«Life’s but a walking shadow»
L’ombra del tragico nella Cognizione

Federico Bertoni

La mia opera è modesta, non vale la pena di occuparsene. Per favore, mi lasci nell’ombra – C.E. Gadda

1. Un’ombra sul terrazzo

Ogni volta che rileggo gli ultimi capitoli della Cognizione del dolore mi dico che Gadda, presunto maestro dell’incompiuto, sapeva maneggiare perfettamente quello che Frank Kermode ha chiamato «il senso della fine». Tempo umano e tempo cosmico, i rintocchi nell’«ora buia o splendente», (1) i sapienti giochi di luce e d’ombra scandiscono le fasi conclusive del libro con una progressione che ha il ritmo inesorabile e solenne dei cicli naturali. Il destino del romanzo si gioca tutto in una notte, tra il crepuscolo in cui la madre vede allontanarsi Gonzalo «come su di un mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra», e la luce dell’alba che sorge dai monti dopo l’aggressione finale, «nella solitudine della campagna apparita» (RR I 737 e 755). Nel frattempo il ritmo narrativo accelera, la tensione aumenta, il punto di vista si sposta, una trama disperatamente statica precipita in un epilogo che ricorda molto più la chiusura catastrofica di una tragedia che la conclusione aperta di un romanzo giallo, con cui la Cognizione ha davvero poco da spartire. (2) Intorno c’è solo tenebra, buio, notte, nero, ombra, un fondale reso ancora più cupo dalla lontananza glaciale delle stelle e dalla goffa violenza di torce, lampade e lanterne fumose con cui gli «oranghi» di Lukones si fanno luce nella casa, «tagliano le ombre» della camera e infine scoprono il corpo devastato della madre.

Tutto inizia con uno spostamento di prospettiva: il luogo da cui si guardava (la villa, il giardino, il terrazzo) appare ora dall’esterno, «sotto alte lontanissime stelle», dove si intravvede il profilo di una casa «silente e mite, e come abbandonata nella notte, ch’era silenzio puntuato di zaffiri perduti atrocemente lontani». Gli occhi sono quelli di Ermenegildo e Bruno, due cugini assoldati dal vicino, il cavalier Trabatta, per sorvegliare il suo «castello» in seguito ai numerosi furti avvenuti nella zona. Il narratore ha ribadito ossessivamente che la strada è «deserta», «funerea», che nessuno la percorre mai «nelle ore mute della notte». Così, quando i due credono di sentire un rumore di passi sulla ghiaia del viale, si mettono subito in allarme, corrono fuori, raggiungono il frutteto e gettano le luci delle torce «tra il popolo dei vecchi alberi, carichi di sonno e di tenebra. […] I ferri della pergola, in quell’abbandono della disanimata notte, reggevano pere, (tra le incurve foglie) estratte improvvisamente dalla tenebra, per il getto della lampadina» (RR I 740, 742 e 743). Tutto è incerto, sospeso. Il lettore – direbbe James - è «sceso nell’arena»: (3) anche lui guarda nel buio appena rischiarato dalle torce: condivide tutti i dubbi e le sensazioni confuse dei due personaggi, che temono di aver sognato e stanno quasi per rientrare al castello:

Ebbero però un’idea, che qualcuno, passato nel viale, avesse scavalcato il muro lì presso. E la strada di Iglesia, deserta, funerea si configurò di nuovo nelle loro menti, avvezze alla notte ed ai passi felpati che vi viaggiano, sopra strapiombi neri. Un’auto, immaginarono, sulla strada, in attesa della preda, e dei predatori incolumi. Di certo. A fanali spenti. Ma per arrivarvi! O forse l’ombra, nera e muta, ch’era apparita sul terrazzo: non si sapeva chi fosse: passava i campi e i muri, come un’imagine. Ma i passi li avevano sentiti, per Dio! Altro che ombra! (RR I 743 – mio corsivo)

A questo punto, forse, James avrebbe qualcosa da obiettare. La frase che ho messo in corsivo, incastonata tra esclamazioni, indiretti liberi e brevi segmenti paratattici, è quanto di più lontano dal tono, dallo stile, dalle possibilità percettive dei due cugini. Un corpo estraneo, un inciampo stilistico, una smagliatura discorsiva tanto incongrua quanto potente. Se l’accumulazione coerente di verba sentiendi («ebbero un’idea», «si configurò nelle loro menti», «immaginarono») tende a includere tutto ciò che segue nel cerchio cognitivo dei personaggi, l’evocazione dell’ombra non può che esorbitare in modo clamoroso da quel piccolo cerchio, a tutti i livelli di articolazione della frase: scelte lessicali («apparita», «imagine», «passare» in senso transitivo), costruzione sintattica (due proposizioni coordinate dallo stesso soggetto, con tempi e aspetti verbali diversi, spezzate da un inserto in forma impersonale), punteggiatura (gli incisi scanditi dalle virgole, il doppio due punti), tono e ritmo (il senso di un incedere solenne, quasi metafisico).

D’altro canto, se ammettiamo che le menti dei due cugini siano attraversate dall’immagine di un’ombra, come si deduce dall’esclamazione successiva, di nuovo in indiretto libero («altro che ombra!»), non possiamo fare a meno di chiederci: ma quale ombra? Quale apparizione sul terrazzo si è incisa nelle loro memorie come un fatto realmente accaduto («era apparita»), visto che nulla del genere ci è stato raccontato? Chi è il soggetto di «non si sapeva chi fosse»? E quale strano fenomeno di autosuggestione porta questi due energumeni a traslare l’allarme per un presunto ladro nel timore ancestrale di un fantasma senza corpo, tanto da invocare il disinganno dei sensi e il registro basso-colloquiale: «Ma i passi li avevano sentiti, per Dio! Altro che ombra!»?

Prima di azzardare una risposta, o di suggerire un’ipotesi di lavoro, provo a raccogliere altri dati seguendo le piste linguistiche e figurali che si dipartono da questo brano.

Intanto ci sono piste segnalate da tracce testuali macroscopiche. Per esempio è difficile, di fronte a quell’«ombra, nera e muta, ch’era apparita sul terrazzo», non rievocare una delle più dirompenti, perturbanti apparizioni di tutto il romanzo, cioè la «figura di tenebra» – «nera, muta, altissima» – che si erge sul terrazzo durante il sogno spaventoso di Gonzalo, un’immagine ossessiva che trasmigra nell’opera di Gadda e che si ritrova anche in contesti completamente diversi, dall’«alta e muta madre» a cui viene paragonato il chirurgo di Anastomòsi, all’«alta e nera figura» della madre di Gigi in San Giorgio in casa Brocchi. (4) Più in generale, il romanzo è costellato di ombre o figure nere che appaiono all’improvviso, come reduci o emissari di un mondo notturno e infero. Così, nei suoi ricordi, la madre non si capacita di come il figlio sopravvissuto alla guerra «le fosse riapparito, oh, in un’alba di cenere» (RR I 681).

Un’immagine del ritorno (o piuttosto dell’assenza, di una vuota sopravvivenza a se stesso) che sembra materializzarsi poche pagine dopo, quando «l’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: […] La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce». (5) Che questa ombra abbia un potenziale minaccioso è confermato, più avanti, da una delle frequenti lamentele contro la struttura indifesa della casa: «Ognuno, ogni estraneo, avrebbe potuto apparire, nero e improvviso, nel riquadro di finestra della sala da pranzo, senza dimandar compermesso ad alcuno». (6) Cosa che puntualmente avviene poche pagine dopo, quando «si delineò all’improvviso nella cornice della porta-finestra la donnetta del cimitero, e fu, o parve, una blatta nera sul cemento affocato del terrazzo». (7)

La scrittura, insomma, sembra percorsa da un complesso di immagini ossessive che ruota intorno al motivo dell’ombra e che di volta in volta ricombina un sistema di sèmi pertinenti – alto, nero, muto, improvviso, apparizione. E in questo quadro, in linea con una stratificazione semantica di lunga durata, l’ombra irradia una serie di connotazioni perturbanti che confinano con la minaccia, il pericolo, la violenza, la morte. Ecco ad esempio la liturgia nevrotica della madre, che «si barricava in casa ogni sera, con una angoscia inimmaginabile»: «Ella credeva con dimolta fede in quella cerimonia della chiusura e dello sprangamento serale d’ogni porta, con cui cercava di sfatare le ombre e le angosce imminenti» (RR I 746-747). Il nesso analogico tra ombra, aggressione fisica e violazione della proprietà passa anche attraverso un rimando intertestuale, presente già nel Racconto italiano e ripreso in parte nella Cognizione: «Nell’ombra, nell’ombra donde “ut jugulent homines surgunt de nocte latrones”». (8) Non per niente, Gonzalo evoca l’ambigua figura del vigile notturno «che trasvola… come un’ombra… a infilare il bigliettino dentro la serratura… del cancello» (RR I 653).

Dunque l’ombra come entità impalpabile, qualcosa che appare, passa, trasvola, misteriosa e inquietante come il gatto che «s’era insinuato in casa con lestezza, ombricola vellutata tra i piedi dell’uomo». (9) Un’entità immateriale che si muove «come un’imagine» e che per questo sembra collocarsi sullo stesso piano ontologico di quelle «parvenze», «vane immagini» o «sostituti menzogneri del Pragma» (RR I 703-704 e 706) che Gonzalo, lettore di Platone, vorrebbe negare a costo del proprio annientamento, della negazione di se stesso, un po’ come Quentin in The Sound and the Fury che cerca di annegare la sua ombra come preliminare simbolico del suicidio:

The shadow of the bridge, the tiers of railing, my shadow leaning flat upon the water, so easily had I tricked it that would not quit me. At least fifty feet it was, and if I only had something to blot it into the water, holding it until it was drowned, the shadow of the package like two shoes wrapped up lying on the water. (10)

Di tutte queste immagini e apparizioni, ovviamente, i due sorveglianti notturni di casa Trabatta non hanno alcuna esperienza né possibilità di cognizione. E dunque torniamo alla domanda: da dove viene quell’ombra? È un lapsus, un errore di Gadda, una semplice distrazione nella gestione del punto di vista? Forse, come ha scritto Mario Lavagetto, «il testo è nato per nascondere: è un “tessuto” ma, ad un esame minuzioso, rivela smagliature, rattoppi, buchi». (11) Forse però è proprio in quei buchi che si nasconde ciò che chiamiamo letteratura; ed è soprattutto lì – come ci ha insegnato lo stesso Lavagetto, sulla scorta di Freud – che possiamo reperire i «piccoli indizi» con cui metterci sulle tracce di qualcosa di più grande. (12)

Provo quindi a formulare un’ipotesi, in aggiunta ai rilievi precedenti. Direi che la particolare intonazione di quella frase, la sua intensità emotiva, la sua estrema concentrazione espressiva finiscono per accordarla su un registro tragico che sovverte il contesto stilistico e narrativo circostante. È come se l’evocazione dell’ombra, con le sue risonanze fatalmente tragiche, mobilitasse un sistema di rappresentazione che scardina le isotopie testuali e imprime alla scrittura una formidabile energia simbolica, attingendo a strati profondi dell’immaginario personale e collettivo. Un po’ quello che succede nel famoso passo della Cognizione analizzato a suo tempo da Pasolini, dove la clausola gnomica finale – «Poiché ogni oltraggio è morte» (RR I 598) – non può essere attribuita né al dottore né al coro dei lukonesi, e assume «una risonanza che esorbita dal significato testuale», una di quelle «tangenti che rapiscono il suo moralismo, la sua filosofia, la sua esperienza, il suo stile, là dove accadono le folgorazioni dell’irrazionalità». (13)

Sembra davvero che la scrittura di Gadda, qui, lambisca una di quelle immagini primordiali di cui ha parlato Jung, tra le quali l’Ombra ha un posto di assoluto rilievo. Il momento in cui l’immagine appare nell’opera d’arte, scrive Jung, «è sempre contrassegnato da una particolare intensità emotiva, come se in noi fossero toccate corde che ordinariamente non risuonano mai, o come se si scatenassero potenze di cui non supponevamo l’esistenza». (14) A questo punto, l’unico modo per cercare risposte è andare avanti, allargare l’indagine, anche se il viaggio tra le ombre si preannuncia pericoloso e difficile. Ma penso che valga la pena di continuare.

2. Rotte per il Mare delle Tenebre

Ripartiamo da un dato naturale, che sembra presiedere a ogni elaborazione culturale o simbolica dell’ombra: luce e ombra sono entità interdipendenti, reciprocamente presupposte e necessarie, che non possono sussistere in forma autonoma. Le ombre sono tracce della luce, prodotte dall’incontro «con i corpi che questa trova sulla sua strada», (15) mentre la luce si definisce in opposizione alle ombre e alle tenebre originarie da cui viene «separata» grazie alla mano creatrice di Dio o, più banalmente, ai meccanismi del nostro sistema percettivo.

In termini logici, non si tratta tanto di contrari ma di correlativi, che danno vita a una polarità ambivalente come la dialettica hegeliana del servo e del padrone, in cui i ruoli sono reciprocamente determinati e possono anche rovesciarsi. «Io amo l’ombra come amo la luce», dice il viandante di Nietzsche alla sua ombra: «Perché ci sia bellezza sul volto, chiarezza nel discorso, bontà e saldezza nel carattere, l’ombra è tanto necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: si tengono al contrario amorevolmente per mano, e se la luce sparisce, l’ombra le guizza dietro». (16) In questo senso, l’ombra è necessaria alla visione non meno della luce: un mondo senza contrasti e sfumature sarebbe piatto, uniforme, come mostra tutta la storia della pittura occidentale il cui tratto distintivo è l’«uso della luce e dell’ombra ai fini della resa plastica». (17)

È proprio un mondo come questo che sembra profilarsi nei primi capitoli della Cognizione, soprattutto nelle sequenze che descrivono la passeggiata del dottor Higueróa fino alla casa di Gonzalo, in un abbacinante agosto del 1934. Un mondo piatto, luminosissimo, senza requie e senza ombre, in cui vista e udito vengono sollecitati con persistente violenza. «La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate». Solo il passaggio di una nuvola sospende il nesso sinestetico tra luce e fragore, gettando la sua ombra sugli alberi: allora «il carpino tacque»; «la robinia tacque». Finché, passata la nuvola, «le cicale, risveglie, screziavano di fragore le inezie verdi sotto la dovizie di luce, tutto il cielo della estate crepitava di quello stridìo senza termini, nell’unisono d’una vacanza assordante».

Più avanti, la sinestesia luce-cicale viene modulata su una variazione sonora – il rintocco delle odiate campane – che la dice lunga sulle connotazioni di queste violenze percettive: «Vincendo robinie e cicale, e carpini, e tutto, le matrici del suono si buttarono alla propaganda di sé, tutt’a un tratto: che dirompeva nella cecità infinita della luce. Lo stridere delle bestie di luce venne sommerso in una propagazione di onde di bronzo». E di nuovo, al tacere delle campane, «le cicale gremivano l’immensità, la luce». «Le cicale franàrono nella continuità uguale del tempo, dissero la persistenza: andàvano ai confini dell’estate». (18)

È come se Gadda, pur senza forzare il dato naturale, volesse esasperare i chiaroscuri, evocando uno scenario abbagliante in cui prende rilievo, per contrasto, la figura notturna e malinconica di Gonzalo, un uomo che «vede nero anche il sole» e la cui cupa tristezza è evidente «anche nel sole pieno: nel canto, nella pienezza dolce e distesa della terra» (RR I 645 e 632). La stessa villa, che all’inizio appare «immersa in quella salamoia di cicale e di luce» (RR I 624), è un luogo solitario e oscuro, abbandonato nella notte. È la «casa dei morti» che vedremo nelle sequenze conclusive, quando l’isotopia paesaggistica iniziale (luce-suono-calore) verrà completamente rovesciata nel dilagare delle tenebre e nella lontananza glaciale delle «silenti stelle».

L’aspetto forse più suggestivo di queste notazioni descrittive è l’instabilità assiologica della polarità luce/ombra. L’atmosfera estiva invasa dal sole meridiano, gremita di rumori assordanti, in cui solo l’ombra delle nuvole o degli alberi offre un temporaneo riparo, sembra piuttosto lontana dalle connotazioni positive che la cultura occidentale tende ad assegnare alla luce, tradizionale simbolo del bene, della coscienza, dell’ascesa, irradiazione visibile e incorporea del divino. La luce dell’agosto maradagalese (o brianzolo) ha invece qualcosa di spietato: è violenza, profanazione, stupida ostensione di sé: è uno dei tanti agenti esterni (vento, suoni, animali, ladri, popolo) che minacciano «il recinto idealmente recluso della casa» (Vela 2007a: 110), dove dovrebbero regnare solo ombra, solitudine e silenzio.

Questa «sistemazione umbratile» (Pedriali 2007a: 132) della casa è particolarmente evidente nel sesto capitolo del romanzo, in cui Gadda allestisce una sequenza molto statica e cupa su cui ricama una trama di digressioni e intermezzi satirici. Lo scenario principale è la cucina della villa, un vasto ambiente freddo e inospitale, con suppellettili spoglie e odor di miseria. I due attori in scena sono Gonzalo e la madre, per la prima volta insieme sotto i nostri occhi. Lui è appena rientrato da un viaggio di lavoro e la sua alta figura – lo abbiamo visto – è apparsa all’improvviso nel riquadro luminoso della porta finestra, «come l’ombra di uno sconosciuto». L’incontro tra i due è freddo, silenzioso, in un ambiente oscuro che la madre tenta di rischiarare accendendo la «lucernetta a petrolio», con gesti rigidi e ansiosi che le rendono difficile l’operazione:

Quando la lampada poté rischiarare la stanza, alfine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto dimolto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo. (RR I 685-686)

Poco dopo, mentre Gonzalo sale in camera per cambiarsi, la madre si affanna a preparare la cena: «guardò per la cucina, vuota e fredda, schiuse un’anta della credenza dove l’ombre s’erano addormite su quel po’ di sentor di lardo e d’avanzi» (RR I 688). Tra gesti esitanti «in quel mezzo lume» e pensieri cupi sul figlio («ora ella vedeva il buio di quell’anima», RR I 689 e 690), riesce infine a preparargli una zuppa:

Quando discese, con un libro, la zuppa sembrò attenderlo in tavola, al suo posto, nel cerchio della lucernetta a petrolio: dal di cui tenue dominio il fumo della scodella  a disperdersi nella oscurità, fra i costoloni del soffitto, buia plancia. Le intravature spagnolesche si drappeggiavano di ragnateli, come di vele in riserva, appese, andando per il Mare delle Tenebre.

Quel lumignolo così stanco e dimesso, immobilità chiusa nel suo cilindro di cristallo, sotto al paralume di vetro – (ch’era un cono di una bianchezza opaca d’attorno la meccanica della ghiera trinata) – gli parve essere tutto quello che la madre concedeva: nella casa abitata dal tarlo, nel fondo della campagna solitaria. Era, in ogni modo, tutto quello che il padre e la madre avevano ritenuto bastevole, dopoché utile, alla vita, al progresso, alla felicità dei figli. (RR I 692)

Il brano dimostra per l’ennesima volta, se mai ce ne fosse bisogno, che l’immaginazione di Gadda procede per grovigli, nuclei ossessivi, grumi di immagini e parole che si addensano e si richiamano da un punto all’altro della sua opera. Basta arretrare di qualche pagina, nel quinto capitolo, per vedere la madre nel suo descensus ad inferos nella cantina della casa, mentre accende la fiammella tremolante di una candela e si immerge «nel fondo buio d’ogni memoria»: «nessuno la vide, discesa nella paura, giù, sola, dove il giallore del lucignolo vacillava, smoriva entro l’ombre, dal ripiano della mensola, agonizzando nella sua cera liquefatta» (RR I 675 e 677). Anche dopo, risalita alla luce dopo la fine dell’uragano, la vediamo rievocare «il lento lucignolo delle vigilie» e «il cerchio della lucernetta» al cui chiarore aveva studiato sui classici, intere notti fino all’alba: «pensieri avevano suscitato pensieri, anime avevano suscitato anime. Doloranti patrie le tragittavano verso le prode di conoscenza, navi per il Mare Tenebroso» (RR I 681 e 682).

Mare delle Tenebre, Mare Tenebroso: una variazione grammaticale sullo stesso nucleo archetipico: una probabile reminiscenza della tenebrosa palus virgiliana (19) che diventa figura dell’indistinto, del non organizzato, di quella fluidità indifferenziata in cui la vita e l’identità umana si disperdono, come le forme delle cose al calar della sera. Non a caso, è lo stesso nesso analogico tra ombra ed elemento acquatico che si ritrova in alcuni dei passi più tragici del Pasticciaccio, quando ad esempio Liliana, già nelle clausole del testamento, manifesta «quella voluttà del commiato che subito distingue le coscienze eroiche oltrecché le menti a insaputa loro suicide: quando uno, non anco messosi al viaggio, magari, di già si ritrova con un piede su la battima, alla riviera di tenebra» (RR II 104).

La morte, dice altrove Gadda, «è un perdersi nella casualità oceanica», mentre la vita è un differenziarsi e un convergere di relazioni, una «permanenza caparbia e malvagia del particolare e del singolo», una «reluttanza a smarrirsi verso il buio indistinto» (VM SGF I 581 e 488). Il «rientro nell’indistinto» (20) che per Liliana è l’esito fatale di una psicosi, più che di un brutale omicidio, viene insomma attratto nel campo metaforico dell’ombra, del buio e della tenebra, grandi masse fluide e indifferenziate in cui finirà per naufragare quel fragile grumo di relazioni che chiamiamo vita, identità, coscienza. Non stupisce allora che Ingravallo, nelle ultime pagine del libro, quando mette alle strette Assunta per farla confessare, abbia l’impressione di sentire Liliana che lo chiama disperatamente «dal suo mare d’ombra: con lo stanco volto sbiancato, l’occhio dilatato nel terrore, fermo, per sempre, sui baleni atroci del coltello» (QP RR II 271).

Va detto che il sistema filosofico gaddiano tende a creare una serie di cortocircuiti tra ontologia, gnoseologia ed etica. La regione indifferenziata del «buio indistinto», quell’«Abisso, o Tenebra» (RR II 105) in cui è destinata a precipitare la vita umana, è al tempo stesso la morte e il male, il nulla del non essere e la tenebra del non conosciuto. In questo senso, il domestico Mare delle Tenebre in cui si disperdono i vapori della zuppa di Gonzalo sembra alludere a un’allegoria filosofica della conoscenza. Oltre il cerchio della lucernetta a petrolio c’è infatti il buio del non (ancora) conosciuto: il confine sfumato tra luce e ombra è quel limite, di matrice kantiana, che separa l’essere dal non essere e che riappare spesso nei complessi ricami metaforici della Meditazione milanese:

La verità è che dove non è vita, bisogna crearla: e agli estremi confini dell’essere o conoscenza l’elemento polare […] ha per controelemento il non-essere: (il non vederci più, la tenebra.) […] Il limite […] segna il vanire della realtà nella tenebra. […]

Ipotiposi illustrativa: Nella tenebra di una notte senza stelle sia una lampada generante una quantità di luce gradualmente crescente […] e noi presso la lampada: si formerà d’attorno alla lampada e a noi una sfera di luce entro la quale un certo oggetto p.e. una farfalla ci sarà visibile. […]

Crescendo l’intensità luminosa della lampada, aumenterà se pure di poco l’estensione della sfera […] e, per sfuggire alla nostra vista, la farfalla dovrà allontanarsi. Opure, se vi par più chiaro, riusciremo a vedere un’altra farfalla più lontana della prima supposta ferma, e così di seguito. – Io dico che i limiti della conoscenza attuale umana si comportano come queste farfalle. Cioè la sfera della conoscenza aumenta, aumenta nella tenebra (o, se non aumenta, almeno varia) e così variano i suoi limiti. (21)

Che la luce sia un correlativo metaforico della conoscenza è confermato anche da un appunto sulla Critica della ragion pura: «leggendo questo stupendo Capo I della sezione 9a [della “Dialettica trascendentale”] si ha l’impressione che Kant dica: “La luce del nostro spirito è ciò che libera le forme dalla nera ombra; come un lume vigente nella notte”». (22) È in fondo lo stesso apparato figurale che si ritrova in un’altra famosa immagine della Meditazione milanese, dove però l’ombra non viene associata al campo semantico del liquido e dell’informe ma a quella del solido e del geometrico, secondo quel «parallelepipedismo del mondo reale» evocato già nella Madonna dei Filosofi (RR I 63):

Il filosofo, indagatore ed escogitatore, è e deve essere la ragione pacatamente ed eroicamente integrantesi […] Egli, immerso nella buia notte, cava dall’ombra le cose con il getto luminoso della potente analisi: ivi sono le porte paurose delli anditi neri, e sono immobili e chiuse. […] Ma neri cubi dell’ombra si sfaldano, come blocchi enormi da una rovinosa frana: e appaiono e si creano forme nuove e distinte e concatenazioni infinite nel flusso e nella deformazione infiniti. (SVP 849, cfr. 668 e 845)

Grazie al lavoro del filosofo, conclude Gadda, «la potente analisi à rimosso i cubi neri dell’ombra. Un altro pensiero è nella Mente» (SVP 849). È un’immagine che Roscioni (Roscioni 1995a: 15 ss. – e cfr. Cfr. Gadda 1974a: 417) ha giustamente ricondotto ad alcuni versi di una poesia del 1919, La Sala di basalte, che poi verranno rielaborati nel contesto speculativo della Meditazione: «Così dai neri cubi dell’ombra | il lume cavava le cose | Erano le porte paurose degli anditi neri | Ed erano immobili e chiuse» (Gadda 1993a: 26). Sta di fatto che la dialettica luce/ombra si configura come una lotta tra la forma e l’informe, tra lo sforzo della cognizione e il buio della non conoscenza. Una lotta sempre incerta, aleatoria, in cui la luce può essere il «riflettore spietato dell’analisi» (23) oppure una fiammella assediata dalle tenebre, come la lucernetta di Gonzalo sotto la «buia plancia» del soffitto. E così, si legge già nel Racconto italiano, «un buio mondo si allargherebbe davanti, profondo come l’infinità. L’analisi non sarebbe più che una fievole fiammella, che le falde mostruose dell’ombra premono e vincono» (SVP 536).

Ora, se è vero che Gadda sembra attingere a un repertorio figurale molto collaudato, visto che la luce è un simbolo universale della coscienza, (24) è altrettanto vero che la dialettica luce/ombra si mostra di nuovo nella sua ambivalenza e instabilità. Ne è prova lo sviluppo successivo del sesto capitolo, in cui Gadda accentua ulteriormente i chiaroscuri per delineare uno dei principali assi tematici del romanzo, cioè il contrasto tra la solitudine malinconica dell’ultimo hidalgo e la «pluralità sconcia» (RR I 729) del consorzio umano. È un conflitto plateale, quasi didascalico, affidato soprattutto agli artifici del montaggio e a un’alternanza stridente di scene e piani descrittivi, modulati su diversi registri stilistici e apparati simbolici: da un lato la misera cena di Gonzalo, il senso di cupa tragedia, la tenebra che assedia e minaccia il chiarore della lanterna; d’altro lato, quella che Flaubert chiamerebbe la bêtise dei borghesi del Maradagàl, la satira e il grottesco, un darsi alla pazza gioia tra le luci sfolgoranti dei «restaurants» e degli «Odéons»:

La sarabanda famelica vorticava sotto i globi elettrici dondolati dal pampero, tra miriadi di sifoni di seltz. La luce del mondo capovolto si beveva le sue folle uricemiche, profumieri in balìa del Progreso, uretre livellate dallo seltz. […] E tutti speravano, speravano, giulivi. Ed erano pieni di fiducia. (RR I 693-694)

La furia satirica di queste pagine, la formidabile retorica dell’ira che sembra fondere in una stessa voce i feroci risentimenti di autore e personaggio, si alterna quindi alle pause ritmiche in cui lo sguardo torna ciclicamente allo scenario dimesso della cucina:

Il figlio, all’impiedi, presso la tavola, guardava senza vedere il modesto apparecchio, il poco fumo che ne veniva esalando: mentre la sua vecchia mamma cercava ancora qualche posata, un piatto, un pretesto, dalla credenza dell’armadio di cucina. Era di nuovo inquieta. (RR I 694)

Poi il delirio retorico si scaglia contro i ragazzi, i giovani analfabeti sfornati dalle scuole del Maradagàl, che a dispetto della loro ignoranza «scivolavano felicemente nel mondo»:

Tutti, tutti entravano nella luce: li avvolgeva la luce della vita, versata sulle loro teste unte dai pazienti alternatori della Cordillera. Che ne innaffiano i paradisi di stucco. Tutti, tutti! […] Tutti avevano la loro vita, la loro donna […] Ognuno credeva, realmente, di essere una cosa seria. (RR I 695-696)

Finché, conclusa la sfuriata, la scena torna alla desolazione del presente:

La mamma, ora, dopo essere uscita e rientrata più volte, attendeva ella pure all’impiedi, quasi tremando, le mani ricongiunte sul grembo, che il figliuolo si mettesse a tavola. Ingegnandosi dentro il buio della cucina, dal fondo di un dimenticato vaso la sua speranza tenace era pervenuta a stanare alcuni sottaceti […] Gonzalo seguitava a fissare come un sonnambulo, senza vederli, il servito, la tovaglia, il cerchio della lucernetta sulla tavola. Poco più fumo, oramai, dalla scodella, verso i fastigi della tenebra. (RR I 698-699)

Dallo scenario «umbratile» di villa Pirobutirro, lo spettacolo del mondo esterno appare tanto più idiota e insensato proprio perché avvolto in una luce violenta, uniforme, la luce elettrica che per ironia della sorte proviene indirettamente dallo stesso Gonzalo, ingegnere della «Compañía de Destribución» che passa la vita a distribuire «milioni di kilowattora» alle case e alle fabbriche del Maradagàl. Fulgore, splendore, lucentezza: è un mondo luminoso e senza ombre quello in cui si avventurano «tutti», tra i trucchi e i gioielli e gli abiti da sera e gli ossequi dei camerieri in frac; e tutti sono consideratissimi, si sentono presi sul serio, si rimirano nello specchio delle pupille altrui, perché «a nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri». E certo, conclude sarcasticamente Gadda-Gonzalo: «quella era la vita» (RR I 700 e 701).

Se il centro intorno a cui ruota il romanzo – come ha scritto Benjamin sulla scorta di Lukács – è il «significato della vita», (25) qui Gadda sembra rovesciare l’interrogativo nel suo correlativo tragico, l’esperienza del dolore e della morte, senza i quali però non c’è conoscenza, né senso né dignità umana, ma solo un trionfale abbandono alla «bestiaggine comune» (L’Editore chiede venia, RR I 762). Gli «altri», per Gonzalo, sono uomini senza ombra, immersi nella luce rutilante di una vita fasulla, che vivono nella stupida ostensione di sé e hanno completamente rimosso qualunque consapevolezza interiore. Uomini senz’anima, se vogliamo riprendere l’identificazione tradizionale tra ombra e anima che è alla base di tanti riti, credenze, superstizioni e racconti folclorici o letterari. (26)

Non mi sembra un caso che nella famosa sfuriata contro l’io, «il più lurido di tutti i pronomi», la retorica gaddiana faccia leva su un’antitesi disgiuntiva che contrappone, attraverso la ripetizione dell’«oppure», un io narcisista e priapesco a un io notturno, malinconico, un impresentabile io d’ombra:

«È allora, proprio, in quel preciso momento, che spunta fuori quello sparagone d’un io… pimpante… eretto… impennacchiato di attributi di ogni maniera… paonazzo, e pennuto, e teso, e turgido… […] onusto di chincaglieria e di gusci di arselle come un re negro… oppure», erano arrivati al cantone, abbassò la voce, «… oppure saturnino e alpigiano, con gli occhi incavernati nella diffidenza, con lo sfinctere strozzato dall’avarizia, e rosso dentro l’ombra delle sue lèndini… […] l’io d’ombra, l’animalesco io delle selve…». (RR I 638)

Non ho prove certe per dimostrare che Gadda, soprattutto negli anni di stesura della Cognizione, sapesse qualcosa di Jung, menzionato solo una volta di sfuggita nella dedica degli Anni (1943) (SGF I 277). In generale, la psicologia junghiana penetra molto lentamente in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Trenta e soprattutto dopo il 1942, quando Einaudi pubblica una raccolta di saggi e conferenze – Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna – presente nella biblioteca di Gadda, (27) che peraltro potrebbe avere orecchiato qualcosa anche negli anni precedenti grazie alla mediazione di Bobi Bazlen. (28) In ogni caso, anche in assenza di riscontri diretti, mi sembra innegabile una certa assonanza tra alcune suggestioni figurali della Cognizione e le riflessioni junghiane sull’Ombra, vista innanzitutto come «il lato negativo della personalità», «la metà oscura della personalità del singolo», «la somma delle caratteristiche nascoste, sfavorevoli, delle funzioni sviluppatesi in maniera incompleta e dei contenuti dell’inconscio personale». (29)

Gonzalo – e qui sta la sua tragedia – vive nell’assunzione consapevole del negativo: rivendica come sua condanna, ma anche come scampolo estremo di dignità umana, questo commercio con l’ombra, le tenebre, le zone primordiali e meno presentabili della vita umana. Non dimentichiamo che «il suo male richiede un silenzio tecnico e una solitudine tecnica»: è un male programmaticamente «oscuro», annidato «nelle dilaganti ombre della nevrosi», del tutto «invisibile» agli occhi di quegli spiriti soddisfatti e positivi – come il dottor Higueróa – che vivono solo tra le luci, i suoni e le false parvenze del mondo (RR I 764, 690, 712 e 705). «L’”uomo senz’ombra”», spiega infatti Jung, «è il tipo d’uomo statisticamente più frequente, che vaneggia d’essere soltanto ciò che preferisce sapere di sé». (30)

Viceversa, la malinconia «corrisponde psicologicamente all’incontro con l’Ombra», (31) una diagnosi che sembra trovare riscontro anche in altre figure di malinconici gaddiani, come l’ingegner Baronfo della Madonna dei filosofi, per il quale tutto era «ombra o tortura» (RR I 87), o come Elsa dell’Adalgisa, che soffre di «un male sconosciuto e remoto: presagi, rimpianti: come il ricordo d’una irripetibile gioia del vivere, d’una luce, che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre». (32) È il prezzo da pagare per essere uomini completi – anche se lacerati – e non «manichini ossibuchivori» che ostentano la propria ridicola gloria sotto le luci dei ristoranti (RR I 701). «Un oscuro presentimento – scrive ancora Jung – ci dice che senza questo lato negativo siamo incompleti, che abbiamo un corpo il quale, come ogni corpo, getta inevitabilmente un’ombra, e che se rifiutiamo questo corpo non siamo tridimensionali, bensì piatti e inconsistenti» (Jung 1983: 30). In altri termini, e con un paradosso solo apparente, «non si può alla lunga rinunciare alla propria Ombra, a meno che non si voglia vivere eternamente al buio». (33)

3. Umbra profunda

In effetti, tutto si può dire di Gonzalo tranne che abbia voluto sfuggire l’incontro con l’Ombra, il riconoscimento e la possibile integrazione del suo «male oscuro». Già in Tendo al mio fine, Gadda cita una famosa espressione di Giordano Bruno e rivendica – come farà poi Gonzalo – «le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore» (CdD RR I 704):

«Umbra profunda!», diceva di sé l’Arrostito. […] Quella che le cantatrici e i loro aiuti sogliono chiamare la vita è stata per me una immonda prigione: la mia giovinezza, secondo il detto del poeta, una tenebrosa tempesta; e quello che sogliono chiamare il bene, è stato il muro del carcere e la bontà della tomba. (CdU RR I 119)

Non per niente, Umbra profunda sumus è il motto che Gadda, autonominatosi «Principe dell’Analisi e Duca della Buona Cognizione», vorrebbe incidere su ogni oggetto e arredo dell’ideale «fortezza» descritta nel bozzetto incompiuto La casa (RR II 1124-1130). In questo senso, la dialettica luce/ombra gli fornisce un efficace correlativo simbolico della sua concezione della vita e della morte, che non si contrappongono come termini antinomici ma danno vita a un’instabile, reversibile «tensione polare» (Bertoni 2007: 110-125). Ed è soprattutto per questo legame con la morte che l’evocazione dell’ombra (o della tenebra) sembra accordare fatalmente la scrittura su un registro tragico, sia pure un tragico spurio e degradato, come quello che risuona già nelle parole di Macbeth:

Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow,
Creeps in this petty pace from day to day,
To the last syllable of recorded time;
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing. (Macbeth, V, 5, 19-28)

La madre stessa, in una sequenza del romanzo fittamente intessuta di risonanze shakespeariane, è già un’ombra che cammina. Nel quinto capitolo, aperto dalla triplice anafora «vagava nella casa», l’ombra e le sue varianti lessicali (buio, tenebra, notte, nero, ecc.) funzionano infatti come segnale e dispositivo del tragico. La prima immagine è il ricordo della morte del figlio minore, quando «la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare». Anche i tentativi di aprire le finestre per fare entrare la luce si rivelano inutili: «Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio?». Non a caso, l’arrivo del temporale che la costringe a rifugiarsi in cantina, «verso il buio e l’umidore del fondo», è annunciato da un dilagare dell’ombra:

Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talora delle sue cupe nuvole, che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente. […] Quella minaccia la feriva nel profondo. Era l’urto, era lo scherno di forze o esseri non conosciuti, e tuttavia inesorabili alla persecuzione: il male che risorge ancora, ancora e sempre, dopo i chiari mattini della speranza. (RR I 673 e 674)

Inizia così – come accennavo prima – la sua domestica nekyia, la discesa in un luogo che è al tempo stesso il «fondo buio delle scale» e il «fondo buio d’ogni memoria», il «sottoscala» della villa e il cuore di tenebra della sua «solitudine ultima», se è vero che la cantina – come ha scritto Bachelard sulla scorta di Jung – è «l’essere oscuro della casa, l’essere che partecipa delle potenze sotterranee». (34) È un movimento interiore che ricorda quello di un’altra memorabile madre, la Mrs Ramsay di Virginia Woolf, che aspetta il crepuscolo sul mare per raccogliersi in se stessa,

in a wedge-shaped core of darkness, something invisible to others. […] one after another, she, Lily, Augustus Carmichael, must feel our apparitions, the things you know us by, are simply childish. Beneath it is all dark, it is all spreading, it is unfathomably deep; but now and again we rise to the surface and that is what you see us by. (35)

Anche la madre della Cognizione, alla fine, riesce a risalire faticosamente verso la luce, dopo avere subito le insidie della tenebra malamente rischiarata dal lucignolo della candela. «Il volto, a stento, emergeva dalla fascia tenebrosa […] Quel viso, come spetro, si rivolgeva dal buio sottoterra alla società superna dei viventi, forse immaginava senza sperarlo il soccorso, la parola di un uomo, di un figlio». È proprio il pensiero del figlio che la richiama verso l’alto, «quasi che la società degli uomini ricostituita le riapparisse dopo notte lunga»:

Questo nome le si posò lieve sull’animo: e fu cara parvenza, suggerimento quasi di mattino e di sogno, un’ala che trasvolasse, una luce. […] A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; […] ceri, per lui, non eran scemati d’altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. (RR I 677-678)

Eppure, nemmeno l’idea di questa «continuità che s’adempie» riesce a strapparla davvero allo spazio della morte, come se tutto l’episodio fosse una prefigurazione inesorabile del suo destino, che si compirà nell’ultima notte del romanzo:

Se il suo pensiero discendeva, dal ricordo di quei due bimbi, agli anni vicini, all’oggi… le pareva che la crudeltà fosse troppa: simile, ferocemente, a scherno.

Perché? Perché? Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito dell’anima era più possibile: forse ella non era più la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato, lontano: non era più persona, ma ombra. (RR I 680 e 683)

In generale, nella «casa dei morti» di Lukones tutto sembra tendere al proprio, inevitabile fine. I volti dei defunti – fratello e padre – ostentano la propria assenza nelle immagini ingiallite dei ritratti, fissate in quel nesso fantasmatico con la morte in cui Barthes ha visto «il noema della fotografia», (36) mentre i due sopravvissuti che si aggirano per casa sono già, appunto, walking shadows. Ci sono peraltro notevoli assonanze, come ha notato Maria Antonietta Terzoli, tra questi motivi del romanzo e alcune note di Gadda su una poesia di Ugo Betti, La casa morta: «Nell’ombra, soltanto, gli occhi dei ritratti, che fanno paura: nei vecchi quadri le mani gialle dei morti, che sembrano chiamare dal fondo tenebroso delle tele» («Il re pensieroso» di Ugo Betti, SGF I 675 – cfr. Terzoli 2009: 73).

Perfino le sfuriate di Gonzalo contro le grottesche invasioni della folla, le sue invettive contro popolo, pulci, donnette, pesci marci, zoccoli del peone e piscio del cane del Poronga, finiscono per sublimarsi in un registro solenne e tragico, al pensiero dell’ombra che inghiottirà tutto e in cui tutti non saranno altro che ombre: «le loro anime dovevano, sole, aspettare come il ritorno di qualcheduno, negli anni… di qualcheduno che non aveva potuto finire… finire gli studî… O forse aspettavano soltanto il volo del gentile angelo modellato dalla notte, dalle palpebre mute, dalle ali d’ombra…». Gonzalo sapeva che «in fondo, in fondo a tutto, c’era, che lo aspettava, il viale coi pioppi, […] dove gli scarafaggioni elettrificati ci scivolavano sopra in silenzio che parevano nere ombre già loro, con bauli argentati, trapezoidali» (RR I 729 e 730).

Sono momenti – lo abbiamo visto in varie occasioni – in cui il cerchio della rappresentazione tende a trascendere il piano limitato dei personaggi e delle loro vicende per dilatarsi a un orizzonte più vasto, quasi metafisico, in cui gli esseri umani sono preda di forze oscure e potenze primordiali. In effetti, le molteplici figurazioni d’ombra della Cognizione sembrano oscillare tra una dimensione individuale e una dimensione universale, tra la nevrosi del singolo e il problema del male, tra l’Io d’ombra di Gonzalo e il Mare delle Tenebre in cui naviga il bateau ivre della conoscenza. In questo senso, trovo un’ulteriore coincidenza nel fatto che Jung abbia visto nell’Ombra sia una figura dell’inconscio personale, cioè la parte oscura del Sé, sia «una figura numinosa collettiva» che «appartiene al regno dei fantasmi incorporei» (Jung 1997: IX.1, 254; IX.2, 30). Secondo Mario Trevi, «da un’accezione meramente psicologica, riscontrabile nelle prime opere di Jung, in cui l’Ombra coincide, pressappoco, con il concetto di inconscio personale, si passa gradatamente a un’interpretazione sempre più ricca e complessa di significazioni metapsicologiche, fino a culminare nella problematica del male». (37) A livello mitologico, aggiunge Jung, l’Ombra è «il rappresentante avverso del tenebroso mondo ctonio, una figura le cui caratteristiche sono universali» (Jung 1997: IX.2, 33).

Non vorrei forzare troppo l’interpretazione in questa chiave, soprattutto in assenza di riscontri documentati. Eppure, credo che alcuni nodi cruciali del romanzo – soprattutto quelli a più alta tensione tragica – ubbidiscano a suggestioni di questo tipo, come se Gadda avesse caricato l’ombra di connotazioni e risonanze mitico-simboliche che giungono da lontano. Tutta l’elaborata messa in scena del sogno di Gonzalo, ad esempio, segna un innalzamento stilistico e una tensione figurativa che dilata lo scenario onirico e i suoi attori (l’io del sognatore, la madre, la casa) a una dimensione sovrapersonale, quasi cosmica, che ingigantisce e schiaccia al tempo stesso. Il tempo del sogno non è una semplice notte ma «una sera spaventosa, eterna», in cui «tutte le anime erano lontane come frantumi di mondi; […] esuli senza carità da noi nella disperata notte». Lo spazio è quello di una «casa deserta, vuotata dalle anime».

E gli attori in scena non sono esseri umani ma sembrano piuttosto immagini archetipiche, figure e apparizioni del tenebroso mondo ctonio. Prima la «figura di tenebra», «nera, muta, altissima», che si erge su questo metafisico terrazzo «al di là d’ogni dimensione, d’ogni tempo». Poi la «forza orribile e sopraumana» che la schiaccia come il coperchio di una tomba, una forza «nera» e «ineluttabile» che – commenta disperato Gonzalo - «era sorta in me, da me!... E io rimanevo solo. Con gli atti… scritture di ombra… le ricevute… nella casa vuotata dalle anime… Ogni mora aveva raggiunto il tempo, il tempo dissolto» (RR I 632-633).

Non c’è da stupirsi, allora, se la responsabilità dell’aggressione finale viene in qualche modo sottratta al novero delle azioni umane (e dunque alla giurisdizione di un improbabile romanzo giallo) e attribuita a una forza impersonale, ineluttabile, «una cagione malvagia operante nella assurdità della notte», proprio come l’omicidio di Liliana, anch’esso senza colpevole, viene addebitato alla «insospettata ferocia delle cose» (RR I 754 e RR II 68). Né c’è da stupirsi che «l’ombra nera e muta» da cui siamo partiti faccia saltare in aria la coerenza testuale, il tessuto stilistico circostante e la gestione rigorosa del punto di vista.

Anch’essa forse, come nei sogni, è una sorta di figura composta, una formazione di compromesso tra lo sguardo dei personaggi e quello dell’autore, tra le esigenze della trama e le derive della scrittura, un punto di condensazione simbolica in cui convergono e transitano immagini di grande potenza emotiva: le apparizioni, il male oscuro, la madre-ombra, la figura di tenebra, la forza nera, la cagione malvagia e in complesso tutta la fantasmagoria di ombre che danzano sullo schermo del romanzo. Una figura ambivalente, portatrice e vittima della morte, al tempo stesso artefice e vittima del male, che può rimandare sia all’immagine ctonia della Madre che all’Ombra esteriorizzata di Gonzalo, pronta ad abbattersi come il coperchio di una tomba. Finché, al termine della notte, il ciclo si chiude (o si riapre): il tempo disegna le sue vaste campiture e il canto del gallo suscita l’alba dai monti lontani, «nella solitudine della campagna apparita».

Università di Bologna

Note

1. RR I 714. Su questa «antinomia figurale» v. Bonifacino 2002a: 232 e 2006a: 99.

2. Concordo su tutta la linea con le osservazioni di Maria Antonietta Terzoli, secondo la quale «del giallo la Cognizione [ha] davvero ben poco» (Terzoli 2009: 63). Sul tragico in Gadda cfr., tra gli altri, anche Luperini 1990: 271 ss.; Stellardi 2006: 99 ss.; Savettieri 2008a: 139 ss.

3. Cfr. H. James, The Prefaces to the New York Edition; trad. it. Le prefazioni, a cura di A. Lombardo (Roma: Editori Riuniti, 1986), 368.

4. Cfr. RR I 633, SGF I 338 e RR II 696. Per questi aspetti rimando a Bertoni 2001: 125-136. Maria Antonietta Terzoli ha suggerito un legame tra il materiale onirico allestito da Gadda e una delle foto della villa di Longone, «in cui spicca una figura femminile sul terrazzo: fissata in una certa luttuosa immobilità, interamente vestita di scuro, forse di nero, con un volto sfuocato, non riconoscibile» (Terzoli 2005: 11).

5. RR I 685. Sui nessi intertestuali tra questo brano e alcuni versi di Ugo Betti («S’apre la porta… ma uno solo appare! | Uno solo nell’ombra è venuto. | Uno pallido, vestito di velluto. | E tutte l’ombre sono ritornate | Caute, sull’orme dello sconosciuto…»), si vedano i precisi riscontri in Terzoli 2009: 72. Vale anche la pena di notare, in rapporto a una stesura preliminare, le variazioni ottiche apportate da Gadda. In una prima fase, la madre non riesce a vedere il volto di Gonzalo per mancanza di luce («lo scorse, ma non poté vederne il viso, nella oscurità della sera»: Gadda 2004a: 11), mentre nella redazione definitiva viene coperta dal cono d’ombra proiettato dalla figura del figlio, che si staglia nel «rettangolo di luce» della porta-finestra.

6. RR I 722. Il corsivo è mio. In questo caso, la coppia di aggettivi «nero e improvviso» sembra condensare sull’asse sintagmatico due qualità della precedente apparizione di Gonzalo che Gadda, tra una stesura e l’altra, aveva giocato sull’asse paradigmatico. Leggiamo infatti nella redazione preliminare già citata: «l’alta figura di lui si disegnò improvvisa [anziché nera] nel vano della porta, come l’ombra di uno sconosciuto» (Gadda 2004a: 11).

7. RR I 725. Il corsivo è mio. Sui rapporti tra questi brani cfr. anche Terzoli 2005: 9.

8. SVP 447. Cfr. anche RR I 653. Come sottolinea Stellardi (2007a: nota 8), il riferimento a Orazio (Epistole, Libro I, II, v. 33) corrisponde per Gadda «a un fantasma persistente».

9. RR I 652. Si veda inoltre un passo successivo, durante il temporale: «I gatti […] erano penetrati nella casa, per dove loro solo entrano: vellutate presenze l’affisavano dalla metà delle scale, con occhi nella oscurità come topazi» (RR I 678). Anche in un brano dell’Adalgisa i gatti sono «vellutate ombre» (RR I 328).

10. W. Faulkner, The Sound and the Fury (Londra: Vintage Books, 1995), 75.

11. M. Lavagetto, La macchina dell’errore. Storia di una lettura (Torino: Einaudi, 1996), 168.

12. Cfr. M. Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi (Torino: Bollati Boringhieri, 2003), 23.

13. P.P. Pasolini, Un passo di Gadda, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude (Milano: Mondadori, 1999), 2402-2403. Si veda anche Savettieri 2008a: 160.

14. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna (prima ed. 1942; Torino: Einaudi, 1971), 49.

15. R. Casati, La scoperta dell’ombra (Roma-Bari: Laterza, 2008), 78.

16. F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches; trad. it. Umano troppo umano, II (Milano: Adelphi, 1981), 133-134. Si veda anche il paragrafo intitolato L’ombra in Also sprach Zarathustra; trad. it. Così parlò Zarathustra (Milano: Adelphi, 1976), 316-319.

17. E.H. Gombrich, Shadows. The Depiction of Cast Shadows in Western Art; trad. it. Ombre. La rappresentazione dell’ombra portata nell’arte occidentale (Torino: Einaudi, 1996), 16. Sull’ombra in pittura si veda anche il fondamentale V.I. Stoichita, A Short History of the Shadow; trad. it. Breve storia dell’ombra (Milano: Il Saggiatore, 2000).

18. RR I 606, 608, 612-13, 625, 628 e 633. Sul motivo delle cicale cfr. Vela 2007a.

19. Cfr. Eneide, Libro VI, v. 107. Sul rapporto con gli autori latini cfr. Martinelli 2004.

20. Cfr. RR II 105. Si veda anche Meditazione milanese, SVP 640.

21. SVP 698, 699 e 700. Gadda accompagna l’esempio con uno schema a cerchi concentrici. Si veda anche, sempre nella Cognizione, il passo in cui i due cugini «si accostarono alla porta-finestra, vi gettarono i cerchi-luce delle lampadine. […] Essi guardarono quell’interno con una curiosità stupita, come due fanciulli che osservino, traverso l’apertura chirurgica, l’interno misterioso di un organismo» (RR I 746). Su questi problemi ho trovato alcune suggestioni interessanti nella tesi di dottorato di Gianmaria Merenda, Carlo Emilio Gadda: Fine dell’illusione di controllo, discussa presso l’Università di Bergamo nell’aprile del 2010.

22. Il brano è citato da Roscioni nelle note alla sua edizione della Meditazione milanese, Gadda 1974a: 417.

23. È un’espressione che Gadda utilizza a proposito di Freud: cfr. I viaggi la morte, SGF I 460.

24. Cfr. E. Neumann, The Origins and History of Consciousness (Princeton: Princeton University Press, 1973), 104.

25. W. Benjamin, Der Erzähler; trad. it. Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi (Torino: Einaudi, 1995), 264.

26. Cfr. J.G. Frazer, The Golden Bough; trad. it. Il ramo d’oro (Roma: Newton Compton, 1992), 228-232.

27. La notizia è riferita da Ferdinando Amigoni (1995a: 12 n.), anche se il titolo non compare nel catalogo del Fondo Gadda alla Biblioteca del Burcardo (cfr. Cortellessa-Patrizi 2001a).

28. Cfr. A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana (Roma: Astrolabio, 1977).

29. C.G. Jung, Aion. Beiträge zur Symbolik der Selbst; trad. it. Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, in Opere, IX/2 (Torino: Bollati Boringhieri, 1997), 10; Die Archetypen und das kollektive Unbewusste; trad. it. Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere, IX/1 (Torino: Bollati Boringhieri, 1997), 236; Über die Psychologie des Unbewussten; trad. it. Psicologia dell’inconscio, in Opere, VII (Torino: Bollati Boringhieri, 1983), 67 n.

30. C.G. Jung, Theoretische Uberlegungen zum Wesen des Psychischen; trad. it. Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere, VIII (Torino: Bollati Boringhieri, 1976), 225.

31. C.G. Jung, Psychologie und Alchemie; trad. it. Psicologia e alchimia, in Opere, XIV (Torino: Bollati Boringhieri, 1992), 40.

32. RR I 499. Si veda anche un passo successivo, in cui Elsa osserva con mesta invidia la vitalità prorompente dell’Adalgisa: «”Tu hai i figlioli… i tuoi figlioli…”: e li guardò sorridendo, poveri nasoni: e chinò il capo nell’ombra» (RR I 528). Sulla malinconia in Gadda cfr. soprattutto Leucadi 2000.

33. C.G. Jung, Zur gegenwärtigen Lage der Psychotherapie; trad. it. Situazione attuale della psicoterapia, in Opere, X (Torino: Bollati Boringhieri, 1985), 241-242.

34. G. Bachelard, La Poétique de l’espace (Paris: Presses Universitaires de France, 1957), 18 e 35. Su questi aspetti si vedano anche Lorenzini 1999: 145 e Bertoni 2001: 255-258.

35. V. Woolf, To the Lighthouse (Oxford: Oxford University Press, 2006), 52-53.

36. Cfr. R. Barthes, La Chambre claire. Note sur la photographie; trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia (Torino: Einaudi, 2003). Sul rapporto tra morte e fotografia nella Cognizione, cfr. soprattutto Terzoli 2005: 14 ss.

37. M. Trevi e A. Romano, Studi sull’ombra (Milano: Raffaello Cortina, 2009), 5.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1

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