Oscenità e tensione euristica nella scrittura di Carlo Emilio Gadda

Antonio Zollino

Il male non deve esistere, no, per i lettori seri, per le stupende lettrici. Deve comunque ritrarsi, rifuggire da sotto i polpastrelli del linotipista come si cela dietro tamerici allorché privo di tegumenti un irsuto, al Cinquale, ove sopravvengono educande, orfanelli, dealbate cuffie con cerei volti di monache. (SGF I 427)

Il sarcastico passo di Come lavoro (1949), notissimo agli studiosi e ai lettori più attenti di Gadda, lascia chiaramente intendere che, diversi anni dopo la trattazione specifica dedicata alla coesistenza fra bene e male nella Meditazione milanese, il problema del male interessa all’autore ormai maturo soprattutto sotto l’aspetto espressivo.

Non è un caso che la scena trascelta per allegorizzare l’operazione di occultamento del male sia quella di un voyeur ignudo intento a sbirciare delicate e innocenti apparizioni lungo il Cinquale, luogo già  alcionio così come le «tamerici» dietro cui egli «si cela», con patente allusione all’immaginario protonovecentesco dannunziano e pascoliano. Il male che non deve esistere o che deve essere nascosto, linguisticamente e contenutisticamente, è l’oscenità che non deve apparire in una letteratura edulcorata, strumentalmente piegata a fini educativi, d’indottrinamento e intrattenimento per le classi alte, così come nascondersi per partecipare segretamente della vita altrui costituisce l’atto ignobile dello scrittore che deve occultare non solo sé e il proprio vizio, ma tutti i vizi e i mali del mondo per essere plausibile presso un pubblico rispettabile. In altri termini lo scrittore deve assumere in proprio l’ipocrisia dei lettori cui è costretto, per ragioni di mercato e quindi di sopravvivenza, a rivolgersi.

La reazione di Gadda a un simile stato di cose è violentissima e costante nel tempo, e si traduce, fra l’altro, nell’impiego disinvolto e assai esibito di espressioni censurabili: vero e proprio specimen di tutto ciò che non potrebbe entrare in una certa idea di letteratura e che quando vi entra appare destinato a urtare la sensibilità del pubblico medio, e quindi a suscitare polemiche e disamine moralistiche a non finire. Ma anche peggiore  è il rischio della sottovalutazione o dell’indifferenza, da parte di chi legge o di chi pretende di indirizzare criticamente la lettura altrui, rispetto ad un fenomeno così evidente: non vedere o sminuire la portata della componente oscena nella scrittura di Gadda comporta non solo l’allontanarsi dal suo senso complessivo, ma travisarne del pari il significato di singoli momenti espressivi.

Così, ad esempio, sondando il testo della Cognizione del dolore, la critica si è baloccata per decenni sulla valenza semantica del cognome Caçoncellos (ricondotto, con fuorviante pruderie, al «macaronico casoncellis di Baldus I, 45, «ravioli, tortelloni ripieni di formaggio»» – oppure ai «caleçon, calzoncillos»), (1) omettendo di notare la trasparente filigrana oscena ad esso sottesa, che presentava il poeta maradagalese anzitutto come un cazzoncello (Zollino 1998: 116 sgg): acquisito che si tratta qui di un una figura a mosaico, a prevalente tinta dannunziana, ma coinvolgente per diversi aspetti anche autori non omologabili a d’Annunzio (il quale, comunque come vedremo, per Gadda non è sempre e solo un bersaglio polemico), si noterà che ancora una volta il marchio osceno si appone sulla letteratura ufficiale, certo per neutralizzarne le risultanze iponoetiche con l’irrisione polemica (118 e sgg).

Se per Gadda tuttavia la scrittura dissacratoria si innesta frequentemente  sul «valido liccio» della tradizione, cui l’autore si rivolge divertendosi a «rifare il verso», (2) è appena il caso di notare che esiste tuttavia una letteratura, e certo una grande letteratura, in grado di autorizzare col proprio esempio le operazioni gaddiane in tal senso: e anzitutto, alle radici stesse della nostra storia letteraria, c’è Dante che nella rappresentazione globale, pluristilistica e plurilinguistica della Commedia adotta il registro comico, onnicomprensivo e non selettivo rispetto a quello tragico, sublime e monolinguistico. Stile comico in cui l’oscenità è da sempre una componente non marginale. Guido Almansi, in particolare, ha indagato in modo assai suggestivo i caratteri dell’oscenità dantesca, e non solo, (3) cosicché il suo lavoro ci sarà utile nella trattazione della medesima questione in ambito gaddiano.

Su questa linea di sviluppo è cioè ovvio pensare ai canti carnascialeschi, a Pulci, Rabelais e Folengo, fino ai grandi dialettali Belli e Porta – Gadda, diamolo per scontato, si attesta su una tradizione antibembiana. Per cui, va aggiunto, gli risulta affatto naturale l’estremo approdo al dialetto – lingua popolare per eccellenza – come veicolo privilegiato dell’oscenità: le istanze della tradizione si sposano in questo caso con la tensione euristica garantita da una lingua non selettiva né selezionata. Assai chiara, in proposito, è la sua presa di posizione, nel 1956, nel rispondere alla domanda, per Epoca: Perché cinema radio e scrittori ci parlano in romanesco? (SGF I 1144-145). La ragione è molto semplice, e interessa non solo il romanesco, ma  l’«uso del dialetto in genere»:

L’uso del romanesco rientra nel desiderio, nella necessità quasi fisiologica di ricorrere, per il dialogo nel romanzo, per il parlato nel cinema, all’uso del dialetto in genere. Il dialetto, molto più felicemente della cosiddetta lingua, si avvicina alle urgenze espressive dei personaggio.

La vivezza nativa del nostro sentire e del nostro opinare è mal coercibile dall’imperio dei cretini. Il dialetto è, spesso, una felice scappatoia per la verità, per la «vera» opinione. Il dialetto è sostanza vitaminica, di fronte alla avitaminosi dell’accademia. (SGF I 1144)

Parole e opinioni, come si può osservare, di esemplare chiarezza e precisione, tanto più notevoli in un autore che non sempre appare disposto a connotare l’argomento in senso elativo (nella Cognizione, ad esempio, «nulla si salvava dal lezzo, dal dialetto orribile, dalla braveria»). (4) Ma qui, rispondendo per Epoca, e in genere nella sua opera omnia, Gadda dà voce a una concezione del dialetto tutt’altro che snobistica o intellettualistica, come linguaggio più vicino alla vita, alla «vivezza nativa del nostro sentire» e dunque alla verità; la lingua, al contrario, e specie la lingua raffinata della letteratura, dei mestieri colti e delle classi sociali dominanti, dà luogo a una selezione della realtà che può esprimere il mondo semplificato dei cretini, i quali vogliono ogni cosa a loro comando; ovvero a una modalità espressiva piovuta dall’alto, inventata e ampiamente rappresentata nella finzione letteraria.

In aperta contrapposizione a una simile lingua selettiva e preconfezionata, il dialetto si propone come mezzo più efficace per tradurre in parole la realtà, mentre la natura elitaria della lingua (5) finisce per favorire lo stesso processo nelle poco auspicabili direzioni della simulazione e della selezione – più cioè la lingua è alta e più si colloca ad un’inaccettabile distanza dal reale (Zollino 2010). Una simile funzione del dialetto è evidente in parecchi gioielli di prosa gaddiana racchiusi nei pastiches del Primo libro delle Favole. La 180, in particolare, ci mostra l’arcivescovo Basilio Teopapagòpuli che nella sua omelia interpreta, travisandolo, il battibecco fra storni e passerotti per la disputa di un posto sul ramo. L’ecclesiastico ritiene infatti che da quei devoti uccelletti provenga una schietta e umile laude al signore. Ma le cose stanno appunto diversamente, secondo i «glottologi del miscredente ottocento» che così traducono il dialogo fra i litigiosi volatili:

«di sò, el mi barbazzàgn, fatt bèin in là...»
«ditt con me?»
«proppri con te, la mi fazzòta da cul!...»
«mo fatt inlà te, caragna d’un stoppid...»
«t’avèi da vgnir premma, non siamo mica all’opera qui...»
«sto toco porséo...»
«va a remengo ti e i to morti!...»
«quel beco de to pare...»
«e po’ taja, se no at mak el grogn,... tel dig me,... a te stiand la fazza...»
«in mona a to mare...»
«lévate ’a ’lloco, magnapane a tradimento!...»
«né, Tettì, un fa’ ’o bruttone...»
«i to morti in cheba...»
«to mare troja...»
«puozze sculà!...»
«’sta suzzimma, ’e tutte ’e suzzimme!»
«piane fforte ’e loffie!...»
«chitarra ’e stronze!...»
«mammete fa int’ ’o culo...»
«e soreta fa int’ ’e rrecchie...»
«a tte te puzza ’u campà...»
«lèati, porco, ’e cc’ero prima io...»
«...mandolin ’e mmerda!...»
«... sciu’ ’a faccia tua!...»
«chiàveco!...»
«sfacimme!...»
«recchio’, te ne metti scuorno o no!»
«è ’ttrasuta donn’Alfunsina!»
«e cc’ero io, maledetta befana, costassù costì l’è la mi casa!...»
«vaffangul’a mammeta!»
«abbozzala, pezzo di merda, o ti faccio fori…»
«levate da’ ccoglioni… accidenti a la buhaiòla ’he tt’a messo insieme!…»
«to màae…»

e altre finezze, e maravigliose e dolce istampite del trobàr cortés. (SGF II 57-58)

L’esilarante e irriverente favola gaddiana potrebbe porsi utilmente a confronto con le Dicerie sacre di Giambattista Marino, specie se rammentiamo un passo della Diceria seconda sopra le sette parole dette da Cristo in croce:

So che gli Storni e i Lusignuoli sono stati alle volte sentiti parlare in Greco e in Latino  linguaggio. So che i Tordi, le Gaze, i Corvi, l’Aquile, e sopratutti i Pappagalli non solo le parole, ma le membra e le periodi intiere, secondo l’uso degli uomini recitando, hanno Imperatori e Prencipi grandi in loro favella salutato. (6)

Il brano di Marino (a differenza di ciò che avviene nel testo di Gadda) prosegue negando alle voci degli uccelli «concetto di significanza alcuna, per esser formate non da ingegno arguto, ma da lingua irragionevole, onde né sanno, né intendono né capiscono ciò che garriscono» (Marino 1967: 809).

Il recupero dell’oscenità popolare attraverso il dialetto non esclude dunque il ricorso ad una tradizione letteraria che stavolta si presenta come rivendicata e condivisa: quella, come si diceva, dei grandi poeti dialettali. L’istanza è talmente viva in Gadda che affiora sensibilmente anche nella dimensione del privato – ecco infatti che in una battuta inserita in una lettera a Contini del 3 aprile 1948, quale «amebeo ambrogiano tra due dattilografe diciannovenni»:

– Te se sü con l’arkitètt? (con largh i tètt)
– No son giò con l’arkiciàpp! (con larg i ciàpp) (Gadda 1988b: 55)

si avverte la lezione plurilinguistica di un celebre verso di Porta:

Oh che tett, oh che ciapp plus-quam-perfett! (7)

In tutti questi casi la realtà viene assunta metonimicamente nella sua componente oscena, ovvero  nella dimensione generalmente espunta dalle scritture selezionate e dalle «melodi bugiarde» (Come lavoro, SGF I 434): tutta l’operazione, in altri termini, si giustifica nella riattribuzione di senso euristico alla letteratura, non più intesa come strumento di mistificazione e di potere. La scrittura si riappropria di tutto ciò che in realtà avviene nel mondo, ma non si può dire che ciò si verifichi senza violare un implicito patto di convenienza e di decenza: dell’insulto, della volgarità, della bestemmia, in una parola, appunto, dell’oscenità. Guido Almansi afferma plausibilmente che ogni grande autore si oppone al buon gusto, inteso come sistema di idee onninamente accettate e moralmente irreprensibili: la ricerca del proprio stile renderebbe insomma qualsiasi autore degno di tal nome trasgressivo e «volgare» (Almansi 1974: 202). Anche Almansi, fra l’altro, non sembra intenzionato nella sua disanima a separare l’elemento osceno dalla sua componente tradizionale – così, a suo riguardo, si esprime Calvino:

l’osceno è ricevuto da lui in tutte le sue connotazioni culturali tradizionali, quasi che, senza di esse, lui temesse di perderlo; insomma non è l’estraniarlo in un altro codice o in un altro contesto che gli sta a cuore, ma è proprio l’oscenità dell’uso osceno dell’osceno. (Postfazione di Italo Calvino – Almansi 1974: 220)

A Gadda – come abbiamo avuto modo di considerare – la tradizione interessa eccome, ma allo stesso tempo (sono sempre parole di Calvino, che qui pieghiamo ai fini del nostro discorso) la sua ricerca espressiva appare destinata:

a cambiare il rapporto dell’osceno con tutto il resto, a dissolvere l’aura d’indecenza e complicità che l’ipocrisia gli ha accumulato intorno, insomma a negarlo come osceno e ridargli piena cittadinanza nel mondo dell’esprimibile, con la dignità che gli spetta per diritto di natura, e che è ben alta. (219-20)

In una lettera davvero interessante indirizzata a Enrico Falqui il 10 luglio 1946, nell’ambito della lunga gestazione di Eros e Priapo, Gadda sembra in effetti avere a cuore sia l’aspetto tradizionale che la dignità letteraria dell’osceno; così, parlando del titolo, chiarisce che

ha agito (lo vedo ora) una reminiscenza inconscia del D’Annunzio di «Laus vitae», il primo libro delle «Laudi», che ho molto letto a suo tempo e conosco in gran parte a memoria. Il «priàpo» è suo, dove descrive nello sciopero «il gran demagogo» [...] Il vituperio dannunziano è osceno, ed è felice realizzazione oratoria e stilistica, e imaginifica, se non poetica. (cit. Italia & Pinotti 2008: 11)

Come informano Paola Italia e Giorgio Pinotti, il manoscritto relativo al primo capitolo di Eros e Priapo verrà rifiutato «perché oltrepassava i limiti della decenza» ovvero «perché intollerabilmente osceno». (8) Per Gadda la delusione è cocente, e in una lettera del 14 agosto 1946 a Enrico Falqui, mancato editore del testo, si difende senza tentennamenti:

il male che noi abbiamo ricevuto è molto: e sarà sempre superiore alle parole che possiamo pronunziare, per quanto abominevoli. In nome della più elementare verità storica, non ritiro e non posso ritirare la mia accusa, che è vera. (9)

Ancora una volta appare chiaro che la denuncia del male e la ricerca della verità non possono prescindere dalla pronuncia di «parole [..] abominevoli»: sono queste parole, con la loro violenza espressiva, a garantire l’enormità di quel che è successo, a rendere l’idea di mali e ingiurie ancora più enormi di quanto le parole stesse possano dire.

Gadda passa per scrittore elitario, e in misura non piccola lo è, viste le barriere linguistiche e culturali che pone fra sé e il lettore medio. Attraverso la ricerca e l’esibizione dell’osceno, tuttavia anche recupera la componente popolare dell’espressione: se ne fa bandiera contro i linguaggi delle élite sociali e culturali da cui trapela la visione complessiva di un mondo limitato ed edulcorato a esclusivo proprio uso e consumo. La denuncia del male ricevuto, in definitiva, non può avvalersi di quello stesso linguaggio bugiardo ed elusivo elaborato dalle classi sociali che quel male hanno favorito e, in ultima analisi, provocato.

Università Cattolica Milano

Note

1. Così in Gadda 1987a, nel commento di Emilio Manzotti, p. 55, r. 789: «Il nome trascrive, malgrado i traduttori francesi («Quant a Caçoncellos, pas de doute: la clef, ce sont le caleçon, calzoncillos») il macaronico casoncellis di Baldus I, 45, «ravioli , tortelloni ripieni di formaggio»».

2. «Rifare il verso! quali sottili misure si dimandano per una cotanta operazione! Dire dassenno le proprie magre opinioni sulla piantatura del rabarbaro può essere pratica d’ordinario mestiere. Ma lavorare ai sottili e congegnati equilibri cervantini vi par sapienza di nulla? Ora in codesti giochi e burle ch’io dico, la lingua illustre è talora adibita a predisporre l’orditura medesima della burla. È il valido liccio di fondo a cui si appoggerà l’opera: dico il disegno del simulare, o del mordere» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, SGF I 494).

3. G. Almansi, L’estetica dell’osceno (Torino: Einaudi, 1974).

4. RRI 735 – l’espressione può difficilmente prescindere dal riferimento al celeberrimo passo di Dante, Inferno, III, vv. 25-6 : «Diverse lingue, orribili favelle, | parole di dolore, accenti d’ira».

5. Non sarà fuori luogo ricordare qui, ad esempio, le dissertazioni filologiche della Genealogia della morale di Nietzsche.

6. Cito da G. Marino, Opere, a cura di A. Asor Rosa (Milano: Rizzoli, 1967), 808.

7. Il v. 4 del sonetto dedicato alla «Sura Catterinin».

8. Le citazioni provengono da due lettere distinte: la prima ad Alberto Mondadori del 28 settembre 1946;  la seconda  a Gianfranco Contini del 28 ottobre 1946 – cit.  Italia & Pinotti 2008: 12, n. 21.

9. V. ancora Italia & Pinotti 2008:12, n. 23, e ricordando che l’edizione in volume di Eros e Priapo del 1967 smusserà la virulenza del testo originario.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1

© 2011-2023 Antonio Zollino & EJGS. First published in EJGS, Supplement no. 9, EJGS 7/2011-2017.

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