Gadda leggibile

Cristina Savettieri

Quella della leggibilità suona quasi come una virtù calviniana, una di quelle che tranquillamente sarebbero potute comparire tra i «memos for the next millennium», insieme a Visibilità ed Esattezza. Non cito Calvino a caso, visto che la parte iniziale di Molteplicità, la quinta delle Lezioni americane, è dedicata a Gadda. Sono molto note queste poche pagine a margine del Pasticciaccio, che a mio avviso parlano poco di Gadda e molto di Calvino. E non posso fare a meno di ricondurle a un passo di Esattezza, attraverso il quale vorrei spiegare cosa non intendo per leggibilità:

Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un’ossessione divorante, distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancora più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. (Calvino 1995: I, 686-87)

La divagazione, la distrazione dal tema fissato, l’esplorazione delle sue possibili varianti, la costruzione di piani spaziali e temporali distesi, complessi, innescano un blocco, la scrittura si arresta, ed è facile immaginare che il corrispettivo di questa sorta di dissipazione centrifuga sia l’illeggibilità del testo. L’autoriflessione cui Calvino qui si sottopone è a un passo dal diventare descrizione normativa: «Spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro» (717-18). Qui Calvino parla di Gadda, lo accosta a Musil, che sicuramente gli preferisce, lo infila in una collana di scritture enciclopediche, animate dall’«ansia di contenere tutto il possibile» (727), ne esalta la maestria nella costruzione di forme brevi, come il testo sul risotto alla milanese, proprio mentre ne decreta la «vocazione costituzionale» all’incompiutezza. Ci sta in sostanza restituendo l’immagine di un congegno opaco – lo definisce uno scrittore «difficile, anche in italiano» – e fallimentare, e per questo riducibile a canone.

Le note di Calvino lasciano insoddisfatti per due motivi: in primo luogo perché, in generale, ed è tutto sommato una banalità, non sempre le scritture centrifughe sono meno leggibili di quelle centripete. In secondo luogo perché ad ogni modo Gadda non è uno scrittore enciclopedico alla maniera in cui lo intendeva Calvino, o forse non è uno scrittore enciclopedico in assoluto.

L’enciclopedia è una forma chiusa, che si presume autosufficiente e gerarchicamente strutturata, e soprattutto tesa dal disumano sforzo di esaurire il possibile, di non lasciare nulla al di fuori di sé, dunque ambiziosa e vana allo stesso tempo. Questa sorta di lente borgesiana, attraverso la quale Gadda spesso è stato, più o meno inconsapevolmente, offerto ai suoi lettori da chi lo ha studiato e forse anche da chi ne ha curato gli scritti, non solo non ha per nulla facilitato la sua ricezione, ma non gli ha soprattutto reso alcuna giustizia. Argomenti quali l’incompiutezza, lo scacco conoscitivo, il frammentismo, il gioco combinatorio, si tengono la mano nel tracciare i lineamenti di una delle icone più rassicuranti del gaddismo. Se ad essa ci attestiamo, non potremo che decretare l’illeggibilità dell’opera di Gadda, vale a dire il suo mutismo, la sua incapacità di agire sul mondo.

Si è soliti recare come argomento principe dell’illeggibilità dell’opera di Gadda l’opacità e l’autismo del suo stile, come se fosse naturale transitare agevolmente dal concetto di leggibilità a quello di trasparenza. Da questa resistenza sorgono due ordini di problemi: per un verso Gadda è illeggibile perché la sua scrittura è difficile, oscura, frutto di un artigianato stilistico sconvolto, e, essenzialmente, fondata su una pluralità di scritture; per un altro, Gadda è illeggibile perché lo stile ingombra la narrazione, la rallenta fino ad annientarla, facendosi anzi schermo di una incapacità di narrare, camuffata fino all’ipertrofia. Il primo passo da compiere per sbarazzarci di questo paradigma critico è quello di tenere insieme narrazione e stile, di non farne due entità antitetiche e inconciliabili, da divaricare fino a scompaginarle. La narrazione, in Gadda, non sta dietro lo stile, non funziona nonostante lo stile, ma totalmente in esso. Il secondo passo è quello di non fare della leggibilità un corollario della trasparenza, che riduce la lettura a un atto di rispecchiamento, di adaequatio, o, peggio ancora, come scriveva Barthes, a un «gesto parassitario», (1) secondo cui chi legge può limitarsi a «ricevere» o «respingere» (Barthes 1973: 10) ciò che sta leggendo. La lettura non è un consumo passivo, è un lavoro, una produzione di senso, non precostituita, ma che si fa nel farsi della lettura stessa. La leggibilità è un effetto di questa dinamica di connessione e riconnessione degli strati del testo, che al lettore è affidata.

Largo spazio ha, sia nelle note del Racconto italiano che in quelle di Novella seconda, la riflessione sul ruolo del lettore. Gadda è, a quell’altezza, appena un esordiente, il suo desiderio è di risultare leggibile, di incontrare il favore dei suoi lettori, di offrire loro delle buone ragioni per appassionarsi ai suoi scritti. Le note di Novella seconda vanno esattamente in questa direzione, facendo coincidere la scelta di utilizzare schemi e trovate romanzesche, al limite anche «conandoyliane», con il «diritto» del pubblico «di essere divertito» (RR II 1318). Ma per Gadda romanzesco significa in primo luogo complicazione, animata da «un fare intimo e logico» (RR II 1317). Significa soprattutto fedeltà ai grovigli di cui si sostanzia la vita, non sempre «semplice, piana, piatta», ma spesso «complicatissima» e per l’appunto «romanzeschissima» (RR II 1318). Essere leggibile comporta l’essere complicato. Non può, per Gadda, sussistere patto con il lettore che non passi per forme complesse: il rischio è quello di ridurre la narrazione a «residuo fecale» (SGF I 630), come scriverà parecchio tempo dopo in Un’opinione sul neorealismo, dove infatti, non a caso, descrive la propria «ansia di lettore» (SGF I 629) che chiede al romanzo qualcosa che lo aiuti a «perseverare nella lettura»: «aspettazione» e «mistero», tessuto connettivo entro cui i fatti narrati siano immersi e cessino di essere semplici grani di rosario, frutto di una giustapposizione seriale. Leggere Gadda significa in primo luogo assumere questa logica e da essa lasciarsi implicare.

Si è spesso osservato che i romanzi maggiori di Gadda si reggono su trame esili. La cognizione del dolore, cui si accorda un minimo gradiente di narratività, di solito viene considerato romanzo troppo povero di eventi, eccessivamente statico, indifferente a qualunque principio di trasformazione e di rottura di equilibrio. Non si può negare che questo sia vero se si tiene presente un certo modello di romanzo e una certa idea di narrazione, retta su una logica consecutivo-causale e un ordine temporale univoci, che orientano in maniera ferrea la leggibilità del testo. Ridotto a paradigma, l’intreccio della Cognizione non esiste quasi, ma al prezzo di mutilarne del tutto le ricchissime trame interne. C’è la trama dei due paesi in guerra da anni, da cui si innescano la trama dei falsi reduci e quella del fulmine. L’una implica il caso del Palumbo, l’altra introduce il poeta Caçoncellos e il tema delle celebrazioni belliche. A ben vedere sia la trama dei falsi reduci, che quella del poeta, hanno già in sé il racconto principale, vale a dire quello di Gonzalo, «reduce senza endecasillabi» che «i compagni morti, mai, mai, […] non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare» (RR I 682), e lo generano secondo un rapporto di implicazione e contrario. A loro volta queste trame sono attraversate, e in certi casi realmente sfondate, da altre trame: le connessioni tra i fatti, in sostanza, non passano per semplici linee rette, ma si snodano in pieghe di narrazione; così la trama del Palumbo implica il racconto del commerciante di stoffe e del suo incontro con il falso reduce, ma ha in sé anche l’innesto della trama del dottor Higueróa, origine delle voci sul finto Manganones, ma soprattutto medico di Gonzalo e riflettore per la mente del quale passano tutte le dicerie attorno al figlio e alla Signora. E non è tutto, perché dall’altra trama, quella del fulmine e dunque del vate, emerge la figura di Di Pascuale – prende in affitto la portineria della villa «hantée» – che è non solo amico di Higueróa, ma anche colonnello dell’ospedale militare, che assiste alla prodigiosa guarigione di Manganones: sarà la fonte da cui Higueroa trarrà le notizie sul finto invalido.

I nessi tra tutti questi fatti – che si affastellano nel primo tratto, ma trascinano il proprio esito fino alla conclusione del quarto con la ricostruzione della vicenda di Manganones – non sempre sono di natura causale: si tratta di trame, per l’appunto, implicate l’una nell’altra da innesti che sconfinano da una serie narrativa a un’altra, senza che la relazione istituita assuma necessariamente la forma della causa o dell’effetto. La morte di Caçoncellos coincide per caso con le vicende del fulmine, che determineranno l’inserimento sul narrato di Di Pascuale, che a sua volta costituisce la saldatura con la vicenda del falso reduce attraverso la sua amicizia con Higueroa. Da qui, con la visita medica, viene rilanciata la vicenda principale, e con il finale della prima parte la narrazione abbandona definitivamente la via della saturazione delle trame e punta invece su una struttura di tipo tematico: se nulla più sappiamo della villa «hantée», numerose sono le tessere sulle celebrazioni belliche, sulla retorica, e dunque sulla «parvenza», da cui i temi anti-borghesi: da un lato i motivi riferiti al vissuto personale di Gonzalo, dunque le campane e le pere, che innescano i ricordi dolorosi dell’infanzia; dall’altro le figurazioni del narcisismo, come ad esempio la visione dei borghesi al ristorante. La matrice iniziale del romanzo, vale a dire la guerra tra i due paesi confinanti, è continuamente riecheggiata dal tema del lutto, fraterno e materno, spesso sovrapposti e, a livello discorsivo, in alcuni casi realmente inestricabili. La trama del falso invalido si sfrangia nella grottesca rappresentazione dei lukonesi, contadini, guardiani notturni, «affossamorti», Beppine e «villici» in genere, che convoglia i temi della sporcizia, del disordine, della puzza, degli escrementi, della nudità, e dunque del desiderio di ordine che sfocia nell’allucinazione della strage compiuta da Gonzalo.

è dunque possibile tracciare una mappa dei nessi esistenti tra la prima e la seconda metà del romanzo, vale a dire tra l’intreccio di trame e l’intreccio di temi, a patto di non marcarne l’univocità: la tessitura discorsiva del romanzo è estremamente complessa, i temi tendono a sovrapporsi, e come le trame, a contagiarsi e sconfinare l’uno nell’altro. Ma c’è una coerenza direi millimetrica nelle rifrazioni tematiche, di cui il quinto tratto è un saggio esemplare: la seconda parte del romanzo si apre dispiegando nuovamente tutte le trame attraverso spostamenti metonimici e condensazioni simboliche. Così ricompongono il quadro in primo luogo la guerra significata dal lutto, ma anche dalla sopravvivenza di Gonzalo, e il fulmine fattosi allegoria del male. La scena dell’uragano diventa così una durata espansa, in cui coagulano e si fondono passato e presente della storia, prefigurandone il futuro – l’assassinio della Signora – e la trama come tessitura di eventi si fa inequivocabilmente stratificazione e intreccio di temi. Solo cogliendo questo scarto strutturale il romanzo risulta perfettamente leggibile, vale a dire percorribile in tutte le sue dimensioni.

Col Pasticciaccio Gadda sembra tornare a tutti gli effetti al programma di Novella seconda: fare un romanzo «romanzesco», eleggendo le strutture di genere del giallo. Si è soliti considerare questa scelta come dettata dalla volontà di costruire, attraverso la rappresentazione di un caso investigativo, una sorta di allegoria della conoscenza, che, vista la presunta incompiutezza del romanzo, si dissiperebbe nel suo fallimento. Eppure a rileggere quelle note, tentando poi di metterle in relazione con il Pasticciaccio, le impressioni che se ne ricavano sono ben altre. Il giallo costituisce per Gadda un genere di elezione intanto perché offre innumerevoli possibilità di sperimentazione sul versante del romanzesco, che altro non significa se non possibilità di allestire una macchina narrativa complessa; inoltre quale altro genere, se non il giallo, garantisce una continua tensione dinamica tra «aspettazione» e «mistero», stimolando così il lettore a «perseverare nella lettura»?

Credo che in questa chiave vada collocata la scelta di genere portata avanti col Pasticciaccio: non è necessario ricorrere all’allegoria dell’investigazione come tentativo conoscitivo, tanto più che la tensione gnoseologica è una costante della scrittura gaddiana, fin dai suoi esordi. La partita che si gioca nell’ultimo grande romanzo gaddiano è, in via apparentemente paradossale, proprio quella della leggibilità.

Rispetto alla Cognizione, che si regge su una bipartizione strutturale – concentrazione delle trame nella prima metà, concentrazione dei temi nella seconda – il Pasticciaccio, nonostante la sua ossessione per il doppio e il duplice, presenta una struttura tutto sommato unitaria: si potrebbe quasi dire che si tratta di un romanzo tutto di trama, dall’inizio alla fine. I principali nodi stretti nel corso della narrazione, vale a dire i due crimini, si sciolgono solo alla fine, mentre al suo interno la trama si è moltiplicata in trame secondarie, alcune non funzionanti ai fini dell’investigazione – su tutti i casi di Angeloni e i suoi numerosi garzoni di bottega, e quello di Valdarena –, altre innestate per contiguità – usi e costumi del maresciallo Santarella e della sua numerosissima famiglia al femminile –, altre ancora apparentemente divaganti – il sogno di Pestalozzi. Ci sono poi gli intermezzi di invettiva contro il fascismo a completare questa struttura brulicante di fatti intrecciati. Tutti gli oggetti, i luoghi e i personaggi che entrano in questo vortice narrativo lasciano la loro traccia, il loro sedimento, di cui la voce narrante non può non rendere conto. Le cose si complicano ulteriormente perché gli snodi cruciali dell’azione, l’aristotelico mutamento di stato da ignoranza a conoscenza, avvengono per coincidenze fortuite: per caso Fumi adocchia il nome di Ines Cionini, che per caso inserisce nel suo resoconto su Diomede Lanciani anche il fratello Ascanio, di cui, sempre per caso, precisa essere garzone di un «pizzicarolo»; e ancora casuale appare il riferimento di Ines a una «amica dell’amica» che presta servizio a Roma. Insomma, le difficoltà che il lettore deve affrontare per arrivare in fondo al romanzo sono evidenti: troppe narrazioni altre si inseriscono tra i fatti principali, troppo deboli, fino a scomparire del tutto, i nessi causali che dovrebbero orientare la lettura.

Eppure anche di questo fitto e frastornante sistema di trame è possibile disegnare la mappa: quelle che sono state lette unicamente come dichiarazioni di poetica funzionano nel romanzo anche come indicazioni di lettura: «Sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente» (RR II 16). Declinare le cause al plurale non serve soltanto a illuminare il metodo di indagine, né unicamente a dispiegare una piccola allegoria del raccontare. Serve anche a indicare al lettore, che con l’investigatore tende naturalmente a identificarsi, un percorso di lettura, una via di accesso al racconto, il principio secondo il quale chi legge, molto più che nella Cognizione, deve lasciarsi implicare dalle trame a loro volta vicendevolmente implicate. Se le prime pagine del romanzo offrono un’indicazione di natura strutturale, oltre che filosofica, non va sottovalutata l’altra fondamentale considerazione attribuita ad Ingravallo, che dispiega, precedendo la narrazione dei fatti, il filo da seguire per interpretarli: «Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo “quanto di erotia”, si mescolava anche ai “casi di interesse”, ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste di amore» (RR II 17). Qui c’è già la soluzione dell’enigma, ben lontano dal rimanere insoluto, anzi figurato in maniera fin troppo evidente. Se da un lato per penetrare il garbuglio del racconto occorre abbandonare la categoria di causa al singolare, dall’altro per comprenderne il significato bisogna assumere questa logica del desiderio e del possesso quale chiave interpretativa. Se non ci sono cause evidenti e dirette che connettano i fatti in maniera coerente, se in sostanza le illuminazioni che conducono alla soluzione del caso emergono dai punti in cui la «rete» è più «sfilacciatella» (RR II 185), esiste comunque una causale remota che lascia intravedere il «meccanismo segreto della conseguenza» (SGF I 562). Questa causale remota, dispiegata già alla terza pagina del romanzo, che altro non è se non la verità delle relazioni umane, fondate su una libido narcisista, distruttiva o autodistruttiva a seconda dei casi, intesse sulla fitta, e insieme sfilacciata, rete di trame una rete tematica complessa e stratificata. Non basterà al lettore, insomma, perseverare nelle erranze e nei vicoli ciechi del racconto, fino a focalizzarne le cruciali smagliature, le incongruenze e gli smottamenti logici da cui l’azione viene puntualmente rilanciata; occorrerà integrare le lacune causali seguendo le tracce dell’Eros nelle sue numerose significazioni: dal movente del furto a quello dell’assassinio, al desiderio di maternità frustrato di Liliana e a quello cifrato dalla sessuofobia della contessa Menegazzi, passando per ciascuna delle relazioni che lega tutti i personaggi del romanzo – Ingravallo rispetto a Liliana, Liliana rispetto alle sue «nipoti», i parenti della defunta rispetto ai suoi beni, le lavoranti della Zamira rispetto agli avventori dell’antro e viceversa – fino a oggetti e animali investiti di valore simbolico – i gioielli ovviamente, il coltello, le galline. A ciò si aggiunga una insistente significazione e tematizzazione del vuoto, del nulla, della distruzione del tempo, che altro non sono che la controparte del desiderio: le nuvole, il treno, le rovine della campagna ne costituiscono i segnali più evidenti.

Nel Pasticciaccio la frattura dei nessi causali disfa l’intenzionalità della trama, imponendo così la continua interazione con il tessuto tematico: i fatti narrati non si dispongono come gli anelli di una catena, saldati gli uni agli altri secondo un ordine logico e temporale irreversibile, per cui viene a mancare il «tout se tient» barthesiano, che salvaguarda il regime del leggibile nei testi cosiddetti «classici» (Barthes 1973: 143). Ma sulla rete dei temi è possibile ricomporre il significato profondo del romanzo. La sua leggibilità, vale a dire la possibilità del lettore di connettere e riconnettere i sensi e gli strati del testo, si compie proprio sul tessuto esorbitante di Eros, sulle sue molteplici sollecitazioni a «riferire» e «collegare» (SGF I 778) oggetti, personaggi, metafore e simboli, fino agli intermezzi di invettiva contro il fascismo, in un processo di significazione mai del tutto esaustivo, faticoso, imperfetto, che non mira a risolvere la complicazione, a dispiegarla, ma ad attraversarne le pieghe.

Il desiderio è, come Brooks ha notato, «una forza propulsiva e dinamica di produzione di significati», e la lettura stessa è una «forma di desiderio che ci spinge avanti, sempre più addentro nel testo». (2) La vasta materia narrata trova senso solo nell’ottica del desiderio che, seguendo ancora Brooks, riesce a «connettere fra loro le sostanze organiche in unità sempre più vaste». Queste, che sono parole di Freud tratte da Al di là del principio di piacere, suonano come il richiamo gaddiano al «sentimento del complesso». Di esso sono impregnati gli innumerevoli strati del Pasticciaccio, il più complicato, il più leggibile dei romanzi di Gadda.

Università di Pisa

Note

1. R. Barthes, S/Z. Una lettura di «Sarrasine» di Balzac (1970) (Torino: Einaudi, 1973), 16.

2. P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984) (Torino: Einaudi, 1995), 41.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-08-6

© 2003-2025 by Cristina Savettieri & EJGS. First published in EJGS (EJGS 3/2003).
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framed image: after a detail from Leonardo da Vinci, The Map of Imola, ca. 1502-1503, Windsor, Windsor Leoni volume.

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