donnarumma 2001b. Rinvio inoltre al mio Bruno, sempre il ciclista dell’Adalgisa, e non il più famoso Giordano, cogliendo l’occasione, doppiamente topica, per far presente che un lemma sul «grande Arrostisto» (RR II 1039) manca ancora alla Pocket Gadda Encyclopedia (ma all’argomento accenna Botti 2003 nel numero regolare del Journal). Proposals welcome.

7. Come già per la funzione Ines nel Pasticciaccio (Pedriali 2004c), anche per l’Adalgisa parlerei (e più avanti parlerò) di verso vivo di recto diabolico. Il romanzo-nel-romanzo, il racconto-gragnuola inarrestabile prodotta da personaggio e narratore, in combutta, arresta difatti, letteralmente, gli amanti, ma non per salvarli; Adalgisa, personaggio e funzione, salva cioè il testo (dinamitandolo: v. Isella 2000a: 292, e successivi commentatori), ma non per portarlo altrove. La morte (e con lei il diavolo) ha davvero l’ultima parola su entrambi i versi: solo che, un po’ come Ines, Adalgisa fa da tramite e schermo, illusionisticamente, strategicamente, con l’altro dei capitoli più vivi in repertorio (cfr. RR II 1146).

8. Meccanica, RR II 491-92. La Madonna col Bambino tra i santi Liberale e Francesco del Giorgione (Castelfranco Veneto) viene da Gadda (de)scritta una seconda volta, in chiusura del Primo libro delle Favole, favola 186, occasione in cui rettifica il nome del santo, non più Giorgio, ma di nuovo e correttamente Liberale. Intriga, con brutto anglismo, la posizione marcata, evidentemente strutturale, che Gadda riserva al quadro non una, due volte, anche per il lapsus animae, in prima battuta, sul nome d’arte d’uno dei rappresentati.

9. Qui ho parafrasato e accorpato varie posizioni dalla Meditazione milanese (tra cui l’esempio Ford, cfr. SVP 655-56, 887-88), per portare all’equivalenza viti-santi che mi veniva suggerita dalla somiglianza fisica delle tre figure nel Giorgione. Gadda dà la definizione tecnica di destrogiro-sinistrogiro, da me ripresa dislocandola, in una nota dell’Adalgisa (RR I 439), o meglio, in una nota della Cognizione (RR I 699).

10. Al regime in p (pavone-pirla-palo) con cui Gadda variamente congratula l’io, si può invero aggiungere pala, anche in omaggio allo stato di ebbrezza (ebbrezza di gratitudine: per un’immaginazione fiorita entro precisi confini materiali, oltre che sul metodo – dovrebbe pronunciarsi a riguardo l’antropologo) in cui lo mette in particolar modo il supporto pittorico. Ebbrezza e fioritura sul metodo sono prestiti dalla nota 4 di Al parco (RR I 504).

11. La declinazione, nel proemio della Meccanica, è di tipo anche sintattico, con primo periodo inizialmente a lista, poi cadenzato formularmente (ripresa del che e del tempo verbale); e secondo a sviluppo d’impressione ipotattica per riduzione degli elementi verbali, e con attesa (e tensione d’attesa) di risoluzione – lo risolve in extremis, chiudendo il circolo predittivo coniugato al futuro e in sospeso dal primo periodo, il verbo dirà, doppiamente posticipato dall’accumulo di attributi del gufo. Sugli avanzi mortalmente eterni di quest’ultimo, cfr. Pasticciaccio, RR II 151. Incidentalmente: con corpo del testo e nota mi allontano dalle interpretazioni correnti del proemio (v., nel solo EJGS, Savettieri 2001 & Donnarumma 2004a). Sempre incidentalmente: il titolo del paragrafo, primo annuncio del motivo della sonnolenza del soggetto (da coniugarsi, come farò, a quello dell’allucinazione del sonnambulo-sonnambula, due dramatis personae in più modi contigue ma ben distinte), è una ripresa parziale di un’occorrenza minore («con un fare insonnolito da oràcolo che sta chiudendo bottega», relativamente allo Zavattari – Gadda 2000b: 181).

12. Attacco e titolo di paragrafo, inclusa la lettera maiuscola per i semplici (o «Simplìci»), riprendono fin troppo fedelmente, anzi praticamente verbatim – come già sopra la nozione critica dei limiti di validità e il campo di applicabilità del segno, e subito sotto i semplificati dalla storia e dalla condizione umana –, concetti dalla Meditazione breve circa il dire e il fare (SGF I 453) in tema di rapporto autore-personaggio. Qui, come altrove, accorpo, condensandoli, per lo più brevi, a volte lunghi sintagmi gaddiani, appropriandomene morfologicamente e senza indicazione di sutura, o con segnalazione minima di citazione (ma con ammissione e indicazione di luogo in nota), per facilitare, visto anche l’argomento, scorrevolezza e speditezza. La parola, «collutorio comune», «non è vergine mai»: e di nuovo la formula è gaddiana (Come lavoro, SGF I 436). La fistola in succhio che qui figura avendo dato titolo e argomento al saggio è un prelievo dall’Adalgisa (RR I 453).

13. Meditazione, SVP 894 (debito d’equità) – con rinvio a Pedriali 2004e. Il numero chiuso diviene combinazione matematica esplicita nel Club delle ombre (RR II 843-48, 848), breve summa e stilizzazione di motivi in versione post-conflittuale (ma invero di marca pre-conflittuale, per non dire pre-edipica). Una signorina di storia dell’arte ha perso il fratello ed ora tiene lezione di dolore primaverile. Agli allievi mostra la vivente prestanza di altri giovani, mentre nel ribollìo in carne ed ossa cerca i redivivi di mantegneschi, di caravaggeschi modelli – il pastorello della giorgionesca Tempesta, il lampeggiante San Giorgio del Carpaccio. Una sera d’aprile, però, un trio di studenti la porta al vecchio torracchione, non-luogo sul poggio dei morti (una folgore di guerra vi ha scavato davanti un cratere, cerchio d’orrore traversabile sulla fune-ponte di un diametro di fortuna). Lì l’attende una vera e propria lezione di cui le fanno matematico omaggio gli alunni; vi preludono il cerchio in cui il trio la stringe, l’invito al club del tre di cuori fatto da sei occhi irrefrenabili, l’arredamento della torre: tre tavolini affratellati, tre fiori eretti, tre lettucci – poi però le tazze sono quattro, così da poter aver l’ospite, forse il Cristo a parete, o, più probabilmente, il viluppo d’ombre collettivamente vaporanti dalla torre-carcere ma di marcatura singolare (sono una luce, un sorriso: dal repertorio dei sintagmi gaddiani davvero fissi per eccesso di referenza; v. il precedente di tutti i precedenti, la poesia del ’19, Sala di basalte, vv. 35-36, e relativo contesto, vv. 31-48, precedente diretto del movimento d’ombre nel racconto del ’48). Da queste premesse una semplice ars combinatoria («a due per volta, nelle tre combinazioni matematiche a + b, b + c, c + a […]») produce tre moraluzze a variante, ossia un unico messaggio (non ci sono redivivi, il messaggio pure dell’Adalgisa, come si vedrà), in congiunzione astronomica con un segno nel cielo – stella o costellazione, chissà – su cui il chiù dà voce e dittongo (altra potente unità motivica, già osservata in Pedriali 2002b), e con moralona strutturale nella coniugazione di favola e numero: i.e., nemmeno di fronte all’umbratile sono necessari numeri complessi, la moralona di questo paragrafo.

14. Con spunti da (ma non esclusivamente da) Meccanica, RR II 471 (proposizioni vive, colori dogali, richiamo ai codici: l’ironia alle spese del «dannunziano in ritardo», l’«attacco di zolianesimo»); 489 (il giardino come sogno popolato di figure: formula già di Racconto, SVP 421, poi passata, tra gli altri, all’Adalgisa, RR I 293, essendo già di Viaggiatori meravigliosi, poesia di datazione incerta, ma di sicuro precedente al Cahier, v. Gadda 1993a: 34, IVa, v. 11; IVb, v. 12; 114-15); 475 (pensieri vagabondi, in cerca di oggetto, e infine puntati su un novello Ermete in movimento, come dirò a più riprese); 494 (resurrezione: tema già ambiguo a quest’altezza per il coimplicarsi di resurrezione della specie – la sua forma o continuità genetica –, e non resurrezione dell’individuo – l’impossibilità del ritorno –, motivo quest’ultimo invero già attivo, senza coimplicazioni d’ordine scientifico, nei testi poetici, v. Gli amici taciturni e più ancora Sala di basalte, e cementatosi davvero in roccia dura ad una particolare categoria di non ritornati, il minatore di guerra, da memorie e incubi di guerra, con Notte di luna, RR II 1076-077 – così coimplicata, la resurrezione arriverà al Bruno dell’Adalgisa, riemerso vivo nel giorno, con elezioni evolutive tra il positivistico e il leibniziano, dalla tomba infernale della miniera: ossia con pensiero di nuovo assai strano – o meglio, con tentata infrazione dei divieti disumani del tempo, come dirò); 488 (fede di Zoraide: quel corpo era per qualcuno); 472 (ruga verticale del rifiuto, della paura, dello sdegno: passerà alla Tina, nel finale del Pasticciaccio, essendo passata, nell’assestamento di valenza, sia per la Marianna del Fulmine che per l’Adalgisa, cfr. Gadda 2000b: 124, 169 e RR I 542).

15. Cfr. Meccanica, RR II 479 (pustoloso: con spunto dalla lista delle categorie rifiutate da Zoraide); 495 (Luigino il gramo); 480 (come se mangiasse lucertole). Per le emanazioni malevoli del soggetto, stile uomo del sacco et alii, rinvio a Pedriali 2004c.

16. Rispettivamente, RR II 512 (organizzazione totalitaria); 504 (sorreggere ogni buon nato); 525 (come si bacia un fratello); 496 (nessun sogno vagabondo: con ovvio contrasto coi vagabondaggi di Zoraide); 513 (Zoraide scopo e premio, ma con dubbio e convocazione idiomatica dell’autore di tutte le storie: dove diavolo l’aveva pescata?); 503, 505 (spazi francescani: la sede dell’Umanitaria); 512 (San Giuseppe); 527 (favola di Crispino e la Comare; da Meditazione breve, SGF I 446, il termine favolone); 528 (bravo Pessina; tutto il mio dovere è invece espressione accorpata dal Giornale, SGF II 547, per convenienza di simmetria col successivo); 524 (soffocato da tutto il suo sangue: nel sintagma e nelle pagine di documentazione sul male dissolvitore immediatamente precedenti, Gadda, autodidatta di suo, riversa il sospetto di malattia in cui, tra le molte morti per tubercolosi, lo tenne, a Celle Lager, di tutti i mesi, proprio l’aprile del ’18, cfr. Gadda 1991a: 128-31); 585-86 (metafora del sonnambulo: suo primo innesto narrativo, con seguito negli occhi dilatati del gufo – s’innesta qui uno stratagemma tecnico che avrà variabili, ma che invariabilmente giustifica il ricorso ad un ordine causale allargato, analogico, come già ho accennato nel paragrafo sull’oracolo insonnolito, e come dirò a proposito dell’Adalgisa); 534 (Adamo risorgente, fiammata di capelli: come poi il Bruno, che ritrova forma ed immagine per far prender fiamma, banalmente, all’imbrunire); 583 (corsa pazza e vertiginosa, su mezzo di trasporto franco: Zoraide non ha forse scelto l’ammiratore più rapido? non corre così la ventura delle venture, con rovesciamento davvero perfido del senso originale – il sintagma è lo stesso, e ribattuto – degli esiti fissi, che nessuno impedirà, in una corsa trasgressiva, che nessuno impedirà? cfr. RR II 529, 559, e, ovviamente, Racconto, SVP 419 / Adalgisa, RR I 291); 547 (centro morfologico); 544 (sangue fervido, da non buttare).

17. Nomina conclusivamente il male, provandolo di fronte alla bianchezza di lei, l’incipit di Racconto, con seguito di conio dispregiativo per lui (velocipedastro), ed emanazione dal narratore di un osservatore secondario ingenuo, ingenuamente dolorante, interno alla scena (il quindicenne bocca semiaperta) (SVP 423-24). All’altro capo del passo, l’anticipo e la simmetria: le altre occorrenze del lemma («[…] un turbamento inavvertito che si faceva un male violento e selvaggio: e allora questo male attutiva ogni ricordo e ridecomponeva il preordinato volere», SVP 420). Anche di tali minimi rimandi è fatto il paese di maniera dell’anima: contaminazione, sì, «varesino-brianzuolo-vicentina» (RR I 297), ma per esibire una tipicità dinamica di configurazione interiore. Sulla coppia come manifestazione dell’Idea dal lavoro di cernita, versione serale, questa sera, ogni sera, v. Pedriali 2004c, e Pedriali 2002d per l’estraibilità ed autonomia del passo. Dal 26 luglio 1924 Gadda non riprende il brano fino al 6 dicembre («segue coi due: velocipedastro e ragazza e attacca un fatto “abnorme”. | Si allontanarono lungo il filare alto dei pioppi […]», SVP 493). Si tratta, certo, di una declinazione compositiva che riparte (Manzotti 2004b: 173, 177), ma è anche vero che, con lo stacco, la coppia muta segno. È Forma, in prima battuta: il narratore la vede, non riesce a udirla (SVP 423), con esclusione che attiva la pronominalità dell’inesistenza, perché nessuno deve sentire quella voce, e poi che possono dire i passanti? Niente poiché non odono niente. Forma cioè del desiderio, valore antropologico: oggetto di sogno e di invidia da parte dell’Ingenuo, che, parimenti impedito nell’inclusione, sigilla la modesta icona con un risentito orcodio, lasciando la scena «senza rivolgersi» (poco sospetta, col narratore, e con Gadda, quanto da rivolgersi darà ancora la visione). Forma che si delinea e vanisce: che dovrebbe vanire in direzione dei fuochi occidentali lungo allineate d’alberi (l’esito pure di Ronda al Castello, e dietro analogo processo estrattivo). E che invece trapassa, con la ripresa, in un nuovo e meglio abilitato campo d’osservazione, quasi il raggio di influenza d’un Totem Jettatore, tanto corre la jella in quel campo ai danni della coppia e, più ancora, ai danni del racconto. Difficilissimo, infatti, ricavare alcunché da tale materia, il problema della ripresa: potendo infine accompagnare, ascoltare gli amanti, il racconto devia, scade nell’appendicistico. Difficoltà con la maniera sentimentale? Solo fino a un certo punto, e come parte d’un problema più ampio di cernita psichica che ritrova ogni volta i suoi esiti – al punto da suggerire, vista l’ineliminabilità degli esiti, e specie a partire dall’eccezione della Meccanica (ma quella, s’è visto, è un’eccezione ad un patto, e in più non libera dalla disdetta), di limitarsi, in questioni di coppia, alla resa iconica, emblematica, di valenza strutturale. Che è quanto osserverò anche a proposito del nesso di sviluppo Fulmine-Adalgisa, avendo già ripreso Pedriali 2002c, a proposito di Passeggiata autunnale, RR II 951, al paragrafo precedente.

18. Censurato, privo di oggetto manifesto, pluralizzato per convenienza di sottintesi («Ma quando il nostro amore ci abbandona […] la mamma che conforto può darci? […] Ella comprende quale è il nostro dolore, ella sa che la separazione infinita è anche la sua, essendo quella dei figli», SVP 401), il pensiero-sguardo di lei, in Racconto, primo studio compositivo, si presta all’equivoco, mette in sospetto. È svelto difatti a sottintendere il vendicatore in potenza: si orienterà su uno sguardo non orientato su di lui, e questo basta. Fuori di studio, tuttavia, e non bastando censura o equivoco o mito per rappresentare un po’ compiutamente un’intera società, Gadda progetta intrecci di personaggi, butta giù liste di opposizioni per tipi, mette in conto, a freddo, di doversi dare l’antagonista; incappa subito, a caldo, nel velocipedastro, poco più d’una comparsa, ma la funzione è quella giusta (sottrattore di Madonne), come giusti sono subito i ferri del mestiere (origini meccaniche, mobilità su mezzo meccanico: nulla a che fare con l’antagonista previsto dai calcoli). Un rivale non ancora in azione, materiatosi dall’ora topica: già risortone, destinato a ripresentarsi. Inutile tentare di disfarsene disperdendolo, moltiplicandone l’aspetto o la storia; eppure, per capire la cosa, bisogna commettere errori. Non diversamente era incappata Passeggiata, per quanto lì non avessero difettato certezza di agnizione e illusione di vantaggio, grazie al numero ridotto dei coinvolti (RR II 951; cfr. Pedriali 2002c) – da cui qui l’ipotesi del nesso: tra agnizione e dispersione.

19. Un solo sintagma gaddiano, da Eros, SGF II 272 (inane similitudine). Paragrafo peraltro pochissimo vergine, per l’ampio ricorso al repertorio frasale della gaddistica degli ultimi vent’anni, da Guglielmi 1986 a Dommarumma 2004a, a cominciare da quel non sa scegliere, affermazione sempre riproponibile e di fatto riproposta per estensione in linea diretta, o indiretta, via prassi testuale, dell’autocommento: «è questo il mio male. Bisognerà o fondere, (difficilissimo) o eleggere» (Racconto, SVP 396). Allargo l’esemplarità del paragrafo citando, questa volta tra virgolette, da un saggio di Bacchi: «La narrativa gaddiana è l’apoteosi dell’ars combinatoria di serie potenzialmente infinite, mediante la tecnica della digressione, “insensibile declinare tematico in direzioni nuove” che frantumano l’unità narrativa […] il narratore sceglie una possibilità per poi abbandonarla a favore di un’altra che in quel momento, più della prima cattura il suo interesse, senza mai concedere a nessuna possibilità il privilegio di una posizione centripeta» (Bacchi 1993: 558). Paragrafo e citazione in nota mi servono per tornare a rilevare la diffusa condizione di euforia in cui la gaddistica volentieri declina, allontanandosi (e più probabilmente: per allontanarsi) dai testi, anche quelli in seconda battuta, qui il caso della citazione da Manzotti («insensibile declinare tematico in direzioni nuove»), sviluppata in direzione ben diversa dall’originale (Manzotti 1987a: xxvii, che continua: «[…] strettamente asservite, in realtà, ad un insieme ridotto di nuclei tematici»). Il rilievo, cosa non nuova nei miei scritti, ne permette un altro, più personale. Il declinare manzottianamente inteso, a sua volta non esente da euforia, legittima euforia, per la molteplicità dei significanti e dei significati in movimento (v., a seguire, Manzotti 1987a: xxviii), e già ripreso, in direzione meno linguistica ed euforica, più narratologica, tra gli altri, da Savettieri 2003 con la nozione di narratività a gradiente minimo relativamente alla sola Cognizione, ha certo contribuito – Manzotti se ne sorprenderà – a definire questa lettura di tutto il Gadda maggiore, il romanziere, in termini di fistola in succhio.

20. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, trad. inglese con tedesco a fronte a cura di G.E.M. Anscombe (Oxford: Blackwell, 1998), 46, § 107 – in mia traduzione, anche perché rimango poco convinta dall’unica versione italiana a mia disposizione (a cura di M. Trinchero, 1983). In Pedriali 1999a e 2004c il ghigno come ritorno motivico autorizzato, di mano gaddiana (e.g., RR II 16, 119). Repertorio noto e ben sfruttato gli altri spunti – Contini 1989: 42 (lavoro esteticamente, narrativamente sbagliato; penna frenata e distorta da carità e pudore); Come lavoro, SGF I 427 (il male non deve esistere). Da Contini, anche se con dizione rovesciata, la continuità della sua leggibilità – nell’originale: «paga la sua riuscita non con la sua illeggibilità, che sarebbe ipotesi risibile, ma con l’illeggibilità della sua continuità» (Contini 1988b: 75). Repertorio, questo, meno battuto dai gaddisti, come suggerisce Stracuzzi, che lo ripropone all’attenzione nel presente volume (Stracuzzi 2004a).

21. Prelievi ironici, inizialmente, da Come lavoro, SGF I 427 (busto di stucco, bidelli del Walalla), 431-32 (vate, atteggiamento e cipiglio vateschi) –, per arrivare con miglior agio, ma pur sempre inaspettatamente, alla domanda scomoda (ci include Gadda?), senza tuttavia prestarmi a fare il gioco dei suoi detrattori. Seguono, con rientro dell’ironia, spunti sparsi: Meditazione, SVP 876 (la macchina industriale come soluzione a problemi di collegamento logico fra i dati); Come lavoro, SGF I 427 (problemi d’officinia); Il pasticciaccio, SGF I 510 (soprassalti applicativi); Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, SGF I 1178 (più di un’utopia, ci incita una storia) – per ritrovare, in chiusura, il motivo della declinazione, per inclinazione (di un piano) e scorrimento: Adalgisa, RR I 293 (falda scura e lenta, lento andare d’un acqua: tema, quest’ultimo, già oggetto di apostrofe in una poesia del ’19: «Il tuo filo cerca | Nel piano una via | Verso le lontananze | Del mare. | […] Lo conduce | Il declinare | Del piano, | Non furore, non esperta | Virtù, né il dolce | Silenzio della vendetta», Gadda 1993a: 14); La grande bonificazione ferrarese, SVP 163 (il prezioso ingrediente economico del dislivello: idea che qui coniugo con la nozione, a sua volta economica, di catastrofe in potenza, dal lungo segmento di parabola occupato da tale agenzia – gli attuali disegni 8-10 dell’Adalgisa – in uno schizzo, del ’34, della linea di sviluppo da dare a Fulmine, cfr. Gadda 2000b: 321).

22. Variazione, in apertura di paragrafo, su sintagma gaddiano molto comune (meccanismo segreto della conseguenza), e con ripresa libera del contesto della sua prima occorrenza («[…] arrivava là proprio, dove quella conclusione pareva aspettare» – Passeggiata, RR II 944). Dall’Adalgisa, RR I 337-38, a chiudere, il motivo delle acque luride. Impossibile tuttavia concludere sui Semplici senza chiamare un’ultima volta in causa i Complessi. Analogalmente, del resto, chiamano questi ultimi: «Complessità non va però intesa nel senso corrente di complicazione dei fenomeni che la conoscenza dovrebbe in qualche modo dissipare, fino a rivelare l’ordine semplice a cui obbediscono. Questo è piuttosto il modo di ragionare del pensiero semplice, o semplificante, e che Gadda chiamerebbe astrazione. Complessità va invece intesa come consapevolezza del nostro essere immersi in un sistema di relazioni molto più vasto di quanto la conoscenza sia in grado di cogliere volta per volta» (Benedetti 2004: 21). Altre indirette chiamate in causa, nel solo EJGS, da Antonello 2003 e 2004a, e Porro 2004. Da caparbio partitante dell’altro partito, ammetto il fascino di tali proposte di emendazione dell’intelletto (Benedetti 2004: 21, 30), ma osservo come a loro volta producano pensiero semplice, semplificante, astrazione, mito. Credo pure che ciò sia vero innanzitutto per Gadda, con poco torto della scuola di pensiero complesso che a lui cerca di ispirarsi coerentemente (o forse, il torto sta proprio nell’avverbio conclusivo). Credo cioè che in Gadda complessità e totalità siano tra le più compromesse figure del desiderio, in spuria coesistenza con altri miti, primo fra tutti quello biblico, e che l’auspicata superordinazione emendativa, con eventuale ascensione di livello o sistema o caos, comporti, nell’emendando, una totalitaria riduzione di complessità e differenziazione, testimone, tra gli altri, l’immaginativa fascista del Gadda autarchico, o quella antifascista di Eros e Priapo, entrambe immaginative invero assai prossime ai miti centrali di Meditazione milanese (argomento, questo, della prossimità di tali estremi ancora tutto da esplorare). Credo inoltre (con accumulo assertivo, ma tant’è: anche i Semplici, come i Complessi, sono obbligati alla semplicità) che il pensiero complesso, che considera errore critico l’attribuire a Gadda un errore di Gadda (cfr. Benedetti 2004: 27-30), non riesca a dirne in termini non generici (gli invariabili descriptor: espansione centrifuga, o più ancora, diffusione rizomatica) l’ubi consistam di romanzo. Credo pertanto che nell’ordine della semplicità della specie ci sia qualcosa di meno semplice delle soluzioni strutturali della complessità, e che Gadda sfrutti questa imperfezione sistemica a meraviglia. Concordo di certo con Casini nel fare dell’aspirazione al passaggio di grado e di funzionalità in un n + 1 l’istanza principale della Meditazione (Casini 2004b: 36-40), ma credo anche che, in un mito di emendazione mancata – circostanza territoriale oltre che logico-etica (Pedriali 20001b) –, la fattività elaborante ripieghi fattivamente su un io inevolvibile e difatti evolutosi in «pauroso gorgo» (su cui il fiume «converge precipitando in cascata» – Meditazione, SVP 779), le questioni di regime idraulico che danno spunto e sottotitolo al presente intervento. Chiudo questo minimo credo (degno compare del non credo gonzaliano) dichiarando di non credere che il racconto mitico per cervelli pleistocenici (proprio incluso) da Gadda svolto in più battute e variabili ambisca mai, in alcuna delle sue fasi, a trascendere principi empirici, la tesi proposta up to a point da Donnarumma 2004a. Credo agiti, piuttosto, uno spauracchio di pensiero complesso, di storia totalizzante e totalitaria, di desiderio di fuga, di civile speranza, di inconfessabile ma confessata involuzione – a inutile beneficio proprio e di quel coagulo di irragione che sono i colleghi di specie. Forse, in questo, il romanzo di Gadda ha davvero a che fare con la filosofia. Ma poi anche la filosofia ha peccati da scontare. Un Gadda prima filosofo che narratore? Non credo. Un romanziere ancora tutto da leggere, invece. A riprova, affronto qui di seguito l’Adalgisa, il romanzo gaddiano invero meno letto – «romanzo storico e anche idrologico», come Gadda ebbe a dire del Po gonfio, eppure canalizzato e savio di Bacchelli (La grande bonificazione ferrarese, SVP 157). Un Gadda dunque savio, dopo così semplici premesse? Certo, e perché no, pure savio, e con una sua assurda coerenza, o linea, come era ancora possibile dire per parte almeno del secolo non più nostro. Il guaio, che non è guaio, è che «la linea del Gadda, le più volte, s’impenna e diverge dalle linee più accreditate: donde la severa imputazione che gli vien fatta, non aver egli avuto la reverenza debita alle linee degli altri, rette o curve che fossero» (dal risvolto di copertina dell’edizione del ’58 dei Viaggi la morte, ora SGF I 1300). Un romanziere azzardato. Uno che azzarda una fenomenale visione d’insieme.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-06-X

© 2004-2024 by Federica G. Pedriali & EJGS. First published in EJGS (EJGS 4/2004). The essay, revised and completed with an extended reading of Gadda’s third major novel, came out with the title Fistola in succhio. Chiamate idrauliche per «L’Adalgisa», in F.G. Pedriali, Altre carceri d’invenzione. Studi gaddiani (Ravenna: Longo, 2007), 105-63, and in now archived in the EJGS Archives.

Artwork © 2004-2024 by G. & F. Pedriali.
Framed image: after a detail from Vittore Carpaccio, The Pilgrims Meet the Pope, 1491?/1493?, Venice, Accademia.

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