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Sinfonia del destino. Guerra e verità in Gadda, «reduce senza endecasillabi»
Giuseppe Bonifacino
Tutto ha congiurato contro la mia grandezza – Gadda, Vita notata, 10 settembre 1919
Che nella esperienza di guerra del giovane Gadda, interventista convinto e «impetuoso» (Bertone 1993: 41, passim 35-54), in uno col viatico protettivo del culto delle memorie e degli affetti familiari, agisse come un imprescrittibile riferimento ideale la tradizione risorgimentalista assai viva nella sua famiglia, appunto (1) – in un nesso che li stringeva, come aspetti costitutivamente complementari, in quanto depositi di valore intrinseci alla matrice borghese lombarda della sua educazione etico-intellettuale –, è un dato presto acquisito – nella sua portata fondativa – dalla critica. Un dato – in quanto premessa ideologica o, più latamente, presupposto ideale, e comunque chiave privilegiata di accesso alla ricerca e alla formazione di sé – di cui facilmente si rileva, nella vicissitudine identitaria a doppio registro (letterario ed empirico) del Gadda militare, la costante immanenza, non solo perché necessaria eco, o riflesso, di una passione patriottica (2) comune a tanta gioventù intellettuale in quell’immediato anteguerra (Bertone 2010: 3-7), ma anche per i suoi diffusi affioramenti nelle pagine del tormentato Giornale bellico del Gaddus. (3) Ma l’organico legame valoriale che stringeva microcosmo familiare e ideale patriottico risultava poi dichiarato esplicitamente ed esemplarmente, con orgoglioso ressentiment autobiografico, in quella tra le sue prose memorialistiche, Impossibilità di un diario di guerra, (4) più direttamente e con più insistenza impegnata a denunciare – nei modi di un’inflessione amaramente autoironica, e di una dolente torsione antifrastica (5) – la radicale diversità ideologico-morale di quella ardua e impietosa ritrascrizione diaristica di una fallita ricerca di gloria bellica, scandita da un paradossale Leitmotiv, «etico prima che estetico» (Cortellessa 1995, 117-37: 117), quello della impossibilità («della narrabilità dell’esperienza di guerra» – Bertone 2009: 1-3) che lì designava, insieme, la scandalosa ripulsa di un sublime – di una ottativa e mendace dignificazione dell’esperienza individuale – miseramente deturpato e negato dalla vicenda storica realmente vissuta, e la sua riaffermata irrinunciabilità, la sua inestinguibile rivendicazione o evocazione retorica, in quanto presupposto, ed estremo orizzonte, di senso e valore (Gorni 1995, in Terzoli 1995a: 149-78, in part. 152 sgg.):
Né vorrei m’incolpassero di farmi azzimato per il fotografo e di propagandare le glorie della famiglia, se dirò pudicamente che de’ due rami ebbi consanguinei i quali furono ministri zelantissimi dello Stato italiano, ed altri dal cuore capace di rinuncia e di sacrificio per la buona attuazione dell’idea italiana. […]Nello spasmo meditativo e/o polemico del Gadda memorialista militare spiccava dunque, in quanto patrimonio ricevuto e vissuto come inscindibilmente legato alla sua stessa tradizione familiare, il valore ideale – il suo assetto nobilmente e inevitabilmente retorico, colmo di autenticità etica e di resistente continuità identitaria – a cui, ancora studente e non ancora scrittore, egli ispirava la sua opzione bellicista, peraltro giammai denegata, (6) a confermare la sua (certo in larga parte eccentrica, ma) omogenea appartenenza alla «generazione di intellettuali nati fra il 1880 e il 1895 – quella di Gramsci, Jahier, Rebora, Borgese, Ungaretti, Saba», che conservava «un bagaglio etico-politico, si confronta[va] con maestri […] legati alla tradizione risorgimentale, difende[va] valori ancora patriottici e comunque nazionali». (7)Il Regno d’Italia, per i miei, era una cosa viva e verace; che valeva la pena di servirlo e tenerlo su: se pur movesse allo scherno i legittimisti francesi, la nobiltà romana a una musoneria tanto più decorosa quanto tutt’altro che pericolosa, e a tracotante alterigia lo imperatore cordaiolo ed i suoi, che Dio lo faccia rosolare ben bene.
Questi accenni per spiegare le cose: per isolare il germine, forse, della mia retorica patriottarda e militaresca: della quale non mi purgò la guerra, né il dopoguerra, né l’ora che volge. (RR I 141-42 – miei corsivi)
Per contro, solo qualche anno prima della Grande Guerra, rivolgendosi alla sua maschera poetologica ironicamente blasé, Guido Gozzano, facendosi interprete di un inaridimento ideale invero peculiare della sua declinazione della crisi modernista, aveva esclamato: «La Patria? Dio? L’Umanità? Parole | che i retori t’han fatto nauseose!»: (8) esibendo, così, la propria estraneità, sterile e senza compenso, alla frusta quanto abusata protrazione retorica dei valori che avevano, negli artifici di una convenzione svuotata ed esausta, informato la minacciata e ormai logora funzione etico-pedagogica della poesia, e garantito il multanime protagonismo del Vate demandato a tramandarli e celebrarli. Quei valori («miti romantico-risorgimentali di cui» lo smagato poeta«celebra[va] il lutto») (9) non parevano ormai, alla nichilistica chiaroveggenza dell’autore dei Colloqui, che parole irricevibili, consunte dallo sperpero che i retori ne avevano perpetrato, nel panorama deserto di certezze ideali di una modernità letteraria già assediata dagli spettri della merce.
E però, come si sa, quelle parole vocate a sublimare e traslitterare in facile e vieto idealismo il senso comune che le banalizzava – il loro assemblaggio, ormai enfatico e inoperante per il malinconico e traslucido disincanto gozzaniano – serbavano ancora, invece, una non residuale ma intensa e agonistica spinta verso l’inveramento storico del Valore (l’onda lunga di un progetto di identità) per tanta gioventù intellettuale appartenente ai diversi strati del ceto borghese e omologata del tradizionale retaggio ideale della sua formazione. (10) E certo l’idea di patria manteneva una sacrale e attiva pregnanza per il giovane Gadda, cresciuto con le misure rigorose e gli indefettibili slanci ideali premodernisti di un umanesimo retorico-morale accepito e serrato tra l’orgoglio e le ombre dell’universo familiare (11) (come, fatta salva la diversa o inversa dedizione allo studio, un Gigi in casa Brocchi, ma senza il paradossale approdo liberatorio alla compensativa epifania vitalistica della Jole – Godioli 2007), e per questo, come si è già detto, educato al culto di una storia risorgimentale che, proprio perché incompiuta, in quanto modello portatore di progetto, di una intermessa istanza di sviluppo, sollecitava la riattivazione, nel presente, del corpus ideologico che l’aveva animata e interpretata. Non per caso, infatti, in una pagina dell’ultimo giorno dell’anno 1917, tra le più terse e amare della sua desolata notazione della prigionia – dopo la rotta di Caporetto, catastrofe storica percepita e vissuta anche come irrisarcibile umiliazione individuale (Guglielminetti 1994: 81-96; Manica 2006: 219-37), e presto assunta come cifra di destino –, egli, nel ribadito ossequio alla coppia genetica del suo ethos, si augurava di poter tornare «al lavoro e al pensiero», per dedicarli «alla famiglia e alla patria, e a tutta l’umanità» (GGP SGF II 693).
L’interventismo di Gadda, ben altrimenti che quello di tanti intellettuali già partecipi – come ha doviziosamente mostrato Andrea Cortellessa – della «grande accelerazione estetica» e ideologica della modernità, (12) nasceva (paradossalmente ma poi produttivamente differenziandosene) come un’opzione sostanzialmente rètro: alimentata com’era da un fervido razionalismo etico di matrice lombarda e di ascendenza illuministico-risorgimentale, e sedimentata entro un apparato culturale rigoroso ma attardato, che integrava una formazione letteraria da ottimo liceista, appassionato (e fantasticante) lettore dei commentari di Cesare, con una impronta scientifica da solerte studente politecnico, suggestionato dagli acquisti del positivismo tardo-ottocentesco, ma non estraneo alla diffusa ammirazione generazionale per certe imprese, e pose, dannunziane, quali esempi di un protagonismo estetico-militare in cui identificarsi e dignificarsi. (13)
Tra gli schematismi e le postulazioni ordinatrici di quel suo razionalismo lombardo a fondo più ingegneresco che cattaneano, e l’afflato di una nobile e un po’ vieta apologetica risorgimentalista, il giovane Gadda si volgeva entusiasticamente all’avventura della guerra animato – come lui stesso avrà modo di osservare, un decennio più tardi – da un «estetismo militaresco e stendhaliano» (Gadda 2006b: 45) che lo accendeva di ambizioni e di sogni («Noi del Politecnico aneliamo alla gloria», recitava, infatti, l’incipit della lettera interventista del 21 maggio del ’15 indirizzata nientemeno che al Vate, con le firme di Gadda e di due suoi compagni di studio e di passioni ideali), (14) tra gli impulsi dell’ora presente e la modellistica letteraria e morale ricevuta dai libri degli storici latini (Narducci 2003: 77 sgg.; sul culto di Roma, v. Bertone 2004a), che, tra ricezione epicizzante e nobile retorica, ne promuovevano, e in certo senso garantivano, il vagheggiamento di una «vivente patria»: (15) di un organismo ideale che incontrasse infine il reale necessario a renderlo vero. E di un tempo storico remoto e perfetto, ma rinnovato e adempiuto in un presente illuminato da una ipostasi etico-politica custodita e garantita dalla verità estetico-morale della letteratura.
Gadda, la cui inclinazione letteraria permaneva, se pur già limpida e consapevole, comunque larvale e rinviata, aveva scelto la guerra per costruirvi nella coscienza, o trovarvi nell’azione, cioè per inventarvi, con le marche di autenticità dell’esperienza e del Valore, la propria identità intellettuale e sociale, contribuendo a restituire alla Patria la sua «giusta grandezza, la sua forma pura ed immune» – come avrebbe ancora auspicato, pur esclùsone (16) ormai per la sua condizione di prigioniero, nell’amarissimo bilancio della sua fallimentare avventura bellica consegnato a una dolorosa pagina delle Note autobiografiche redatte in Cellelager (5 maggio 1918, GGP SGF II 780). Aveva scelto la guerra senza intenti di superfetazione retorica, ma vedendola e vivendola con una percezione, e una sedimentazione, fortemente letteraria perché cercava in essa una forma del mondo – di quei valori, minacciati o perenti, che egli riteneva, invece, di poter restaurare e attuare – e di sé, della propria nascente vocazione autoriale, della propria presenza relazionale nello spazio onnivolgente della società e nel tempo grande della Storia: (17) che doveva sembrargli infine prossimo alla sua epifania.
Cercava, in un impegno pragmatico denso di nutrimento ideologico, una sintesi concreta tra la propria soggettività e il processo storico immanente di cui si sentiva, e si voleva, partecipe. E la cercava, ça va sans dire, con gli strumenti culturali di necessità acerbi e datati di cui disponeva: un classicismo di ascendenza liceale, una Ragione di marca politecnica, tutta lombardamente rivolta ad un pragma inscindibile dall’etica (e però a sua volta imprescindibile da questa), e una sensibilità sollecitata in profondo da miti e modelli invero comuni nella educazione intellettuale di un giovane del suo ceto, come l’amato Beethoven, (18) dal quale lo scrittore in fieri traeva, se non un vero e proprio paradigma estetico, certo un esempio di portata decisiva nella aurorale e ingenua gestazione della sua poetica: quello – non esente, peraltro, dalle seduttive suggestioni dannunziane del romanzo poematico – della sinfonia: (19) vale a dire di una tessitura multiprospettica e pluritonale – ma di ambizione costruttiva e armonica – della rappresentazione del mondo, entro cui far convergere – e ottocentescamente comporre, come un Manzoni o un Balzac – ragione e morale, percezione e riflessione, simbolo e documento, cronaca e commento, lirica e narrazione, immagine e racconto.
Il Giornale di guerra, che Gadda prende a redigere «addirittura in buona copia, come vien viene» (SGF II 443) appena arruolato, per affidarvi «il resoconto di una campagna militare scritto con il tono dell’amato De bello gallico» (Bersani 2003: 12), costituisce la mappa – il deposito di temi, non ancora la partitura – di questo percorso, il precipitato testuale di una quête già in sé disposta alla restituzione della vita del combattente in cifra letteraria (Terzoli 2009: 15-31): non solo negli intenti dell’austero – e una volta pure goliardico (20) – diarista, impegnato ad archiviare la sua guerra nella presa diretta di una scrittura senza il diaframma – protettivo o espropriante – dello scarto temporale dal suo oggetto, ma, al contrario, vissuta e, per così dire, agìta in quanto scrigno dell’esperienza, sua immediata registrazione, non sottoposta ai filtri di sedimentate strategie espressive o ragioni di poetica: nudo e libero schermo delle immagini di una esistenza privata – della sua accidentalità in cerca di Forma – che – soggettività altrimenti inavvertita – trascorre nell’attesa di incontrare il valore e il destino, e di provare a comporne il senso e fissarne la fabula in un progetto di totalità armonica: proprio a seguire – di fatto, a banalizzare – il modello di una beethoveniana sinfonia. Per questo le pagine del diario scandiscono il volgere amorfo di un tempo individuale senza luce di gesta che lo inscrivano e saldino entro quello della Grande Storia, segnandone con schivo o turbato rigore il nudo ritmo fenomenico, inseguendovi l’atteso evento glorioso e insieme circoscrivendo, nella puntuale cattura del dato, lo spazio di un’attesa percorsa da appassionate ambizioni ma non protetta da epifaniche garanzie.
2. Ma se (lungo un asse parallelo e sovrastante al binomio sinonimico di pasticcio e disordine, (21) riflesso in metafora di una ripulsa innanzitutto etica del caos fenomenico poi nevroticamente affabulata nella maturità) parole come patria e famiglia si accampano iteratamente, con diffuse e spesso intrecciate o contigue (e comunque pregnanti) occorrenze, (22) nelle pagine redatte dal volontario in attesa della gloria, vi è un’altra parola tematica, tendenzialmente implicita quanto, in sostanza, pervasiva, che sottende ed innerva la scrittura gaddiana della guerra (nella duplice accezione del genitivo), quasi a solcarla di uno stigma ottativo, del bagliore di un’attesa gravida di promesse identitarie e riserve valoriali: ed è la parola destino, tragica figure in the carpet nel Giornale del Gaddus. Essa affiora esplicitamente, con amara insistenza, in una pagina del 25 ottobre 1916, dove l’interventista deluso dalla mancata partenza per il fronte, e impedito, così, a riscattare eticamente la propria insignificanza (la incolmata carenza di identità e di senso), traccia un frustrato bilancio della propria condizione militare ed esistenziale:
Intanto il mio triste, nebuloso, schiacciante destino mi ha ripiombato nella mediocrità della vita, anche sotto le armi. […] vi è solo il desiderio di fare, di fare qualche cosa per questa porca patria, di elevarmi nella azione, di nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me. (SGF II 644-45 – miei corsivi)
Ma vi è di più: quella parola (nell’ambivalente tenore semantico che le pertiene) risulterà, a ben guardare, allusivamente quanto costantemente presente nel modo stesso in cui Gadda registrava e pensava la (sua) guerra, quasi un sommesso e però ossedente Leitmotiv, evocato proprio dall’insistente richiamo – entro l’intersezione, intrinseca alla sua scrittura diaristica, fra tempo individuale e tempo della Storia – ai valori della patria e della famiglia, che in esso si protendono a saldarsi adempiendosi, ovvero declinato per sue figure attenuative, come in taluni passaggi relativi alla sorte benevola, nell’auspicio dell’aspirante scrittore, (23) o a quella senza riscatto del combattente sconfitto e umiliato dalla prigionia che lo esclude per sempre dal tempo agognato e irraggiunto della vittoria e della gloria. (24) Ed è assai sintomatico che, a più di trent’anni dalla sua fervente e presto frustrata gioventù militare, Gadda, intento a dichiarare sinteticamente le ragioni primarie della sua poetica, la riconvocasse nella sua accezione più comprensiva, assumendo la propria vicenda di guerra quale exemplum di una realtà gravida di relazioni conoscitive e stratificate aperture di senso proprio per la sua drammatica concentrazione di eventi scandita dall’incrocio combinatorio tra le azioni e il caso, tra il dato e il possibile (tra soggetto e tempo, o, se si vuole, tra etica e logica): «la vita militare e il servizio in guerra sono una trama continua di rapporti, sull’ordito combinatorio del destino». (25)
E se, com’è noto, per la poetica leibniziana (Roscioni 1969a) riconfermata dal Gadda maturo quale orizzonte del suo problematico realismo modernista (Donnarumma 2006), una trama continua di rapporti, un ordito combinatorio di relazioni empiriche e logiche infinitamente molteplici erano le modalità del suo modo epistemologicamente tormentato di pensare il mondo e la sua rappresentazione narrativa, va ricordato che già nelle sue primissime progettazioni di romanzo (vagheggiate nella prigionia a Rastatt: Retica) emergeva con nettezza una radicata disposizione ad intendere la narrazione come una scrittura della molteplicità, qua talis realistica, e tuttavia lì impiantata nel segno, ancora di marca idealistica, dello «spiritus pluralitatis» (Italia 1995a: 179-202, in part. 184n).
E non per caso, allora, nel lessico teorico ancora officinale del Gadda postbellico sarebbe stata una parola come sinfonia, assunta in una accezione anche latamente tecnica ma soprattutto metaforica, a circolare con programmatica pregnanza entro le riflessioni desultoriamente ma fervorosamente progettuali – le Note compositive – del primo, irrealizzato ma fermentante abbozzo di romanzo, il Racconto italiano di ignoto del novecento, del ’24, veicolandovi un’idea della narrazione romanzesca quale sintesi triadica (tra Aristotele e Shakespeare, o tra Beethoven ed Hegel) del divenire molteplice (SVP 415, e passim). Poi ritornando, con rinnovata pregnanza, nella meditazione filosofica del ’28, essa varrà a designare – nella ormai dispiegata gnoseologia combinatoria gaddiana, tra Eraclito e Leibniz – la convoluta trama relazionale del mondo e la logica impensabilità al singolare dell’atto che, conoscendolo, lo deforma e in ciò stesso lo inventa («una sinfonia di relazioni intervenenti» – SVP 649), istituendone in uno, come indisgiungibili polarità di un movimento senza fine, il tempo e la forma.
Insomma, da un lato, connettendo le parole forse più spesso ricorrenti nel diario dell’ufficiale in attesa vana di entrare nella Storia – e poi, accomunate dall’aggettivo, perduta, che ne denuncia la tragica dissipazione, nelle note vergate senza più luce di futuro («la mia vita morale è finita» – SGF II 664), a ridosso della disfatta di Caporetto, nei primi giorni di prigionia (26) – il binomio patria-famiglia ne punteggia e ne accompagna la problematica e contrastata ricerca di identità, sospesa fra aneliti frustrati alla gloria (gli astratti furori del Gaddus) e nostalgiche regressioni verso un microcosmo familiare compianto e idealizzato in absentia ma sempre di nuovo rifuggito per il suo carico irricevibile di angustie e nevrosi. Ma dall’altro, la vocazione protagonistica dello scrittore in formazione si attestava su quella di stringere la propria storia personale a quella della nazione: ma non già di arricchire o disciogliere la propria individualità in una comunione ungarettianamente fraterna con gli altri (perché egli guarda, e poi rimpiange, i suoi soldati con una pietas diaframmata da una irriducibile distanza – Cortellessa 1998b : 383-90 e 421-24), bensì – tra nazionalismo interventista e dannunzianesimo militarista – di congiungere sinfonicamente la grigia linea del proprio tempo informe – la sua giovinezza senza né epos né azione – alla forma, ottativamente luminosa e imperitura, del tempo storico.
Era l’attingimento di un destino di grandezza e di gloria che, elettivamente, sembrava poter colmare di senso la sua tensione civile e morale (il suo patriottismo donchisciottescamente retorico), e garantirne il valore, sottraendola all’inautenticità (all’assenza di dignità etica, cioè di predicabilità testimoniale) di un’esistenza opaca e anonima, irretita nelle angustie della routine familiare che ne sommergevano le velleitarie rivendicazioni di nobiltà già consegnate – per gioco adolescenziale, tuttavia significativo, nel suo pur autoironico protrarsi, di una istanza peculiare di risarcimento sociale e psicologico – alla posticcia autodignificazione onomastica – più frustrata, invero, che ironica – di Duca di Sant’Aquila. (27)
A ben guardare, singolarmente analoga a quella tematizzata nel personaggio letterario primo-novecentesco, o, in particolare, alla tipologia dell’eroe intellettuale, (28) era la condizione del giovane diarista, che affidava alla sua trascrizione non selettiva dell’accadere – statutariamente marcata da una presunzione di autenticità – l’ufficio di trattenere e fissare la catalogazione fenomenica e il nucleo semantico della sua epica esistenziale. Vivere la vita militare – la guerra –, realizzare in essa il proprio anelito morale, trovare al proprio bisogno di epos un orizzonte e un approdo, e poi scriverla, nel modello di Cesare, da protagonista, più che da testimone, catafratto e sovrano – come, per disperato orgoglio gnoseologico-morale, il cervantino, e però amletico, hidalgo protagonista della Cognizione – «nel giardino della propria anima» (RR I 703): la inclinazione ancora inconsapevolmente modernista che attraversava l’autore del Giornale di guerra nella sua avventura etico-identitaria non accedeva a una percezione della guerra «come la videro Serra, o Croce nello stupendo e triste carteggio con Vossler, come prova suprema di tutta una vita e di una cultura» (Amoruso 1968: 248). Nella guerra – nella sua guerra – Gadda, per distorsione ideologica e psicologica, non coglieva forse appieno in tutta la sua portata la catastrofe epocale di un mondo, l’apocalisse di un tempo storico che in essa si consumava, laddove soprattutto, pur nello schianto della sua immedicata tragedia individuale, vi vedeva l’occasione irripetuta di comporre conoscenza ed etica, particolare e universale – se ancora, nelle prose memorialistiche del Castello di Udine, a un quindicennio dalla fine del conflitto, poteva così scrivere:
in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblio e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità (RR I 142)
dove la fusione di sé con l’idea che lo investe e lo realizza certifica l’evento, per lui decisivo – prima del tragico iato di Caporetto – dell’auspicata congiunzione tra il tempo empirico dell’esistenza individuale e quello, astratto e categoriale, dell’istanza etica che lo incontra, a informarne il senso e a fissarne per sempre il valore, disegnando uno spazio metacronico di felicità personale pur entro la catastrofe della storia. E profilando una salvezza etica privata – un’assunzione di identità ne varietur – protetta dall’armonia – entro il cerchio di una soggettività sublimata – di una orchestrazione sinfonica del pensiero e del pragma, dell’esperienza e dell’ideale, del tempo accidentale della nuda vita e del concetto che ne disegna e ne governa la forma: quella, costitutivamente bifronte (mondana e segreta, attiva e riflessa), della coscienza, che poteva riverberarsi e trascendersi – e, in questo, farsi reale – nella dimensione superiore e perfetta di un ethos patriottico assunto a paradigma figurale del destino.
3. Era questa l’ambizione che sottendeva la trascrizione giornaliera della vita militare di Gadda, dalle prime, asciutte notazioni documentarie, alle progressivamente crescenti doléances polemiche, ben presto accese in furibonde invettive, nella torsione già talora barocca dell’indignatio, lontane dalla «ritenuta e generosa pacatezza» che nel ’32 il reduce avrebbe rimarcato in tono ammirativo, recensendo Guerra del ’15 di Giani Stuparich (SGF I 747 – cfr. Cortellessa 1995: 119-124, Bertone 2009: 4-8), e invece colme di «recriminazioni […] ingiurie e […] sarcasmi» (SGF I 747) contro l’insipiente inadeguatezza tecnica e morale di una dirigenza non all’altezza del suo ufficio («Zimarroni ricchi d’argenterie che giocano alla guerra come giocherebbero a tressette» – SGF II 458), fino alla rovina di Caporetto, che avrebbe sancito – nelle mestissime, spente cadenze del Giornale di prigionia – la presa d’atto ultimativa di una tragica sconfitta individuale, l’introiezione di un inguaribile vulnus etico-esistenziale, l’effrazione senza riparo di un rastremato tempo interiore («Le condizioni spirituali sono terribili: la mia vita morale è finita» – SGF II 664), inducendo il diarista a focalizzarsi sulla irricomponibile scissione della propria parabola di soldato e di uomo – della propria persona etica – dalla parabola grande, transindividuale, della storia presente, dal suo scenario inattinto, dalla sua vagheggiata e per sempre azzerata promesse de bonheur.
L’offerta di identità del mondo storico in sommovimento, il suo passato sublimato in modello da realizzare, la venerata icona-matrice del destino – la Patria – si decoloravano, dopo la rotta di Caporetto, nella brutale deiezione dell’inane sogno di una risorgimentalistica renovatio, assumendo le sembianze livide di una esistenza di più in più costretta a protrarsi senza il viatico o il riparo di una verità ideale, di un’aspirazione all’eroismo soffocata e perenta nella morsa di una vita deserta e fangosa, dell’oltraggio di un destino terribilmente estraneo ed ostile, ormai solo da patire nell’oltranza repentina e rapinosa della sua atroce epifania, e semmai, in un giorno ancora remoto, vendicare riscattandone l’umiliazione e l’offesa nella parola furente e malinconica della narrazione a venire («Nella mia vita di “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta, […] lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta» – SGF I 503), nella sua cognizione tragica o grottesca.
La fulgida eredità risorgimentale che aveva nutrito l’interventismo gaddiano di una radicale deontologia, offrendogli il terreno di coltura e l’asse di proiezione per la sua ostinata volontà di epos, non avrebbe disvelato al suo adepto altro volto che quello, mascherale e distorsivo, della sua vacua enfatizzazione retorica, e di fatto del suo tradimento, perpetrato dalla inadeguatezza atavica degli italiani a farsene degni depositari, come si evidenzia nella progressiva «denuncia della tabe della comunità nazionale» (Moliterni 2011: 53-56, in part. 53) presto emergente, entro un’angolazione comunque lontana da quelle di tanti altri suoi testimoni in scrittura, nella risentita o austera probità cronachistica del Giornale.
L’idea di patria si configurerà – alonata di una speranza subito disattesa e detorta in rimpianto – come l’altare di un frustrato slancio sacrificale, di una religio serrata nel merore di una dedizione senza compenso, di una fede senza apoteosi («questa giovinezza dedicata con trasporto e costanza alla patria, e ripagata con tanto dolore!» – SGF II 693), il sostrato e il motore storico-morale di una guerra vanamente assunta come occasione privilegiata per la verifica e la crescita di sé, come la scena e il tempo (la perseguita climax) di un’esperienza presuntivamente autentica perché nutrita, o illusa, di Valore. E aleggerà, redimita di lontananza e silenzio, come uno spettro ideale entro un corpus di commentari senza gesta né grandezza militare (Ungarelli 1991: 5-47), nei quali Gadda, meno attore che scriba di una vicenda che lo sovrasta e presto delude, non si concede che rade pause di ripiegamento nostalgico e di sommesso lirismo elegiaco, tra famiglia e paesaggio: tutto, invece, immergendosi nel disordine materico e logico delle cose e degli uomini, quasi a mettere alla prova la capacità percettiva e documentaria di una prosa il cui canone etico e stilistico gli riviene, in primis, dal latino di Cesare (Isella 2001b: 105-15), studiato e ammirato nell’adolescenza liceale, e la cui ambizione – auspice Manzoni – è già quella di pervenire alla ricognizione analitica e alla ricostruzione ordinatrice (sinfonica) della realtà.
Nelle pagine del Giornale di guerra Gadda scrive ancora soprattutto ad usum sui, quasi per tesaurizzarvi i materiali di un laboratorio privato e segreto, componendovi malgré lui non già il racconto, o meglio l’embrionale epopea privata, di sé quale giovane eroe, la luminosa parabola della sua vocazione e della sua anabasi alla gloria, allo speculare inveramento dell’essere nell’idea e dell’ideale nella storia, sebbene una sorta di malinconico e desolato romanzo di formazione alla rovescia (e, nel suo diagramma negativo e decostruttivo, per così dire, involontariamente modernista). In esso si andava disegnando, senza conciliazione di progetto e destino (senza dominio ordinatore né compimento semantico del tempo), la stratigrafia concentrica e chiaroscurale di un’interiorità trascritta e investigata come per sineddoche, nell’accidentalità della vicenda quotidiana, ma con l’obiettivo di catturarne e restituirne – nello scarno rigore del documento, nella sobrietà cromatica del dettato, nella esattezza catalogante delle descrizioni o nella asciutta brevità dello scatto lirico, e nella franchezza senza misure attenuative né riserve di pietas delle riflessioni – il movimento interno e intersecantesi a quello della Grande Storia in atto o in potenza.
In quelle pagine offerte a una memoria futura mai redenta dalla Storia l’inflessibile ma disarmato diarista, privo, per irrinunciabile bisogno di autenticità, dei filtri di distanziamento e oggettivazione apprestati, per suo statuto, dall’artificio letterario, e disposto solo a un impiego meramente funzionale e veritativo della sua educazione retorica, avrebbe visto consumarsi nella negazione giornaliera della ragione e dell’etica (stigmatizzata nella notissima invettiva contro la irresponsabile incompetenza della classe dirigente – SGF II 466-68, e passim) ogni velleità di integrare il proprio con il destino della patria, e di comporne la forma: lungo un cammino di inarrestabile decostruzione della propria soggettività etica – ancora solo ottativamente letteraria – tutta legata alle forme di un mondo retroverso e inattuale. In quell’itinerario così abruptamente spezzato la guerra si attestava non già come la partitura di una armonica sinfonia del destino che drammaticamente dispiega in sé, e però infine ordina, la trama continua e confusa del tempo, ma come «il teatro della drammatica tensione tra il soggetto e il suo mondo: uno spettacolo barocco» (Dombroski 2002a: 34), che nella sanzione della fine di un tempo storico inscriveva la disgregazione, discenditiva e non più arginabile, dell’ascendente tempo interiore di un soggetto senza più voce né immagini, senza più gloria né canto, come per una tragica sinfonia intermessa in dissonanza e silenzio. Era entrato in guerra come un personaggio ottocentesco, stendhaliano (Anglani 2004) – e proprio per questo, per la violenza inferta dalla storia alla spinta analettica che ne sottendeva l’ardente impegno ideale, Gadda ne usciva come un personaggio novecentesco, modernista, esiliato dal mondo e da sé, espropriato di storia e futuro, e perciò di identità e di destino:
Io mi sento finito: sento di non aver fatto abbastanza per la Patria e per il suo superamento morale, e di non essere più in grado di fare […] (SGF II 785)Nel mondo, nei campi di battaglia, si compie la grande storia presente e io non avrò partecipato ad essa né con il pensiero né con l’azione […] (SGF II 796)
La guerra finirà, speriamo che finisca, e io non ci sarò più stato […]. Questa è la mia rabbia, questo l’ossessionante dolore […]. Il sogno imprigionato dall’orrenda realtà […]. (SGF II 784-85)
Del valore, della invano agognata autorealizzazione etico-eroica non restava ormai che il rimpianto, lo spettro muto di un sogno. Voluta come banco di prova, cattura di una realtà (=della realtà) da semantizzare e salvare in una parola custode dell’autentico, la guerra – cronotopo, ormai, della messa in mora e della lacerazione irreversibile del binomio patria-famiglia, della sua riserva di virtù protettiva e palingenetica – diventava, per Gadda, la metafora di una vita in perdita: o delle illusioni perdute della vita. Diventava la metafora di una immane tragedia senza catarsi: la tragedia di un universo di valori traditi epperò insostituibili, negati ma chiusi a durare (a resistere e attendere) (29) come forme segrete dell’anima, come limite opposto alla sua inesorabile (e ormai sterile, introflessa) deformazione. D’altra parte, non sarà affatto un caso che Gadda, dieci anni più tardi, meditando en philosophe sulla deformazione intesa nella sua dinamica retroversa, deinvolutiva, quale fulcro genetico del dolore prodotto nel soggetto dall’«ambascia del non poter divenire» (30) si avvalesse, per differenziarne il concetto da quello del «dolore di 1° grado» (SVP 802), di un esempio riveniente da un lacerto della memoria di guerra e della passione morale e storica che l’aveva informata:
[…] il dolore di 1° grado [ esprime] il terrore di n di non poter conservarsi. […] Mentre invece sarebbe dolore pertinente al divenir n+1 quello che mi macerò nella terribile prigionia, negli ultimi mesi: allora, grazie ad aiuti ricevuti, il mio corpo n non soffriva: ma il mio animo soffriva grandemente dell’impotenza […]. L’ n+1 sarebbe la mia partecipazione al supersistema «attività bellica» o «divenire della patria». (SVP 802)
E andrà qui rimarcato che la continuità – e la perdurante esemplarità – di quei valori nell’ideologia profonda di Gadda – e la loro feconda immanenza alla imprescissa tensione eticizzante della sua poetica – sarà, nonché il terreno di coltura, la radice ideo-psicologica dell’opzione fascista (Savettieri 2009: 8 sgg) maturata dallo scrittore ancora ingegnere nel confuso e deludente panorama post-bellico; e che però, per converso, nella loro straziata catabasi, (31) e nel loro osceno sperpero entro una pronunzia enfaticamente quanto vacuamente retorica, e dunque nella loro disetica estraneità alla vita, essi andranno poi a costituire l’oggetto – di più: le coordinate tematiche, e le ipostasi mascherali – del feroce nichilismo grottesco della stagione antimussoliniana (ma, già prima, nel cuore degli anni Trenta, et pour cause, della divertita o atrabiliare effrazione satirica ghiottamente esercitata sui costumi e le idées reçues della borghesia milanese – Donnarumma 2006: 81-96 e 135-150), in quanto emblemi di una corrosione storica e logica – di un tradimento – che, pur disvelandone la vanità, non ne revocava in dubbio la pura forma ideale, l’astrazione si vorrebbe dire noumenica strenuamente o nostalgicamente resistente entro e al di là della degradante – e sommamente involutiva – deformazione storica perpetratane.
4. Se, da un lato, nella guerra di Gadda – quella scritta e quella non scritta – si staglia una (epica ed etica) verità della storia che non è nella storia, per la empirica e contingente scissione di questa, nel suo infinito farsi, dalle ragioni e dai principi ideali che la sommuovono, dall’altro, conseguentemente, in essa si accampa una verità – priva di epos e declinata solo in negativo – che disvela la sua opaca o livida sembianza nei frammenti della nuda esistenza, nelle parole che ne mediano e in sé trattengono l’accadere. Il diarista cesariano-ottocentista del Giornale scriveva per catturare e fermare, per tramandare e salvare il senso e l’immagine, la ragione e il fenomeno, del tempo vissuto, e risuscitarlo, come dichiarava, (32) nella realtà seconda della scrittura (nella durata della sua verità profilantesi tra documento e monumento): cioè per restituirlo, non per accrescerlo.
La sua narrazione ambiva a fermare l’esperienza vissuta in un ricordo scrupolosamente documentato, non sottoposto alle inevitabili distorsioni del processo mnestico – come attestavano, in particolare, la preliminare dichiarazione metanarrativa del Memoriale composto a discolpa di sé al cospetto del tribunale fantasmatico e ossedente della Storia (Carta 2010: 65 sgg) – «I particolari della battaglia dell’Isonzo e della mia cattura, raccolti pro-memoria, in caso di accuse. (Narrazione per uso personale, scrupolosamente veridica)» (SGF II 697 – miei corsivi) –, o le ripetute professioni di autenticità che punteggiano i dettagliati resoconti del diarista: «Tutto questo diario potrà parermi o parere ad altri melodrammatico ed è, purtroppo, soltanto vero» (SGF II 796); «La descrizione fatta è esattissima, anche nei particolari: le cose andarono così» (SGF II 811).
Ma se scrivere la guerra era scrivere la verità (in esattezza: e anima) dell’esperienza di guerra, la verità che Gadda era costretto a scoprirvi era quella, crudele e vana, di un’esperienza radicalmente disertata dal Valore: un’esperienza – una ricerca di identità – cui veniva negato senza remissione l’accesso all’auspicata sintesi di grande storia e valore individuale. Come nella recensione stupariciana avrebbe scritto, riflettendo su quale sia il tasso di veridicità che la prosa di un diario di guerra possa contenere e perciò quale la sua possibilità di comprendere e trasmettere la trama complessa dell’esperienza militare, la «prima verità del soldato è la fatica e la morte» (SGF I 745 – cfr. Carta 2010: 61). La verità del destino cercata – perduta – in guerra si rivelerà, dunque, a Gadda la verità, per così dire di primo grado – disperatamente fenomenica e complementarmente noumenica – senza parole né atti, senza eroismo o memoria, della morte. Ovvero sarà, da allora e per sempre, nella «fatica de’ cantieri» della vita (RR I 291 – cfr. Pedriali 2004c e 2007a: 37-45) come nei mali invisibili della mente, quella di una interminabile prigionia in un’esistenza senza sublimazione in destino, (33) in una scrittura orbata di valori da affermare, (34) solo spasticamente protesa a evocarne e postularne la necessità entro il groviglio delle mendaci parvenze, e a circoscriverne per metonimia l’assenza.
Se, infatti, nel Giornale si svolge e deposita la guerra vissuta dal Gaddus, quella delle impossibili prose memorialistiche del Castello di Udine, o, in complementarità inversa, degli antieroi vagamente zoliani (Donnarumma 2001a: 199) della Meccanica (tisici o vilmente imboscati), sarà una guerra rievocata, ma come in falsetto, tra enfasi grottesca e rabbiosa malinconia, o affabulata, ma come di scorcio, nel tracimare di un disordine sociale e morale di assetto naturalistico e insieme ontologico.
Oppure essa offrirà, nello scrigno inesauribile della Meditazione filosofica, la matrice genetica di una icona lirica – il soldato fermo, in attesa del proprio destino (SVP 859) – adibita incipitariamente a rappresentarvi, proprio nella posizione liminare ad essa conferita, l’impensabilità dell’inizio, vale a dire l’impossibilità di istituire (di decidere) il cominciamento – e perciò il fondamento – dell’atto conoscitivo (di dare avvio alla sinfonia del reale, al suo tempo sempre già in corso). Trascorrendo dalla sua accezione contemplativo-simbolica, che lo ritrae «assorto nel nostalgico ricordo della serenità familiare» (Terzoli 2009: 70), alla sua risemantizzazione in chiave gnoseologica, il soldato gaddiano sembra dar conto di una cesura decisiva nella tematizzazione della guerra e – in ragione della sua intrinseca protensione alla narratività – della dimensione temporale (l’intreccio speculare tra individuo e destino, appunto) che le è inscritta, segnando il passaggio da un modo (e un mondo) autobiografico (il suo pensiero nostalgico e sognante, rivolto alla casa e alla famiglia lontana – Gadda 1993a: 28 e 80) a quello della meditazione filosofica.
A mettere in figura, di questa, il passo d’avvio, infatti, è l’immagine del soldato che si ferma a guardare lontano, non più assorto a ricordare i suoi cari ma a chiedersi come interverrà nello scorrere del tempo della vita e della storia, con quali azioni ne sarà partecipe o protagonista: e intanto il tempo (l’immanente futuro) che dovrebbe ricevere l’adempimento pragmatico del principio etico che lo identifica lavora dentro di lui: perché, mentre sembra, muto e astratto orizzonte, attenderne gli atti, già invece ne possiede e ne scandisce il pensiero («e pensa: “Quali saranno i miei atti?» Ma già sono» – SVP 859, miei corsivi).
Nelle due rappresentazioni del soldato si declina una duplice, complementare metaforizzazione del tempo in quanto schema e forma del destino: vi si consuma il passaggio dal tempo soggettivo (lirico) dell’esperienza etica a quello senza più soggetto di un pensiero che assume a proprio oggetto sé stesso, vettore di una conoscenza modernisticamente adespota perché non più fondabile sulla dialettica medesimezza, cioè sulla polarità felicemente integrata, di essere e idea, e pertanto priva di compimento teleologico – malchiusa, o mai chiusa: una conoscenza non più capace di sovranità sul tempo, ma abbandonata alla edace rapina del suo movimento senza fine. Da grande schermo della totalità della vita, dove ogni fenomeno o accadimento poteva e doveva riuscire eticamente giustificato, e la conoscenza dispiegarsi quale realizzazione del soggetto nel tempo, la guerra era diventata il luogo della insanata disgiunzione di soggetto e tempo, di esperienza e Valore: di verità e Forma (commentario, poema, romanzo). La verità della guerra non consisteva che nella sua irreversibile negazione della forma – dell’ordine etico e logico del mondo –, e nel suo perpetuo negarsi alla forma – alla parola che la svolgesse in epica e racconto.
E infatti, nella stemmatica e straniata proiezione autoriale adombrata in Gonzalo, protagonista ostensivamente autobiografico della Cognizione del dolore, la guerra si attesterà come la materia (la metafora senza compimento in immagine) di un discorso impronunciabile, la verità scandalosa, non suscettibile di racconto o poema, di un Erlebnis ormai tramontato per sempre, di una vita da custodirsi gelosamente in purezza nel chiuso giardino della memoria individuale, al riparo da ogni retorica celebrativa, e dal suo profano orpello di endecasillabi, e anzi da ogni beneficio consolatorio o risarcitorio attribuito alla scrittura letteraria: proprio in quanto verità impossibile da raccontare, o comunque da testimoniare, per un autore (un retore senza retorica, appunto) che nella letteratura sempre cercava e rappresentava il reale, ma ormai solo per negazione (Manzotti 1984), solo attraverso la grottesca o lirica deformazione delle sue mai finite parvenze:
[Gonzalo, scil.] Era incolume, con poveri anni dentro le grigie controspalline del ritorno. Forse la sua guerra, a lui, non era stata pericolosa. Non raccontava nulla, mai: non ne parlava ad alcuno: […] Dopo recuperate vittorie, gli stampatori della gloria funebre non gli eran più bastate le loro xilografie mortuarie fino ai carmi d’un reduce senza endecasillabi […] I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il nome, la disperata memoria. (RR I 682)
La guerra era – e restava – il Valore, il suo attimo felice e tremendo, il suo tempo sublime e perfetto, che il destino aveva spezzato e disperso nel tempo deserto della prigionia. Di quegli ideali di cui doveva costituire l’apoteosi, la guerra aveva dispiegato un’apocalisse muta e senza immagini. Ne rendeva testimonianza già ultimativa una angosciata meditazione autobiografico-carceraria del 26 aprile 1918:
Io ho troppo sofferto per poter avere riserve d’energia che mi bastino a vivere senza una idea centrale sostenitrice. In guerra quest’idea era la patria, e il mio onore di soldato, e il culto della forza morale di colui che supera continuamente sé stesso. Fuori della guerra era l’ideale della mia opera, concepita per me come un dovere nazionale ed umano. (SGF II 770 – miei corsivi)
L’inabissamento degli ideali ha intermesso il cursus euristico del soldato, ne ha interdetto l’anelito al fare, ne ha svuotato la spinta morale, distruggendo paradigmi e garanzie della sua opera presente e a venire. Ne ha sancito il male invisibile, la frattura del divenire che ne consuma e irretisce l’essere (MM SVP 681-97). Il Valore – come la canzone che lo evocava (SGF II 785) – si è disperso nel passato.
La guerra è il passato, la Forma, di un tempo finito, perduto. Proprio perché schermata da una distanza auratica, proprio perché – anche nel suo strazio – irripetuta esperienza dell’autentico, essa per Gonzalo non sarà poetizzabile: della sua cognizione, e del suo dolore, come del sacro, o del noumeno, non si darà parola né verso. Il suo tempo, proprio perché altro e immune dall’inganno delle parvenze, non accede alla forma. «Trama continua di rapporti – lo si è già ricordato – sull’ordito combinatorio del destino», la guerra – emblematica cartografia, o allegoria, della inconchiusa dinamica eraclitea della realtà molteplice – trova infine la sua impronunciabile verità in quella «ultima combinazione del pensiero» (CdD RR I 607) che «arriva per nulla, circonfusa di silenzio» (RR I 607), e incide il suo stigma, come un «male invisibile» (RR I 607), nella folgorata parabola di Gonzalo, rimemorante «reduce senza endecasillabi» (Manzotti 1987a: 290, nota al rigo 383). Nel tacere di ogni perduta voce, nel lento oscurarsi di ogni mendace parvenza, il cuore di tenebra della guerra, il suo ethos senza pronunzia o figura, la sua verità in forma di destino potrà solo mostrarsi nel pensiero senza più forma della morte.
5. Dopo la guerra, dunque, niente della guerra e del mondo, e dei valori che li illuminavano, potrà esser detto da Gadda se non attraverso la lente deformante di una scrittura della negazione: nella sua costituzione per così dire ossimorica, la sola modalità di scrittura plausibile per un autore proteso – tanto per rigore gnoseologico quanto per morale ressentiment – «a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto proponer[gli] come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge» (Tendo, CdU RR I 119) – come recitava, et pour cause, la notissima dichiarazione incipitaria di poetica (De Michelis 2003) anteposta al libro dedicato all’impossibile bilancio memoriale della guerra. Gadda, profilando una ipotesi di cognizione letteraria nella quale la scrittura si faceva campo del conflitto modernisticamente inconciliato tra il soggetto e la realtà, si propone qui esplicitamente di farsi «poeta del bene e della virtù» e «famiglio dell’ideale», ma, pure, di far sentire ai suoi lettori «grugnire il porco nel braco» (RR I 119): vale a dire, di tematizzare il suo irrinunciabile ma oltraggiato universo etico attraverso la contaminazione grottesca con le sue polarità oppositive.
La verità – il bene – non potrà essere declinata che nella sua coesistenza con ciò che in perpetuo la deforma e la nega, fino a fagocitarne le ragioni e a sfigurarne il sembiante, e starà tutta e solo dietro lo schermo delle parvenze. E replicherà, nella inventio letteraria, lo stesso percorso da essa disegnato nella diacronia militare del suo strenuo testimone: un percorso verticale – da un tempo progressivo e ascendente, come si è variamente rilevato, al buio descensus della fine del tempo-valore – che, nel tempo coinvolutivo e sincronico, statutariamente com-presente, della scrittura, diventerà per così dire orizzontale, stringendo dentro di sé al groviglio corrotto delle parvenze il loro non rappresentabile fondo noumenico. Questa riduzione, o trasmutazione, della curva temporale dell’esperienza nella dinamica topografica (35) della conoscenza si evidenzierà, come è noto (anche attraverso le integrazioni di un freudismo accepito entro un resistente residuo positivistico – Lucchini 1987 e Amigoni 2001), nella visione del fascismo in quanto degenerazione (materica: sessuale) dell’ethos, in quanto deiettiva corruzione e mortifero oltraggio della verità etica in parvenza moraleggiante – lo «scatenarsi della scempiaggine istero-patriottarda delle Marie Terese» (Gadda 2003b: 35): come per una reductio della storia a natura, giusta la rivendicazione polemica accampantesi emblematicamente nella fondante Meditazione filosofica: «la mente disegnatrice [dei fatti, scil.] è natura, e la storia degli uomini tutta è natura» (SVP 876-77).
Può ben dirsi, infatti, che il Gadda infiammato di passione antifascista non si attenti a testimoniare di una catastrofe storica (Benedetti 1987: 81-99), quanto, piuttosto, di una reiterata e protratta apocalisse della ragione: di una malattia degenerativa del Logos, e dei Valori in esso riposti, della quale si voleva diagnosta prima che terapeuta, come segnala lo stesso titolo annotato sul secondo foglio di un manoscritto (Pinotti, Nota al testo, Gadda 2003b: 51-52, n. 12) – illuminante complemento, e viatico, alle furie di Eros e Priapo – da cui si ricavano testimonianze che confermano, una volta di più, la genesi tutta soggettiva e morale – e, ancor più, umorale – dell’antifascismo gaddiano, a cominciare dal titolo Le Marie Luise e la eziologia del loro patriottaggio verbale.
È questo un titolo chiaramente accostabile a quello, Le patriottesse, pensato per un libro del quale si rinviene l’intento progettuale in un cenno presente «in un abbozzo conservato fra le carte di Gian Carlo Roscioni» (Gadda 2003b: 51) – e nel quale si evidenzia, anche attraverso la nota esplicativa della terminologia adottata, propria «della patologia medica e della clinica» («Eziologia o etiologia […] dal greco aitìa […] = la causa. È la descrizione, la conoscenza delle cause e del decorso primo di una malattia: lo studio delle latenze predisponenti, delle cause, del processo patologico», chiosava l’autore – Gadda 2003b: 29), l’assimilazione dell’oggetto dell’indagine euristico-morale ad un processo patologico – a una deformazione euristicamente involutiva. La conoscenza della storia vi si configurava come studio clinico, giusta un’assunzione ideal-positivistica della contraddizione storica (il fascismo) come malattia dei valori – quelli, canonici, della Patria e della famiglia, traditi e violati dalla degenerazione isterica di creature pur demandate a custodirli e a tramandarli – il primo per entro la continuità del secondo – attraverso la loro vocazione biologica. Su quel tradimento – su quella arazionale inversione epitimetica (36) della verità in parvenza – si appunta, nutrito degli umori della sua acerrima misoginia, il vendicativo programma gaddiano di:
torre ad esame il comportamento verbale-scenico-isteroide delle Marie Luise patriottarde e mostrare quali basse e immediate e balorde e sballate latenze pragmatiche ne abbiano dominato il processo; gli impulsi epitimetici le hanno guidate anziché una ragionevole dosatura di ragione (ratio, Vernunft) portatrice del Logos, logòfera. (Gadda 2003b: 39 – cfr. EP SGF II 231)
La prima e più grave colpa delle patriottesse era stata, insomma, quella di non assumere e interpretare l’idea di Patria nel segno di un Logos che, coincidendo con la realtà del pragma, ne mantenesse integra la verità morale e deontologica, ma di essersi – per le «latenze pragmatiche che influirono sul [loro] contegno effettuale» di «care pollanche» – autopromosse «a sacerdotesse spiritate di una patria inesistente», intrefolandosi in una retorica patriottarda tanto verbosa quanto mendace, la quale «ha servito ad impiccare la patria reale e la società reale in pro della patria uterina e della società uterina» (Gadda 2003b: 34-35).
E non è certo un caso che, nelle stesse pagine, lo scrittore insista – nel riflesso e nella esasperata attualizzazione di un risentimento morale già profilato nel diario degli anni di guerra e poi in molti passaggi delle riflessioni memorialistiche dedicate a quella vicenda tormentata e irripetibile – a contrapporre alla mediocre burocratizzazione dell’esercito nell’Italia mussoliniana, e alla tronfia e inane celebrazione verbale dei Valori entro cui si era formata e consumata la stessa sua identità («L’Italia, l’Esercito, l’onore militare, erano parole sante, ma parole» – Gadda 2003b: 43), il sacrificio vano dei tanti caduti nell’adempimento del loro dovere patriottico «per difendere una capitale di carta bollata», e finire ottusamente, paradossalmente irrisi «nell’elogio salottiero delle Marie Luise» (Gadda 2003b: 45), come vittime di una tronfia ideologia imperiale e bellicista, di un «patriottaggio verbale» coltivato e alimentato «con la pelle degli altri».
La cifra distintiva dell’antifascismo di Gadda sembra invero consistere tutta – è appena il caso di ribadirlo – in una feroce, ossessiva ripulsa delle parvenze che hanno violato, estrovertendoli in mera esibizione verbale, e svuotato i paradigmi etici e ideali cui egli aveva ancorato il senso della sua esperienza militare e, di più, della sua iniziazione alla vita. E difatti la sua scrittura antifascista, quale che ne sia il genere o l’impianto tematico, si muoverà sempre – dal Pasticciaccio a Eros e Priapo, dai Miti del somaro alle Favole, fino ai timbri più tenui e sfumati di un racconto come Socer generque – contro un oggetto, una cible polemica, per disvelarne la falsità – e, se non per restaurare, almeno per rivendicare, o disperatamente evocare, i fantasmi di un passato inattinto, vivo solo nei sogni della memoria, e i suoi valori perduti o negati: che si tratti della grottesca gigantografia mussoliniana, osceno simulacro di un Male che trascende il dato e l’evento storico per farsi segno, o ipostasi, di una negatività ontologica, ovvero della impietosa e pervicace satira del delirante patriottismo femminile, stigmatizzato ferocemente quale «prestazione scenica e salottiera» responsabile di una declinazione «meramente verbale, meramente fonica» della morale, di «moti scenici» che sono «il contrario del bene che si vorrebbe osservare e difendere» (Teatro patriottico, SGF I 912), giacché arrivavano ad esigere «che “i nostri valorosi soldati” […] andassero in ogni modo a crepare: per la maggior gloria della belva tudesca» (SGF I 913).
6. È questo, infatti, l’asse tematico attorno al quale si svolge Prima divisione nella notte (Rebaudengo 2002), il racconto di ambientazione marinara composto nel 1950, in occasione della terza edizione del Premio Taranto, del quale Gadda risultò vincitore, pur non senza difficoltà e strascichi polemici (RR II 1287-289). In quella prosa, lo scrittore ripresentava uno schema tipologico antico e tornante nella sua narrativa, costantemente affetta da scarsità e ripetitività di inventio, quello del «trittico dei personaggi» a suo tempo istituito nel giovanile progetto del Racconto italiano, «proiettando con amara ironia sulla “guerra adolfa” [RR II 871] le ossessioni della Grande Guerra» (Rinaldi 1996b: 44-49, in part. 49). E così convocava, e riarticolava o contaminava entro coordinate rese necessarie dall’occasione, temi e figure – tra riflessi biografici e mitografie letterarie – già diffusamente presenti nella sua opera, e con più spiccato rilievo diegetico e semantico nella metafisica allegoria da camera consegnata ai tratti della Cognizione: innanzitutto quelle di una signora di origine straniera – come, in parte, la Madre di Gonzalo –, che abitava una villa, qui non perduta nel fondo remoto della campagna neokeltikese-brianzola, ma con un lato a strapiombo sul mare (a ben guardare, altrettanto aperto, nel segno di una inavvertita premonizione, all’immanenza di un destino mortifero come quello della mal difesa dimora dei Pirobutirro): una «casa rossa tra le agavi» agevolmente identificabile con Villa Desinge ad Arenzano (Rebaudengo 2002), luogo di incontro o di transito, negli anni Trenta, di molti scrittori, del quale lo stesso Gadda era stato ospite, intrattenendo poi con la padrona di casa, la gentile Signora Lucia Morpurgo Rodocanachi, raffinata traduttrice in nero per molti letterati del tempo, un lungo dialogo epistolare (ritmato dall’alternanza cerimoniale dello schivarsi e dell’inchinarsi, secondo l’immedicabile pendolarità nevrotica dello scrittore – cfr. Gadda 1983d).
Ma qui sarà da rilevare che al dato trasparentemente autobiografico, e come a straniarne la ellittica allusività contrastiva al personaggio e alla dimora della Signora nella Cognizione, si interseca un evidente, e sommessamente ironico, riporto di suggestioni biografico-paesaggistiche montaliane (Luperini 2006), dalle agavi allo scenario ligustico: quasi a incrementare obliquamente lo statuto metaforico della narrazione, profilandone, nella trasparenza delle filigrane inter- e intra-testuali, una nuance metaletteraria (e una inclinazione allegorica) che trova, peraltro, conferma esplicita nella connotazione dell’io narrante, scrittore –e dunque non solo doppio dell’autore, ma dello stesso Gonzalo, romanziere leopardianamente incompreso ed irriso nel borgo selvaggio di Lukones (37) – vanamente in cerca di alloggio, anzi di rifugio, presso quella «casa rossa tra le agavi» (RR II 869 – cfr. Rebaudengo 2004) nella cui solarità marinara (riflesso antifrastico del topos montaliano), e nel frenetico, isterico vitalismo di chi la abita, si commutano parodicamente la desolazione carceraria della villa e la luttuosa malinconia della Madre aggettanti nel diruto romanzo famigliare composto nel precedente decennio:
«Non è un giardino, il mio!» urlò: «Non sono una donna da vivere in giardino!… chiusa in una villa» e fece una smorfia di spregio, «come un canarino in gabbia. È la casa del mare, questa: e fuori c’è il mare! C’è la natura, fuori! e gli spiriti agitati della natura!... […]» (RR II 871– mio corsivo)
Qui l’esaltazione panicamente distorta della felice natura marina, la rivendicazione esasperata del suo spazio aperto e libero, opposto, quale universo offerto alla trionfale estroversione dell’io, alla chiusa ma limitativa misura dello spazio domestico, alla sua non eroica ma etica intimità, prepara inavvertitamente, con movenza prolettica assai caratteristica in Gadda – e paradossalmente prefigura nell’acre antagonismo riversato contro la fidanzata del figlio con la gelosa, accecata rivendicazione del possesso materno (38) –, la terribile negazione della vita che proprio il mare opporrà, con la morte sopravvenuta nella battaglia navale notturna di capo Matapàn, all’esaltato e vorace orgoglio patriottico di quella madre adottiva (RR II 870). Cinta dal vacuo fulgore della parvenza che ne deforma e corrompe in mascherale, enfatica esibizione il nobile statuto identitario, la donna, nella morbosa superfetazione del suo dannunzianesimo (RR II 882), sarà delirante promotrice di una tragedia che verrà a suggellare il suo atroce sperpero retorico dei sommi valori traditi o perduti – quello famigliare e quello patriottico –, la loro degradata adibizione quali occasioni o pretesti della sua grottesca e immorale erotìa narcissica.
Reca conferma, poi, della insistita tessitura del racconto lungo l’asse di una sintomatica intertestualità interna, l’altro personaggio femminile, specularmente antagonistico a quello della madre dannunzianamente, e fascisticamente, orgogliosa del figlio marinaio partito per la guerra, la giovane e trasgressiva Carla, temperamentosa reduplicazione, e sagace dilatazione diegetica, della Pina, altrettanto esperta (e, alla misoginia di Gonzalo, spericolata) automobilista figlia del dottor Higueróa, medico del villaggio e socratico interlocutore del protagonista nella Cognizione (RR I 624 sgg). Della sua guida modernamente spigliata e dinamica il narratore sarà casualmente vittima nel corso di una passeggiata, e dal dialogo promosso dalla sua frequentazione terapeutica e risarcitoria (anche questa una ripresa, nel segno dell’inversione-iterazione empirico-vitalistica, del capitale dialogo metafisico tra Gonzalo e Higueróa) ricaverà tra l’altro, «ricollocando in un ordine certi fatti solo in apparenza disgiunti» (RR II 877), una diversa angolazione prospettica, e la conseguente destituzione antiretorica, dell’elemento marino quale alveo genetico e custode di una identità sublimata in destino:
«[…] Io l’ho avuto dal mare. Il mare me lo ha dato. Povera scema! Con la sua enfasi di cretina che crede di poter persuadere, mi dica?... intanto, noti, il cancelletto è voltato verso terra. Contro un sasso, contro il monte: proprio dalla parte opposta del mare. Anche per fare della letteratura […] è preferibile voltarsi dalla parte giusta». (RR II 878)
E ne riceverà la notizia che il figlio tanto accanitamente conteso alla ragazza dall’avidità affettiva della madre è in effetti un trovatello, nemmeno da lei adottato (RR II 878), e dunque lambito, nell’enfasi esibitiva dell’afflato materno, da una latenza erotica inconfessabilmente (ma pure, al fondo, impropriamente) (39) incestuosa, nel segno – giusta la deformazione patologica della sessualità propria dell’atrabiliare e misogino antifascismo gaddiano – di una potenziale deriva dell’eros, come quella che con implacato furore, e dovizia di invenzioni linguistico-figurali, è pervicacemente irrisa nella requisitoria espressionistica e visionaria di Eros e Priapo.
Le due donne – due facce, antitetiche ma complementari, di un universo parossisticamente vitale, ma senza riscatto per l’euresi – si contendono, sulla scena del testo (e della Storia, ridotta e schermata nelle antiepiche dissonanze della narrazione), un giovane dal nome tristamente ominoso, Vittorio: irrisione implicita quanto amara degli slogan propagandistici apprestati dal regime per esaltare l’avventura bellica, ma soprattutto presenza onomastica e affettiva costante, nel racconto, sua pervasiva occorrenza tematica, si direbbe, e però evocata solo per metonimia, attraverso lettere o fotografie (si potrebbe dire senza endecasillabi): come, nella Cognizione – ancora una volta, per marcata proiezione autobiografica – il fratello morto in guerra del protagonista appare solo in una fotografia sul suo tavolo di lettura (RR I 750 – cfr. Terzoli 1993a).
Davvero, la narrazione latamente antifascista (anzi, anti-patriottesse) del Gadda concorrente al Premio Taranto si muove tra l’inestinguibile riflesso autobiografico del combattente della Grande Guerra e il riuso, per così dire, strumentale, di materiali già altrove, e segnatamente in quel romanzo, letterariamente elaborati e investiti di peculiari funzioni semantiche. E anche la progressione lenta ma inesorabile del racconto verso l’evento funesto che ne sancisce la fine e ne detta il senso è condotta, significativamente, come a doppiare la straziata valenza documentaria inscritta nel Giornale di guerra dello scrittore, attraverso i diari dell’Ammiraglio che guida la squadra navale italiana contro la flotta inglese. Ne emerge, in toni dimessi quanto netti, tutto l’antico risentimento del Gadda soldato contro l’impreparazione tecnica dei nostri apparati militari, qui accresciuta di una sprezzante nota polemica contro la gestione retorica della guerra da parte del regime:
Portaerei la nostra Marina non armava. Il maresciallo della greca tripla ne aveva decretato l’inutilità. Aveva riconosciuto che tutta la penisola è una divina portaerei, «una ideale piattaforma di lancio protesa nel Mediterraneo». (RR II 885)
Senza sussulti di stile, ma nella probità tonale di una cronaca dimessa e fedele, la narrazione segue, e inesorabilmente registra, la silenziosa progressione della divisione navale (che l’irrequieta Carla era «arrivata appena in tempo a veder[e] uscire dal Mar Piccolo» della città di Taranto, «lungo il canale, […] davanti i torrazzi del castello» – RR II 883) e, dietro e dentro di essa, il progredire della inconsapevole giovinezza di Vittorio verso il suo incredibile approdo e il silente, oscuro approssimarsi a lui della morte – come, nella Cognizione, recita la celebre definizione del male invisibile che ossessionava la disperata volontà di conoscenza e di ethos del malinconico protagonista:
E c’era, per lui, il problema del male: la favola della malattia, la strana favola propalata dai conquistadores, cui fu dato raccogliere le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero. (RR I 607 – mio corsivo)
Nella fatale epifania notturna della minaccia delle navi inglesi, le cui «nere sagome» repentinamente si disegnano «come ritagliate dalla carta sul nero piano del mare», si accampa «il cieco e accecante splendore d’una cognizione impreveduta, inesorabile» (RR II 888): come a dare, qui, corpo d’immagine e svolgimento diegetico al disegno allegorico deputato nella Cognizione a figurare la vanità intrinseca ad ogni umana intrapresa, il desolato orizzonte di ogni volontà di pragma e di euresi, il dolore senza riscatto che giace al fondo del tempo e delle opere, e delle loro consolatorie ma decettive parvenze (Stellardi 1992a):
La luce, la luce recedeva…. e l’impresa chiamava avanti, avanti i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo. (RR I 604)
Nel lacerarsi del tessuto del mondo sotto i colpi delle bordate nemiche, il destino marinaro di Vittorio si compie: non nella funerea apoteosi celebrata nel menzognero incanto dei versi di D’Annunzio, di cui la patriottessa bilingue, nella sua enfatica teatralizzazione di sé come madre si inebriava, ma nella lacerazione di «ogni possibilità di seguitare ad amare, a conoscere» (RR II 888). Il tempo vergine e glorioso della sua Bildung militare – analogamente a quello del fratello di Gadda – si spezza nell’improvvisa perdita della vita di cui avrebbe dovuto, secondo i disetici, e fin esiziali, dettami del patriottaggio verbale, attingere e testimoniare il più alto senso e valore. Al dissolversi delle parvenze che di sé ammantano e corrompono il mondo, nel loro fondo noumenico, occultato dalle bugiarde luci della retorica e disvelato dalla loro negazione-affabulazione satirica, il nichilismo modernista di Gadda non può che approdare alla verità, assoluta e senza inganno verbale, della morte, nudo suggello del tempo, estrema combinazione – figura – di un destino che sempre scaglia sui sogni il livido bagliore della sua folgore.
Università di BariNote
1. Come è stato recentemente ribadito anche da M. Bertone, a proposito delle molteplici suggestioni risorgimentaliste concorrenti ad alimentare l’eroico sogno interventista del Gadda studente politecnico, il suo «più stretto entourage» era composto «da parenti e amici convinti assertori della necessità, per l’Italia, di recuperare le terre irredente del Nord-Est e portare così a compimento il glorioso processo di unificazione nazionale interrotto nel 1870, quando la proclamazione di Roma capitale aveva siglato l’epilogo della complessa vicenda risorgimentale» (Bertone 2010: 1-2).
2. Riflette con acume sulle implicazioni ideologiche di tale condizione etica – traguardandola, in particolare, dalla specola del patriottismo lirico-pedagogico di Jahier – F. Moliterni, Il vero che è passato. Scrittori e storia nel Novecento italiano (Lecce: Milella, 2011), I.3, 54 sgg.
3. Sulle complesse ragioni struttive del Giornale di guerra gaddiano, e sulle loro implicite sedimentazioni narrative, si soffermano, da differenti ma complementari angolazioni prospettiche, Savettieri 2008b: 385-94, Scaffai 2008: 395-402, e Carmina 2008: 403-10.
4. La «esaltata quanto esaltante implicazione patriottica» – studentesca e filodannunziana – del Gadda allora ancora aspirante ingegnere è messa in evidenza da Bertone 2010: 3-7.
5. Insiste sul «valore antifrastico» dello «snervante suggello» dell’impossibilità Bertone 2009: 2 – v. anche Bertone 2004c.
6. Come risaltava, ad esempio, ancora nel bilancio tracciato nel Castello di Udine, a più di quindici anni di distanza dal tempo del conflitto:«E il mio giudizio circa la necessità della guerra è rimasto sostanzialmente coerente» (RR I 142). Era un atteggiamento ampiamente confermato anche negli interventi recensori dello scrittore sulla memorialistica di guerra, e vi insiste opportunamente A. Cortellessa: «Gadda resta incrollabilmente fedele, a due guerre di distanza, all’interventismo dei suoi vent’anni» (Cortellessa 1995: 127).
7. R. Luperini, Letteratura e identità nazionale, in AA. VV., Letteratura e identità nazionale nel Novecento, a cura di R. Luperini e D. Brogi (Lecce: Manni, 2004), poi in R. Luperini, L’autocoscienza del moderno (Napoli: Liguori, 2006), 35-52, in part. p. 37 (dove, infatti, si sottolinea in proposito che per Gadda «la patria, pur umiliata e comicamente abbassata dalle circostanze storiche, mantiene sempre una forte sacralità»).
8. G. Gozzano, Pioggia d’agosto, in Id., Tutte le poesie, testo critico e note a cura di A. Rocca, introduzione di M. Guglielminetti (Milano: Mondadori, 1980), 215.
9. N. Lorenzini, «I colloqui» di Guido Gozzano, in Letteratura italiana. Le Opere, dir. A. Asor Rosa, vol. IV, Il Novecento. 1. L’età della crisi (Torino: Einaudi, 1995), 159.
10. Per focalizzare ragioni e dinamiche di tale contesto ideologico, resta necessario il classico M. Isnenghi, Il mito della grande guerra (Bologna: il Mulino, 1997, 19701) – su Gadda, in particolare, pp. 174-76.
11. Sulla formazione di Gadda è d’obbligo rinviare all’insostituibile Roscioni 1997.
12. Cfr. A. Cortellessa, Fra le parentesi della storia, saggio introduttivo a Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di A. Cortellessa, prefazione di M. Isnenghi (Milano: Mondadori, 1998), 9-60 (29).
13. Cfr. al riguardo la preziosa ricostruzione di Roscioni 1997: 89-168. Da una diversa angolazione prospettica, ha tematizzato densamente la condizione intellettuale di Gadda in rapporto all’esperienza di guerra, e la sua risposta in veste di scrittore, Pedullà 1997a: 55-124.
14. Una legittima protesta di studenti (a firma di E. Fornasini, C.E. Gadda e L. Semenza), in Il Popolo d’Italia, 22 maggio 1915, già ricordata da Bertone 2010: 3-7 – vi fa cenno, quale documento di quelle «pulsioni superegotiche del giovane interventista» Gadda che costituivano una precondizione per la sua tragica deprivazione di occasioni di eroismo, Cortellessa 1998b: 384. Il testo della lettera è riportato in Ungarelli 1994a.
15. «Sognavo una vivente patria, come nei libri di Livio e di Cesare» (CdU RR I 152). Sulla presenza paradigmatica del modello cesariano, e delle sue funzioni metaforiche, nell’opera gaddiana si veda la esaustiva ricognizione di Narducci 2003: 73-86. Su altro piano, interessante e denso di spunti, Sbragia 2004a.
16. Sulle tipologie dell’escluso in Gadda, fini osservazioni offre Botti 1996: 181-202. Il tema è stato riccamente indagato, entro prospettive ermeneutiche suggestive e originali, da Federica Pedriali, nella cifra metaforica del complesso di Palinuro – v. almeno Pedriali 2007a: 209-230.
17. Come Donnarumma (2001a: 16) ribadisce, «quel che interessa a Gadda nei Giornali è la natura civile e patriottica della guerra. In essa, egli cerca una legittimazione sociale al suo essere borghese, e insieme alla sua vocazione di scrittore».
18. Ne dava conto, tra l’altro, nel diario di prigionia, un accorato episodio del 31 maggio 1918: «L’altro giorno, passando davanti la 55.a Baracca […] sentii qualche nota che mi parve conoscere: ravvisai infatti il 1.° Tempo della 6.a sinfonia di Beethoven, ed entrai ad inebriarmi. […] ma il sentimento era strozzato dal fiume sotterraneo del dolore» (SGF II 793).
19. Al riguardo, cfr. la densa analisi di Donnarumma 2001a: 45-63. V. inoltre N. Lorenzini, Il frammento infinito. Percorsi letterari dall’estetismo al futurismo (Milano: Franco Angeli, 1988).
20. Questo nel divertissement trascorrente dal ghiribizzo grottesco al tocco elegiaco dell’apprenti pasticheur dello scherzo, invero solo pretestualmente goliardico, affidato alla pagina di diario del 2 settembre 1915 (SGF II 452-53) – su cui si rinvia alle acute riflessioni di Donnarumma 2001a: 18-22.
21. Notissime, e sintomatiche, tra le altre, la dichiarazione del 21 luglio 1916 («il pasticcio e il disordine mi annientano», SGF II 570), e quella di tre giorni successiva («Ma il disordine c’è: […] e quale orrendo, logorante, disordine! Esso è il mare di Sargassi per la nostra nave», SGF II 575).
22. Come, per addurne un solo esempio tra i tanti possibili, in una pagina del Giornale del secondo anno di guerra (lì significativamente denominata «Guerra per l’Indipendenza, anno 1916»: SGF II 527), datata «Vicenza, 5 giugno 1916», dove il sottotenente del 5° Alpini rivela che la «preoccupazione patriottica, etnica e politica, vela come di un colore di desolazione l’aspetto della [sua] patria divina, della serena [sua] gente», soggiungendo che il «pensiero della [sua] famiglia e un po’ anche quello del [suo] pericolo [lo] angustiano», tuttavia non intaccandone la fermezza della volontà e della ragione «nel decidere che è doverosa» la sua presenza al fronte (SGF II 533).
23. «Se la sorte, che io non affretto per me ma per alcun amore verso la mia patria e gli uomini tutti, sarà così buona da condiscendere ai disegni della mia infanzia e della mia adolescenza, io dirò per il grande generale [scil.: l’inglese lord Kitchener] una parola di ammirazione» (SGF II 535 – mio corsivo).
24. «Ore 20: pare che sulla fronte Italiana […] si sia scatenata la nostra offensiva. […] Evidentemente si combatte: e i nostri cuori fervono […] e la mia mente straziata sente che, mancando alla battaglia, la mia vita è conchiusa […] ma non pensiamo a noi, alla nostra sorte irredimibile, alla nostra vergogna, al nostro dolore» (SGF II 780 – mio corsivo).
25. SGF I 502, mio corsivo – nella stessa pagina lo scrittore dichiarava pure che in lui l’impulso verso la «descrizione, il desiderio di conoscere e di approfondire» si era esteso, con la guerra, «all’indole e ai tipi e al destino degli umani, ai rapporti fra le creature». Si sofferma su questo passo l’intelligente contributo di Savettieri 2009: 1-33 (10).
26. «Il mal di cuore, la patria perduta, la famiglia perduta […] Io sono ora finito: nella sventura, nell’orrore» (31 ottobre 1917 – SGF II 665). Il tema ritorna, emblematicamente, in uno scorcio illividito da accenti altrettanto frustrati e ultimativi, in una pagina del 20 dicembre 1917: «Il tempo è oggi nebbioso, tetro, e aumenta la nostra tristezza. – Penso alla patria e alla famiglia come a cose orribilmente lontane, disperatamente irraggiungibili!» (SGF II 682).
27. Ne documenta autorevolmente genesi e trame psicologiche e ideologiche Roscioni 1997: 71-88. Nuove implicazioni ermeneutiche suggerisce Pedriali 2007a: 188 e 209.
28. Secondo la ridefinizione propostane da G. Baldi, Eroi intellettuali e classi popolari nella letteratura italiana del Novecento (Napoli: Liguori, 2005).
29. Come nella cronotopica seclusione – in quanto attesa strenua e vana di una epifania valoriale legata all’impossibile ritorno del fratello caduto in guerra, o alla liberatoria ricongiunzione con lui nel segno della morte – rivendicata per sé e la madre dal reduce Gonzalo nella Cognizione: «Nella sala dove lui e sua madre dovevano soli entrare e resistere; e attendere. Le loro anime dovevano, sole, aspettare come il ritorno di un qualcheduno, negli anni…. di un qualcheduno che non aveva potuto finire…. finire gli studi…. O forse aspettavano soltanto il volo del gentile angelo modellato dalla notte, dalle palpebre mute, dalle ali d’ombra….» (RR I 729).
30. SVP 802 – e v. inoltre, esemplarmente, nello stesso paragrafo della Meditazione milanese: «Il dolore nel non poter accedere all’n+1 non diversifica» da quello fisiologico «se non come il “dolore del non poter combattere” diversifica dal “dolore del perdere la propria qualità di combattente”» (SVP 803).
31. Già denunciata, ancora con immediatezza autobiografica, e senza il cauterio della rimeditazione letteraria, nelle ultime battute del Memoriale della battaglia dell’Isonzo redatto durante la prigionia a Rastatt: «Finiva così la nostra vita di soldati e di bravi soldati, finivano i sogni più belli, le speranze più generose dell’adolescenza: con la visione della patria straziata, con la nostra vergogna di vinti iniziammo il calvario della dura prigionia» (SGF II 740 – mio corsivo).
32. «Perché ricordo il fumo giallo sul monte? Perché anche l’immagine esterna, pittorica dell’episodio possa esser risuscitata», scrive Gadda – e il corsivo è suo (SGF II 585).
33. Focalizzata nella «umiliazione insostenibile della prigionia» (SGF II 787) a Cellelager, la condizione carceraria poi introiettata e rielaborata nella maschera melanconica del reduce della Cognizione emerge nella sua immediatezza psicologica inuna struggente e desolata nota di diario scritta all’ora del crepuscolo: «La luce del giorno si dilegua nella pianura come le speranze fuggenti della mia gioventù e della mia milizia, come le ragioni della vita. […] Vedo il martirio prolungarsi e smarrisco la percezione di un futuro che non sia carcere» (SGF II 787-88).
34. Si ricordi la notissima dichiarazione di poetica – tramata di riflessi autobiografici – resa nel 1949 in Come lavoro: «[…] ingiurie e sturbi dal caso […] pesano siffattamente sull’animo, sull’intelletto, che l’uscire indenni dal sabba non ci è dato. Non mi è dato affermare. La limpidità naturale dell’affermazione più nostra, più vera, è devertita ed è imbrattata sul nascere. Una mano ignota, come di ferro, si sovrappone alla nostra mano bambina, regge senza averne delega il calamo: lo conduce ad astinenti lettere e pagine, e quasi alle menzogne salvatrici» (SGF I 429).
35. Cfr. G. Alfano, Paesaggi, mappe, tracciati. Cinque studi su letteratura e geografia (Napoli: Liguori, 2010), 71-90.
36. Secondo la terminologia platonica evocata dallo scrittore nella sua accezione antitetica al lavoro del Logos, della quale egli stesso dà conto in una delle note esplicative, come d’abitudine per lui, apposte a integrare il testo – Gadda 2003b: 38, nota 3.
37. Cfr. CdD RR I 731: «Fantasticava che la patria maradagalese lo incuorasse a perfezionare quel suo scarabocchio di romanzo […]. Ma sapeva benissimo che se ne fregavano tutti, nel modo più completo» (mio corsivo).
38. «“Ringrazio la volontà divina,” così disse, “d’avermi dato per figlio un ragazzo simile. Ma quella che me lo ha tolto… neppure lei lo avrà!… […] Lo sento. La volontà divina non vuole… che mio figlio mi sia rubato. Quella non lo avrà. La marina, lo ha…”» (RR II 871).
39. Secondo la declinazione modernista – impossibilitata ad attingere la pienezza dello statuto tragico – del tema dell’incesto, già esemplarmente testimoniata, dal Pirandello di Sei personaggi, nel mancato incontro mercenario tra il Padre e la Figliastra.
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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1
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