Il Ventennio di Gadda
Cristina Savettieri
Il rapporto tra Gadda e il Ventennio sembra un tema ormai attestatosi su uno schema giudiziario: da un lato gli accusatori, che hanno ricostruito una rete di indizi e prove sulla cui base si emette un giudizio storico, e talvolta morale e umano, schiacciante; dall’altro gli assolutori, che cercano di correggere e riabilitare l’immagine dello scrittore connivente se non addirittura servo del regime. (1) Ma l’immagine del fascista colpevole che si pente solo a disastro avvenuto non è molto distante da quella dell’intellettuale nicodemicamente scisso tra adesione di facciata e ripulsa interiore. Né l’una né l’altra icona sono in sé false: Gadda matura il suo odio esacerbato nei confronti del duce solo con lo scoppio della seconda guerra mondiale, che rinnova i traumi mai sepolti della Grande Guerra; ed è vero anche che probabilmente un certo distacco, se non un vero e proprio fastidio, per gli apparati effimeri del regime sorge ben prima del 10 giugno 1940. Il problema è che né un fatto né l’altro ci aiutano a misurare e fissare con nettezza il grado di fascistità di Gadda.
Questa impostazione sembra ignorare quella che lo storico Pier Giorgio Zunino ha acutamente definito «terra di nessuno», cioè quello spazio grigio e nebuloso – e decisamente ampio – che separava l’Italia legale del fascismo da quella illegale dell’antifascismo (2) uno spazio in cui partecipazione e dissenso si annacquavano entrambi nelle anse della vita quotidiana, dando luogo a forme decisamente intermedie e non necessariamente contraddittorie. Se questa idea vale per la condotta delle masse, è giusto ripensarla nel caso in cui si tenti di utilizzarla nella valutazione dell’operato di una singola esistenza. Gadda non era certo un uomo medio e volubile nel modo di pensare; ma forse troppo si è sottovalutata l’idea che nel corso dei cruciali anni Trenta – un discorso a parte meritano sia gli anni Venti sia il dopoguerra – la sua posizione sia stata realmente bifida e intermedia: non bisogna escludere, insomma, che la sua visione del regime, non meno della sua esperienza di esso, fossero oscillanti e mobili senza attestarsi mai né sul versante dell’opposizione convinta, né su quello dell’adesione entusiastica. Possiamo ipotizzare che la fase centrale del Ventennio sia stata attraversata da Gadda con un insieme stratificato ed eterogeneo di atteggiamenti: senso della necessità storica del fascismo, e al tempo stesso perplessità e disorientamento di fronte alla macchina simbolica del regime. In questo campo di forze in tensione si colloca il cuore della produzione letteraria di Gadda: buona parte dei racconti – tra cui i capolavori San Giorgio in casa Brocchi e L’incendio di via Keplero – , L’Adalgisa e la Cognizione del dolore nascono proprio sullo sfondo del pieno consolidamento delle strutture dell’Italia fascista: eppure il rapporto che lega queste opere alle coordinate materiali e simboliche del contesto storico è fortemente dissonante. È di questa dissonanza che occorre occuparsi per ricostruire la parabola esistenziale, prima ancora che semplicemente ideologica, di uno scrittore che probabilmente si trovò ad accettare l’ordine totalitario in nome di ideali patriottici radicati, ma irrimediabilmente traditi e perduti.
1. Fascismo, filosofia della storia, pragma
Riteniamo, in generale, che la «Patria» rispecchia lo stato d’animo della gran parte de’ suoi lettori, per cui la rivoluzione fascista non sembra rivestire quel carattere di «necessità», che ebbe per quanti di noi, reduci dalla guerra, abbiamo vissuto | il triennio 19-22 in Italia. Diciassette mila chilometri sono pure qualcosa, anche se percorsi dagli All American Cables.
Molti italiani di qui vedono nel fascismo un’imposizione audace di pochi: una costruzione politica di carattere effimero, che oggi domina la vita italiana con la novità e la potenza del suo atteggiamento, che domani rientrerà nel magazzino dei giochi pittoreschi e bizzarri con cui ha giocato la Storia degli uomini. –
A questa gente è conosciuta solo dalle letture la tragica umiliazione dei reduci del 18, la gazzarra parolaia dei dominatori del 19 e del 20 che freschi d’impudenti energie, si accanirono contro le classi della volontà e del sacrificio, dello studio, dell’organizzazione, esauste dalle ferite morali e materiali incontrate nella guerra: è conosciuta perciò la ribellione disperata e «macellaia» di queste classi contro tale dominio e contro | le cause ideologiche. La ribellione prese il nome di fascismo: ma la sua «necessità» è attenuata dalla distanza; non si sa bene perché ci sia; che cosa voglia, se la sua forza sarà duratura. (3) (BA 41-43)
è il 1923. Gadda si trova in Argentina, a Buenos Aires, dove svolge l’attività di ingegnere elettrotecnico. Sono passati pochi mesi dalla marcia su Roma e agli occhi del reduce di Caporetto in Italia si sta realizzando una vera e propria rivoluzione. Mai come in questo quaderno di appunti, che senza soluzione di continuità raccoglie microsaggi di economia politica, diario personale e materiale letterario vero e proprio, Gadda illustra in maniera così netta e semplice le proprie idee sul fascismo. Si tratta di quello che è noto agli studiosi come Quaderno di Buenos Aires, che più volte è richiamato nei Cahiers d’études del Racconto italiano, (4) e che anzi sembra essere il faldone originario da cui verranno staccati temi, studi e idee confluiti nel primo tentativo romanzesco di Gadda.(5) è qui che questioni come la gestione del latifondo e la teoria delle razze si trovano a convivere con gli stralci narrativi di un ipotetico romanzo sull’Italia del dopoguerra. Le osservazioni sul fascismo, sistematicamente concentrate in due distinte sezioni del quaderno, (6) ma sovrascritte e alluse in parecchi altri pezzi, si distinguono per la limpidità dell’argomentazione, che non lascia alcun dubbio sul fatto che quella di Gadda, alla prima ora della rivoluzione, fu un’adesione piena e senza deroghe.
La prima sezione, risalente con buona probabilità al 1923, presenta un duplice titolo: «Lettere da Buenos-Aires» cui segue «Il Fascismo in America», che corregge lo scartato «Il Fascismo e italianità» (BA 39). Gadda è lontano dall’Italia e si sofferma a studiare le reazioni che il nuovo ordine politico suscita all’estero e in particolare negli italiani fuori sede. La sua attenzione si concentra sulle posizioni dei quotidiani italiani di Buenos Aires: le reazioni, a detta di Gadda, sembrano piuttosto tiepide, se non diffidenti:
Non si può dire che il fascismo abbia buona stampa presso i quotidiani di Buenos Aires che escono in lingua italiana. Uno di questi, che rinuncio a nominare, rappresenta la costituzione morale e mentale dei bolscevichi locali, e compie a perfezione il suo dovere di rappresentante di essi. Il latrato e la contumelia sono espressioni nobilissime del sentire umano, qualora vengano comparate con la calunnia, la menzogna e la diffamazione. Ben volentieri quindi registreremmo, se lo potessimo, che l’acclamato quotidiano si limita a latrare contro coloro che la pensano diversamente da lui. […]
Il «Giornale d’Italia» simpatizzò dapprima apertamente con il movimento fascista. Oggi tace. –
La Patria degli italiani – il più diffuso – tiene verso il fascismo un contegno di prudente riserva. Pare che aspetti e forse realmente aspetta l’ulteriore sviluppo della rivoluzione fascista. (BA 39-40)
Lo scarto tra l’«ambiente caldo ed entusiastico» in patria e la fredda accoglienza delle notizie dall’Italia in terra argentina colpiscono Gadda, che si interroga su questa sfasatura assumendo un duplice sguardo, quello di un emigrante che è anche un fervente sostenitore della causa fascista. Se, dunque, le sue osservazioni tengono fermo il contesto argentino, esse non mancano di giustificare, con un insieme misto di ragioni di ordine superiore e di coinvolgimento individuale, l’opportunità della svolta fascista.
Gli elementi su cui puntare l’attenzione sono essenzialmente tre: rivoluzione, guerra, necessità. Il fascismo, alimentato dalle energie dello squadrismo postbellico, appare qui come ciò che interviene a rompere e invertire il corso della storia italiana. L’insofferenza per l’assetto dell’Italia liberale induce Gadda a pensare la marcia su Roma, gli eventi che la precedono e quelli che la seguono, (7) come l’inizio di una nuova costruzione politico-sociale destinata a ridare dignità a un corpo di valori sentiti come essenziali.
Ogni rivoluzione irrompe in un ordine dato e distrugge, sulla breve distanza, il normale corso degli eventi. Ma ogni rivoluzione ha bisogno anche di una filosofia della storia che la sorregga e ne indichi il carattere di necessità. E Gadda sembra interrogarsi proprio sull’insieme di nessi che hanno «necessariamente» condotto alla svolta autoritaria. (8) Ma la sua, almeno a questa altezza, più che una filosofia, è una pragmatica della storia, che affonda direttamente nel vissuto di colui che ne teorizza le forme: il fascismo è la giusta reazione alla deriva del primo dopoguerra, alla mortificazione dei reduci, alla diffusione del verbo socialista (la «gazzarra parolaia»), alla violenza e al disordine sociale. Il nodo che sta dietro a questa ricostruzione del senso dei fatti – dunque della loro necessità – è, appunto, la guerra.
Gadda rientra a Milano nel gennaio del 1919. Nel settembre Nitti concede l’amnistia ai disertori e a novembre rifiuta di celebrare l’anniversario della vittoria. Nel frattempo, la stampa allestisce una feroce campagna sull’inchiesta parlamentare su Caporetto: l’esercito ne esce denigrato e colpevole. (9) Il paese che il tenente Gadda, prigioniero a Rastatt e Celle-lager, trova al suo ritorno simbolicamente lo espelle, lo sospetta di tradimento, ne disconosce il sacrificio minimizzandone i dolori. Il fascismo si incunea precisamente in questo spazio, appropriandosi della memoria della Grande Guerra, che il discorso pubblico, conflittuale e frammentario, rifiuta di assumere. (10) La vicenda di Gadda è, davvero, esemplare.
Colpisce il fatto che in questi appunti Mussolini non venga mai nominato. (11) Il fascismo appare come un corpo unico e impersonale, animato da una collettività che si muove compatta, entro la quale non spiccano individualità trascinanti. Il carattere di necessità storica, del resto, qui davvero hegelianamente, annulla la particolarità dei singoli in nome di una trasformazione che si vuole inscritta già nella catena dei fatti e che riguarda addirittura la storia europea del XIX secolo:
è comunque indubitabile che il fascismo ha impostato davanti all’opinione pubblica di tutto il mondo un problema di tale natura, da non consentire alla stampa estera di disoccuparsene. Il Fascismo chiede alla società civile di rivalutare serenamente, direi scientificamente, le questioni sociali poste sul tappeto da un settantennio di storia dell’Europa, e di cui le dottrine socialiste si erano fatto un monopolio di dissertazione. Nato con caratteri di un moto religioso e politico, con la forza di una rivoluzione sublime, pare avviarsi ad una profonda riesamina di tutti i fatti e di tutte le attività sociali per addivenire a conclusioni attivistiche circa la vita delle collettività nazionali | e di queste nella collettività universale. – Se le sue energie non si esauriranno nelle diatribe di provincia, nei malumori individuali, nei piccoli fatti e nelle piccole quistioni paesane, esso è certamente destinato a recare un profondo rivolgimento nella vita del mondo. – (BA 46-47)
Il fascismo dunque, agli occhi di Gadda, appare destinato a mondializzarsi, a trasformarsi da rivoluzione a fondamento pragmatico comune alla vita di tutte le collettività. La proiezione utopica è grandiosa e sospetta, dato che Gadda diffidò sempre di qualunque forma di palingenesi e di costruzione eccessivamente idealizzata. (12) Il suo atteggiamento poggia probabilmente su una oscillazione: se egli rifiuta i credo politici sorti nel XIX secolo, socialismo in testa, non manca comunque di riusarne, mutate di segno, la tensione ideale e la spinta rivoluzionaria. Questo elemento di rottura e rinnovamento, che guarda al futuro, si mescola comunque a uno spirito di conservazione, rivolto al passato remoto risorgimentale e non a quello recente. La posizione di Gadda, in questo, non presenta nulla di particolarmente originale: la propaganda stessa tendeva a rappresentare il fascismo come una risposta allo svuotamento del liberalismo da un lato e del socialismo dall’altro; (13) allo stesso modo, l’innegabile dimensione escatologica dell’ideologia fascista non escludeva l’uso strumentale di una memoria collettiva coatta, che poggiava su alcuni essenziali episodi della storia passata riletti sub specie fascista. Il bifrontismo di Gadda è il bifrontismo di un’ideologia intenta a protendersi verso il futuro e a presentarsi come del tutto nuova, ma preoccupata anche di riappropriarsi, in vista della propria legittimazione, di simboli, miti e valori della patria sedimentati nel tempo. Come avrebbe potuto Gadda non aderire a quel movimento che si presentava come difensore della dignità dei reduci e della guerra e come protettore delle vestigia della patria? Certo, valutare deterministicamente le scelte dei singoli rischia di far perdere di vista il valore differenziale di ogni investimento simbolico individuale. Eppure è innegabile che l’entusiasmo e l’apprensione con cui Gadda segue gli sviluppi della presa di potere fascista descrivono con estrema precisione, direi al dettaglio, il quadro storico, sociale e ideologico del momento.
Così, anche la seconda sezione del quaderno, intitolata «Il fascismo senza dottrina» e accompagnata dal motto «La dottrina segue non precede la vita» (BA 87), ricalca, con la sensibilità di un sismografo, un altro grande tema dell’ideologia fascista, cioè quello dell’antidottrinarismo: (14)
Dottrina – nel campo strettamente politico – dovrebbe essere il corpus «magnum» delle conoscenze, delle esperienze, delle qualità e delle inclinazioni di metodo e di mezzi secondo il quale una parte definisce la sua azione.
Dottrina dovrebbe essere e fare quasi che sia il «corpus» delle premesse teoretiche all’azione. La conoscenza degli errori del passato, l’esperienza del male, lo studio delle cause, la doverosa attribuzione di cose al partito avversario, la non meno doverosa promessa di migliorarsi tutti insieme: e poi gli «ideali» e poi «le alte finalità del bene», cioè la visione mobilissima di un mondo che vada bene e nel quale noi pure staremo abbastanza bene e saremo forse | ritenuti dei grandi uomini, è questa in sostanza la specie preziosissima che ricotta con le erbe aromatiche e dei ricordi storici e di citazioni letterarie e filosofiche dei più rinomati scrittori decantano in una «dottrina» di partito.
Bisogna proprio far atto di doverosa contrizione: bisogna proprio concedere che il fascismo ha voluto ignorare quel buon diportamento che ci procura la stima dei «superiori». È stato un giovane miscredente, ha scritto «asino chi legge» sui più venerabili mausolei, ha usato i testi delle sacre biblioteche per accendere la fiammata della sua anima nel gelido mondo delle «dottrine» senza le anime. E si è poi malamente dimenticato che bisogna andare per il mondo con una «dottrina» politica, «Ah già che l’è vera!» (BA 88-89)
L’idea del fascismo come movimento di pura azione azzera la costruzione di un pensiero fascista: è proprio questo liberatorio azzeramento dell’apparato teorico che avrebbe contraddistinto il fascismo dalle ideologie del secolo precedente. Un vago antiintellettualismo, rovescio della medaglia di questa muscolare rivendicazione di pragmatismo, si legge anche in queste pagine di Gadda (le «sacre biblioteche», i «venerabili mausolei», le «citazioni letterarie e filosofiche»): ma qui il richiamo all’azione è fatto in nome della realtà e dei suoi intrecci complessi e per una ripulsa alle pratiche di astrazione da essa. Quanto poco il fascismo si sarebbe rivelato capace di fare a meno dei principi astraenti e semplificatori, oltreché autoritari, della propaganda, è fatto ancora di là da venire nella consapevolezza di Gadda.
Ancora una volta è l’esperienza della guerra il terreno su cui si impianta la critica delle dottrine:
La «dottrina» della difesa degli Altipiani preesiste nei grandiosi interramenti predispostivi nella conca d’Asiago, ma i fattori impreveduti fermano la linea di resistenza su Magnaboschi-Lemerle. Le trincee in cemento armato servono ai topi o ai nemici e sulla nuda terra è il muro dei fanti. Si obbietterà: «Erano dottrine sbagliate». Si risponde: «In tal caso è meglio non avere dottrine; ma cuori disposti a vivere nobilmente nell’imprevedut». Si obbietterà: «Allora viviamo alla giornata, facciamo tutto a casaccio». No: non facciamo nulla a caso. Ma non disperdiamo vanamente nell’impossibile costruzione, le forze che possono consentirci un’analisi accurata di fatti determinati e un loro riferimento ed inquadramento attualistico nella nobile somma di rapporti che costituisce la vita. (BA 93)
Qui si tocca uno dei nodi essenziali della visione della realtà che Gadda svilupperà ampiamente nella Meditazione milanese: i «fattori impreveduti» di cui si parla saranno, nell’opera filosofica del 1928, il «dato», cioè «ciò che ha carattere di esteriorità per un certo aggruppamento conoscitivo», dunque «l’impreveduto» (SVP 721). La guerra fornisce a Gadda numerosi esempi di scollamento tra teorie e dati, tra strategie e previsioni e contingenze reali impreviste. Alle cosiddette dottrine sembra siano imputati tutti gli errori di osservazione e valutazione della realtà, la mancata integrazione di rapporti che ne rende mutila la conoscenza.
Come dichiarerà parecchi anni più tardi, nell’Intervista al microfono, Gadda sente per la prima volta in guerra «il desiderio di conoscere e di approfondire» il «destino degli umani» e i «rapporti fra le creature» (SGF I 502); ed è la «trama continua di rapporti», l’«ordito combinatorio del destino» (SGF I 502) che caratterizzano la vita militare a offrirgli il modello principale di realtà complessa su cui continuerà a riflettere per molto tempo. L’esperienza traumatica della guerra mostra a Gadda la spaccatura tra idee e fatti, tra dover essere ed essere, oltre a rimandargli indietro con violenza il suo investimento simbolico, mortificato dalle disfunzioni dell’esercito, dal disastro di Caporetto, dalla prigionia. Su questo terreno attecchisce l’ammirazione per l’antidottrinarismo fascista e per l’esibizione di pragmatismo della violenza squadrista, ancora prima e ancor più di una generica esigenza di ordine, su cui molti critici hanno insistito. (15) Ma su questo stesso terreno e in parte sulla mancata comprensione della reale essenza della deriva autoritaria, paradossalmente, Gadda inizia a elaborare la sua critica all’astrazione e l’idea della complessità. Quella stessa critica che gli servirà a demolire, oltre vent’anni dopo, il sistema simbolico del regime e, con esso, la sua stessa illusione.
2. Un romanzo fascista?
Uno dei temi che affiora dalla massa di appunti e schizzi narrativi del quaderno di Buenos Aires è, senza dubbio, quello della collettività malata. Già dalle prime pagine, su «Capitale ed emigrazione», il latifondo diventa l’emblema della decomposizione del tessuto sociale italiano:
Il mal governo, il malvolere, la malaria, l’egoismo dei ricchi, il latifondo mortifero vennero ritenute le principali cause dell’emigrazione di una gente a noi cara.
Eppure queste cosiddette cause non possono porsi sopra un unico piano, come degli esemplari di cristalli sopra una tavola. Dobbiamo vederle nel loro aggrovigliato e vivente operare, dobbiamo studiare con un poco di serenità il meccanismo segreto della conseguenza. Opinano concordemente che l’asserzione di Plinio il Giovane: «latifundia Italiam perdiderunt» sia grammaticalmente corretta. Economicamente e storicamente raziocinando essi preferirebbero sostituirla con quest’altra: l’Italia perduta si decompose in latifondi. La ritenuta causa è divenuta in realtà un effetto: non i vermi han dato morte all’organismo, ma l’organismo morendo ha dato vita ai vermi. (BA 10-11)
Gadda risale fino al tempo dell’Impero romano per interrogarsi sulle cause dell’emigrazione di massa dalla penisola italiana. Il latifondo appare come il relitto di un sistema sociale disgregato, che ha generato zone in necrosi e improduttive. Le osservazioni di economia politica assumono subito un valore metaforico: «Il latifondo è un fenomeno di depauperamento materiale e morale della collettività: è il tessuto morto a cui sfocia la vita economica dell’organismo nazione, la paralisi a cui termina la dissolta energia di una gente agricola» (BA 14). L’immagine del latifondo non è molto lontana da quella della palude che compare già alla terza nota del Racconto italiano:
Uno dei miei vecchi concetti (le due patrie) è l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano. Mio annegamento nella palude brianza. Aneliti dell’adolescenza verso una vita migliore. – Militarismo serio, etc.
Si può dire che è una continuazione e dilatazione del concetto morale Manzoniano: «uomini e autorità che vengon meno all’officio e sono causa del male della società, fondamentalmente buona.» Così A. Manzoni. Io dico estendendo:
«Non solo autorità, ma anche plebe e tutto il popolo che vien meno alle ispirazioni interiori della vita, alle leggi intime e sacre e si perverte. –
Tragedia delle anime forti che rimangono impigliate in questa palude. Se grandi, con loro vizî, pervertono popolo (reazione sociale dell’attività individuale); a sua volta popolo con suo marasma uccide anime grandi (reazione individuale della perversione o insufficienza sociale). – » (SVP 396-97)
Il romanzo che Gadda si prepara a scrivere nel marzo del 1924, appena rientrato da Buenos Aires, sarà ambientato nel primo dopoguerra e poggerà, affidandosi a una impalcatura da romanzo storico del presente, su un concetto di morale sociale delineatosi già negli appunti argentini: (16) non è il singolo a trascinare la collettività alla deriva, ma è la collettività, di per sé malata (latifondo), ad affossare i singoli e a condannarli al fallimento (palude). Nonostante gli entusiasmi per la presa di potere fascista, il romanzo sembra volersi interrogare, più che sulle sorti magnifiche e progressive della rivoluzione, sul suo rimosso oscuro. A Gadda non interessa tanto il momento glorioso della marcia su Roma e il processo di iniziale consolidamento del potere, del resto nel ’24 ancora troppo mobile e incerto; lo ossessiona piuttosto il momento più tragico della sua vita, cioè quello del rientro in patria dalla prigionia nel 1919, quando non solo venne a sapere della morte del fratello ma si trovò davanti agli occhi un’Italia irriconoscibile, ostile ai reduci e sconvolta da fortissime tensioni sociali. Riandare a quel momento della sua storia personale, amplificandola nelle armoniche della storia collettiva, ha essenzialmente due conseguenze: fare del fascismo una lente per guardare, in forma trasposta e rovesciata, alla propria esperienza individuale; usare il fascismo in chiave antropologica per sondare i caratteri dell’italianità. Il principio della perversione dei singoli ad opera della collettività viene infatti subito indicato come strutturale nella storia sociale italiana: «(Foscolo andato a male, Scalvini suicida, etc. Rinascimento; Risorgimento: migliaia di esempî. Dante stesso)» (SVP 397).
Il protagonista del romanzo, Grifonetto Lampugnani, nasce già nelle pagine del quaderno di Buenos Aires. Nel primissimo schema sui tipi di personaggio del racconto da scrivere Gadda appunta « Grifonetto * “Le cause e il carattere di un tipo che non riesce”» (BA 75), fissando così i tratti fondamentali che distinguono il Grifonetto del Racconto italiano. Eppure questo personaggio avviato «al fallimento e alla tragedia – o almeno alla tragedia intima, mascherata da un esteriore accomodamento» (SVP 397) è anche un «ipervolitivo», disegnato sulla sagoma del leader degli squadristi milanesi, Ferruccio Gatti. (17) è significativo il fatto che Gadda preferisca non fare di Grifonetto un reduce, marginalizzando così il problema essenziale del reducismo e del suo ruolo negli sviluppi del movimento fascista. La generazione di Gadda, quella di coloro che hanno fatto la guerra, sarebbe entrata nel romanzo attraverso altre figure comprimarie, come ad esempio Gerolamo Lehrer, che riassume in sé i tratti del personaggio «tipo B», opposto a Grifonetto: «Si potrebbe in B fare il debole, impotente a tenere la sua posizione di combattimento, Pippanesco, mentre A è colui che supera di troppo l’ambiente. Entrambi disadattati. – Si può tarare B con la tara della guerra, ferite, psicopatie, tristezze e rivivere un po’ attraverso di lui la guerra» (SVP 398). «Pippanesco» è un aggettivo coniato da Gadda, probabilmente a partire dal nome del dirigente sindacale Giovanni Pippan, che nel ’21 era stato tra coloro che avevano guidato lo sciopero dei minatori dell’Arsa. (18) è singolare che per la figura del reduce Gadda pensi, come modello, a un uomo di formazione socialista, nonostante più avanti sia precisato che anche Lehrer è fascista; (19) ma è probabile che così egli cercasse di porre uno schermo all’immedesimazione, disseminando tratti di sé e della propria esperienza in più personaggi.
Ad ogni modo, sia Grifonetto sia Lehrer incarnano tipi umani, per motivi opposti, fallimentari e estranei al tessuto sociale. Ma mentre il secondo è portatore di un principio più propriamente noetico, avrebbe cioè rivestito i panni del personaggio-coscienza del racconto, (20) il primo è anche una figura d’azione, che muove l’intreccio del romanzo in senso spaziale (dall’Italia al Sud America) e in senso temporale. E si tratta di un intreccio complesso e fortemente romanzesco: Grifonetto partecipa, insieme ad altri squadristi, all’assalto di un circolo socialista, durante il quale uno degli avversari rimane ucciso. Incolpato ingiustamente, Grifonetto è costretto a fuggire e ripara in America Latina. Rientrato in Italia, torna dalla sua amata, Maria de La Garde, dalla quale era stato separato a causa dell’ostilità della famiglia di lei, e la uccide in un eccesso di passione. Ridotta all’osso, la trama del romanzo sarebbe ben poca cosa – una specie di racconto d’appendice, dalle tinte dannunziane, condito di qualche riferimento politico – se non fosse che la storia principale è solo il punto di innesto di una fitta rete, appena abbozzata, di numerosi altri fatti e temi: la storia di Grifonetto si intreccia a quella dell’operaio Carletto, del tenente Tolla, dell’anarchico Molteni, del «borghesazzo» ingegner Morone, ciascuno chiamato a rappresentare un preciso ambiente sociale e, dunque, un diverso spicchio di realtà italiana postbellica.
Certamente c’è qualche schematismo nella costruzione di questa società composita; direi anzi che si tratta proprio di un sistema bipolare (21) nel quale all’«Osteria dell’Emancipazione», frequentata da anarchici e socialisti, corrisponde il «caffè Bosisio», luogo di raduno delle camicie nere; così Grifonetto ha il suo corrispettivo in Carletto, e l’impertinente Angiolino, giovane squadrista, rimanda al vecchio Molteni, consumato anarchico. Tra i due poli si staglia una zona grigia, nella quale si muovono il ceto borghese incarnato dall’ingegner Morone, e quello nobiliare, ormai in decadenza, rappresentato da Maria e dal visconte al quale è stata promessa in sposa. Borghesi e aristocratici reagiscono con disagio al dilagare degli scontri tra squadristi e socialisti: rappresentano, agli occhi di Gadda, la parte poco coraggiosa della società, quella meno pronta al cambiamento, depositaria di un buon senso per lui ipocrita, o addirittura profittatrice e meschina. (22)
La filosofia della storia attiva nel romanzo, che mira a risolvere il piano razionale interamente nel pragmatismo, è ancora quella che vede nel fascismo la necessaria reazione al socialismo, ma anche al liberalismo e al cattolicesimo:
Completare la I.a Sinfonia con due motivi antitetici fondamentali che prepareranno per contrasto l’introduzione del motivo fascista. Questi sono necessari e storicamente propedeutici, ma in fondo vengono ad essere uno solo, non ostante l’apparenza. Socialismo e cattolicismo (Discordanza azione-pensiero per mancanza di capacità critica nell’uno e nell’altro. Frenesia dell’assoluto e incapacità del graduale e del possibile. Incapacità di delineare i limiti critici di un pensiero, di una possibilità. Frenosi italiana. E poi, con la magniloquenza verbale, debolezza pratica e basso scetticismo). – Si vuole l’assoluto dagli altri e si è marci loro. […] Tutto ciò farà vedere nel fascismo la reazione italiana. Una reazione netta, pratica, umana contro il nodo-gordiano della balordaggine ideologica accumulata dal secolo 18.º e 19.º - La vita deve essere Vita, non una vittima delle chiacchiere. (SVP 417)
Le tesi sono ancora quelle di Buenos Aires, i modi e gli accenti sono anche più veementi. Ma davvero il progetto del Racconto italiano avrebbe sorretto un portato ideologico così netto? Realmente il romanzo, date le premesse teoriche ricostruibili dalla enorme mole di appunti e riflessioni, avrebbe sostenuto con quei personaggi, quell’uso dei temi, quell’amplificazione di trame, una simile filosofia della storia? Qui ci si inoltra su un terreno malsicuro, sul quale diventa difficile, eppure necessario, soppesare e far reagire schemi ideologici e costruzioni formali. Ma di fronte al testo nel quale più liberamente Gadda scrive di fascismo – paradossalmente molto più che in Eros e Priapo – è doveroso domandarsi in che modo la monoliticità del credo fascista si sarebbe potuta tradurre in forma narrativa, a meno che non ci si voglia illudere che i temi da soli, e non la loro dispositio (discorsiva, strutturale, stilistica, figurale), si possano far carico dell’ideologia di un’opera letteraria.
Se restiamo sul piano tematico, altre ambiguità si aggiungono a quelle già dette. La storia di Grifonetto è una parabola negativa, certo poco adatta a rappresentare, in forma esemplare, il carattere di necessità storica del fascismo. Non è semplicemente il finale tragico che Gadda immagina – l’assassinio di Maria – a sconfessare quella visione dei fatti; piuttosto l’intera vicenda di Grifonetto si sviluppa sotto il segno del disinganno e della sistematica distruzione delle proiezioni ideali:
Si potrebbe arrivare al delitto di Grifonetto per «analogia» e cioè: egli estremamente volitivo, ma non eccessivamente critico (un po’ di follia impulsiva, o vedere la situazione di equilibrio) incontra una serie di ostacoli e di more all’azione per cui si desta in lui il senso o impulso catastrofico: (realtà analogica di molti stati d’animo pre-criminali). Questa serie fatale di «choc» che desta in lui la suggestione analogica può essere: dalla ricchezza alla miseria per cause non sue: (ascendenti); dalla vita alla morte di suo fratello: (nella guerra); dalla fede nella patria alla sozzura: (1919); dal sacrificio come fascista alla minaccia del carcere, e alla spedizione punitiva; dalla patria all’esilio; dalla fede nelle «colonie» al disdegno e forzato ritorno: (intanto comincia già a rivelarsi la stanchezza). Così alla potente delusione d’amore segue la folle tragedia: «Se nulla è possibile, tutto finisca». – (SVP 469)
Questa curva discendente, segnata dal declassamento sociale e conclusa dalla follia amorosa, fa da sfondo all’adesione allo squadrismo, che si rivela deludente e autodistruttiva. Grifonetto, che riversa il suo idealismo nella causa fascista, scoprirà che la spedizione punitiva, che gli costa la libertà e lo costringe alla fuga, è stata organizzata solo per gelosie amorose e non per questioni politiche. (23) Le allusioni alle meschinità dei fascisti, inoltre, sono numerose, e riguardano soprattutto il loro comportamento in guerra: (24) inserite per lo più all’interno di dialoghi, esse svolgono una funzione di contrappunto alla costruzione del côté socialista, e riequilibrano il lungo dialogo tra Grifonetto e Gerolamo Boamo, in cui con chiarezza risuonano la critica alle dottrine e l’invocazione di «un metodo reale per sviluppare una migliore realtà della presente realtà» (SVP 566). Ma la sagoma del personaggio di Grifonetto, paragonato a Gatti, non è certo quella dello squadrista tipico e l’attenzione che Gadda sembra voler dedicare alla componente psicopatologica del suo carattere ridimensiona l’intento di scrivere un romanzo storico-sociale, e ci spinge a porci una domanda essenziale: in che rapporto sta l’esistenza «ex lege» di Grifonetto con il dispiegarsi del nuovo ordine politico?
Il tema della devianza è, di fatto, centrale nel progetto del romanzo – definito «psicopatico e caravaggesco» (SVP 411) – e sembra trascendere l’ambito puramente psicologico per sconfinare in quello giuridico e morale:
In sostanza io voglio affermare che anche le azioni immorali o criminali rientrano nella legge universale e mi afferro più che al determinismo-eredità (Lombroso, neurologia, psicologia sperimentale, studî biologici) alla mia idea della combinazione-possibilità. […] Comunque, limitandomi al romanzo posso assumere questa idea-base: che l’abnorme ha la sua misteriosa (per ora) giustificazione, che fa esso pure parte della vita, e che, se la necessità sociale ha creato un determinato tipo sociale, nella vita rientrerà anche il dissociale (teoria giuridica). – (SVP 406-07)
Potremmo pensare che la relazione tra Grifonetto e il fascismo sia fondata sulla contiguità: il suo carattere abnorme sta per un tessuto umano collettivo anch’esso abnorme, all’interno del quale la combinazione di fattori – sociali, ideologici, morali – produce «fatti incredibili» e giunge a equilibri impensabili. In questo quadro giustificativo, entro cui ogni cosa esiste in virtù della propria opposta polarità, il fascismo risulta necessario. Ma Grifonetto, con la sua esistenza, non conferma l’assestarsi di un equilibrio, semmai ne mostra i dissesti. L’idea della necessità storica si traduce nel moltiplicarsi delle coppie antinomiche dei temi, dei personaggi, degli episodi del romanzo, che finisce per affermare semplicemente la caotica, inestricabile, necessaria evidenza di ogni cosa che esiste e la maniera imprevedibile in cui ciascuna esistenza può svolgersi. Più che una filosofia della storia, la constatazione della pluralità delle storie e l’accettazione della loro immanenza.
Se si vanno a rivedere gli appunti più teorici del Racconto italiano non si ha che una conferma di questo implicito, e involontario, disconoscimento del monologismo ideologico basato sul principio della necessità. È la riflessione sul punto di vista, elaborata nel secondo dei Cahiers, a restituirci una teoria del romanzo come luogo che accoglie il carattere polimorfico e provvisorio della conoscenza, della psicologia e della morale:
Il fanatico in politica, per successive meditazioni o studî od esperienze o per guarigione fisio-mentale, si accorge dell’erroneo punto di vista n, col suo presente punto di vista n1. – E deride o accusa o altrimenti giudica il se stesso di prima, il già n. – E questo non è commento né contraddizione, ma è la vita: e il romanzo che la rispecchia. Pare una verità lapalissiana, questa, eppure prevedo: «contraddizione!, incoerenza!, incertezza!, ecc.», così i critici. – […]
Da tener presente: il momento n1 non è detto che sia migliore, preferibile, più esatto (teoreticamente superiore cioè più legato alla curva dell’universale, più approssimato) del momento n, cui riflette e giudica. Il momento n1 non è che un’allóiosis e può essere più barocco e sconclusionato e miserabile di n. La serie può essere involutiva anzi che evolutiva.
Comunque: relatività dei momenti, polarità della conoscenza, nessun momento è assoluto, ciascuno è un sistema di coordinate da riferirsi ad altro sistema, ecc. – (SVP 472-73)
Non possiamo fare ipotesi sulla forma definitiva che il Racconto italiano avrebbe assunto, perché i pezzi finiti sono troppo pochi e slegati. Possiamo però immaginare che la moltiplicazione delle trame, la pluralità degli stili, la sovrapposizione di voci e punti di vista in contraddizione avrebbero concorso alla costruzione di un insieme narrativo ideologicamente aperto. Non intendo dire che Gadda, già a quest’altezza, mettesse consapevolmente in dubbio la sua fede fascista; sono convinta anzi che egli si sia ricreduto piuttosto tardi e che la sua adesione iniziale sia stata piena, convinta e speranzosa. Ciò non toglie che al momento di pensare alla sua prima prova narrativa, Gadda, senza percepire la contraddizione, progetta un romanzo sul fascismo che in parte smentisce i propri presupposti ideologici, e all’interno del quale il tema fascista serve da filtro a un’indagine metastorica sul male, sulla complessità, sulla relatività della conoscenza, sulla malattia endemica del tessuto collettivo italico.
Basta rileggere uno stralcio dalla prima «sinfonia», che avrebbe fatto da incipit al romanzo, per rendersi conto di come qui l’aspirazione narrativa di Gadda, ancora invischiata in uno stile ad alta densità simbolica, sia più teoretica e antropologica che storica e sociale:
Alcune foglie sembravano maioliche d’un giardino dell’oriente ignorato e le dolci, vane stelle vi si specchiavano, per rimirarsi. Nell’olezzo di alcune corolle era un desiderio un po’ malinconico e strano, un turbamento inavvertito dapprima che si faceva un male violento e selvaggio: e allora questo male attutiva ogni ricordo e ridecomponeva il preordinato volere.
Cancellava gli insegnamenti: e così muoviamo verso il nostro futuro né conosciamo quale sarà. (SVP 420)
Le preziosità dello stile, combinate ad un andamento assertivo quasi gnomico, si fanno carico dell’espressione di una verità filosofica angolare per l’intero progetto romanzesco: «Anche i fatti anormali e terribili rientrano nella legge, se pure apparentemente sono ex lege» (SVP 405). L’intrico di fatti «realmente normali» e fatti «gravi, anormali» non è altro che la «trama complessa della realtà» (SVP 460). Nel secondo dopoguerra la stesura del Pasticciaccio, imboccata definitivamente la strada della pluralità degli stili e delle trame, in fondo, non sarà ispirata a un dettato differente: anche in quel caso l’ambientazione fascista, priva di coloriture vitalistiche, e anzi gravata da un’aura funerea di disfacimento, fa da sfondo a un’indagine sul male come forma naturale. (25) In nome del principio di realtà, da intendersi come immersione nella matassa aggrovigliata delle cose, dei fatti e delle relazioni, e come antidoto all’astrazione dei concetti, Gadda progetta il suo primo romanzo di argomento fascista. E in nome di quello stesso principio, del fascismo si avvierà a scrivere la condanna. Della natura di questa condanna – di certo non antifascista – occorre definire i contorni.
3. Reticenze, indizi, retorica
Il corpus di articoli tecnico-propagandistici che Gadda scrive negli anni Trenta ha avuto una sorte singolare. Resa nota per la prima volta all’inizio degli anni Settanta da Robert Dombroski, (26) questa compagine di scritti è stata mutilata al suo ingresso nell’edizione delle Opere di Gadda curata da Dante Isella: una manciata di pagine, per ragioni mai esplicitate, è rimasta esclusa dal collettore ufficiale degli scritti gaddiani. (27) Si tratta di testi di cui gli studiosi conoscevano perfettamente il contenuto e le referenze bibliografiche, eppure, in un’edizione compatta e granitica come quella garzantiana non sono entrati. Non credo occorra avanzare ipotesi eccessivamente dietrologiche per spiegare questa lacuna. Basti pensare alla maniera, incredibile, in cui Gadda è diventato, nel corso del secondo dopoguerra, un campione dell’antifascismo (28) per aver vergato le pagine di Eros e Priapo, invero del tutto prive di una autentica ispirazione politica.
L’esclusione di questo sparuto gruppo di articoli, che ha risparmiato comunque molti altri testi favorevoli al regime, mi pare nasca da una valutazione erronea del loro peso politico. Probabilmente è sembrato che essi contraddicessero troppo platealmente l’icona dell’antifascismo militante di Gadda, o che, quanto meno, la ridimensionassero. Ma davvero la fascistità di Gadda passa da quelle pagine? Realmente è sui quei contributi che si misura la sua compromissione col regime? E soprattutto: visto che Gadda non è mai stato antifascista, ma tutt’al più antimussoliniano, perché preoccuparsi di non mostrare le tracce del suo sostegno allo stato fascista?
Bene ha fatto Federica Pedriali a editare parte di questi articoli nel secondo Supplement (2003) dell’«Edinburgh Journal of Gadda Studies». E bene ha fatto Manuela Bertone a offrire finalmente agli studiosi un’accurata edizione a stampa di questa silloge fino ad ora irrealizzata (Gadda 2005a; Bertone 2005). Perché se è vero che questi testi ci parlano poco di una militanza attiva e intensa, essi rappresentano comunque un documento ineludibile: possiamo ipotizzare motivazioni, circostanze, convergenze esteriori, ma non possiamo fare finta che questi scritti non esistano. Tanto più che, nel decennio in cui Gadda scrive alcuni dei suoi capolavori, essi appaiono come il sintomo di un aggrovigliarsi della sostanza ideologica profonda della sua opera. (29) Il tema Gadda e il fascismo assume, in questo senso, un rilievo fondamentale: al di là dell’indagine storica – comunque necessaria – dalla questione fascista passano le oscillazioni, invero violente, verso un corpo ideologico al quale si indirizzano, alternativamente e anche contestualmente, pulsioni libidiche e pulsioni distruttive.
Negli anni della Cognizione e dei cartoni dei Disegni milanesi, gli articoli tecnico-propagandistici si collocano di certo alla periferia estrema del laboratorio di Gadda, e se occorre darne una valutazione relativa al decennio del pieno consolidamento del regime, della guerra in Etiopia, delle leggi razziali e dell’alleanza con la Germania hitleriana, davvero essi non sono che una goccia nell’oceano: in primo luogo perché negli anni Trenta Gadda non era nessuno, nessuno che avesse potere di creare consenso o di generare e alimentare tendenze di pensiero, nessuno che avesse sufficiente autorità politica o culturale da fare opinione su larga scala, e al confronto con l’impegno speso in quegli anni da Vittorini e altri, il contributo di Gadda suona veramente risibile; (30) in secondo luogo perché lo schermo degli argomenti trattati – questioni industriali, ingegneristiche, militari in senso tecnico – occulta e relega nell’ambiguo spazio della reticenza le osservazioni di natura autenticamente politica.
Cerchiamo di riepilogare, per quanto è possibile, le tappe della militanza di Gadda: si iscrive al Partito Nazionale Fascista nel 1921; (31) durante il soggiorno a Buenos Aires, tra il 1923 e il 1924, partecipa alla costituzione del fascio; nel corso degli anni Trenta scrive alcuni articoli in cui illustra le opere del regime, soprattutto in materia economica. Fino al 1939 è sicuramente iscritto al fascio di Roma e partecipa, non sappiamo in che termini e con quale coinvolgimento, alle sue attività. (32) Questi elementi sono certi e inequivocabili; ciò non toglie che essi vadano letti alla luce di alcuni piccoli indizi e di alcune lacune.
C’è da chiedersi, ad esempio, come mai dal faldone del Racconto italiano, smembrato per lo più in Solaria, non venga tratto nessuno spunto per quel romanzo sull’Italia agli albori del fascismo che Gadda non scriverà mai. L’ambientazione della Meccanica (1928) arretra dai concitati anni dell’immediato dopoguerra al 1915 e all’esplosione entusiastica dell’interventismo, quasi che l’Italia postbellica avesse perso improvvisamente di interesse o fosse divenuta un terreno d’analisi troppo doloroso. Contemporaneamente Gadda riusa, decontestualizzandoli, i pezzi del Racconto italiano, eliminando le tracce di appartenenza al progetto originario. Gli Studi imperfetti, staccati da sezioni del secondo Cahier ormai sempre più slacciate dall’insieme, appaiono come piccoli schizzi vagamente sperimentali, mentre l’Apologia manzoniana, che nel Racconto italiano avrebbe fatto da efficace schermo allusivo – la Lombardia caravaggesca di Renzo e Lucia e la dissestata «palude» italica di Grifonetto –, sulle pagine di Solaria resta solo un oscuro e irrelato omaggio al romanzo di Manzoni. Del resto, se si vanno a vedere i cosiddetti Appunti autobiografici del 1925 – anno che si apre con il discorso della svolta autoritaria di Mussolini, pronunciato alla Camera il 3 gennaio – l’entusiasmo per la «rivoluzione» fascista espresso appena un anno prima lascia il posto a un sentimento di apprensione e di passività rassegnata: «Esteriormente non mancano di preoccuparmi le condizioni politiche ed economiche del popolo italiano, a cui tuttavia io guardo con gli occhi di uno… come dire?… che è già morto, che già tace nel tempo. Troppo, troppo ho patito. Ho fatto il mio dovere, quel che ho potuto. Sono stanco!» (Gadda 2004c: 45).
Il 1928 è anche l’anno della Meditazione milanese, nella quale entrano alcuni dei problemi sbozzati ed enucleati sia nel Racconto italiano sia, prima ancora, nel quaderno di Buenos Aires. Come mai la critica delle dottrine, l’attacco all’utopia socialista, la ripulsa dell’astrazione e il richiamo alla realtà complessa ritornano a un livello più elevato di riflessione, ma scompare qualunque riferimento esplicito al movimento fascista e alla sua capacità di elaborare un «metodo reale», che sembrava tenere insieme tutti questi elementi? Né Mussolini, né il fascismo, fino a quattro anni prima appellato «giovane miscredente» (BA 89), vengono mai nominati né in positivo né in negativo.
E come dovremmo interpretare il fatto che in una lettera a Betti del 28 giugno 1927 Gadda usi un’espressione fortemente ironica per riferirsi all’anniversario della marcia su Roma? (33) E cosa dovremmo pensare, invece, del fatto che in gran parte della corrispondenza degli anni Trenta Gadda si preoccupi di usare un doppio sistema di datazione, indicando in cifre romane l’anno di vita dello stato fascista e persino quello dell’impero, proclamato con la guerra in Etiopia? (34) Il fatto è che questi silenzi, questi squilibri ironici, questi ossequi formali al tempo della rivoluzione fascista compongono un quadro contraddittorio e per questo difficilmente risolvibile con nettezza in una direzione (adesione piena al regime) o nell’altra (maturazione di un atteggiamento distaccato e critico). Il quadro è e resta contraddittorio e come tale dobbiamo accettarlo.
La corrispondenza privata non fornisce molti appigli per definire in maniera inequivocabile la posizione di Gadda. In una lettera a Tecchi datata 28 febbraio 1926 si fa un generico riferimento alla censura che mal tollererebbe certe «ruvidezze» di scrittura. (35) Nello stesso anno una lettera a Betti descrive un piccolo episodio di scontro con una camicia nera, attestandosi su un tono piuttosto neutro, da cui non è possibile ricavare neanche un giudizio negativo sfumato. (36)
La corrispondenza con Lucia Rodocanachi non offre indicazioni più nette. In due lettere del 1935 si allude molto velatamente, ma con apprensione, alla guerra in Etiopia, senza che venga espressa alcuna critica esplicita. (37) L’anno dopo Gadda annuncia all’amica traduttrice che si appresta a svolgere un lavoro di ricerca per una «pubblicazione commemorativa» sulla costruzione dei borghi voluti dallo stato fascista. (38) La lettera successiva, datata 27 dicembre 1936, mostra segni di insofferenza e addirittura di disprezzo verso lo studio appena intrapreso:
Al dolore, si è aggiunto in questo mese un certo disgusto per le colonne e gli archi, che non è fatto per radicarmi. Invidio le locomotive. […]
Ho dovuto lavorare per il tema forzato di cui le ho detto: e senza entusiasmo: non so neppure se avrò questa gran forza di parlare, dei miei protagonisti, senza classificarli come dovrei e vorrei. – «Tout alla pour le mieux, dans le meilleur des mondes possibles». (Gadda 1983d: 64)
Un lettore assiduo di cose gaddiane sa che archi e colonne, contrariamente a quanto qui si scrive, sono oggetti desueti tipici del Gadda elegiaco, che guarda con stupefazione ai luoghi stratificati di tempi, su cui la storia deposita le sue tracce. Non può non suonare strana questa ripulsa per gli elementi di base dell’architettura antica, vista anche la centralità del mito della Roma repubblicana e imperiale nell’immaginario gaddiano. (39) Chi sono questi «protagonisti» di cui Gadda non può parlare – si lascia intendere in maniera negativa – come vorrebbe? Coloro che hanno intrapreso i lavori nei borghi? Coloro che li hanno commissionati? La clausola da Candide fa da controcanto e sigilla questo passaggio reticente e lacunoso della lettera nell’immagine, ricavata per rovesciamento ironico, del peggiore dei mondi possibili. Lo studio storico sui borghi venne interrotto, (40) ma possiamo immaginare che si trattasse di un lavoro affine a quello svolto per alcuni degli altri scritti propagandistici: un lavoro, dunque, commissionato, retribuito e da svolgere senza troppa libertà inventiva, seguendo anzi una regola di reticenza. Certamente sarebbe indebito estendere il sentimento di insofferenza e di costrizione espresso nella lettera a tutta la compagine di articoli. Indebito e probabilmente anche tendenzioso, perché mirato a giustificare in chiave nicodemica – o semplicemente opportunistica – questa produzione minore e ad avallare l’immagine rassicurante di un Gadda dissidente e dissimulatore. In un quadro di questo genere un’opera come la Cognizione acquisterebbe subito il fregio di allusività storico-politica, lasciandosi risolvere attraverso un sistema di chiavi lineare e immediato. (41)
Ma c’è un fatto che non si può aggirare: alla lunga collana di reticenze, condannate a una cattiva infinità interpretativa, non fa seguito mai, lungo tutto il decennio, una autentica, aperta manifestazione di dissenso, neanche nella sfera privata. Nello spazio pubblico della scrittura si moltiplicano segnali duplici, che acquistano addirittura il rilievo simbolico della scissione schizoide vera e propria quando ad accostarsi, stridendo, sono le pagine dei primi due tratti della Cognizione del dolore (1938) e quelle di La donna si prepara ai suoi compiti coloniali (1938); oppure quelle dell’Incendio di via Keplero (1940), in cui il nome della patria è storpiato dalle urla strozzate di un pappagallo, (42) e quelle dei Littoriali del Lavoro (1941), in cui si ossequia stucchevolmente la «Nazione Madre» che «assiste al certame dei figli» (Gadda 2005: 147). La discrepanza maggiore non è tanto e non solo nei contenuti, quanto nel protocollo di scrittura: in un caso disposta a rischiare nella moltiplicazione delle storie e delle voci, nella scomposizione umoristica, nell’uso straniante delle figure; nell’altro inchiodata a un formulario che suona in falsetto. (43) Ma sbaglieremmo a considerare veri i primi e falso il secondo. Quella che investe Gadda è una formazione di compromesso simmetrica, entro la quale ciò che è represso può farsi istanza di repressione e viceversa: tanto il sostegno al regime, che non significava altro che fedeltà ai valori, remoti, della patria, quanto il disagio di vivere in esso, convivono e si limitano a vicenda. A riequilibrare la sovversione delle strutture del discorso narrativo e della lingua, entro cui la lacerazione storica del tessuto della collettività lascia scorgere il nucleo dolorante di ogni consesso umano, interviene la retorica formulare di regime, piegata a suturare quelle ferite e a giustificare l’ingiustificabile: la necessità storica del fascismo nonostante le sue storture reali.
Questa difesa a oltranza dello stato delle cose emerge bene da una recensione del 1931 al libro di Riccardo Bacchelli La congiura di don Giulio d’Este. (44) La storia del ducato di Ferrara e della dinastia estense si può infatti leggere, nelle note di Gadda, come allegoria del presente. Insospettisce, in primo luogo, la critica alla «cattiva stampa» che non seppe riconoscere il valore della Signoria italiana:
Si direbbe che la cattiva stampa di cui beneficiò così spesso la Signoria italiana riecheggi alla cialtronesca il comodo precedente delle invettive di Dante, le quali non brillano sempre di equanimità e di obbiettività storica nella loro focalità unitaria e imperiale; o il giudizio troppo amaro e pessimistico, e comunque «poetico» in senso nazionale unitario, del Machiavelli. «Poetico», lo chiama appunto il nostro.
Tardi pappagalli poteron vedere ancora e sempre tiranni e tirannide in uno stato, come fu l’Estense, pienamente legittimo se pur autoritario ed attivo: e pienamente formato e vitale, seppur non immune, come ogni istituto umano, da quel vizio d’origine che in lingua povera dicesi il rovescio della medaglia. (SGF I 732)
Come resistere alla tentazione di leggere in chiave allusiva questo passo, in cui Dante, altrove indicato come modello fondamentale, viene liquidato come parziale e la ferocia delle teorie politiche di Machiavelli ridotta a poesia? Sotto lo schermo del passato storico, Gadda propina la sua filosofia della storia, qui ben più hegelista che negli appunti di Buenos Aires: la sola esistenza di uno stato autoritario basta a giustificarne l’operato. Chi parla di «tirannide» fa tutt’al più del «moralismo inadeguato alla comprensione di un’epoca» (SGF I 733). Dal caso storico particolare Gadda trae una legge politica generale:
Dallo studio del Bacchelli sembra venir fuori, troppo altrove negletto, un «principio di obbiettività» o «principio di realtà», secondo il quale ogni organismo politico, per il fatto stesso di esistere e di saper esistere, ha diritto alla vita, cioè occlude in sé ragioni di vita che devono essere riconosciute dallo storico. Il giudizio circa i moventi e gli atti di un cotale organismo deve tener conto del suo «punto di vista» e non esclusivamente fondarsi su astrazioni morali, che non hanno senso né morale, né storico, né filosofico. Ecco perché s’è detto parerci il giudizio del Bacchelli inquadrato in una sistemazione classica, nostra, italiana del pensiero: (si pensa ai nostri cinquecentisti e anche al Muratori). La metodologia bacchelliana, in un certo modo un po’ brutale, si potrebbe chiamare nazionalistica. (SGF I 738)
La categoria della necessità storica, come già negli anni Venti, quando la svolta fascista era ancora agli inizi, interviene a legittimare l’ordine autoritario secondo un principio sinistro e granitico, in nome del quale Gadda può comprimere le perplessità e le insofferenze verso il regime e dislocarle altrove. Allo stesso modo, la decostruzione delle forme del racconto e la tessitura di una discorsività narrativa plurale rovesciano la prospettiva, smentiscono l’assunzione di una visione della storia che crede acriticamente nel cammino spietato di una ragione superiore, e relegano l’espressione di questo credo politico alla periferia estrema della creazione letteraria. Possiamo ipotizzare che sia questo, ad esempio, uno dei motivi per cui Gadda decise di smembrare il progetto delle Meraviglie d’Italia, estrapolandone i due nuclei più caldi – San Giorgio in casa Brocchi e il primo abbozzo della Cognizione – e lasciandovi dentro solo i testi d’occasione, in alcuni casi espliciti omaggi alle opere del regime. (45) Non credo che a Gadda fosse chiara questa dicotomia: è probabile, anzi, che, pur percependo il conflitto, egli si dibattesse proprio in quella zona grigia di comportamenti intermedi e non completamente espliciti, scisso tra l’illusione dell’opportunità del fascismo e il sospetto del suo radicale inganno. Né si deve pensare che La cognizione del dolore appena nominata assurga automaticamente al rango di opera antifascista: al contrario essa, come altri testi degli anni Trenta, deriva parte della sua grandezza proprio da quella formazione di compromesso instabile e sofferta, che solo il disastro italiano nella seconda guerra mondiale scioglierà definitivamente. Nel dopoguerra, su queste macerie, a Gadda verrà attribuita un’identità politica che non gli è mai appartenuta.
4. Epilogo: riposizionamenti
A ben vedere, il processo di ricodificazione in chiave contro-fascista – non mi sento di usare il termine antifascista – che Gadda innesca a partire dal 1944, con I miti del somaro, è pervasivo e si svolge su due piani: il primo è quello che, attraverso i modi dell’invettiva, mira a sondare la fisica del potere fascista; il secondo consta essenzialmente del tentativo di inquadrare in chiave storico-allegorica l’insieme della propria opera. Il turning point che segna la rottura definitiva di quel campo di forze in tensione che si allunga nel corso degli anni Trenta è, senza dubbio, la guerra. Anche in questo caso la posizione di Gadda, che guarda con angoscia allo scoppio del conflitto europeo e poi mondiale, (46) è singolare: l’incubo della guerra sembra avere un effetto retroattivo, agisce cioè all’indietro e va a riaprire ferite di vent’anni prima malamente richiuse. Rinnova, dunque, un trauma mai superato, lo presentifica e traghetta le ragioni di quel tempo lontano in un tempo attuale. Non si spiega altrimenti il cortocircuito tra prima e seconda guerra mondiale che si innesca continuamente nelle opere che Gadda scrive dalla metà degli anni Quaranta. Esempi se ne possono trovare in numero cospicuo nelle Favole, nelle Novelle dal ducato in fiamme, in Eros e Priapo.
Il disastro della seconda guerra mondiale, che produce questa collisione dolorosa tra un presente opprimente e un passato traumatico, liquida l’investimento simbolico di Gadda sul regime e, in qualche modo, glielo ritorce contro. Il disincanto agisce su due fronti: il fascismo non ha difeso i valori patriottici, tradendo l’eredità risorgimentale; il fascismo è venuto meno alla sua promessa di pragmatismo, all’attuazione di un «metodo reale» che consentisse di pensare e conoscere la realtà in maniera complessa. Non ci sono ragioni di principio in virtù delle quali Gadda inizia a odiare il regime, il suo apparato di simboli, la sua capacità di giocare cinicamente con le regole delle società di massa. L’armistizio e la dispersione dell’esercito, la fuga da Firenze verso le campagne nel 1944 probabilmente si presentarono agli occhi di Gadda pericolosamente simili alla disfatta di Caporetto del ’17, (47) e lo spinsero a individuare proprio nel regime il principale responsabile dello sfascio nazionale.
Condannare i colpevoli significa anche condannare la parte di sé che a quei colpevoli ha finito per credere: Gadda si trova completamente invischiato nel processo di distruzione del Ventennio, si trova cioè ad accusare e ad accusarsi. (48) Scrive dunque Eros e Priapo, ma si preoccupa anche di correggersi, riposizionarsi ed emendare in direzione antimussoliniana molto di quanto scritto fino a quel momento. Le Favole, di cui un gruppo viene riscritto in chiave allegorico-politica, sono accompagnate da una nota bibliografica che cerca di inquadrare a forza l’intera compagine di apologhi nella cornice storica del Ventennio: (49) si tratterebbe, dunque, di microracconti allusivi, frutto di un’epoca di censure e silenzi imposti. Eppure l’intento di ricomporre il tempo del regime per frantumi cifrati e semimuti fallisce: perché quel mutismo e quella cifratura non si fanno davvero carico del trauma storico vissuto, ma producono solo piccoli sfoghi raggelati nel proprio stile, che rinunciano alla complessità delle concause e si riducono a espressioni di idiosincrasia pura.
La raccolta delle Novelle dal ducato in fiamme presenta una composizione interna molto interessante: Gadda vi raduna fondi dello scartafaccio del Racconto italiano, sorto nel pieno dell’adesione al fascismo (Dopo il silenzio), tre quadri dalla Meccanica (Le novissime armi, Papà e mamma, L’armata se ne va), racconti precedenti al suo distacco dal credo fascista (San Giorgio in casa Brocchi, L’incendio di via Keplero, La domenica), una puntata della Cognizione (La mamma), testi scritti e pubblicati a partire dal 1945. Solo in questi ultimi i riferimenti al fascismo sono espliciti e, in alcuni casi, strutturanti, come in Socer generque. Eppure il titolo della raccolta pretende di coprire sotto un unico cappello questo eterogeneo assembramento. In due lettere a Contini Gadda si preoccupa di glossarlo:
(idest «Notizie dallo stato del duce in procinto di andare a remengo.») Al solito, il titolo non sarà compreso: già l’editore aveva recalcitrato, lo trovava «astratto». Astratto C.E.G.? (Gadda 1988b: 86)
Il titolo non mi pareva così «fuori tema» come dici: novelle ( = notizie) dal ducato ( = dallo stato del duce merda) consegnato alle fiamme: (della lussuria demenziale, della follia narcissica, e delle bombe al fosforo). (Gadda 1988b: 88)
Ciò che tiene insieme i racconti è la loro origine storica, il loro carattere esemplare rispetto a un’epoca dissestata. Ma questa corrispondenza così lineare e univoca tra struttura e produzione simbolica o, se si vuole, tra contesto e testi, risulta sospetta. E infatti lo stesso Gadda, forse senza accorgersene, la smentisce. Sul settimanale Epoca, rispondendo alla domanda di un lettore, riprende la questione del titolo della raccolta di racconti, ma questa volta sembra complicare la rispondenza allegorica:
Il «ducato» è, a vostra scelta, o il ducato di Milano o il Regno d’Italia scaduto a mancipio d’un tale che si faceva chiamare duca o qualcosa di simile pur avendo fondato un impero: o infine l’ideal ducato de’ miei sogni: la civitas solis del mio complicato campanellismo. (SGF I 1121)
Le Novelle non sono la radiografia del regime, semmai sono i sintomi di un travaglio ideologico contraddittorio e irrisolto: il «ducato» è sì l’Italia fascista, che finalmente può essere ridicolizzata in maniera esplicita, ma è anche la «vivente patria» (Castello, RR I 152) che avrebbe dovuto portare a compimento i sogni risorgimentali; non si tratta propriamente di una contraddizione, perché l’Italia fascista per Gadda è stata, almeno nei suoi intenti iniziali, a un passo dal realizzare la «vivente patria» delle sue proiezioni ideali. L’allegoria storica è polivalente solo perché, almeno per una fase, il sistema di valori su cui si regge si è fondato su una sovrapposizione che i fatti manderanno in pezzi: quella tra ideologia fascista e mitologia patriottica personale. Il fascismo, non più antidoto all’«italianesimo» paludoso, deprecato nel Racconto italiano, diventa una variante storica di esso; da attitudine pragmatista, esso si trasforma in un incontrollabile proliferare di retoriche devianti. E finisce poi per ridursi a fenomeno psico-antropologico che con la politica e la storia non ha più niente a che fare. Di qui a Eros e Priapo il passo è breve.
Il vero modello mancato del pamphlet, che arriverà alle stampe ormai fuori tempo massimo, è quello dantesco. La breve Premessa non si limita semplicemente a richiamare, attraverso lo schermo della citazione virgiliana, la figura del nocchiero Caronte, ma ripropone, in maniera problematica, un nodo centrale della Commedia: il rapporto tra biografia individuale e Storia, il valore della testimonianza dei singoli di fronte al tribunale degli eventi, l’allargarsi dei destini personali nelle armoniche di quelli collettivi. L’apocrifo «redattore» che si appresta a compilare questa nota sull’autore dell’opera rilutta a ripercorrerne la biografia:
Il redattore non crede sia lecito farsi biografo, nemmeno per accenni, d’un essere solo e già circonfuso della silente fumèa che rende inetta al volo ogni ala al di sopra del lago mortifero […]. Solo quello che ha portato attimo per attimo insin da cupo e rimoto oroscopo la pena del viver proprio potrà tenersi biografo di sé: altri biografi che non fosser lui s’incontreranno a dover mentire, quand’anche nolenti, alla misera ventura d’un misero e al residuo della di lui cenere.
[…] La moltitudine anelante al tragitto implora il tragittatore, come rapita al di là d’ogni conforme brama verso la riva: e il poeta ne signifera le voci e i gesti, comuni a la turba, d’ognuno il gesto onde sollecita la sperata preferenza. Così e non altramente potrà del buio terrore biografare di sé quello per cui tali o tali altri vorrebbero farsi ad ultimo non domandati biografi. (SGF II 219-20)
Si tratta di un testo opaco e addirittura oscuro in alcune sue zone. Perché porre il problema della legittimità della biografia quando il biografo non sia il biografato medesimo? Che cosa ha a che fare il racconto di una vita singola con il «ribollire tumultuato del secolo»? Cosa c’entra con Caronte, con l’inferno, con le «prave anime»? E infine: qual è la relazione tra questo avantesto e il trattato-invettiva che segue? Intanto c’è da sciogliere un nodo: il redattore è apocrifo e chi scrive la premessa coincide in tutto e per tutto con l’autore dell’opera, perché è necessario a Gadda porre uno schermo, allontanare in forma cifrata la possibilità che qualcuno giudichi la sua vicenda personale (di cittadino italiano? di sostenitore del regime? di reduce della Grande Guerra?) e arrogarsi per sé solo il diritto di pronunciarsi sulla sua esistenza.
Ma accostando l’allusione al Ventennio al problema dell’autobiografia, Gadda non si limita ad affrancarsi dai giudizi altrui: piuttosto si trascina al centro dello spazio del pamphlet, si dichiara coinvolto nel processo verbale che sta per allestire, e individua nell’opera del poeta che si fermi a descrivere «le voci e i gesti comuni alla turba» l’unico modo per poter parlare di sé. La saldatura tra io, Storia e morale, che Dante configura in forma esemplare e proietta potentemente su un’utopia di rigenerazione, sortisce esiti lontanissimi da quelli della Commedia. Non bastano citazioni e allusioni al poema dantesco per processare il proprio tempo, (50) soprattutto se si intende il male non come forma storicamente determinata, frutto delle scelte degli uomini, ma come costante intemporale della natura umana. Così Eros e Priapo presenta un forte squilibrio tra la prima parte, costruita sull’invettiva pura, e la seconda, che quasi abbandona il referente fascista per interrogarsi esclusivamente sulle derive del narcisismo, corrispettivo novecentesco della superbia, stigmatizzata come pietra angolare del peccato e dei dissesti della storia nella Commedia. E mentre nel Pasticciaccio la messa in forma di intrigo garantisce una problematizzazione maggiore – e più radicale – dei moventi erotici delle azioni umane, del narcisismo e del rovescio del principio di piacere, Eros e Priapo rimane inchiodato al soggetto che parla, che vuole accusare, accusarsi e discolparsi insieme, nel tentativo disperato di allontanarsi dalla storia. E forse non a caso nelle pagine del trattato si dichiara che autobiografie e romanzi abbiano un privilegio nel rappresentare la totalità della vita: «le non si chetano alla simplicità d’alcuni temi, o punti, e né si contentano d’abstrarli per nobbile e pure alquanto asinino arbitrio dal contesto totale d’una biologia» (SGF II 237).
Il riposizionamento di Gadda in un’area antimussoliniana non fallisce solo perché insufficienti risultano l’uso delle categorie della psicoanalisi e la forma dell’invettiva ad personam. Gadda non vuole dotarsi di strumenti per comprendere le ragioni politiche della lunga sopravvivenza del regime; non vuole o forse non può perché il suo mondo, il suo incontro con la Storia si sono consumati con la Grande Guerra. È quello il tempo del suo trauma, individuale e generazionale, sono quelli gli eventi alla luce dei quali deve rileggere il Ventennio e la disfatta del regime che lo costringe a rivivere, seppure da lontano, l’orrore della guerra.
Ma il suo fallimento nel riposizionarsi è dovuto anche alla patente di antifascista che per molto tempo, indebitamente, gli è stata tributata: la sua opposizione al regime, tardiva e mai effettuale, è lontanissima – se non addirittura incompatibile – dall’antifascismo militante, che ha nella Resistenza come guerra di liberazione, nella stesura della carta costituzionale e nella proclamazione della Repubblica, i suoi fondamenti essenziali, oggi minacciati dal riflusso di un revisionismo ormai autolegittimatosi e sempre più aggressivo. Di nessuna di queste cose Gadda parlerà mai nel corso del secondo dopoguerra, come del resto mai si pronuncerà sui lager, sulla distruzione degli ebrei d’Europa, sui bombardamenti indiscriminati delle città tedesche. E forse anche un testo denso e illuminante come Un’opinione sul neorealismo contiene implicitamente la volontà di prendere le distanze non solo da una tendenza letteraria – del resto invecchiata presto su se stessa – ma anche dalla stagione resistenziale che, per il suo enorme potenziale epico, si tradusse in una pervasiva volontà di raccontare e costituì l’alimento primario del neorealismo.
Se si esclude il Pasticciaccio, che meriterebbe un discorso a sé, forse davvero Gadda è stato molto più dissidente – suo malgrado – negli anni Trenta, quando sì lodava l’«alacrità» del «governo fascista» (Gadda 2005a: 61) e l’«attenzione chiaroveggente» del duce (Gadda 2005a: 121), ma scriveva anche della disperata solitudine sociale di Gonzalo, della disgregazione della collettività italica.
Università di PisaNote
1. Tra gli studi che per primi e con più forza hanno affermato l’inequivocabile adesione al fascismo da parte di Gadda rimando almeno a Dombroski 1974: 145-68; Dombroski 1984: 91-114, saggio inserito, con alcune modifiche, anche in Dombroski 2002a: 124-40; Hainsworth 1997. Sul fronte dell’antifascismo, tra i contributi più recenti, mi limito a ricordare Pecoraro 1996 e 1998, che in più punti mirano a sostenere l’antifascismo integrale dei due romanzi maggiori di Gadda; Pecoraro è inoltre autore della voce Gadda, Carlo Emilio del Dizionario del fascismo (Pecoraro 2002b), voce ampiamente discutibile, in primo luogo perché, in una sede che si vorrebbe il più possibile informativa, non tiene minimamente conto del dibattito decennale sull’argomento e dà come pacificamente accolto il fatto che Gadda fosse, fin dagli anni Venti, fermamente antifascista. Ricordo anche Stellardi 2003c.
2. Cfr. P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime (Bologna: Il Mulino, 1985), 41.
3. Un’edizione del Quaderno di Buenos Aires dovrebbe uscire nel prossimo numero dei Quaderni dell’Ingegnere. Desidero ringraziare Giorgio Pinotti, che mi ha avvertito della pubblicazione del quaderno, e la dott.ssa Isabella Fiorentini della Biblioteca Trivulziana di Milano, che mi ha messo a disposizione il materiale. Per quanto riguarda la trascrizione, non essendo mia intenzione fare un’edizione critica del testo, mi sono limitata a pochissimi interventi (correzione di errori ortografici; resa del sottolineato con il corsivo). Da questo punto in avanti il quaderno sarà sempre indicato con la sigla BA.
4. Cfr. SVP 406: «Nel pezzo di studio piantato a mezzo che è sul libro vecchio di Buenos Aires (il quaderno regalatomi dal buon Canova, fascista e capolegatoria di Bernal)»; SVP 457: «Esiste però il «fattore di razza», a cui l’ambiente reagisce: (vedi quaderno vecchio, ecc.)»; SVP 537: «I.° Studio quaderno vecchio B. Aires».
5. Per una descrizione del quaderno rimando alle puntuali note di Italia 2004b, che ne censisce tutte le sezioni. Basti dire qui che colpisce la contestualità delle note sul fascismo e dei primissimi studi del Racconto italiano. L’origine intrecciata delle une e degli altri spinge a rileggere l’apparato teorico e l’insieme di studi finiti del Racconto italiano proprio nella chiave di romanzo fascista.
6. Cfr. BA 39-54 e BA 87-96.
7. Cfr. Gadda 1984a: 77: «Mi spiace anche che il tono leggero della mia lettera possa averti annoiato in questi giorni. A dir vero io l’avevo scritta quando ancora le cose sembravano trantranarsi in una delle solite crisi ministeriali, altrettanto brodose quanto prive di ogni interesse. Invece andarono bene e andranno bene. Ti confesso che ho passato dei giorni simili a quelli di fine ottobre nel campo di Celle. Ti ricordi quando mi promettevi 3000 cannoni austriaci? No, di più, 5000? Immagino che, come me, avrai comperato da 15 a 28 giornali al giorno ed è perciò inutile che ti parli di tante cose». La lettera è del 2 novembre e vi si stanno commentando i fatti di ottobre.
8. Aveva illuminato questo aspetto con grande chiarezza Guarnieri 1981: 95 e 109-10.
9. Sull’Italia del dopoguerra e la transizione al fascismo si vedano R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, 2 voll. (Bologna: Il Mulino, 1991), e N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo (1915-1938) (Torino: UTET, 1995). In particolare, sulla posizione degli ufficiali reduci della Grande Guerra, rimando a M. Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo (Roma-Bari: Laterza, 2006).
10. Cfr. Zunino 1985: 105 («Il fascismo, ponendo al centro della rappresentazione collettiva del passato quell’evento terribile, diede corso ad un’operazione ideologica di essenziale rilevanza, e cioè attribuì un senso ed un significato ad una vicenda che era penetrata nelle fibre più intime di milioni di persone e da cui non la si poteva scacciare con il semplice gridare abbasso la guerra o con l’ovvio ricordare gli orrori del fronte. Tutto ciò aiuta a comprendere quanto centrale fosse la funzione svolta dal ricordo della guerra nella memoria collettiva plasmata dal fascismo»).
11. Al contrario in due lettere indirizzate a Betti da Buenos Aires, la prima del 18 marzo, la seconda del 21 aprile 1923, Gadda si esprime in termini e toni abbastanza differenti rispetto a quelli del quaderno, sia su Mussolini, magnificato come salvatore, sia sulle reazioni estere al fascismo: cfr. Gadda 1984a: 83: «Che cosa dicono qui di Mussolini? Gli stranieri, specie sàssoni, lo ammirano molto e ne parlano spesso, ringraziandolo in cuor loro, come colono avente sua casetta sulla bassaterra ringrazia la diga che contiene il mare irruente. – Gli italiani altolocati gli vogliono un gran bene: agli operai mi sembra che non piaccia molto»; ancora si veda a p. 90: «Mussolini c’è ogni giorno. Il prestigio di quest’uomo è enorme. È conosciuto come Lenin, amato e odiato come lui, secondo gli umori.– L’influenza morale dei suoi gesti ha cresciuto all’Italia un enorme rispetto». Nel quaderno, inoltre, a proposito della costituzione del fascio di Buenos Aires, emerge un altro quadro: «Si è tentata la costituzione di un fascio a Buenos Aires. Dico si è tentata perché ciò che s’è ottenuto finora non è che ben poco, in paragone del numero d’italiani qui residenti. Il lettore già indovina le difficoltà dell’impresa: la nostra stampa, che verso il fascismo d’Italia assunse, a torto o a ragione, la linea di condotta che ho detto, verso il fascismo di qui fu ed è nettamente contraria. […] | Il fascio non ha potuto trovare ospitalità in alcuna delle 500 e più società italiane della Capitale. Soprattutto il fascio lotta con la diffidenza e l’indifferenza generale e contro le infinite divisioni ed ambizioni personali che incidono in tutti i sensi la collettività italiana di Buenos Aires» (BA 44-45).
12. Cfr. SVP 566: «La manìa fantastica delle palingenesi chimeriche, tipica del secolo scorso e del nostro, è la cocaina dello spirito. È indice di impotenza morale».
13. Cfr. Zunino 1985: 135.
14. Cfr. Zunino 1985: 152-153. Sulle consonanze tra il pragmatismo gaddiano e la retorica fascista si veda Sbragia 1996b: 44-46.
15. Roscioni 1995a: 76-94 per primo ha sottolineato l’ambivalenza del rapporto tra esigenza d’ordine e realtà come «pasticcio»; sul piano più strettamente ideologico hanno insistito sul problema Ungarelli 1991; Dombroski 1974: 135.
16. In realtà l’idea del Racconto italiano nasce già nelle pagine argentine ed è lì che si trova per la prima volta l’indicazione del titolo, «Racconto italiano del novecento» (BA 62), scritto in caratteri molto ampi, a occupare, su due righe, un’intera pagina del quaderno.
17. Cfr. SVP 398: «Il giovane A, Grifonetto Lampugnani, milanese, ha perso in guerra un fratello: ha in casa ritratti di zii e nonni morti in Crimea: forse ha nelle vene altro sangue, fiorentino o straniero. Non ha fatto la guerra perché ragazzo. È un ipervolitivo (Gatti, Rouge e Noir)».
18. Cfr. BA 75: «Lehrer * “Un naufrago:” (Pippan)».
19. Cfr. SVP 414: «E il fascio? L. È fascista anche lui». Con buona probabilità si può dire che l’iniziale puntata stia per quella di Lehrer, dato che il nome di nessun altro personaggio comincia per L, se non Lampugnani, di cui è già stata abbondantemente ribadita in precedenza l’appartenenza politica.
20. Gadda immagina che Lehrer stia facendo un commento dell’Amleto: «Gerolamo Lehrer è il tipo B carico a Buenos Aires: fargli fare un commento di Amleto» (SVP 410); «(Lehrer non è principale – ma fa il commento filosofico) […] lui fa il filosofo» (SVP 410).
21. Cfr. SVP 485: «Nel mio sinfonismo potrei curare una certa simmetria (procedimento ad antìstrofi estetiche) o invece eleggere un vitalismo dallo sviluppo apparentemente disordinato (digressioni, ecc.)».
22. Cfr. SVP 484-85: «Davanti a lui [Grifonetto] i borghesazzi, profittatori dei suoi sforzi e del suo sacrificio parlano, sermoneggiano, temono, sperano, ma nulla creano. Presi dalle opere, nulla danno all’idea. (Eccesso contrario). Operatori pazienti e pedestri e provveditori delle pedestri necessità, non sentono lo sforzo creatore dell’attività morale. Sono guardiani e custodi, anziché generosi assaltatori. – Essi poi commentano ferocemente il delitto del Gatti».
23. Cfr. SVP 399: «L’oste Ermenegildo, di cui Carlo fascista è garzone, non è fascista ma soffia nell’orecchio di Carlo, abilissimamente punzecchiando nelle sue disavventure amorose, sicché Carlo soffia a sua volta nel fascio, perché si decida a fare una spedizione punitiva nell’osteria-circolo sovversivo di Stefano. (Potrebbe anche essere Stefano cassiere-tenitore di buvette del circolo)».
24. Cfr. SVP 427: «Siete voi che ragionate con i piedi! E credete che il mondo lo si rivolti così, come due uova nel padellino. Il mondo è più duro di voi, anche se vi par già d’esser i padroni e vi siete montata la testa…»; SVP 430: «Ma dì: credi proprio che soltanto voialtri, con la vostra camicia nera piena di bolletta, abbiate a concludere qualche cosa? Finora più che un fiasco via l’altro mi sembra che non abbiate combinato nulla…»; SVP 430: «Bisogna sapere che il Bertotti lo aveva trovato a gironzare con l’aria innocente dell’amateur d’antiquitées in un certo praticello pieno d’ortiche e che lo aveva punzecchiato come poteva, secondo la sua arte, come se fosse lui pure un’ortica. “Alla vostra età noi eravamo lassù, sul Martello! Altro che girar dietro le stalle vuote!” esclamò con tronfia sonorità della voce. “Ma quello non è il Martello, signor Bertotti” lo aveva rimbeccato subito l’Angiolino. Ma lì per lì non aveva potuto imporsi di non arrossire. Una camicia nera!»; SVP 516: «La sera prima, a proposito di facce, era successo un bordello nel caffè Bosisio e quell’amico del Molteni, e anche il Molteni, per poco non prendevano un fracco di stangate da quei vigliacchi assassini dei fascisti, che adesso a S. Maria cominciavano a darsi un po’ delle arie»; SVP 532: «“Che vengano da me, se hanno qualche cosa da dire. Perché non vengono da me? Fascisti teppisti ci caco sopra.” Grandi risa accolsero la trovata. Non furon rilevate le contraddizioni. “Ne devono mangiare della polenta quelle mezzeseghe” soggiunse un altro. “Vorrei vederli in guerra, quando venivano giù i sacramenti, con il suo giovinezza.” “Altro che giovinezza allora”, rinforzò un quarto “… latrina e non giovinezza, latrina su tutta la linea… e farne tanta!”».
25. Cfr. Benedetti 1987: 81-99.
26. Cfr. Dombroski 1974. Sugli articoli si veda anche Greco 1983; Pedriali 2003 che introduce l’edizione digitale di una parte di questi scritti; Bertone 2005, saggio introduttivo a Gadda 2005a.
27. Silvestri 1993a: 1182 si limita a scrivere: «Il pochissimo che manca alla completezza della raccolta degli scritti divulgativi non toglie molto alla fisionomia di questo Gadda minore».
28. Le osservazioni più acute su questa ambiguità si trovano in Luzzatto 1998. Ma già Cases 1958 aveva respinto con nettezza la sopravvalutazione del presunto antifascismo di Gadda.
29. Donnarumma 2002 parla opportunamente di «nevrosi storica».
30. Concordo pienamente col giudizio complessivo sulla parabola di Gadda espresso da Zunino 2003.
31. Cfr. Gadda 1984a: 58: «Adesso ti do una brutta notizia: preparati: potevi pensarci già prima: ero inscritto al partito nazionalista! Adesso sono inscritto al partito fascista».
32. Cfr. Gadda 1988b: 27: «La partenza per Roma è stata determinata da motivi ingegnereschi: forse t’avevo parlato d’un incarico ingegneresco, che mi prende 1/3-1/4 del tempo mensile. Questo mese, il lavoro (redazionale) deve consumarsi a Roma-Terni. Poi, sono inscritto al Fascio qui; e dovevo venirci anche per quello». La lettera è del 18 maggio, di alcuni mesi precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale.
33. Cfr. Gadda 1984a: 113-14: «La tua prosa, come ricamo, come tessuto, è inarrivabilmente perfetta ed aerea – ma fin troppo delicata per gli orecchi del 1927: (anno V dell’Egira)».
34. Questa ad esempio l’intestazione di una lettera a Lucia Rodocanachi: «Roma, 16 marzo 1937. XV. II» (Gadda 1983d: 66).
35. Cfr. Gadda 1984b: 42: «Si possono pubblicare cose crude su “Solaria”? I tempi inchinano a severità e credo che certe ruvidezze possano riuscire indigeste alla censura politico-cattolico-francescolitico-domenicana. Mi farò barnabita e concorrerò a una cattedra presso l’“Università Cattolica del Sacro Cuore”, dove insegnerò che Kant è un confusionario».
36. Cfr. Gadda 1984a: 105: «Preoccupato di non andare sotto il tram, mi volsi e capii finalmente che non la pitonessa del Travaso ma un fiancheggiatore di un manipolo di camicie nere, mi aveva rivolto la allocuzione e la manesca ammonizione. Mi toccai il cappello mentre il gagliardetto proseguiva per i fatti suoi, frammezzo a molti tram e intimiditi taxis. – Il sistema di fiancheggiamento è molto utile come sicurezza in marcia: esso è descritto e raccomandato nel “Regolamento di esercizi per la fanteria” e nel “Regolamento per il servizio di guerra”, libercoli che ebbi occasione di scorrere in giovinezza».
37. Cfr. Gadda 1983d: 48: «Le sono gratissimo della sua lettera, del ricordo, del gentilissimo invito: lo accetterei anche subito, se l’incubo in cui viviamo mi permettesse di prendere una qualsiasi decisione. Purtroppo non in questo momento posso lasciare Milano, la famiglia. – Rimandiamo quindi a un momento più sereno il nostro incontro e la visita alla sua villa, nella Liguria che tanto amo. – Auguriamoci che qualche ora serena sia prossima, dopo tante tempeste! I “Wrong spirits in the air” – i funesti spiriti della distruzione possano dissolversi come vapori al vento»; Gadda 1983d: 50: «Una seconda causa abbastanza seria che mi vincola alla Milano poco amata è quella dei pasticci di natura economica che sono insorti in seguito a tutto il dramma». Del ’35 è anche la recensione a La guerra del generale Emilio De Bono, che dirigeva proprio le operazioni militari in Africa. Se nel privato Gadda manifesta preoccupazione per la guerra coloniale, nel recensire il volume usa toni entusiasti e partecipati: «La vita della nazione chiede gran forza ad esser vissuta: e il libro ne fa testimonianza quanto all’autore. Traspare dal turbine una certezza, quella che fu già espressa nei secoli dal poeta di Roma: “Merses profundo, pulchrior evenit”» (SGF I 802).
38. Cfr. Gadda 1983d: 62: «Sono incaricato di qualche ricerca e studio sulla “forma urbis”, in relazione ai lavori edilizi che si faranno nei cosiddetti Borghi: per preparare una pubblicazione commemorativa».
39. Hanno scritto su questo, interrogandosi sul rapporto con il fascismo, Bertone 2004a; Sbragia 2002; Sbragia 2004a. Più in generale sul rapporto con la cultura latina, ma con qualche interessante riferimento al fascismo Narducci 2003.
40. Cfr. Gadda 1983d: 66: ««Il mio lavoro storico è stato sospeso». La lettera è del 16 marzo del 1937.
41. In un’intervista del 1968 a Dacia Maraini Gadda diede credito a questa interpretazione, affermando che i vigili dei «Nistituos» della Cognizione non fossero altro che figura dei fascisti (Gadda 1993b: 171). È nella stessa intervista che Gadda fissa il momento del suo definitivo distacco dal fascismo al 1934, e colloca la stesura di Eros e Priapo addirittura nel 1928 (Gadda 1993b: 168). Manzotti 1996: 246 prende le distanze da questo suggerimento di lettura, ridimensionando l’ipotesi di una Cognizione strutturalmente antifascista, come vorrebbe ad esempio Pecoraro 2002b.
42. Convince l’interpretazione di Donnarumma Pisa 2006: 132-33.
43. Stracuzzi 2007d legge gli articoli tecnico-propagandistici secondo un duplice modulo, che vede combinarsi insieme «propaganda e ironia». Trovo molto acuta l’osservazione, se non fosse che Stracuzzi la usa come punto di partenza per riproporre argomenti non condivisibili: l’autoriflessività e l’ipertrofia della scrittura, il soggetto come testo, l’assenza di istanze conoscitive mi sembrano categorie e retaggi strutturalisti e poststrutturalisti, qui stancamente riproposti. O che forse, nel ristagno attuale di una disciplina un tempo militante come la teoria letteraria, tornano, sinistramente, a fare moda.
44. Si soffermano su questo testo Guarnieri 1981 e Stracuzzi 2004b.
45. Ha sottolineato la distanza tra Le meraviglie d’Italia e Gli anni da un lato e La cognizione del dolore dall’altro Donnarumma 2001a: 176-82 e 2002.
46. Cfr. Gadda 1984b: 139-40: «Il mio silenzio è dovuto a lavoro e a pene: quelle famigliari: e gli atroci ricordi della mia giovinezza mi sono ormai un dolore insopportabile, che a volte mi fa temere di impazzire, e a desiderare di crepare una buona volta. Quelle politiche e militari peggio che peggio, col trionfo degli assassini tedeschi e dell’eredo-alcoolico loro Fürher, mostro sadico, che cerca rivincite di carneficine alla sua impotenza. Purtroppo è come tu dici: essi sono forti: la mano degli assassini e dei sadici è sempre forte. Ma spero ancora che le nazioni eroiche, le quali difendono se stesse e la vita e il mondo, possano almeno contenere questo branco di carnefici autopatentati».
47. Antonio Gibelli accosta i due eventi come simboli del crollo della patria. Non è da escludere dunque che l’8 settembre sia stato da Gadda vissuto come un umiliante déjà vu. Cfr. A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani (Firenze: Sansoni, 1998), 260-63.
48. è la chiave dell’interpretazione del fascismo gaddiano elaborata da Dombroski 2002a.
49. In una lettera all’editore Neri Pozza Gadda scrive: «La nota bibliografica vuol inserire il modesto dramma dello scrittore nel dramma ben più terribile che l’Italia ha attraversato. È una nota bibliografica sui generis cioè quasi un racconto». La lettera è citata da Vela 1992: 923.
50. Questi i riferimenti e le allusioni alla Commedia: una sorta di catalogo di peccatori infernali (SGF II 233); l’allusione al gesto delle «fiche» di Vanni Fucci (241-42); una citazione da Inferno XXI (274); una citazione da Paradiso XII, canto di san Domenico (277-78); un’allusione alla bolgia dei ladri (293); una citazione della profezia di Farinata, da Inferno X (295); una citazione da Purgatorio XXIII (301); un’allusione ai giganti di Inferno XXXI (324); un’allusione agli spiriti magni di Inferno IV (335).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
© 2011-2023 Cristina Savettieri & EJGS. EJGS Archives, EJGS 7/2011-2017. First published in R. Luperini & P. Cataldi (eds), Scrittori italiani tra fascismo e antifascismo (Pisa: Pacini, 2009), 1-33.
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