Il gran lombardo
Giulio Cattaneo
«Per carità, non mi tradisca…»
C.E. Gadda
[…]
«Che faccia aveva quel Pavese!» commentava un giorno guardando la fotografia dello scrittore scomparso da poco e per la verità in quella pessima istantanea la faccia tiratissima di Pavese non prometteva nulla di buono. Il tavolo di Gadda era ingombro di romanzi e racconti di Pavese, Pratolini, Cassola che lui sfogliava preparandosi per un’inchiesta sul neorealismo da trasmettere sul Terzo Programma. Si vedevano anche «gettoni» della collana narrativa di Vittorini che Gadda chiamava «marchette» e, nei momenti di maggiore stizza, «marchettoni». Ogni tanto leggeva una frase come «Oreste se ne uscì in biroccio», e il tono violentemente sarcastico non lasciava dubbi sul grado del suo apprezzamento. Poi si chiuse con altri quattro o cinque scrittori e critici in uno studio di via Asiago leggendo le paginette che aveva messo insieme sbuffando. «Le mie naturali tendenze, la mia infanzia, i miei sogni, le mie speranze, il mio disinganno sono stati, o sono, quelli di un romantico: di un romantico preso a calci dal destino, e dunque dalla realtà. È ovvio ch’io abbia chiesto e chieda al romanzo, al dramma e perfino alla cronaca, alla memoria, quel tanto di fascinoso mistero o di appassionata pittura dei costumi e delle anime che solo potevano aiutarmi a perseverare nella lettura…» E concludeva: «Un lettore di Kant non può credere in una realtà obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto; ma della realtà, o piuttosto del fenomeno, ha il senso come di una parvenza caleidoscopica dietro cui si nasconda un quid più vero, più sottilmente operante, come dietro il quadrante dell’orologio si nasconde il suo segreto meccanismo. Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro quei due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia…»
In quella occasione lesse una dichiarazione dell’assente Tecchi, con esibizione di accurata pronuncia tedesca per non dispiacere all’amico germanista che aveva costellato la sua prosa di espressioni degne di un filologo di Gottinga.
Gadda pensava che nelle sue opere fosse contenuta una dose maggiore di realismo che nei racconti cosiddetti neorealisti e diceva di essere uno scrittore più «sanguigno» che cerebrale, a differenza di quanto affermavano certi critici.
«Croce diceva di me: – Ha la mano pesante. Ha la mano pesante, – e aveva ragione». Gadda assumeva spesso atteggiamenti masochistici, ma finiva per arrabbiarsi se si accorgeva di avere esagerato. Scriveva ad Antonio Baldini elogiandolo per la limpidezza della sua prosa e si mortificava al suo confronto: «Io sono un macchinone che soffia». Si irritava però con gli amici scrittori che lo avevano costretto a recensirli, uno di questi almeno «ventidue volte». Raccontava che Tecchi in anni lontani lo aveva svegliato all’alba di un capodanno con una feroce interurbana, ordinandogli di accertarsi subito se il suo nuovo romanzo fosse già esposto nelle vetrine dei librai permettendogli così di concorrere ad un premio letterario. Per farsi perdonare la telefonata in ora inopportuna, Tecchi lo aveva tempestato di esortazioni virili con tono vibrante e volitivo: «Quest’anno dobbiamo lavorare! Dobbiamo lavorare!»
«Un po’ di vino ci vuole», sentenziava Gadda in trattoria e portava l’esempio di una famiglia che si era ammalata di tifo per una scorpacciata di ostriche ad esclusione della figlia che aveva bevuto un bicchiere dei Castelli. In queste spiegazioni aveva la gravità di Pickwick come quando, a proposito di un giovane scrittore di nome Raffaele ma chiamato Dudú da familiari e amici, dava questa interpretazione: «Dudú viene dal tedesco e significa: “Tu… Tu…” Una notte, in Germania, in un albergo, nella camera accanto alla mia era un coppia che si sollazzava e la donna nel momento supremo ansimava: “Du… Du…” come per dire: “Tu, che mi fai tanto bene…”». Questo ricordo ne richiamava un altro, non più tedesco ma belga. Gadda, sempre in una camera d’albergo, era stato svegliato di colpo nella notte da un rantolo di donna: «je meurs… je meurs…» Subito aveva pensato a un assassinio ed era pronto a dare l’allarme ma poi, ascoltando meglio, aveva capito di che si trattava: «je meurs» era l’equivalente belga del «Du… Du …» tedesco. Altro esempio di chiarimento serio da parte di Gadda: «Feticismo è conservare gelosamente un oggetto, un indumento della persona amata. Carducci viaggiava con una valigia dove era un paio di enormi mutande di Annie Vivanti con giri di merletti e svoli a insalata. Ogni tanto apriva la valigia, tirava fuori le mutande, le annusava e se ne inebriava. Questo è feticismo». Quanto ad Annie Vivanti, aveva detto ad un’amica in quale albergo si trovava con Carducci: «Se vuoi sentire anfanare il più grande poeta d’Italia, vai nella stanza numero dodici».
Nel ’50 Roma era invasa da fascisti arrivati da tutte le parti d’Italia per evitare le eventuali bastonature nei loro paesi. Si erano un po’ alla volta sistemati in ditte varie dove si ritrovarono con vecchi camerati. Il momento pareva abbastanza favorevole alle destre e i fascisti si riunivano spesso profetizzando una nuova «marcia su Roma» dal Sud, probabilmente dalla Calabria dove avevano avuto sentore di manifestazioni nostalgiche o dalla Puglia, per aver incontrato un barese in possesso di grandi notizie. Gli uomini lavoravano in uffici squallidi e le loro mogli erano quasi tutte affittacamere, aggiungendosi alla folla di affittacamere a pensione completa che allietava intere generazioni di impiegati e studenti meridionali.
Nelle riunioni periodiche si parlava dei vecchi tempi e dei nuovi propositi di durezza non appena i partiti democratici avessero chiesto il loro aiuto nella lotta al bolscevismo: il prezzo sarebbe stato altissimo. Leggevano Il merlo giallo che stava sempre per morire, col disegno del merlo spennacchiato che chiedeva soldi, e il truculento Asso di bastoni con lo scheletro del combattente, in uniforme e elmetto sul teschio, che afferrava alla gola il traditore Badoglio. Il periodico più colorito era forse Brancaleone con l’immagine del cavaliere che disarcionava Grajano d’Asti nella disfida di Barletta, al grido: «Viva l’Italia: e così vadano i traditor rinnegati». Il trafitto faceva in tempo a dichiarare: «Ho in tasca gl’Italiani, l’Italia e chi le vuol bene; servo chi mi paga, io». Sotto la testata, i mongoli con la stella rossa sul berretto di pelliccia bivaccavano in piazza San Pietro intorno all’obelisco mentre i loro cavalli si abbeveravano alle due fontane con raccapriccio delle anime del Maderno e di Clemente XI. Brancaleone era fascista, ma anche cattolico. Ripudiato invece L’uomo qualunque da quando Giannini aveva attaccato i fascisti disegnandoli anche in una vignetta con l’orbace e le aquile dorate mentre i veri qualunquisti li sbirciavano con sarcasmo, in borghese doppiopetto. Gadda non apprezzava i missini, ma vedeva di buon occhio i monarchici e non nascondeva una certa simpatia per Lauro. Dava il voto ai liberali, ma a momenti si divertiva all’idea di votare stella e corona, magari per un dispettuccio a qualche collega di ufficio: «Voterò liberale, a meno che…» e qui una risata in due tempi, fra rabbia e gioia: «Ah! Ah!» Se tuttavia si annunciava un comizio monarchico di Delcroix commentava sottovoce: «Questo cieco di guerra… Fosse stato almeno muto di guerra…» Quando Gadda rideva, spontaneamente, senza sarcasmo, sollevava di colpo la testa e ne usciva un gorgoglio seguito da parole di blando rimprovero: «Lei mi fa ridere…»
«Ave Maria, gratia plena», borbottava al telefono, quando gli chiedevano conto di una pratica dimenticata, sperando che la Madonna gliela facesse tornare in mente con intervento miracoloso. Poi cercava affannosamente fra le carte che ingombravano il tavolo e concludeva sconfortato: «Devo averla lacerata in un momento di furore». Un gesto che si ripeteva abbastanza spesso: «A un Gadda questa roba?» Trac, trac: la pratica in quattro pezzi finiva nel cestino. La mattina leggeva i giornali e con particolare attenzione gli avvisi economici: «Nubile, benestante conoscerebbe scopo matrimonio scapolo anche nullatenente, purché mutilato».«Che sia una sadica?»
«Vedo che ha scritto frasi pregevolemente brevi», osservava un giorno a un giovane collaboratore dai gesti impacciati e dai discorsi noiosissimi, sempre incerto se rimanere o andarsene dopo aver portato un articolo. Aveva un viso infantile, latte e miele, e se qualcuno sbuffava, dopo che finalmente si era deciso a congedarsi, Gadda si informava sulla ragione di quelle impazienze. «è troppo squallente», gli rispondevano servendosi di un aggettivo gaddiano («Quel fiasco di vino squallente»). «Squallente? Ma se è bianco e rosso!» L’aspetto fisico contava nei giudizi di Gadda: «Gli do del tu perché ha dei bei denti». La bellezza dei denti lo colpiva sempre favorevolmente e, sentendo definire «stronzo», uno dei tanti collaboratori, replicò con aria convinta: «Ma perché, scusa? Ha dei bei denti».
Ebbe un periodo in cui diceva di sentirsi male e raccontava di aver sofferto di un’ulcera molti anni prima quando era ingegnere al Vaticano insieme agli ingegneri milanesi chiamati dal papa milanese Pio XI. «Mi era venuta l’ulcera dalla rabbia di essere al servizio dei preti» Ma ora temeva di peggio ed entrò in una farmacia borbottando: «Il primo segno è il dimagrimento». Salì sulla bilancia che registrò quasi un quintale, ma non consolato da questo esame commentò con disappunto: «Trascinare questa massa sarcica…»
Ricorreva al consiglio dei medici che ascoltava irrigidito dal rispetto, ma, rassicurato, resisteva alle loro prescrizioni. Rifiutava di curarsi con iniezioni temendo l’ago della siringa maneggiata da femmine decise. Non era disposto a ingoiare pillole né sciroppi prevedendo, risentimenti della vecchia ulcera che lo aveva tenuto a letto per mesi quando era ingegnere della «Sezione tecnologica» del Vaticano.
«Potrebbe provare le supposte».
«è contro natura».
Obbediva alle raccomandazioni più facili da seguire come quella di mangiare sempre cibo senza sale regolarmente trasmessa ai camerieri. Andava allora di solito in una trattoria dove era un tavolo ingombro di piatti con vivande già pronte e cucinate, secondo l’opinione dei solerti camerieri, «senza sale». Dopo qualche battuta e risultando alla fine che le cotolette alla milanese erano «quasi sciocche», Gadda si sentiva in pace con la sua coscienza di uomo in cura. Si arrovellava sulle proprie radiografie interpretando pessimisticamente i referti, masticando tetramente un termine sospetto come «plica». Non digiuno di medicina e biologia, il grande patografo della Cognizione del dolore si intratteneva volentieri coi medici dai quali esigeva dedizione assoluta al proprio lavoro e spirito di sacrificio come dagli ufficiali in trincea nella guerra del ’15. Si annuvolava se li sentiva spensierati e pazzerelloni, non disdegnosi di svaghi ai danni dei clienti, criticandoli con voce concitata: «Un medico serio non se la spassa per le spiagge la domenica!» Le spiagge erano sinonimo di frivolezza, frequentate da poeti e pittori «vagabondi», da fidanzati che tenendosi per mano andavano verso il sole al tramonto alonati dall’ultima luce mentre magari incombeva il rischio di una apparizione, come severo censore, del direttore generale.
Andava qualche volta a casa Bellonci in vista del Premio Strega e di solito si cacciava in un angolo per sfuggire all’attenzione, ma era immancabilmente raggiunto da amici scrittori. «Mi ha detto che ci si avvia a un regime clerico-fascista, ma io non ho dato segno di essere troppo atterrito da questa ipotesi». Temeva le donne vivaci e si teneva lontano dai loro conciliaboli appena le vedeva abbracciarsi e mettersi a parlare fitto fitto. Passava da un gruppo all’altro degli «amici della domenica» Maria Bellonci, col suo piglio da Minerva, spesso in calzoni neri, con un anticipo notevole sul trionfo dei pantaloni femminili, con fogge e acconciature che arieggiavano le mode rinascimentali e i modelli anni Trenta, dalla reticella di principessa estense o mantovana alla casacca del generale Yen prima di sorbire «l’amaro tè». Gadda temeva anche Goffredo Bellonci per i suoi lunghi discorsi e le domande improvvise alle quali non sempre era in grado di rispondere. Come altri letterati della sua generazione, Bellonci parlava di sue scoperte fondamentali nel campo della letteratura italiana delle quali si erano impadroniti vari studiosi facendosi belli con le penne del pavone. In questi casi commentava amaramente: «Che paese l’Italia!» Raccontava anche episodi dove la propria cultura aveva sgominato gli avversari come quando sostenne, nel ’36, che Bacchelli doveva aver letto Il diavolo del Sant’Uffizio, storia bolognese dal 1789 al 1800 di Antonio Zanolini, ricavandone l’idea del titolo, Il diavolo al Pontelungo. Partecipava a una serie di convegni in diretta con scrittori e critici stranieri riuniti in uno studio radiofonico a Parigi, a Londra o a Monaco. La trasmissione si basava su domande reciproche di argomento letterario e, in un incontro con francesi, Bellonci li aveva annichiliti chiedendo di chi fosse il verso «Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?» Nessuno lo sapeva e lui era particolarmente soddisfatto, dato anche il suo puntiglio antifrancese che non piaceva a Gadda, grande ammiratore della Francia. Nemmeno Gadda, interrogato a bruciapelo, ripescò quel nome finché Bellonci esclamò trionfante: «Jean-Marie-Bernard Clément!» Ma i convegni non furono sempre così gloriosi e un quotidiano mise in ridicolo una pessima prestazione degli italiani sempre incerti fino a quando, dopo una lunga pausa, Bellonci «belò» la risposta. Il verbo «belare» mandò Gadda in visibilio. Dei Bellonci diceva comunque che erano «degnissime persone» e riconosceva a Goffredo buoni studi e qualità di critico prima di diventare il «corifeo» della moglie e del Premio Strega. Quanto a Maria, rilevava, dopo qualche elogio, il tono a tratti apologetico nei confronti di Lucrezia Borgia: «La difende come se fosse sua nonna».
Quando si avvicinava l’estate, Gadda era combattuto tra l’impulso di andare in vacanza e una naturale pigrizia unita al timore di «nuovi traumi». Portato in ogni caso a rimandare, una volta assunto alla RAI, nella ricerca di alibi per giustificare il suo indugio in città nel bollente luglio romano e nel successivo torrido agosto, li trovava nella volontà dei dirigenti radiofonici di negargli le ferie e nella malferma salute. Finché fu al Giornale Radio, a via Asiago, attribuì la responsabilità della sua ritardata villeggiatura all’amico Angioletti e più tardi, nella sede di via delle Botteghe Oscure, la decisione di trattenerlo a Roma si trasferì alla direzione del Terzo Programma. «Ancora non si parla delle mie ferie», sospirava e, se proprio i suoi sgherri e carcerieri lo invitavano a partire, rispondeva di non star bene. Si informava tuttavia scrupolosamente sui progetti estivi dei colleghi, prendendo appunti, e prometteva di raggiungerli al mare o ai monti. Scriveva diligentemente a chi gli mandava saluti dalla montagna, «fidente che le giornate alpine» avessero «consentito buona rémora a miglior distensione dalle fatiche radiofoniche-linguàtiche di Aracoeli, apportando, all’amico, rinnovato, épico ardore per le battaglie (linguistiche) ’52-’53». Nel ’52 si decise in settembre per un viaggio in Francia: mandava cartoline informando che, dopo una settimana, «il 40 per cento della energia psichica» era «consumato dalle percorrenze e dal travaglio strada-métro». «Riferirò le mie impressioni. Cerco di analizzare: ma devo contentarmi di assorbimenti visivi-auricolari estremamente fuggévoli. Comunque, non sono pentito della mia buona volontà; le gambe sono pentitissime». Da Parigi andò a Marsiglia, «in pauroso vasello a vedere il torracchione dell’isolotto d’If» «dove era a prigione il Conte di Montecristo». Tornò soddisfatto magnificando le risposte dei camerieri di Parigi alle sue domande. Aveva chiesto, per esempio, da quali clienti fosse frequentato un locale dove era capitato una sera e il cameriere in tono dignitoso: «Il y a un peu de tout». La simpatia per la Francia, sempre viva in lui, ebbe nuovo alimento da quella vacanza.
L’anno dopo, riuscì a partire di luglio in compagnia di Ungaretti per un viaggio in Spagna. Sicuramente il merito della sollecita partenza è tutto da attribuire all’impaziente spronatore Ungaretti. Viaggio piacevole e allegro di cui tutti e due si ricordarono sempre volentieri. «Ungaretti porta bene», diceva Gadda ed era vero. Girarono un po’ dappertutto: Gadda parlava spagnolo e Ungaretti si ostinava col portoghese come Paganel fra i patagoni, lasciando interdetti tassinari e camerieri alle sue domande concitate. Al Prado, Gadda non poté vedere Rubens perché trascinato via da Ungaretti che urlava raddoppiando la erre: «è barrocco! è barrocco!» Gadda commentava l’episodio con un certo rammarico: «Erano dei bei chilometri di ciccia!» Quanto a Ungaretti, era rimasto sbalordito dalla quantità di piatti che l’altro si faceva servire: «Mangiava dodici uova!» E insisteva sulla tavolozza delle uova ammannite con una sontuosa, coloritissima varietà di salse, ogni volta aumentandone il numero: «Mangiava diciotto uova!» Nei suoi eccitati resoconti, Gadda a tavola si configurava come Don Gonzalo Pirobutirro della Cognizione del dolore, intento a divorare «orrorosi» crostacei e piccioncini in casseruola. Non troppo discorde, in questa occasione, Ungaretti da Montale che, in risposta ad un biglietto di Gadda, gli mandò alcune strofette precedute dalla dedica: «All’Epulone che mi raccomandava un poeta svizzero». «Tu sei per la quantità io per la qualità», gli diceva Montale e Gadda, a ricordarsene a distanza di anni, si arrabbiava ancora: «Non è vero. Anch’io sono per la qualità: anche a me piacciono i tartufi».
Uno dei programmi del Terzo era la «serata a soggetto», ideata da Gastone Da Venezia, concupitissima per la possibilità di più repliche remunerate. Si trattava di una trasmissione della durata di un’ora della quale il capolavoro assoluto fu «Homo gastronomicus», un programma per la verità molto ben riuscito, dello stesso Da Venezia. Io avevo preparato «Didone e Enea» con scorribande attraverso i secoli dall’Eneide a La terra promessa di Ungaretti e utilizzazione di scene del dramma Amores de Dido y Eneas di Guillén de Castro, il tutto da ammannire con musica di Purcell. Avevo lasciato a Gadda, sempre disposto a soccorrere i giovani colleghi, un foglio con qualche verso in spagnolo, perché mi aiutasse nella traduzione e lui me lo rispedì postillato con precisione da vocabolarista. «Cuidado = cura, pensiero, sollecitudine, diligenza. Con cuidado = con attenzione, con giudizio, cuidados (pl.)». Oppure: «Caja = cassa, scatola, cassaforte, cassetta o serpa della carrozza, stanza delle riscossioni (cassa), nécessaire per scrivere, astuccio, custodia, moggio, bara o cassa da morto». Poi, forse tormentato dal caldo del luglio cittadino, in confronto a me al fresco in montagna, si infervorò in un crescendo furioso: «regazo (amoroso) grembo, seno, fica, vulva: grembiule, cosa che procura piacere e consolazione: (p.e. el muchacho es su regazo = il ragazzo è il suo recazzo) la sua consolazione».
Anche Gadda si cimentò in una «serata a soggetto», scegliendo Cristoforo Colombo. Abbondò di citazioni dal diario di bordo di Colombo, dal saggio di Bacchelli, «L’Ammiraglio dell’Oceano», e dalle pagine di Rinaldo Caddeo sullo stile dell’ammiraglio. Gadda si era imposto una funzione di coordinatore di testi altrui e, per quanto riguardava il suo contributo personale di storico, un compito modestamente divulgativo in una scrittura semplificata al massimo, nell’ideale di un «linguaggio radiofonico» al quale si dimostrò per anni ligio, «infrenando» se stesso e correggendo spietatamente gli altri. Dopo aver accennato ai rapporti della Spagna dell’ultimo Quattrocento col mondo musulmano-ebraico e alla storia della «reconquista», indugiò sull’approvazione del progetto di Colombo da parte dei re cattolici. «Anche la parte finanziaria dell’impresa fu regolata rapidamente. Calcolato l’ammontare della spesa in due milioni di maravedís, Colombo e i suoi amici genovesi e fiorentini sottoscrissero la metà dell’importo; l’altra metà fu assunta dal Re e dalla Regina. Ma, forse perché il tesoro di Castiglia era stremato, i sovrani non versarono il becco d’un quattrino e si fecero prestare la somma da Luis de Santangel e da Francesco Pinelli, tesorieri ed esattori della Sancta Hermandàd sui registri della quale venne registrato il credito di questi due capitalisti. Il Pinelli era genovese. E così i tre quarti almeno, (o l’intero importo, se si vuole ritenere che il Santangel non fu probabilmente se non l’intermediario dell’affare) dei denari occorsi alla spedizione che diede alla Spagna un impero mondiale furono di provenienza italiana». Seguivano veloci ragguagli sui viaggi di esplorazione portoghesi e un commento alle due «cosiddette lettere di Toscanelli a Colombo». «Paolo di Domenico Del Pozzo Toscanelli, fiorentino, insigne figura di dotto umanista, visse fra il 1397 e il 1492. Era un fisico: era cioè medico, matematico, cosmografo. Intelletto agente di quella grande cultura toscana e italiana che primeggiò in Europa fra la metà del Tre e la metà del Seicento». Le lettere di Toscanelli avrebbero potuto avere «un grande valore psicologico», dando a Colombo «conferma, per la sua idea» dalla «scienza dell’epoca», la «più avveduta, e più ardita, e cioè la fiorentina e toscana». «La scienza dell’epoca gli aveva dato quello che solo poteva dargli: un beverone misto di buon senso e di frottole, di chiari presagi e di fantasiose dicerie».
«La terribile immensità dell’Oceano, l’ampiezza e la paurosa altezza dell’onda, la sua gola tetra, la solitudine, i disagi, le tempeste, i rischi del mare, potevano affaticare e sconvolgere le menti degli intrepidi fino a dar corpo a fantasime, ad allucinazioni: quali del resto apparvero o furono consuete in ogni tempo ai navigatori d’ogni mare, ai Fenici, ai Greci. Il gorgo, il mostro che inghiotte: la balena biblica, e Scilla e Cariddi e il Maelstrom, l’imbuto vertiginoso formato dal roteare delle acque. Ai portoghesi in oceano l’incubo della mano nera o mano del diavolo, quella che emerge paurosa dalle solitudini dell’orizzonte e ghermisce verso i tenebrosi abissi la nave o, altrove, il Kraken, una sorta di cervo o di polipo mollemente e ferocemente cornuto, il quale accerchia coi suoi viscidi tentacoli la chiglia e la trae giù, giù, nel profondo».
Il programma non piacque a Budigna, il quale lo disse direttamente a Gadda, che ammise, dispiaciuto, la scarsa riuscita del lavoro poco adatto, per il suo carattere saggistico, agli accorgimenti e agli effetti radiofonici. Budigna continuò a criticare la «serata a soggetto» di Gadda.
«Ho incontrato Budigna poeta».
« Ah sì? Che diceva?»
« Condannava il Cristoforo Colombo».
«Potrebbe farla finita questo Budigna poeta».
Il temuto Mantelli lasciò la direzione del terzo Programma e il suo trasferimento fu attribuito alla trasmissione di un dramma elisabettiano con punte antipapiste. Ma ormai i rapporti fra il Giornale Radio e il Terzo si erano allentati e questo fatto ebbe scarsi riflessi negli uffici dove Gadda lavorava. «Sara finito in qualche manicomio…» Se ne stava in una stanza con Giovanni Del Pizzo, uno scrittore oggi quasi dimenticato, ma autore di libri dove è un senso vivo della natura, piuttosto raro nella letteratura contemporanea. Era un abruzzese ispido che bofonchiava più che parlare, un uomo modesto e schivo che lavorava per conto suo e non scocciava mai nessuno, un vecchio liberale che aveva avversato l’era fascista ma viveva con qualche impaccio nell’età democratica. Gadda aveva simpatia per lui salvo a sbottare qualche volta per la sua selvatichezza e i suoi grugniti: «Non ha le qualità mondane che ci vogliono in un ufficio come questo. È una specie di cinghiale: sta tutto il giorno nella macchia, nella grotta».
«Ora vi siete tutti innamorati di questo Barluffi!» strepitava Gadda quando sentiva tessere le lodi di qualcuno. «Vi siete tutti innamorati di questo salame di Cecina!» Appena si parlava di un nuovo scrittore si insospettiva immediatamente: «Ma chi è questo Santucci?» Gli spiegavano che aveva pubblicato in quei giorni un libro di racconti, Lo zio prete, ed era molto apprezzato per il suo umorismo cattolico. «Umorismo cattolico!», si inferociva Gadda calcando le parole con satanico sarcasmo e poi: «Basta che sentiate odore di mutande di prete!» Ma di Santucci si parlava con simpatia come di un uomo divertente, scherzoso e ricco di trovate: saltabeccava, congegnava burle, sempre in compagnia di preti. Gadda ascoltava questi racconti e alla fine domandava: «Ma cos’è questo Santucci? Una specie di Tino Scotti?»
Era pronto a riconoscere i meriti di certi amici ma, se li sentiva esaltare da altri, cominciava a mugugnare perché si indispettiva per gli innamoramenti eccessivi. «è stato a trovare Vittorini a Bocca di Magra, in reverente pellegrinaggio». Diventava invece indulgente quando sentiva criticare un conoscente. «Ma perché? Cosa ti ha fatto? Mi pare una degnissima persona». O anche, in un sussurro: «Non ti far sentire!» Richiesto di mantenere un segreto, stendeva subito la mano nel giuramento come a Pontida.
Nonostante la sua programmata freddezza di redattore efficiente e impassibile, si arrabbiava coi colleghi quando si sentiva trascurato con mancati appuntamenti a colazione o con fughe troppo repentine, appena sorbito il caffé. «Dove andate così di fretta?» La risposta gli sembrava a volte una sfida: «Andiamo da Lazzari a bere il suo whisky e a fumare i suoi sigari». «Me, pero’, non mi invita a bere whisky e a fumare sigari…» replicava con voce alterata. «Per quanto i sigari…» e, con un gesto inequivocabile, accennava alla possibilità del vomito. Si sentiva di solito defraudato di qualche buona occasione. «La Lollobrigida è stata ricevuta da Eisenhower e da Perón. Vedi un po’ se ricevono un Gadda questi due vecchi un po’ porconi…»
«Va bè, Perón…»
«Ma è il presidente del più grande Stato dell’America latina!»
Gli raccontai che Piero Santi mi aveva saettato con lo sguardo da un marciapiede all’altro. «Che fortuna! Che fortuna! Nessuno mi ha mai guardato in quel modo». Non aveva fiducia nella propria avvenenza: «A sentir dire Gadda, le donne si innamorano. Poi, quando, mi vedono…» E concludeva: «Io sarei stato becco, becco di guerra».
Fra gli scrittori gli piacevano i francesi, soprattutto Saint-Simon, Proust, Balzac e anche Verne. Di Proust conosceva tutta la Recherche salvo che L’ombre des jeunes filles en fleurs perché gli dava fastidio l’idea di quelle femmine svolazzanti alla caccia di mariti, uno dei quali avrebbe dovuto magari essere lui. Apprezzava, sia pure con qualche riserva, Victor Hugo per l’abilità di versificare tutto: un lume, un portacenere, un calamaio. Si arrabbiava anche all’idea che gli amici fiorentini delle «Giubbe rosse» infatuati di Mallarmé, non citassero mai «Le satyre» di Hugo a proposito de «L’après midi d’un faune», «a parte che è un po’ ridicolo intitolare una poesia Le satyre perché le satyre è quello che tasta il culo alle donne tanto che in Francia si dice: “Tu es un vieux satyre”». Quanto agli scrittori italiani, non si esaltava per i contemporanei e preferiva risalire a vari secoli indietro. Era un lettore appassionato di Dante che contrapponeva a Petrarca dicendo che avrebbe scritto volentieri un pezzo sui paesaggi danteschi, concreti di fronte ai generici paesaggi del Petrarca. «Il Canzoniere è tutta una bugia, ramificata», asseriva con sicurezza. Si mise a scrivere un saggio sul Poliziano che rimase interrotto su un preambolo storico. Gli interessava il personaggio, ma il poeta non sembrava piacergli molto. A chi gli citava il verso caro a De Robertis, «Cresce l’abete schietto e senza nocchi», rispose con aria di disapprovazione: «è un verso da falegname». Se doveva occuparsi di un poeta cominciava a tracciare il quadro del suo tempo ed era solito dire che fra tanto strombazzato storicismo i critici italiani contemporanei erano del tutto digiuni di cultura storica. Mentre leggeva uno scritto marxista su Eva del Verga, nell’apprendere che il mondo rappresentato nel romanzo era quello del capitalismo nella sua esasperazione ultima, commentò: «Nel ’73? Ma se c’era solo qualche filanda!» Non mancava, mai, leggendo, di fare qualche osservazione come quando, alzati gli occhi da un mio articoletto su Bacchelli dove si diceva che aveva rievocato magistralmente «intere epoche», disse costernato: «Sembra che si tratti di ere geologiche…» Gli piaceva la Vita del Cellini per la sua prosa ricca di anacoluti che l’autore non sempre riusciva a padroneggiare, tanto che gli scappava da tutte le parti, e ammetteva di non poter leggere a lungo Machiavelli senza subirne l’influenza e tentare di rifarne i costrutti.
Da buon lombardo apprezzava il Parini, «uno dei primi inventori di una lirica colloquiale narrativa di suprema, seppure cronologicamente barocca, eleganza». Ma la sua fantasia si accendeva soprattutto ripensando al personaggio, al «povero abate libero professionista», «abate senza abbazia» che «viveva di messe e di lezioni», al «vecchio e brutto prete tabaccoso dall’occhio ancora vivo, ancora energico seppure tabaccoso, per quanto secondo Cantú col diavolo in corpo», innamorato delle contesse, delle marchese e dei suoi pupilli. Di qui la girandola delle interpretazioni registrate da Arbasino. «La società gli dice (dalla zona platonica, alta): “Questa è una marchesa, ricca, elegante, profumata”… E lui, povero vecchio tabaccoso, si adegua a questi valori e si innamora della marchesa. L’altra zona, inferiore, considera il ragazzo e le sue possibilità. Nel caso del Giorno, così il pedagogo ama contemporaneamente il ragazzo e la sua mamma». Il complicato intreccio dell’ode «Alla Musa» era un potente incentivo al ragionamento per «mente logica». La Musa, «nominalmente donna» e per di più vergine, poteva entrare senza scandalo nel boudoir della sposa di Febo d’Adda, con l’incarico di «sobbarcarsi alla fatica» di una scenata di gelosia, incolpando la giovane prossima a diventare madre «di prendere per sé tutto l’amore del marito e di non lasciar nulla al Parini». «L’ingegnoso brianzolo» aveva ben compreso che «una scena di gelosia diretta di lui prete pedagogo tabaccoso sarebbe caduta nel ridicolo». La libera professione di pedagogo del Parini interessava in particolare Gadda per tutti i suoi sottintesi, per «la natura e inconscia pederastia del maestro verso lo scolaro». Significativa sotto questo profilo l’ode «L’educazione» dove l’autore vorrebbe assomigliare a Chirone «che di Tetide il figlio | guidò sul cammin destro!» Achille, salito sul centauro, «mentre quello volta la testa, gli pettina la barba con le manine»: una mimica vivace accompagnava le parole. «Ma cosa penserà il Centauro sentendosi dimenare sulla “irsuta schiena” un ragazzetto che si presume poco vestito?» L’ode finisce tuttavia per salvare tutto: «Il giovane diventerà un buon soldato di Maria Teresa, permettendo ai professori del futuro di salvare col Parini anche se stessi».
Fra i poeti dell’Ottocento italiano prediligeva il Belli ritenendolo il più grande dopo Leopardi; sul Belli aveva anche composto un saggio apprezzato da Vigolo che osservava: «Per il Porta non avrebbe scritto niente di simile». In effetti, quando fu richiesto di preparare una trasmissione sul Porta, Gadda reagì con una certa vivacità polemica: «Non ho voglia di occuparmi del Porta! Ormai sono una polpetta saltata via dalla padella lombarda!» Foscolo e Carducci erano per lui «i più grandi strafalcionisti» della letteratura italiana e nella eccitata dimostrazione abbondava di esempi. Era invece reverente nei riguardi del Manzoni e una sera, in una trattoria in via degli Avignonesi, dove era entrato con sospetto perché troppo vicina a un postribolo, quando per passatempo i suoi amici si pronunciarono a turno in un referendum su Manzoni e Leopardi, lui si dichiarò con fermezza per l’autore dei Promessi sposi. Del grande romanzo amava la figura di Don Abbondio nella quale, dopo le smanie e i furori della giovinezza e le paure e gli orrori di quarant’anni di storia, vedeva ammirevolmente rappresentata nel suo istinto di sopravvivere la fragile e insidiata natura umana. Sul cattolicesimo del Manzoni non chiuso e non conformista aveva parole di rispetto: «La Chiesa ha dovuto ingoiare due bei rospi con Don Abbondio e la monaca di Monza». Trovava molto riuscito anche Renzo, un vero personaggio «lecchese», al quale sono legate alcune delle parti più belle del romanzo. Diceva anche: «Nei Promessi sposi si parla sempre di denaro: tante berlinghe, tante parpagliole, tanti scudi… una delle ragioni per cui mi piacciono».
«Manzoni era avaro?»
«Era lombardo e i lombardi stanno attenti al denaro. Del resto anch’io faccio i conti…»
«Il Manzoni ti piace anche come poeta?»
«Come poeta meno. C’è qualcosa di sballato anche nella Pentecoste. “Spose che desta il subito | balzar del pondo ascoso…” Il pondo non è ascoso…»
A questo punto Gadda aveva un gesto eloquente.
«Però è cosa che ho sempre detto fra me e me».
«Non ti sentiresti di dirlo pubblicamente?»
«No. Ho troppo rispetto per Manzoni. E poi il resto è bello: “Voi già vicine a sciogliere | il grembo doloroso”».
D’Annunzio non era nelle sue simpatie per quanto sognasse a volte clausure a sua imitazione, «nutrendosi di succo d’arancia» per concludere, lontano dall’ufficio, qualche lavoro interrotto. Non gli piaceva D’Annunzio nella sua guerra comoda del ’15-’18 e affermava che i soldati lo consideravano iettatore e al solo accennarne si toccavano le stellette. Del resto «amava circondarsi di decori funebri: di urne, di lampade votive». Approvava invece l’impresa di Fiume alla quale avrebbe partecipato se non fosse stato impedito da ragioni familiari. Si divertiva all’idea delle orge dei legionari, ma anche in quella circostanza D’Annunzio non si comportò come un cuor di leone. Alla prima cannonata scese a precipizio le scale della torre dove era alloggiato e, attraversato un sotterraneo, si rifugiò in un convento di suore travestendosi immediatamente da educanda. Finché la badessa gli fece capire la scarsa opportunità di quel mascheramento: allora si rivestì da comandante e subito si arrese. Gadda raccontava queste vicende con pacatezza aggiungendo però che non le avrebbe scritte per carità di patria, ma finiva per arrabbiarsi pensando che si potessero prendere sul serio certe manifestazioni delle follie senili di D’Annunzio. «Questo popolo di mangiatori di maccheroni non riesce a distinguere il sano dall’amente. Ogni tanto, al Vittoriale, in preda alle furie, faceva sparare cannonate sull’altra riva del Garda. Va bene che erano a salve ma qualche volta caricava a palla rischiando di uccidere i contadini nei vigneti…»
Al cinema Planetario era in programma una serie di film muti e fra questi anche La nave, tratta dalla «Tragoedia Adriaca», con regia di Gabriellino D’Annunzio. Basiliola era interpretata dalla Rubistein, scheletro flessuoso e digrignante nei momenti di seduzione e di lascivia. Nella grande scena dell’Agape «rinnovata con rito profano, dal vescovo Sergio» che si concludeva col duello tra i due fratelli Gràtici, la Rubistein si esibiva a ritmo frenetico nella danza dei sette candelabri con un riso feroce a denti aguzzi, concupita dal vescovo Sergio e dai «Gentili in gozzoviglia». Il pubblico si divertiva molto e alla fine un vecchio sbalordito, con una barba alla Sforza, andava dicendo ai presenti: «Io ho visto tanti anni fa la tragedia… La tragedia era bella… Ma questa sera non capisco più nulla…»
Gadda, ascoltando il racconto del film, sorbiva un aperitivo senza dar segni particolari di interesse finché l’amico parlò dell’orgia:
«C’è anche un vescovo che diventa maiale…»
«Un vescovo che diventa maiale?» In preda alla più viva eccitazione, Gadda rischiò di soffocare per il pezzo di ghiaccio che si era messo in bocca come sempre ad ogni bibita, prima di posare il bicchiere. «Ma questo è un tema bellissimo. Specialmente se lo avesse trattato con un certo spirito».
Quanto al Pascoli, non era molto brillante con le donne e si sfogava a scrivere poesie per ogni mestruo delle sorelle: «A Ida», «A Maria», «A Maria», «A Ida». Questi mestrui non coincidevano mai.
«Chi sa chi abita in queste case. Saranno piccoliborghesi avari…» diceva guardando certe palazzine rosse e giallognole in mezzo al verde dei giardinetti, costruite trent’anni prima lungo i viali del quartiere Prati. Gli veniva voglia in quei momenti di starsene in un villino da solo, libero dalla nana demente e dalla signora Antonietta, ora che c’era stato anche il suicidio, di una serva per amore. Andava al cinema Mazzini di fronte alla sede radiofonica ma un giorno tornò infuriato perché aveva visto una dattilografa abbandonarsi a qualche licenza con un redattore del Giornale Radio: «Gli ha fatto un serviziuccio».
Erano i tempi di Rasciomon ma Gadda non sembrava condividere i deliri dei suoi amici per il film giapponese: «Parronchi è venuto apposta a Roma per vederlo».
«Nel 1905 eri per i giapponesi contro i russi».
«Ero un ragazzo sciocco».
Immancabile il suo malumore quando sentiva esaltare qualche capolavoro, letterario o cinematografico che fosse. «Imbarcate tutto!» era un suo detto ricorrente e si rifiutava di leggere o di andare al cinema con uno stizzoso: «Figuriamoci!» Uno dei suoi bersagli polemici diventò, in questo senso, diversi anni più tardi, Il dottor Zivago. Se la prendeva con l’editore che non aveva fornito su Pasternàk le informazioni indispensabili. Prima di tutto doveva avvertire che l’autore era ebreo «e così si sarebbero capite tante cose». Una «avvertenza» esatta avrebbe potuto essere questa: «Ebreo, vero, e autore di questa boiata». Gadda non era antisemita e provocato affermava con decisione: «Sissignore! Un Gadda filosemita! Fra l’altro sono gli unici che mi abbiano dato dei quattrini».
«Era un ebreo furbo, intelligentissimo!»
«Come hai fatto a capirlo?»
«L’ho capito con la mia perspicacia».
Esigeva che si specificasse in un libro se l’autore era ebreo per ragioni culturali. «In parole povere, gli ebrei, a modo loro, sono più intelligenti di noi. Io credo che ci fosse una componente ebraica anche in Michelangelo; potrei dimostrarlo ma sarebbe un discorso lungo». «Triestino» era sempre per lui sinonimo di ebreo. Qualche volta sognava un matrimonio conveniente: «Se trovassi anch’io una signorina ricca e di stirpe triestina…»
Una riforma dei programmi radiofonici fece trasferire Gadda con altri colleghi del Giornale Radio al Terzo Programma, in via delle Botteghe Oscure. Il nuovo direttore era un uomo giovane, piemontese, che si compiaceva di un eloquio fine, ricercato, piuttosto temuto dai suoi dipendenti perché si arrabbiava con facilità. Quando doveva rimproverare qualcuno teneva un lungo preambolo nel quale elencava con sarcasmo i compiti del malcapitato che nel frattempo si scervellava domandandosi quale fosse la sua colpa. Poi il direttore rinunciava di colpo al sarcasmo e, diventando sprezzante e rigido, rinfacciava illividendosi le malefatte del colpevole mentre la voce saliva di tono e lo sguardo sembrava la reclame di un potente insetticida («dove arrivo, fulmino»). Non serbava tuttavia rancori e di lì a poco tornava affabile e amicone. Era anche spiritoso e abile nella imitazione dei suoi collaboratori, colleghi e superiori. Gadda, piuttosto impacciato e tormentato da continui rovelli, era trattato da lui con un misto di irrisione e di rispetto, di rimproveri e di domande a bruciapelo. «Un’altra volta mi preparo e poi gli rispondo», si proponeva Gadda che non sapeva come comportarsi di fronte alle sue impennate spesso artificiose e studiate per metterlo in imbarazzo. Era un uomo galante e baciava con trasporto la mano alle signore che andavano a trovarlo; Gadda osservava guardandolo: «Pare che dica: “Sono tutto vostro!”» Accoglieva affettuosamente gli amici abbracciandoli e Gadda commentava: «Si sono baciati con interesse… – Ciao, Cecè! – Ciao, Robertin! – Zac! Zac! Un bacio secco e preciso».
Gadda si sistemò in una stanza insieme a un funzionario giovane di anni, ma un po’ meno di aspetto, aggrottato e taciturno. Preferì che le due scrivanie fossero collocate una accanto all’altra proprio per non avere di fronte il corrugatissimo collega. Questo parlava poco, almeno nei primi giorni, ma si alzava continuamente fermandosi perplesso davanti alla porta con la mano sulla maniglia, poi apriva uno spiraglio con relativo cigolio e indugiava ancora pensoso mentre l’interiore incertezza gli si disegnava sulla fronte, moltiplicandone le rughe. La scena si ripeteva spesso con sbigottimento di Gadda e qualche volta il collega sembrava deciso a uscire dopo lo scatto iniziale, ma si immobilizzava immediatamente, appena stretta la maniglia, mentre nuovi dubbi tormentosi afflioravano dall’espressione amarissima della faccia tirata e verdastra, dalla bocca semiaperta in una smorfia di sconforto. Teneva sempre in un cassetto una maglia che si infilava per togliersela più tardi secondo le frequenti oscillazioni della sua sensibilità termica e masticava in continuazione pasticche di gomma per prevenire tosse e mal di gola già combattuti dal sapiente dosaggio della maglia. Gadda e il suo collega avevano il telefono in comune con un funzionario della stanza accanto che molto indugiava nelle telefonate anche amorose e il tititin petulante di quando componeva il numero, dava sui nervi a Gadda che odiava il telefono. Entrava e usciva in fretta un altro giovane funzionario, con richieste frenetiche di titoli di programmi, di sottotitoli, di durate. Era educato e dinamico, dagli scatti un po’ burattineschi. «Sta all’uomo come la castagna secca al marron glacé». Gadda considerava i colleghi quasi tutti comunisti ed ebbe per loro un misto di affetto e di riserve con repentini malumori. Simulava interesse per un poco alle loro discussioni, ma presto si allontanava sospirando e con gli occhi al cielo come il grande moaddo del Novellino («non odo cosa che mi piaccia»). Non gli importava «un fico secco» dei discorsi sull’organizzazione della cultura, il ritorno a De Sanctis e la letteratura nazionale-popolare, allora molto frequenti dopo la pubblicazione dei Quaderni di Gramsci. Ascoltava con malcelato dissenso un giovane redattore del Terzo in una elaborata spiegazione di come i cantanti negri al Teatro Quattro Fontane avessero restituito autenticità a Porgy and Bess con la loro irruenza selvaggia. Il giudizio sui propri colleghi oscillava secondo le circostanze e l’umore. Uno di loro per esempio era astemio e del tutto sprovvisto di componente epicurea, tanto che al suo arrivo a Roma dalla nativa Brianza frequentava mense popolari degne del Nost Milan trangugiando immonde minestre senza batter ciglio in compagnia di miserabili. Gadda ostentava a volte ammirazione per le sue virtù: «è bravissimo: non ha toccato un bicchiere di vino. Non ha fatto come me che mi sono un po’ abbandonato: un mezzo litrozzo». In altri momenti questa austerità irritava invece Gadda che beveva volentieri «pur senza inebriarsi». Così l’efficienza lombarda del collega era da Gadda contrapposta alla indolenza romana di altri per poi degenerare ai suoi occhi nello zelo poliziesco. In questi casi il Terzo Programma era un campo di concentramento vigilato da sgherri piemontesi e brianzoli che negavano vacanze ed esigevano orari rigorosi in uffici-cessi. La Brianza risvegliava ricordi dolci e amari in Gadda che non amava in particolare i suoi abitanti, i «calibani gutturaloidi» della Cognizione del dolore. «Una volta per colpa di uno di quelli stavo per rimetterci la pelle»: cominciava così il racconto di lui e sua sorella, ragazzini in bicicletta su una strada di campagna fra le detestate robinie. Un contadinello brianzolo si era messo sull’attenti al passaggio della giovinetta presentando gli zoccoli in una specie di omaggio rusticano. Gadda, geloso, si era avventato su di lui con la bicicletta ma l’altro lo scansò rovesciandolo, poi per terra: ferita alla tempia, denuncia ai carabinieri, colpevole introvabile. Ma quello che faceva stizzire di più Gadda era l’innamoramento dei suoi genitori per i brianzoli, specialmente la simpatia della madre per un fattore ladro. «Appena sapevano che un tizio era brianzolo, gli davano soldi». Ricordo amaro la «fottuta» e «strampalata» villa in Brianza con annesso un campicello allietato da mandorli e ulivi («producevano in tutto quattro o cinque olive all’anno»). L’errore del padre di Gadda era di scambiare il campicello brianzolo coltivato a granturco per una fertile terra toscana; teneva moltissimo alle olive e alle mandorle e si ostinava a fare il barolo in casa. Uno dei suoi dogmi era «aria buona fra gente buona» frase pronunciata «aria bonna fra gente bonna», e così i suoi tre bambini morivano di fame e non avevano scarpe per nutricare il campicello in Brianza. Gadda ammetteva la salubrità dell’aria in quella terra dove passava le vacanze estive insieme ai genitori e ai fratelli e anche quelle di Pasqua, generalmente bagnate da piogge fredde. Ma nella Cognizione del dolore ricorre più volte il richiamo a «l’aria bonna» con accento iroso, in una allusione incomprensibile per qualsiasi lettore. Il padre era un uomo malinconico, conservatore; leggeva La Perseveranza, amava la musica di Verdi tanto da essere accusato dai fratelli di spendere denaro andando troppo spesso alla Scala. Verdi era il più grande Giuseppe, se non il più amato, che Gadda ricordasse, con l’orchestra più fornita di piatti di quante ce ne fossero in Europa: gli piaceva «sternutire con l’orchestra». Il padre era «avaruccio» e deplorò la spesa di lire io per l’acquisto di un volume del Carducci regalato dalla moglie a Carlo Emilio. Quando il figlio con giovanile entusiasmo gli fece vedere il libro, l’altro disse, con aria di sufficienza, del Carducci: «Era un framassone». «Fu tutto il suo commento».
«Gadda, so tutto!», così disse, scandendo le parole, Anna Banti, affacciandosi ad una stanza della sede di via delle Botteghe Oscure dove Gadda sedeva al tavolino cominciando di malavoglia la giornata di ufficio,«col caffelatte sullo stomaco». A vedersela di fronte, in cappellino e veletta, sembrava allibito, non tanto per quella affermazione già di per sé pericolosa, ma per la visita imprevista che gli guastava il benestare. Dalla Banti c’erano sempre da aspettarsi rimbrotti e osservazioni perentorie. Ma, dietro la Banti, era apparsa la Bellonci e il compito si faceva più difficile. Riuscì a cavarsela, fra molti convenevoli, anche perché la visita fu breve. Sollevato, le accompagnò fino alle scale continuando a salutare mentre scendevano quando fu trafitto da parole canticchiate a breve distanza: «Belle bambine! Belle bambine!» Nel disappunto di veder rovinata la scena, appena conclusa, della sua galanteria, costrinse il collega canoro a ripetere più volte il rischioso ritornello mentre lui, a metà della scala, tendeva l’orecchio. Forse le due donne in fuga non avevano sentito, ma Gadda si arrovellò a lungo nell’incertezza.
«Gadda, è mai stato innamorato della Banti?»
«No, caso mai di Longhi» e indicava la fronte come sede di pura passione intellettiva.
«Ma se Longhi, dico Longhi, un giorno Le dicesse: – Sono stufo di questa Banti, se la prenda Lei, Gadda… –, se la sentirebbe Lei, Gadda, di scontentare un Longhi?»
Gadda non osò prendere in considerazione l’ipotesi. Di Longhi ammirava la grande intelligenza critica e l’attenzione concreta, da lui condivisa, per gli «elementi artigianali», ma si lamentava della necessità di ricostruire l’amicizia ad ogni incontro, del fatto che Longhi gli avesse proposto di darsi del «tu» continuando, poi a trattarlo col «lei», non gradiva i suoi atteggiamenti «da civetta». Se Gadda si accingeva a scrivere un pezzo dedicato a un pittore lo comunicava scrupolosamente al grande storico, quasi per una autorizzazione. Si dispiacque a leggere in un articolo di Longhi un breve elenco di letterati che si intendevano d’arte dove non appariva il suo nome, «fra cotanto senno», nonostante le pagine su Crivelli, Lotto, Ensor.
La Banti aveva pubblicato da qualche anno, Artemisia, uno dei grandi libri italiani del Novecento e il suo più noto. Si era esercitata a lungo nella critica d’arte e la disposizione mentale del critico è determinante nei suoi romanzi e racconti: figure, paesaggi, interni sono resi con la cura minuziosa dell’interprete, in una nitidezza di contorni e di colori appresa dalla pittura, ma in un movimento a fuga che è proprio del narratore. Gadda riconosceva la sua bravura, ma commentava: «Il suo ideale è mettere insieme in un romanzo femmine che passano il tempo a dir male dei mariti». A proposito di Longhi e della Banti, diceva che c’erano da ricordare troppi nomi, fra persone e ville: «Lucia Longhi, Anna Banti, Me Lo Presti, Ficalbo, i Faggi».
Una volta a Botteghe Oscure, Gadda cambiò il giro delle trattorie finché ne trovò una, dai prezzi convenienti, ma dall’interno tetro e affumicato. Mangiava anche alla mensa dell’azienda della quale deplorava un po’ il carattere di «emergenza» che estendeva anche al bar. «Le tartine, signora, sono raccomandabili?» domandava con una certa solennità. «Le che?» chiedeva a sua volta la «signora» con aria di sgomento. Alla trattoria affumicata e tenebrosa si davano convegno vari impiegati della Radio fra i quali il compagno di stanza aggrottato e taciturno ma anche spiritoso con la sua strascicata cadenza bolognese, l’importuno telefonista che faceva sobbalzare Gadda di continuo e un giovane «apolide» di sospette origini danubiane, in possesso tuttavia di una «voce di violoncello». L’ingegnere apprezzava i commensali che si informavano sulla qualità delle vivande e uscivano in qualche rimostranza per qualche piatto non perfettamente riuscito, segno positivo di «componente epicurea», purché non esagerassero con ingiusti sofismi. Il suo compagno di stanza era misuratamente sofista ma, afflitto da male di stomaco, finiva per mangiare sempre in bianco, nello stesso modo: «Dopo una tragedia di corrugamenti ordina un pesce bollito». Se non c’erano signore, alle quali non si doveva assolutamente mancare di rispetto, Gadda si faceva portare la coda alla vaccinara, lamentandosi poi che tanta messinscena maestosa al pomodoro si riducesse in sostanza a puro ossame. A volte però sembrava scontento di quella trattoria: «Non ho voglia di andare in quell’antro scaracchioso».
Gli uffici di Botteghe Oscure erano anche più frequentati di quelli di via Asiago. Fra i clienti affezionati il solito Giusso dall’eloquio napoletano e spagnolesco, un allampanato poeta svizzero in cerca di raccomandazioni per premi letterari, un giovane dai capelli a paggio spesso in preda a crisi isteriche, un prete agitato e svolazzante specializzato nella registrazione del pigolio degli uccelli che doveva fare da sfondo a una vita di san Francesco. Gadda non figurava un devoto di san Francesco che vedeva troppo indiavolato e intrattabile, con quei poveri frati colpevoli di prepararsi un po’ di minestra. «Bada che ti mozzico!» minacciava san Francesco digrignando i denti con sproporzionata ferocia. «Da quando li hanno fatti patroni d’Italia, lui e santa Caterina, le cose sono andate a rovescio», concludeva, ma subito era preso da superstizioso terrore. Non mancava tuttavia di manifestare qualche segno di rispetto alla chiesa cattolica come quando offrì un mazzolino di fiori alla Madonna dei pompieri in una festa che lo frastornò coi canti e gli evviva della folla, le scolaresche, le educande, il pio istituto dei rachitici. Ricordava con accento di venerazione quattro zie monache, due canossiane, sorelle del padre, e due «dame Orsoline», sorelle della madre, che gli scrivevano lettere in ottimo italiano: «Dilettissimo nipote…» Non manca del resto nelle pagine di Eros e Priapo qualche spunto di vera religione. Fra i santi della perduta patria di Lombardia non amava Carlo Borromeo, bruciatore di eretici e di streghe. «Era bruttissimo e aveva il naso più lungo dell’Occidente europeo, un naso priapesco che faceva arrossire le ragazze». Lo riteneva responsabile di certa educazione «catechista» ancora in uso nelle scuole elementari milanesi fra la fine dell’Otto e i primi anni del Novecento: il «borromeismo laico». Il Borromeo era tuttavia uno dei grandi Carli della Lombardia: seguivano Carlo Porta, Carlo Cattaneo, Carlo Dossi, Carlo Linati e ultimo, in ordine di tempo, Carlo Emilio Gadda.
La vita d’ufficio era caotica e spesa in continue udienze fra richieste di collaborazioni, confessioni, nuovi traumi. «C’è di là don Lasagna che salta!» avvertiva Gadda fra l’irritato e lo sgomento e si vedeva il prete balzare da un angolo all’altro di una stanza con l’agilità di un gattopardo per sistemare un registratore con la predica agli uccelli. Il prete, per i gusti di Gadda, bivaccava troppo in via delle Botteghe Oscure e un giorno aveva fatto colazione sulla sua scrivania, davanti a Gadda, mangiando pane e salame e sbucciando arance, dicendo francamente che era alieno, fra gente amica, dal fare complimenti. «Lui prende questo ufficio per un Cobianchi: un posto dove si fa pipì, popò e ci si lava le mani». Gadda cercava di sottrarsi ai visitatori inopportuni cambiando stanza, soprattutto quando era appena arrivato «col caffelatte sullo stomaco». Queste fughe non riuscivano perché era immancabilmente scoperto dal paggio, dal poeta svizzero, dal prete: «Gadda, Lei è qui?» «Sì, sì, sono qui». Oppure, ma di rado, strepitava, in mezzo alle carte: «Ho da fare! Ho da fare!» Una signora magrissima che lavorava nella segreteria del terzo Programma riapparve dopo una vacanza con un paio di zinne consistentissime che bucavano addirittura la maglietta fra i commenti stupiti dei colleghi. Gadda, dopo aver sbirciato, interpretò: «Oggi con le cure ormoniche ormai si fa tutto: io potrei diventare una ballerina» e, con mezza giravolta, accennò un passo di danza. Scriveva pezzi di presentazione per un programma su Dostoevskij elencando le componenti (vedovanza, socialismo ecc.), per i sonetti del Belli nell’edizione di Vigolo con una scelta di componimenti osceni che provocarono il piagnucolio delle offese dattilografe. Gadda non si aspettava questa reazione e fu molto combattutto fra il dovere di fingere costernazione e l’istinto di infuriarsi ma, dato che alla radio era impossibile trasmettere le priapee del Belli, emendò i sonetti già scelti cambiando «puttana» in «mondana» e così via, con grave disappunto di Vigolo a vedere compromesso il suo rigore filologico. Gadda passò un giorno o due di malumore considerando falso quel risveglio di pudicizia, ma anche mortificandosi nel risorgente masochismo: «Non sono che un turpe vecchio!»
Si fermava qualche volta a salutare Gadda nell’ufficio di via della Botteghe Oscure una giovane e graziosa collaboratrice, Alessandra Pasolini. Gadda la considerava con simpatia e apprezzava la sua bellezza. Ogni tanto chiedeva: «Vive sola? Non ha un innamorato?» Agli incoraggiamenti dei colleghi si schermiva: «Sono troppo anziano…»
«Ho visto oggi la Pasolini».
«Ah sì? Che diceva?»
«Mi ha parlato di te con occhi brillanti».
«Questo mi fa ridere…» E gorgogliava.
«Avrebbe bisogno di un protettore, di un vecchio zio…»
«Sei un po’ impudente…»
«Perché impudente? Sembravi interessato…»
«Io non ho detto niente di simile».
«Eppure ne hai parlato altre volte».
«Non può essere vero».
«Non capisco tutte queste reticenze. Avevi detto che ti saresti fidanzato volentieri…»
«Io fidanzato? E a chi lo avrei detto?»
«Anche a Piccioni».
«A Piccioni??? Io non ho mai detto a nessuno di volermi fidanzare con Pasolini!»
Gli fu affidato un ciclo, di trasmissioni su Orazio a cura di un eminente studioso di antichità greche e romane». Si mise alla revisione col solito accanimento rifacendo la prosa del latinista e cambiando in qualche caso le citazioni. Non gli piaceva la parte di un’ode che il collaboratore aveva scelto e la criticò con una certa asprezza contrapponendole un’altra con queste parole ammirate: «Sembra un brano di Shakespeare musicato da Beethoven». Il maltrattato studioso scriveva lettere di rimostranze via via che, ascoltando la radio, si accorgeva dello sconvolgimento del suo Orazio finché, a proposito di Shakespeare e di Beethoven, esplose per lo sdegno: «Io non ricorro a questi mezzucci!» Gadda brontolava in risposta un po’ depresso: «Non è una frase così stupida come dice lui perché io pensavo al Coriolano». In quella occasione aveva scritto per il «Radiocorriere» un articolo di presentazione del ciclo provocando la reazione indispettita di un traduttore di poeti latini: «Gadda che scrive su Orazio! è grave, sai. È un segno dei tempi». Aggiungeva che lui aveva tutto Orazio in un cassetto, in una versione poetica. A Gadda furono riportate queste parole: contrariamente al previsto, si arrabbiò moltissimo e subito corse alla ricerca del traduttore per corridoi e stanze, poi si piazzò sulle scale e appena lo vide lo investì: «Io sarei un segno dei tempi? Per sua regola, io Orazio lo so a mente». L’altro era un po’ interdetto ma cercava di difendersi e di sostenere la legittimità della sua opinione di traduttore che aveva Orazio nel cassetto. Ma Gadda non demordeva: «Potremmo cimentarci in una gara, io e Lei, per vedere chi sa più versi di Orazio a memoria».
Appariva il direttore della rivista letteraria alla caccia di pezzi già trasmessi da pubblicare senza compenso e un giorno manifestava il desiderio di risposarsi definendo «disumana» la condizione dello scapolo. Il discorso non piacque a Gadda, soprattutto per l’aggettivo «disumano» ed elencò una lunga serie di celibi della letteratura e dell’arte: «Anche Beethoven, anche Mazzini. Per quanto Mazzini credo che andasse a letto solo con la boule dell’acqua calda». Non vedeva di buon occhio il direttore della rivista al quale cedeva tuttavia il testo di un programma e, accorgendosi dopo qualche anno, quando non era più alla radio, di essere salutato a stento, disse con disprezzo: «Ora lo defecherò».
Gadda non parlava quasi mai del suo lavoro di scrittore, ma qualche volta accennava alle opere rimaste inedite o pubblicate parzialmente in rivista e comunque mai apparse in volume. A parte il Pasticciaccio e la Cognizione del dolore, ricordò un romanzo sugli imboscati della grande guerra del quale erano usciti alcuni episodi su Solaria col titolo La meccanica. Avrebbe però dovuto intitolarsi Un fulmine sul 220 che probabilmente significa «un accidente sulla vita quotidiana», dato che il 220 è la normale corrente elettrica in uso per qualsiasi abitazione. Intanto rivedeva le favole disperse fra vari periodici prima e dopo la guerra e scrivendone altre.
Gadda era invitato spesso a colazione e a cena nelle case dei colleghi radiofonici e vi andava con un misto di piacere e scocciatura. Era molto attento in questi casi ai rapporti fra genitori e figli, fra padri e figli specialmente se in tenera età (i figli), assistendo con apparente approvazione alle cerimonie dei baci e degli abbracci. «è innamorato della figlia e la moglie, furba, che ha capito di non essere più lei l’oggetto erotico, gliela prepara seminuda, profumata come un’odalisca». In un’altra casa mancavano invece i figli e non era quindi costretto «a far da balio e nonno» ma la signora era petulante e lo turbava con domande improvvise: «Cosa ci prepara di bello?» Gadda temeva le serate musicali nel pericolo di essere coinvolto in discussioni dopo l’ascolto dei dischi. La musica lo immergeva in un beato dormiveglia al quale era strappato da un dibattito sulla superiorità di Mozart o di Beethoven; guardava allora i presenti con occhi da annegato. «Di fronte a Beethoven, Mozart sparisce! Sparisce!» insisteva una signora e Gadda, mentre nell’orecchio gli rimbombava l’iterata esclamazione, azzardava con l’aspetto di un naufrago: «Indubbiamente la musica di Beethoven ha un contenuto più romantico».
Non aveva voglia di nuove conoscenze perché le considerava «nuovi traumi» e quando il compagno di stanza con la sua strascicata cadenza bolognese lo invitò a cena annunciandogli la presenza di un amico regista, Gadda apparì recalcitrante dicendo di non sentirsi preparato su argomenti teatrali. «Ma no, vedrai, non ha importanza. Lui è simpatico, anche la moglie è simpatica…» Gadda finì per accettare ma, appena l’altro uscì dalla stanza, dopo le consuete incertezze, esplose con voce furente: «Ti assicuro che è simpaticissimo!»
Preferiva le cene in trattoria alle serate in casa di colleghi, anche perché nel secondo caso doveva procurarsi una scatola di marrons glacés, vestirsi di blu e intrattenere le «gentili signore». Mangiava volentieri in compagnia e si dispiaceva al solito, di defezioni e tradimenti soprattutto quando gli era stato promesso, sia pur vagamente, di stare insieme. «Dove va, dalla moglie, dai figli?» brontolava all’indirizzo di un collega che si allontanava in fretta, appena uscito dall’ufficio. Ma se qualcuno gli ripeteva a distanza di giorni la stessa frase in occasione analoga, correggeva pacatamente: «Non devi dire così. Si dice: dalla gentile signora e dalle soavi bambine». Rimasto solo, se ne andava via scontento, a capo basso, col suo passo pesante da vecchio alpino.
«Gadda, cosa ha fatto oggi?» gli domandava a giorni il suo direttore con aria falsamente altera e Gadda farfugliava perché preso alla sprovvista. «Un’altra volta mi preparo», si riprometteva, «e gli rispondo: “E il suo Borrelli, del quale Lei è innamorato, cosa ha fatto oggi?”» Gli accadeva però di gustare le facezie e le imitazioni dell’altro e di godere per un soddisfacente scambio di opinioni: «Mi ha chiamato gioia bella!» Ma dopo qualche rabbuffo appariva tetro: «Non parlarmene: per me è un ermetico». Gli riconosceva qualità mondane e richiesto con chi sarebbe andato in un casino di alto bordo precisava: «Caso mai, con Cecè».
Quando usciva un libro di un amico si sentiva in dovere di recensirlo e si informava se qualcuno era pronto a farlo al suo posto: «Arriverei a dare un compenso di tremila lire». L’idea di farsi sostituire era per lui una tentazione come quando gli arrivò una lettera che lo invitava a incontrarsi con una signorina americana:
«Vai tu e dille: “Io sono Gadda”».
«Mi troverà alquanto ringiovanito».
«Non importa; le dirai: “Mi sono ben conservato”».
Così accadeva che un amico, aspettandolo all’ingresso del teatro Quirino con due biglietti per lo spettacolo Black and White, vedesse con stupore venirgli incontro un’altra persona: «Gadda è rimasto a casa perché non sta bene ma io vedrei volentieri Black and White».
Gadda propose che fosse affidata a Longhi la rassegna delle arti figurative al Terzo Programma e il grande storico, che già faceva parte del comitato direttivo dell’«Approdo», programma radiofonico e rivista letteraria stampata, cominciò a collaborare fornendo regolarmente un testo ogni mese. Poi, evidentemente, si stancò e ad un suo editoriale si aggiungeva un pezzo di un allievo, poi sempre più frequentemente la rassegna si componeva di articoli di giovani studiosi della sua scuola. Il direttore del Terzo se la prese in crescendo con Gadda rimproverandolo di non star dietro a Longhi perché rispettasse l’accordo risollevando la trasmissione all’originario prestigio. Quando alla fine anche gli alunni sparirono dalla rassegna sostituiti da scrittori e critici letterari amici del maestro, Gadda si decise a parlare con Longhi che di tanto in tanto si fermava a Roma per qualche giorno e lo raggiunse al «Grappolo d’oro» dove Longhi e la Banti si trovavano abitualmente per la colazione. Gadda entrò presto in argomento, sia pure fra molte titubanze, riconfermando che la Radio Italiana si lusingava di averlo come collaboratore ma, proprio per questo, naturalmente vogliosa di sue prestazioni dirette e meno di altri studiosi, anche se valentissimi. Longhi ascoltava con aria indifferente e Gadda proseguì sotto lo sguardo severo della Banti: «Per esempio, nell’ultimo numero della rassegna, c’era uno Zampa su Klee». Longhi si voltò di traverso e, col suo piglio da hidalgo, replicò vibratamente e con una punta di sarcasmo: «Ma come? Uno Zampa su un Klee!» Gadda non ebbe il coraggio di andare avanti e Longhi cambiò discorso mentre la Banti mantenne per tutta la durata della colazione un atteggiamento di lesa maestà. Da allora, su richiesta dei colleghi, e ogni volta inasprendo il tono sarcastico della frase, ripeteva rabbioso:«Ma come? Uno Zampa! Su un Klee!»
In risposta alle sollecitazioni, la rassegna non arrivò a destinazione con grave disappunto di Gadda ritenuto responsabile del disguido. Latitavano, per non parlare di Longhi, gli allievi prediletti e perfino Zampa. Gadda si rivolse ad un giovane storico dell’arte, alunno di Argan, chiedendogli con urgenza di preparare una rassegna e Longhi, vedendo sul «Radiocorriere», nella trasmissione a sua cura, il nome di un critico completamente estraneo alla sua scuola, ebbe un attacco di furore.
«Pare che Longhi sia corso a protestare a Radio Firenze con un codazzo di allievi».
«Come il negro a cui hanno rubato il pollo?»
La Banti, di passaggio a Roma, telefonò a Gadda che fu costretto a sorbirsi i rimproveri con la faccia «a trenta centimetri dal pavimento», secondo le misure adottate dalla nana demente. La Banti continuò per un pezzo concludendo ogni rampogna col ritornello: «E si ricordi che si tratta di Longhi!» Alla fine Gadda si scocciò: «Se lui è Longhi, io sono Gadda». La Banti perse il filo della requisitoria e restò interdetta come spesso le accadeva se l’avversario passava al contrattacco. Un giorno Bassani le aveva risposto rudemente al modo italiano e lei si era smarrita, apparendo poi austeramente trafitta come una regina in esilio: «Nessuna donna è stata mai trattata in questo modo». Gadda intanto era inferocito e si sfogò con un giovane critico che scrisse un articolo sulla Fiera letteraria elencando esempi di inciviltà nel mondo delle lettere fra i quali quello di un noto narratore aggredito per telefono dalla moglie scrittrice di uno storico dell’arte. Longhi lesse l’articolo e si augurò che la Banti, in quei giorni a Roma, schiaffeggiasse pubblicamente Gadda. Quanto a Gadda, ripensando a Lucia Me Lo Presti (Lopresti era il suo cognome da ragazza), ripeté per qualche giorno: «Mi ha fatto una telefonata calabrese».
Uscì allora Il primo libro delle Favole dove erano raccolte le favolette pubblicate anni prima in più riviste e alle quali ne avevano aggiunte altre come quella dell’omelia del vescovo al cader della sera mentre gli uccelli si becchettano per trovar posto sugli alberi. Gadda era nella sua fase più favorevole al dialetto che poteva «aggiungere più decisi, più concreti risultati che molte volte una lingua piovutane in penna da una tradizione stenta, da una scuola uggiosa». Era andato in giro di stanza in stanza raccogliendo imprecazioni in più vernacoli per tradurre nel turpiloquio fiorentino, bolognese, napoletano, romanesco il ringraziamento al Signore degli uccelli ascoltato devotamente dal Venerabile Mellone. Criticava Savinio per aver considerato l’uso del dialetto come indice di grettezza esprimendosi per proprio conto in una prosa «anodina». Scrisse altre favole, piccole vendette contro seccatori belanti o «salivosi». Il «tale denominato La Fava» gli aveva telefonato dicendogli: «Siamo colleghi di penna». Ma Gadda, lasciandolo interdetto, esclamò furente: «Sono anni che non vedo Penna!» Temeva che si trattasse di una amicizia riprovevole nel clima moralistico della Radio Italiana. Ad un altro letterato che, sempre per telefono, gli aveva chiesto notizie di Penna, rispose esasperato: «Penna è un vagabondo! Non so davvero dove sia Penna…» Altra allusione in una favola ai cosiddetti «intellettuali di sinistra», in particolare a Ferrata e a Vittorini, che negli anni Cinquanta si «disingaggiarono» dal P.C.I.: «I letteratori ingaggiati dopo anni zinque si disingaggiano».
Le favole non ebbero successo; anche De Robertis, orgoglioso di aver «scoperto» Gadda, si espresse con una certa severità definendo, fra l’altro un esercizio «facile» la nota bibliografica in fondo al libro. Gadda trovò da ridire su quel «facile» e non a torto. A un altro recensore voleva scrivere un biglietto: «Mi dispiace di esserLe dispiaciuto». La stroncatura portava la firma di Mario Picchi, giovane critico e scrittore: aveva lo stesso cognome del tenore Mirto Picchi e a Gadda era stato detto che si trattava di un cantante lirico. «Ho visto Picchi. Ha cantato nei Puritani l’altra sera». Per questo motivo, in una lettera a Contini, si dice: «Anche il tenore Picchi le ha stroncate [le favole] su Momento». Più tardi si rese conto della balla: «Stavi per farmi fare una figura…» Ho detto a Picchi: «Lei è un musicista». Mi ha risposto di no «Però canta…» Lui si è limitato a dire: «Sì, qualche volta canterello». Per fortuna mi sono fermato a tempo, stavo, per dirgli: «Ma come canterella? Ma se ha cantato nell’Aida!»
Concorse anche allo «Strega» e riuscì a entrare, ultimo, nella cinquina, con trenta voti. Era incerto se presentarsi a Villa Gulia, la sera della premiazione («Esibirmi così trombato!») ma finì per andarci tenendosi dignitosamente in disparte. Sembrava abbastanza soddisfatto delle sue favole, in particolare di quella con Mussolini all’inferno, spiegando: «Questo è il mio paradiso». Ma Gadda era uno scrittore che ricominciava da zero e le favole, spesso troppo allusive e oscure avrebbero dovuto uscire dopo la pubblicazione o la ristampa delle opere maggiori alle quali possono fornire elementi interpretativi. Solo recentemente, nell’88 e nel ’90 le favole sono state oggetto di studio serio da parte di Alba Andreini che le ha esaminate come «test d’identità per il narratore», a esemplificazione della «poetica del detrito», e di Claudio Vela che in una nuova edizione ha provveduto ad una «Guida alla lettura» con pagine su «Gadda favolista» e preziose, accuratissime «Note e notizie», favola per favola. Gadda fu assalito da dubbi sulle proprie qualità letterarie anche perché aveva letto in un articolo di essere «organicamente incapace di scrivere un romanzo». Ora respingeva quel giudizio dicendo di avere composto il Pasticciaccio, ancora inedito, ora si ripeteva da masochista quella frase fingendo di crederci. Si avvicinava il periodo delle vacanze e al solito esitava affermando che non c’era nei suoi superiori l’intenzione di mandarlo in ferie. A chi gli chiedeva consigli sul modo di comportarsi in terra straniera (era di moda andare in Austria) rispondeva con gravità: «Mai dir male della patria all’estero. Soltanto se un austriaco si abbandonasse a osservazioni severe sul suo Paese si potrebbe fare qualche concessione: “Però, anche in Italia…” Ma attento sempre alla bilancia che nel conto l’Italia non ci rimetta!» Gli scrissi, mentendo, di aver avuto un diverbio con un francese che disprezzava l’Italia e gli italiani, dando prova di patriottismo, sommamente apprezzato da Gadda: «Bravo per aver saputo rimbeccare il Gallo tracotante». Elogiava gli inglesi perché mostravano rispetto per la patria degli altri e ricordava di aver domandato su un treno a un inglese che ne pensasse di Mussolini. La risposta era stata: «Trovo che è pittoresco». In questo modo il viaggiatore aveva parlato argutamente e senza offendere l’interlocutore italiano nel caso fosse stato fascista. «Gli inglesi sono molto spiritosi», commentava e raccontava l’incontro, sempre su un treno, con un altro figlio di Albione. Il treno era affollatissimo, ma Gadda riuscì a trovare due posti liberi in uno scompartimento dove era un bambino piagnucoloso. Avvertì l’inglese, ma quello preferì restare in piedi nel corridoio: «No, pampino no!»
Quando un amico partiva per la villeggiatura, Gadda si informava scrupolosamente sul luogo della vacanza promettendo di raggiungerlo in qualche Weinstube austriaca o su una spiaggia italiana. Chiedeva di essere ragguagliato sul viaggio, la pensione, i prezzi; scriveva lettere a più persone mostrandosi estremamente interessato ai posti più eterogenei: marini, montani, impervi o accessibili, selvaggi o mondani che fossero, ma alla fine rinunciava. Le lettere portavano l’eco delle sue bizze per essere diventato il pitale di vecchie dementi e l’elenco dei suoi malanni estivi. «Sono molto stanco, midollo spinale spappolato a pappa di tapiòca orrenda afa calura e traspirazione, foca grassa nel pantano romúleo». «Sono solo con madama Antonietta. He, He, He! La nana villeggia».
Il linguaggio radiofonico è sempre stato una idea fissa delle direzioni programmi e anche Gadda ne fu contagiato nelle sue «fatiche radiofonico-linguàtiche». Da una convergenza di opinioni da parte dei personaggi più diversi del Terzo nacque il progetto di un prontuario che sarebbe stato redatto proprio da Carlo Emilio Gadda e pubblicato anonimo dalle Edizioni Radio Italiana (E.R.I.). Gadda si mise al lavoro, e ne derivò un opuscolo, che cominciava con queste parole:
«Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predisporre, scrivendolo, un testo per la Radio. La mancata osservanza di dette norme e cautele può rendere “intrasmettibile” uno scritto anche se per altri aspetti eccellente. La Direzione del Programma si viene a trovare, in tal caso, nella ingrata condizione di non poterlo mandare in onda… Per il radioascolto i termini sono: accessibilità fisica, cioè acustica, e intellettiva della radiotrasmissione, chiarezza, limpidià del dettato, gradevole ritmo».
L’autore aveva dato a queste «Norme per la redazione di un testo radiofonico» un’aria austera e non sembrava dar ragione a chi le trovava divertenti. «Il tono accademico o dottrinale è da escludere: solo per eccezione adeguatamente giustificata dall’occorrenza, potè ammettersi il tono sostenuto della prolusione universitaria, il timbro patetico e solenne del “discorso per la morte di Giuseppe Garibaldi” (Carducci) o la bronzea sintassi de “L’opera di Dante” (Carducci). Resosi defunto anche Gabriele D’Annunzio, la orazione è alquanto decaduta nel gusto del pubblico». Se qualcuno rideva per quel «resosi defunto» Gadda precisava, serio: «Ma è linguaggio notarile!» L’opuscolo fu unito alle lettere-contratto spedite ai collaboratori provocando, qualche reazione sdegnata in professori universitari che si sentirono offesi all’idea di apprendere una lezione di stile: segno di una certa mancanza di spirito nel mondo accademico italiano.
In quell’inverno Gadda cominciò a sentirsi poco bene, soprattutto per il respiro difficile, e decise di farsi una radiografia al torace. La lastra segnalò una zona opaca che fu interpretata come pleurite. Gadda era molto preoccupato e decise di entrare nella clinica dove lo avevano sottoposto a esame radiografico. Nella casa della nana demente e di madama Antonietta non poteva avere adeguata assitenza ma confusione di voci atterrite, pigolante e continuo, inutile starnazzamento. Preparò una valigia e si fece accompagnare alla clinica in un tassì imprecando contro il suo aggrottato compagno di ufficio che per il colorito verdastro credeva ormai affetto da tubercolosi e quindi responsabile per contagio della sua malattia. La clinica era l’unica soluzione, soprattutto per uno scapolo come lui, e si ricordava la lunga degenza in immobilità assoluta per curarsi di una ulcera duodenale, vigilato da fredde monache efficienti. Gadda fu sistemato in una comoda camera semibuia, fornita di paravento, dal quale emergeva in vestaglia con aria sconsolata. Apprezzava fino a un certo punto le visite di conoscenti, di collaboratori radiofonici come il paggio, dicendo: «Io ho solo bisogno di riposo e di quattrini». I giorni passavano e Gadda, che stava sempre nello stesso modo, cominciò a nutrire il sospetto che non lo curassero con la sperata efficacia. Il suo medico, che era andato a trovarlo, dubitava della pleurite e lo consigliò di farsi visitare da un eminente specialista, il primo sperimentatore italiano del pneumatorace nei giorni lontani della guerra del ’15. Nella sala di attesa Gadda sbirciava con diffidenza i malati, giovani pallidi e depressi che confrontava al suo compagno di ufficio. Il grande tisiologo esaminò la radiografia sentenziando che si trattava di un malanno perfettamente guarito da almeno quarant’anni. Gadda tornò nella casa della nana, bestemmiando fra i denti contro lo scherzuccio del Padre Eterno che lo aveva relegato inutilmente per un mese in una clinica.
Il Padre Eterno coi suoi scherzucci era spesso tirato in ballo da Gadda che ricordava con rabbia il giorno in cui finalmente, dopo aver tanto aspettato e desiderato quella occasione, era andato coi suoi a prendere un gelato da Savini: un piccione dall’alto della Galleria gli aveva colpito il gelato con precisione millimetrica. Altro scherzuccio del Padre Eterno l’occupazione delle fabbriche il giorno della sua laurea in ingegneria. Il Padre Eterno era spiritoso e a due padri soliti a enfatizzare fra loro la bellezza delle donne («Vedi quelle cosce, vedi quelle poppe») aveva affibbiato due figli pederasti. Un altro padre era integerrimo, «mazziniano, vestito di nero» e il Padre Eterno, «che è spiritoso», aveva deciso: «Io ti do il figlio buco». Gadda si eccitava in questi racconti e, se qualcuno osservava: «Ma Lei gavazza!», rispondeva con gioia: «Sì, gavazzo, perché vedo la curva del destino».
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Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
© 2002-2025 by Giulio Cattaneo. Previously published in Il gran lombardo (Turin: Einaudi, 1991), 37-83.
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