Nella lettera della Storia. Per un approccio biopolitico alla guerra di Gadda

Federica G. Pedriali

1. Beati quelli che tollerano la Storia

«Qui facciamo delle gran trincee: innanzi a noi stanno i luoghi che invano cercarono di conquistare i padri: di fianco a me è la posizione che conquistò, tra gli altri, lo zio Emilio. Lo spirito garibaldino aleggia sì e no nei dintorni, frenato dalla ponderatezza necessaria al giorno d’oggi. Per me non avere mai alcuna paura poiché sono completamente al sicuro in buonissima posizione» – Enrico Gadda, lettera alla madre Adele, 10 novembre 1915 (1)

Alcune guerre sono state più volute di altre. Il primo conflitto mondiale è tra queste. Volere la guerra per porre fine alle guerre – la posizione di H.G. Wells, nel ’14, o di Woodrow Wilson, nel ’17 – rimane una delle logiche d’epoca più stupefacenti. Un’atroce voglia di fatti di sangue si esprime pure così in piena coerenza, producendo oscenità che risultano esecrabili solo fino a un certo punto (solo fino a quel punto si ammettono invero gli errori), e comunque solo a mattanza commessa. Anche nei momenti di maggiore flessione delle energie collettive e dunque al netto dell’orrore della Storia, anche cioè nelle ore in cui più è difficile imbattersi in chi il conflitto l’ha voluto e gli istigatori meglio si defilano arrivando praticamente ad accusare gli istigati, la logica della necessità della guerra continua a essere impeccabilmente magnifica. All’altezza del primo conflitto mondiale, persino il dio di quel genio satirico assoluto che è Karl Kraus prova ad accommiatarsi dalla farsa tragicosmica degli Ultimi giorni dell’umanità inscenando un molto incriminante io non l’ho voluto (e difatti, sempre in Kraus, grazie agli impietosi rimandi in nota, l’esibita e non petita excusatio sbugiarda non tanto un principio divino in vena di scuse, quanto la miseria umana di un Kaiser ridotto allo shock dalla visita alle proprie trincee). (2)

Probabilmente sbaglio a impostare la questione in questi termini – la Storia non la si condanna meglio e con più ragione a dare a intendere di non aver giocato a soldatini. E poi è troppo comodo tagliare in due la tensione antropologica che la determina: distinguere, sì, nettamente tra chi la perpetra e chi la subisce. I suoi istigati, così li ho definiti, in più includono coloro che hanno nome e reputazione di eroi: e tali invero anche a me sembrano, soprattutto a rivederli nei primissimi filmati d’epoca, all’epoca appunto della Grande Guerra, che è quando una macchina bellica che attendeva da millenni trova il suo correlativo mediale perfetto (un primitivo bianco e nero registra ciò che si muove: moto tanto più stilizzato in azione militare quanto più prontamente la monocromia dello sfondo riassimila in invisibilità ciò che cede, cade, si arresta). In questo senso, e pensando allo specifico italiano oltre che per sublimi silhouette, i mobilitati ragazzi del ’15 sono il prodotto evidente d’una società militarizzata, volontaristicamente pronta per una guerra europea che tarda a venire, che ha saltato i nati intorno all’unificazione – ai quali il novero anagrafico non favorevole da tempo impone di convertire la chiamata risorgimentale in laborioso servizio demografico dalle retrovie della vita civile, ottenendone dei ventenni disposti a tutto, a ogni nuova generazione, ossia facendone pezzi da combattimento in attesa, una classe dopo l’altra, senza soluzione di continuità, nel persistere della pace.

Ci vogliono vent’anni, si dice, per fare un soldato. Se il ventennio fascista, traducendo vecchie consegne liberali in allarmanti esclusive totalitarie, impiega una tantum e convulsivamente il tempo richiesto, inclusi i tempi massimi, per arrivare a fare pure i ragazzi di Salò, il regime formativo che lo precede, all’apparenza meno parossistico, alle generazioni di sua competenza impone il lavoro del lutto del suo sessantennio: una caduta di risonanza dell’ideale risorgimentale che si calcifica in deriva inerziale proprio a partire dalle realizzazioni politiche, la prima e la seconda unificazione, il 1861 e il 1870. In tale riduzione dell’aura, stato, scuola, e famiglia continuano peraltro a sottoscrivere il patto col diavolo di questa storia, non cessano cioè di scandire le parole d’ordine di un patriarcato che non gira invero mai a vuoto. Perché la guerra, quando verrà, sarà fatta su misura per noi, per le nostre aspirazioni. E beato allora sarà chi in quel momento avrà caso d’esser giovane o giovanissimo. In attesa della quale auspicata occasione di gloria, la disciplina militare non può che fare un gran bene a un ragazzo.

È per ecolalia, voglio dire, più che per frustrazione, che la Nuova Italia si danna con ciò che resta del progetto sacrificale dell’era precedente: realizzata la patria (mancano però le terre del nord-est), sciolta l’azione patriottica, il Roma o morte garibaldino ancora infatti decide se sarà morte o vita la gloria che ci spetta. E non ci spetta di meno, sia chiaro, nemmeno nell’anacronismo del sessantennio, poiché la gloria non concede che due esiti, entrambi vittoriosi – o morte gloriosa, o vita gloriosa. Che è poi anche la hybris, o senso tutto premoderno, delle parole dell’Enrico V shakespeariano prima della battaglia di Azincourt: «Se destinati a morire, siamo abbastanza numerosi da costituire una perdita per il nostro paese. Se dobbiamo vivere, quanti più in pochi saremo, tanto più degni d’onore». (3)

Appunto. Il transito verso variazioni del paradigma si conferma immancabilmente lentissimo. Il che complica, va aggiunto, e quasi sovverte, il quadro del progresso: nel senso che, nel progredire delle armi, neppure le guerre rimangono quelle di una volta, lasciando l’anthropos, ossia il dato di fatto che poco si trasforma, a lamentare non si sa bene quale valore pregresso andato perduto o rimosso nella generale miglioria. Nelle retrovie lombarde della seconda guerra d’indipendenza, estate del ’59, la macchina fotografica da parte sua registra per la prima volta la cosa della guerra. Non l’energia o la forma o l’eufemismo della battaglia: non invero come nei quadri, tanto più semplici, vari metri quadrati di semplificazione gestuale cadauno. Ma ciò che di irreparabile resta dell’uso militare dei corpi: la confusione e l’ammasso dei cadaveri restituiti a quanto non significa proprio nulla, lo scoop assoluto della foto dei morti di Melegnano. E poi i soccorsi amatoriali prestati in loco, in margine a Solferino, da traumatizzati turisti di guerra: la straordinaria vicenda di Henry Dunant, da cui parte l’invenzione dell’idea della necessità di un sistema di Croce Rossa, arrivando a formulare anche quella della futura Convenzione di Ginevra. Se rosso Magenta, dal nome della battaglia che precede Solferino, viene a significare anche sulla paletta dei colori l’intensificazione della guerra moderna, ciò è non solo per le dimensioni del combattimento e il numero dei morti (Solferino, l’evento chiave della campagna, segna il miliare dei miliari nelle statistiche che da Leipzig portano a Ypres), quanto piuttosto per la nuova tipologia di ferite, mutilazioni e decessi risultanti dall’accresciuta potenza del fuoco d’artiglieria. (4)

I cadaveri si ammassano da sempre troppo facilmente negli angoli e tra i rifiuti della Storia. Nell’immagine di Melegnano gli addetti alla bonifica mostrano d’averci fatto quel callo, o escrescenza di disumanità, che viene dal dover provvedere allo sgombero. Proprio per questo, insisto, proprio perché la morte può dire, dare, e contare così poco, la specie vi investe quanto ha di più potente – gioventù, mascolinità, fede – estraendone icona e vincolo da estendersi a tutti in forma di memento dell’avvenuto sacrificio, il miglior contratto che una collettività possa firmare con se stessa e con la propria coscienza. Altri interessi pressanti, ben più concrete questioni di risorse materiali ovviamente sottendono il pacchetto guerra: ma più non toccano quelli sulla cui composizione fisica ha lavorato d’attrito l’azione militare. Che per solito, ovvero quale che sia il suo costume tecnologico, batte alla grande, o meglio supera di gran lunga l’umana abilità di trattenere le ostilità nell’utopia della prassi vittoriosa pulita: che è dove realisticamente non la piazzano né Clausewitz né Virilio, due dei suoi migliori teorici. (5) Anche cioè a non voler tentare di metterla altrimenti (il rettile risiede ab ovo nel cervello, e la carica ormonale fa necessariamente virili ambo i sessi: la lotta, mi rassegno, è la misura drastica di questo cosmo), ci sarebbe sempre almeno da chiarire, tanto per correttezza di messaggio, il fondamentale cui prodest del complicato armamentario che ributta nel nudo dell’annullamento materico classi ed elezioni di corpi validi e vidimati per le regolamentari formalità della vita adulta. Il termine istigatori, non mi trattengo dal pensare, ha invero del merito; abili certamente a parole e nei modi dell’educazione lo sono, e di sicuro si dannano l’anima per recidività, nonostante non siano in genere richiamabili, continuando per turni di vent’anni a promettere, a chi si prepara a essere giovane sotto il loro migliore consiglio, ciò che la guerra innanzitutto non è mai stata, e che d’ora in poi, nel più aggiornato tiro al bersaglio che non dà gloria ma ancora è da glorificare, non potrà proprio più essere.

Continuo, insomma, a rischiare di impostare in modo estremo il discorso, ma tant’è. Ho avuto, e non lo dimentico, la mia lezione di Storia. Ho amato le Termopili, le oche del Campidoglio, il berretto rivoluzionario di Frigia (versione francese, però, tra fasci di verghe egalitarie), la conquista del Far West (lì aiutavano immensamente anche i film, rigorosamente settimanali). Meno il Risorgimento, troppo cavouriano (ma Garibaldi a Marsala, o persino in Aspromonte, metteva allegria e voglia di essere italiani); meno le guerre mondiali, troppo vicine a imbarazzi di famiglia (benché l’antenato in causa, poi fascistone, ma prima decorato di Pozzuolo del Friuli, 29-30 ottobre 1917, sia una foto che sino all’altro ieri dominava il tinello di casa). Se il doverismo deamicisiano ai miei tempi non attecchiva più così bene, il mio imprinting rimane invero un classico consumato pure nelle salette di catechismo; l’ottantennio (sessanta più venti, o venti volte quattro) per me era cosa già vaghissima, realmente lontana – eppure come le papere di Lorenz coi miei diplomi ero in grado di seguire praticamente chiunque, purché fosse padre e portasse alla contemplazione del capo, o fallo (eh già, di nuovo), perché anche un santo, anche un intellettuale con un minimo di carisma potrebbe salvare un’umanità bisognosa di quell’ora di disperata ginnastica che ci tradurrà verso le destinazioni d’arrivo del futuro.

Oggi, a ripensarci, la lezione della specie mi sembra non tanto e non solo una questione di passaggio delle consegne di una serie di narremi, quanto una precisa prassi con e per il potere: con e per il mantenimento della vis, o vigore vitale, di un patriarcato al quadrato che non intende ritirarsi. Appena i ragazzi li si coglie che ci ascoltano, si passa infatti agli ascolti mirati. Come accennano di saper leggere, si attacca con le letture scelte. Quando li si sorprende col Rousseau clandestino sotto il banco, si lascia correre: perché insieme al Cesare e al Plutarco anche quello può far del gran bene a un ragazzo. Certamente poco più che ragazzi sono stati Robespierre e de Saint-Just, e in genere i primi rivoluzionari di Francia; come pure a suo modo lo è stata Charlotte de Corday, l’assassina di Marat, essendosi data il coraggio di entrare, lei donna, in quella stessa Storia alla lettera, per verificarvi bontà e praticità dell’educazione ricevuta, missione di cui peraltro la nuova società rivoluzionaria non sospettava di averla investita – da lei, ad aver tenuto nota della sua esistenza prima dell’ossessione per la sacralità d’una patrie più che mai esposta a un nemico doppio, interno ed esterno, c’era solo da aspettarsi che alla sua gioventù sapesse sopravvivere. Proprio questo però è il punto, e perciò qui chiamo in causa il suo caso: a prenderlo terribilmente sul serio, a impegnarcisi cioè con la serietà che caratterizza certa prima età, tra sopra e sotto banco il sussidiario formativo totale col concorso dei tempi consegna ai padri, ai classici, a Roma come a Rousseau, un materiale umano che nei brevi anni di una lunga educazione esige e ottiene di affrontare la massima delle prove – vita pronta a rendersi in sacrificio a coincidere con la stagione in cui maggiori sono le promesse. (6)

Pure per questo, e rincaro subito la dose, il patriarcato manda avanti proprio i figli, per certi aspetti neppure mentendo quando li infiamma perché si lascino istigare. Loro, infatti, in quanto padri sono disposti, e anche lo dicono col linguaggio dei fiori della mitopoiesi, che è poi quello che fa lamentare l’anzi tempo all’Orco di troppa carta stampata, a rischiare il lavoro del proprio seme, pur di garantire, direi però implicitamente soltanto a se stessi, che il mondo in cui evidentemente non rinunciano a trovarsi molto bene continui appunto a star bene grazie al sangue versato, nel rinato favore del dio (proiettare la divinità in questa fase della conversazione invariabilmente ripaga). La cosa più strabiliante, in tale prospettiva, è il brivido primordiale che si accende lungo il segmento vertebrale dell’anthropos al pulsare del segnale di pericolo che tutto ciò comporta per il futuro del branco. Sto peraltro anche pensando di chiamarla circolazione inerziale di un dato antropologico minore: perché, a sacrificio commesso, quello per cui l’azione nella Storia potentemente tirava non ci consegna a una palingenesi; a rinascere perfettamente, senza soluzione di continuità, sono le predisposizioni adulte, un mondo riconfermato nell’immagine e nella somiglianza, propensione all’olocausto generazionale inclusa.

Alla resa di tali premesse, lavoro di biopolitica allora non a caso, e ciò non esclusivamente per gli ulteriori appoggi che tale approccio può dare all’idea di Storia che vedo espressa, a partire dall’esperienza della Grande Guerra, e in un sovrappiù di contorsionismo ideologico, in uno scrittore come Carlo Emilio Gadda. Mi stupisce solo non poco, a proposito di metodo, che il rapporto intergenerazionale non figuri tra gli ambiti di verifica del biopolitico: mentre invece mi sembrerebbe presupposto affatto necessario a un discorso su quanto c’è di marcio, mi si consenta, nella Tebe della nostra evoluzione. Non intendo, in questo contesto, infierire sugli psicologemi di cui il cervello umano si fa oracolo garante dall’immersione nella sua biochimica (bisognerebbe però almeno insistere che ad accecarsi è non tanto o non solo Edipo, posseduto com’è dalla baldanza ormonale della voglia di successione, ma anche e con maggiori responsabilità Laio, troppo prontamente convinto dalla fifa genetica a credere il figlio destinato al patricidio). Qui per il momento mi limito a sottolineare che la comunità hobbesiana alle origini del trittico biopolitico di Roberto Esposito, una delle fonti più centrali per questo saggio, non dà supporto o sostegno di cose protette e condivise; il munus patriarcale, il patto del dono di sé come rinuncia a uccidere il prossimo più nostro, con cui la collettività originerebbe avendo aderito alla marca privativa di quanto viene compartecipato (la chiave di questa biopolitica: nulla in realtà risulta messo in comune con la creazione della com-munitas), fa il vuoto attorno a chi, e l’indefinito continua a essere non generico, prepara la prossima generazione per quel ruolo di puer sacer che mi appresto a estrarre dall’homo sacer di Giorgio Agamben. (7)

A ridurre la vita a debito di cui rendicontare in uno spazio di confronto sacrificale che si dispiega in forma e con nome di patria, l’inganno che lega le generazioni si riattiva ogni volta integralmente – eccomi al dunque della teoria. Non manca nemmeno il topos del regresso di esistenze da restituire in gratitudine all’origine, nella risalita a ritroso al primo dei padri, il quale appunto per poter non essere figlio avrà prima da essere dio. In tale spazio tutto da articolarsi in soglie, perché per esservi ammessi bisogna prima esserne fuori, solo una morte contro natura, e quindi invero anzi tempo, esattamente come il sangue versato contro natura, ossia violando una corporeità che non conosce perdite (ergo non il sangue mestruale, esternato in tutta la sua viltà di materiale poco prezioso: vile e chiamato a dar ragione, non fa una piega, del dovere di comandarne la segregazione di evento impuro della sfera pubblica) – insomma, e per non perder d’occhio la sintassi, solo una morte che sfida la morte, e un sangue che sfida il sangue nel massimo dello spreco vitale possono valere nella guerra illustre che l’umanità combatte contro la propria natura divinizzata in Natura. Che non è quella cosa verde, là fuori, in cui un giorno ritroveremo la pace, ma quanto qui dentro cerchiamo di modificare, estendere, far durare, salvaguardandolo in effetto personale tanto più nobilmente intimo ed esclusivo quanto più estraneo è al resto in virtù di una sua superiore separatezza.

Tirare ad arrivare ai ferri corti dell’aporia, come sto facendo in queste righe, permette di affrontare in modo immediatamente più franco anche un altro nodo fondamentale del problema. Gli scontri di forze, per essere vidimabili come manifestazioni, diciamo, di civiltà, devono aver luogo in condizioni di massima comparabili. È per questo, credo, che la guerra, come la scuola e il sistema pensionistico, si fa eleggendo una o più classi d’età, escludendo chi ancora non è o non è più portatore dei requisiti necessari per appartenere a un dato parametro – di nuovo, e in breve, questioni di tempo biologico trattato segmentalmente e per riti d’ammissione, e che vista la legalità della procedura non dovrebbero impedire che a significare vittoria o sconfitta, in caso di guerra, sia il massacro della seconda, terza, o anche quarta età. Se, come sospetto, quest’ultima trovata non incontra sostenitori (la morte del vecchio raramente esprime bellezza nello stremo: inutile mandarlo a regalarci le indurite cuoia sul campo di battaglia, non ci ecciterà), ecco che posso tornare ad insistere.

La cernita sacrificale o PR (public relations) col divino da cui emerge l’homo sacer, figura limite dell’umano, al limite del territorio di nostra gestione (che è dove la legalità della violenza sull’alterità dei propri simili coincide col momento permeabile, doppiamente rischioso del confine), viene ottimizzata massimizzando, proprio col sacrificio dei figli, l’investimento di ritualità richiesto dalla conservazione della vita. È così che un Gabriele d’Annunzio, classe del ’63 e cinquantaduenne spaccato nel ’15, passa al vaglio la gioventù di turno, rovesciando le placide beatitudini del discorso della montagna del figlio di Dio in estatico proclama di guerra di intonazione patriarcale – come dire, Abramo insegna, perché Abramo era disposto:

O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere. Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.

Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina del guerriero. Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per esser vergini a questo primo e ultimo amore.

Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offeriranno la loro offerta. Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.

Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia.

I destinatari e destinati per parte loro rispondono consenzienti. Non per nulla, hanno diligentemente superato le stazioni dell’estraneità che li riguarda, stando in più ben attenti a trattenersi verginalmente fuori del progresso delle età. Nati nella vita, ripetono di dovervi entrare, di test in test, benché quella, intesa alla maniera di Roberto Esposito, sia già bíos indivisibile, inseparabile nelle agambeniane bíos e zoé, vita qualificata, munita di difese vs vita nuda, aliena, scarnificabile. Così, ad esempio, adotta il comando del Vate un Paolo Marconi, classe del ’95, caduto nel ’16 non ancora compiuti i ventun anni – scendere in campo, dai limiti della patria, con logistica materiale che finalizzerà i ranghi della prossima generazione di adulti, per il prescelto vuole dire infatti restarvi, assolto l’obbligo vitale da perfetto fuoriuscito, l’implicito di una giovinezza consumata in patto eroico:

Io non vedo che l’operare. L’operare audace, sprezzante dei pericoli. Con intelligenza ed audacia egualmente distribuite. Perché ho vent’anni. Perché ho un corpo forte e sano.

Perché ho una madre animosa. Mai sì completi doni convennero in alcuno a comandare che si operasse.

(Tale è l’identificazione col volonteroso moriturus che poco sopra lo stesso ragazzo prefigura il proprio annichilimento, non intendendo prevedere altra risposta alla domanda che tuttavia ha posto: «Chi mi trascina fatalmente, per questo sentiero continuo e diritto, ch’io stesso ignoro ove alla fine conduca? Giungerò io pure ad un termine destinato. Non so se per altri; per me certamente sereno» – per problematizzare la quale fiducia al limite della cattiva fede continuo a sfruttare un referente non meglio definito, citando a contrasto parentetico da uno dei giovanissimi di Salò: «Hanno raccolto la polvere antica e ce l’hanno gettata addosso, e di noi hanno fatto le nuove legioni, ci hanno riempito la bocca di canti e ci hanno detto di andare. Andare! Ma andare dove? Ci hanno mandati a morire, a morire massacrati, tutti insieme»). (8)

Ai figli, certo, bisogna pur avere qualcosa da dire. Raccontare la patria solleva invero dal compito: anche perché il figlio è innanzitutto infante, ossia e almeno inizialmente privo di parola, e dunque tutto orecchi e mimesi, in un automatismo fisiologico peraltro già assolutamente formativo (eppure lui, il figlio che è anche una figlia, tutto questo non lo sa, e forse sin troppo vagamente lo sa persino il genitore, che a sua volta è sicuramente anche una genitrice, nonostante avanzi irrispettivamente, e d’altra inerzia, tra gingilli e trombette: che con ogni probabilità sono già anche bombette, prima che arrivino materialmente i soldatini). La costruzione del nemico che preme ai confini pompa tossine cioè sin da subito, in coordinato anticipo sulla scolarizzazione, e con farmacologia garantita non limitata alla produzione dell’homo sacer agambeniano. Vittima d’uno specifico e specializzato mode d’emploi, quello difatti emerge in maniera ecclettica dall’intero spettro antropologico: pure una categoria inventata lì per lì (tanto il campo di sterminio ha porte larghe, e accoglie con la creatività categorizzante del genio) finisce di fare egregiamente al caso dell’implacabile dio Terminus (la pietra sacrificale terminale su cui la Roma arcaica si attestava nella difesa della nazione votata alla conquista). (9) Il puer sacer, invece, tossico e pervenuto a compitare con estro la strana prossemica che sovrastava la sua nursery, non solo è genericamente nostro simile, e ci somiglia quindi terribilmente, ma anche ci appartiene innanzitutto come filius, momento integrale dell’evoluzione del nostro sangue: proprietà genetica da perfezionare nell’educazione, da assoggettare alle leggi della subalternità come connazionalità – attributo, quest’ultimo, tanto più essenziale quanto più la corruzione minaccia pure intra muros.

Una prima età così intesa, arrivo a dire, incarna tutta l’ampiezza delle dinamiche sacrificali, restituendoci alla belligeranza con la forza del gioco che s’impone appunto giocoforza, tra drastici ricambi di creduli minori. La biopolitica, di fronte a tali nobili programmi, aspira alla disattivazione perlomeno teorica del meccanismo antropologico responsabile dell’invenzione del potere, ipotizzando, soprattutto a partire da Jean-Luc Nancy e Giorgio Agamben, i termini non terminali d’una comunità restituita all’inoperosità, ma non per questo assolta, o assolvibile. Il baratro di psicosi che si apre col nazi-fascismo, in reazione al mito del pericolo di doppio collasso nazionale (da fuori e da dentro: per via di agenti diversamente patogeni installati nelle aree di rispettiva competenza), perfetto com’è per una riflessione sullo stato attuale degli affari del mondo, ha a mio avviso il difetto netto di profilare solo parzialmente l’obbrobrio che fa del Novecento uno dei capolavori massimi della Storia. Dallo stretto della questione italiana, l’occasione delle celebrazioni per il centocinquantesimo dell’unità, nel 2011, rilanciando l’attenzione per le sorti del Paese a partire dall’impresa risorgimentale, ha per parte sua di fatto anticipato il dibattito sulla Prima Guerra mondiale, riaffermando le motivazioni nazionali, da campagna per l’indipendenza, della nostra versione del conflitto, così anche evidenziandone la natura seriale di agone della volontà con cui tra Solferino e Caporetto padri e figli si sono ripetutamente affrontati, dal chiuso dei rispettivi ranghi, per l’improvvisa escalation delle sindromi di Abramo e di Isacco col nuovo secolo. (10)

«Nel fascismo l’incubo dell’infanzia è giunto a se stesso», scrive Adorno nei Minima moralia, morale 123, e qui mi attesto per un primo ordine di conclusioni. Se cioè, col nazi-fascismo, all’ebreo, all’inferiore e all’indesiderabile si è potuto riservare la migliore efferatezza di una civiltà giunta alla sua più sinistra evoluzione, la Prima Guerra mondiale col perfezionamento del genocidio dei figli non solo offre un precedente diretto incontestabile, ma anche perpetra, per certi aspetti persino più gravemente, una violenza tanto meglio dissimulata, in cui per non tradirsi (non mi tiro indietro neppure da questa tesi) l’averlo massimamente voluto arriva a sfruttare la doppia convenienza prima del doverlo volere (perché chiedere il sacrificio ai figli è dovuto alla patria), poi del poterlo negare (nel Lete di un lutto inesauribile, innocente come i resti dei martiri). Per cui tanto più utile, in una prospettiva crudamente biopolitica, viene a dimostrarsi proprio quel nostro fronte italiano, provinciale com’è stato all’epoca, per sovrappiù di fede patriottica (la sostanza del pensiero di Enrico Gadda, fratello minore del maggior Carlo, riportato in epigrafe), e presto subalterno anche nel trattamento storiografico (con subalternità e di disciplina e di argomento peraltro applicabile all’Italia in genere, con la scusa della mancata formazione identitaria di stampo nazionale: il parametro socio-politico degli ultimi cinque secoli di storia europea). Già all’altezza del Risorgimento, del resto, era stato lamentato il poco sangue versato, il troppo guadagno avuto, sì, da troppo modesto sacrificio di vite. In tale malsano tenore discorsivo i d’Annunzio, i Corradini, i Marinetti, i Papini, i Mussolini, i nati insomma del primo ventennio unitario arrivano a tenere tracotante banco, da bravi scolari che sono stati, ributtando ogni volta la verità della favola antropologica nella notte ebefobica dei tempi (anche un indistruttibile sangue di legno quale Pinocchio, pagando per la gioia dell’avventura puerile con la piaga nel corpo, non a caso finisce col servire con mirabile tempismo la lettera della causa per cui perora l’esagitante Papini):

L’avvenire, come gli antichi Dei delle foreste, ha bisogno di sangue sulla sua strada. Ha bisogno di vittime umane, di carneficine. Guerra interna e guerra esterna – Rivoluzione e Conquista: ecco la nostra Storia. Per l’una e per l’altra noi siamo quello che siamo – cioè superiori ai figli delle bertucce. Noi dobbiamo combattere fra noi e contro gli altri se vogliamo che la civiltà vada innanzi. Conquista di terre e di ricchezze – conquista di verità e di libertà: vittime, vittime e vittime. Vittime assolutamente necessarie.

Il sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l’olio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro – perché il futuro diventi più presto passato. (11)

2. Considerazioni in coda

La guerra di Gadda è nota, e ben commentata – e ciò non esclusivamente per le derive verso l’incombente fascismo. Interventista d’ispirazione dannunziana. Fervido volontario della primissima ora. Diarista di guerra di massimo puntiglio e d’autentica eccezione. Idealista, militarista, e quel che quasi più conta, uno dei trecentomila soldati italiani catturati nella rotta di Caporetto. Non esserci rimasto, in quella guerra, pur avendone correttamente metabolizzato il giuramento disgiuntivo, morte gloriosa o vita gloriosa, è dunque l’imprevisto inconcepibile – da quella sacra pueritia uno come lui non sarebbe dovuto, infatti, rientrare. Ovvero nessun piano alternativo ai suoi riguardi da parte della nazione, la quale a cosa fatta (gioventù fatta, capo ha) avrà cuore e attenzione solo per nuove esagitazioni; e caduta a piombo, oltre la soglia ultima dell’infamità, per il puer che, ancora posseduto dal comando di Roma, per missione fallita andrà d’ora innanzi tenuto alle porte. (12)

Una vita del genere è forse obiettivamente lunga a durare. Data l’incommutabilità della pena (la pienezza della patria è vietata indefinitamente, a nulla vale rientrarvi dal campo di prigionia), e visto l’ulteriore sigillo imposto dagli eventi (la notizia della morte di Enrico blocca ulteriormente il momento già troppo disperato in cui Gadda tenta invano di riattraversare anche la soglia di casa), non resta che esistere in un non luogo esterno al presente e di massima devitalizzazione, nel confronto senza remissione con l’aspirazione originaria a fare tutto il proprio dovere (il repetita iuvant scaramantico dell’intero Giornale di guerra, quasi che tale impegnativa totalità fosse già allora fuori portata delle forze del soggetto). E se, a un certo punto, da questo più nuovo oltre confine e no man’s land in cui l’annullato versa, la pantomima dei vivi torna a esigere la sua acquiescenza, il vecchio credo militarista con cui riprende a far complicati segnali non rivela ripensamenti, o maturazioni. Lo si chiami, per stringere meglio il nodo della questione, l’infelice coerenza della determinazione di rimanere fedele perlomeno alle proprie lontane premesse.

Per noi, va da sé, un materiale umano siffatto è acquisizione capitale, spesso tra opposte interpretazioni di tale militarismo, e di tale fascismo, ma sempre nella convinzione di potervi individuare, da un dato momento in poi, un’inedita capacità di condanna del Verbo di un’epoca sbagliata, a partire dalla parola pedagogica – la questione per Gadda invero più penosa, oltre che pressante, per troppa istigazione subita nell’età che più contava (è la minima evidenza offerta, ad esempio, dal titolo e dalla battuta, del ’61, «date una carabina a un ragazzo, e in capo a un’ora avrà già sparato a sua sorella, a sua madre, al migliore de’ suoi amici»; o dal commento «ero un ragazzo [...]. Non potevo e non volevo morire» di una breve nota inedita databile all’edizione del ’65 del Giornale di guerra e di prigionia; o meglio ancora, dal «forse aveva ragione» con cui nell’ultima intervista, del ’72, riabilita Giolitti).

Anche però qualcos’altro va da sé, e per una volta siamo noi a rimanerne fuori. Per l’ex puer che più non si muove è difficile separare infatti la storia deleteria (il fascismo, incluso il proprio: l’intimo «fascismo in noi stessi») da quel «grande sogno di paese» che ancora s’accende, nell’estrema età, al pensiero della sua guerra (la storia affermativa: l’ecolalia che si riabilita in preghiera e civismo); onorando la lettera della sua passione, ne rilancia le ragioni più schiette, a dispetto di tardivi distinguo (nel ’51, per commemorare indisturbato, al sicuro da nostre inquisizioni, oltre che da fuori novero eroico, Gadda ad esempio mitigherà l’alpino del ’15-’18 in alpinista, mostrandosi tacitamente strategico anche nella conclusiva indecisione):

[...] sotto l’asprezza del volto e il grigio vestito della taciturna persona, uno spirito caldamente associante: quella serietà operosa e adempiente in atti che nobilita la umana condizione. L’alpino tace, suda e sale. Sale lui: non obbliga ma aiuta gli altri a salire. Il senso eminentemente maschile della responsabilità propria lo sorregge [...]. Tutti coloro che hanno conosciuto e frequentato guide alpine, [...] tutti coloro che conoscono l’alpino, sanno bene di quale «immedesimazione nello spirito del dovere», di quale «senso dell’obbligo da promessa data», di quale «senso di fraternità» è fatta l’anima di chi vive nel monte, di chi pratica le fatiche del monte. La bellezza della milizia alpina ritrae il suo non tangibile premio dal conoscere in altri, e dal praticare possibilmente noi stessi, il libero esercizio di queste facoltà così pure, che eguagliano gli umili agli illuminati nella dedizione ad un compito. Il mio animo ricorre con infinita gratitudine ai battaglioni di quei vecchi anni, che custodirono a prezzo di infinite pene e rischi, e d’infinita morte, le Alpi.

La storia del loro sacrificio non è stata scritta, perché si tratta di una storia inverosimile. (13)

Quella che Gadda è riuscito a chiamare la sua felicità rimane cioè irraggiungibile, impermeabile alla nostra migliore buona volontà di interpreti – pieno uso militare di un sé prescelto per la distruzione del nemico, impiegato per la protezione suprema della patria dall’alto della corona di monti che la definiscono come massima prova, con condizione peculiare all’Italia, e all’italianità, quando la nazione infine si decide ad assolvere ai doveri che chiamano.

University of Edinburgh

Note

1. Cit. in Italia 2003d: 59.

2. Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità (Milano: Adelphi, 1980), II, 692 – ma cfr. anche vol. I, p. 366, n. 21, dove la frase «Ich habe es nicht gewollt» viene attribuita al Kaiser Guglielmo II in visita a un campo di battaglia sul fronte francese nel 1915. A queste premesse hanno dato spunto, direzione e tono varie riletture occasionate dal centenario della Grande Guerra – qui segnalo: Joanna Bourke, Dismembering the Male. Men’s Bodies, Britain and the Great War (Londra: Reaktion Books, 1996); Santanu Das, Touch and Intimacy in First World War Literature (Cambridge: Cambridge University Press, 2005); Geoff Dyer, The Missing of the Somme (Edimburgo: Canongate, 1994); Paul Fussell, The Great War and Modern Memory (Oxford: Oxford University Press, 2013); Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale (Torino: Bollati Boringhieri, 2007); Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra (Bologna: il Mulino, 1997); Eric J. Leed, No Man’s Land. Combat and Identity in World War I (Cambridge: Cambridge University Press, 1979); Paolo Rumiz, L’albero tra le trincee. Paolo Rumiz nei luoghi della Grande Guerra, dvd Artemide Film (Roma: Gruppo Editoriale L’Espresso, 2013); Laura Wittman, The Tomb of the Unknown Soldier. Modern Mourning, and the Reinvention of the Mystical Body (Toronto: Toronto University Press, 2011). Di Marco Paolini, Il sergente (Torino: Einaudi, 2008), volume e dvd, mi guida in particolare l’assurdità della denuncia: «In teoria alcune guerre dovevano venire dopo altre, ma in pratica non andò così perché le guerre non finiscono mai quando uno ha previsto e infatti durano fino alla fine» (22).

3. Dal discorso della battaglia di San Crispino: William Shakespeare, Enrico V, IV, 3, 18- 67, trad. di A. Cozza (Milano: Garzanti, 2002), 152-157 (la citaz., dai vv. 20-22, è alle pp. 154-155). Per questo paragrafo mi sono venuti particolarmente utili: Alberto M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo (Roma-Bari, Laterza, 2011), 3-145; Alberto Brambilla, Educazione, guerra e patria. Percorsi bibliografici nella letteratura per l’infanzia, in La grande guerra, num. speciale di Studi e problemi di critica testuale (2015), 91, 2: 59-79; Simonetta Chiappini, «O patria mia». Passione e identità nazionale nel melodramma italiano dell’Ottocento (Firenze: Le Lettere, 2011), 164-197; Walter Fochesato, La guerra nei libri per ragazzi (Milano: Mondadori, 1996), 11-72; Luigi Ganapini, Alle origini di un mito: i «ragazzi di Salò», in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. IV. Il ventennio fascista, to. 2, La seconda guerra mondiale, a cura di M. Isnenghi & G. Albanese (Torino: UTET, 2008), 478-484; Stefano Jossa, Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano (Roma-Bari: Laterza, 2013), 1-50; Marco Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918 (Bologna: il Mulino, 2014), 17-57; Elena Papadia, Di padre in figlio. La generazione del 1915 (Bologna: il Mulino, 2013), 21-104; Amedeo Quondam, Risorgimento a memoria. Le poesie degli italiani (Roma: Donzelli, 2011), vii-xxiv, 3-105; Lucy Riall, Garibaldi. Invention of a Hero (Londra-New Haven: Yale University Press, 2007), 1-18, 306-392; Gustav Seibt, Roma o morte. La lotta per la capitale d’Italia (Milano: Garzanti, 2005), 11-115; Lucio Villari, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento (Roma-Bari: Laterza, 2009), 226-334. Vari echi discorsivi d’epoca mi permettono in più di attivare il termine ecolalia (centrale alla torturante coerenza della posizione storiografica gaddiana, come dirò in coda) – due in particolare mi fanno da motivo conduttore in queste premesse: il «beati quelli che hanno vent’anni» dell’incendiario pastiche dell’orazione di Quarto, 5 maggio del ’15 (Gabriele d’Annunzio, Orazione per la sagra dei Mille, in Id., Prose di ricerca, to. 1, a cura di A. Andreoli & G. Zanetti (Milano: Mondadori, 2005), 11-21 (21); cfr. Banti 2011: 88-89), e la formula, terribilmente inerziale, di brutale comodo pedagogico, «Ciò fa bene a un ragazzo» (dalla dedica dei Discorsi militari di Giovanni Boine, cit. in Isnenghi 1997: 78-79, 150, che merita riportare per intero: «A mio padre, savoiardo all’antica, il quale appena seppi, mi fece leggere (e appena compitavo), il Regolamento di disciplina militare con maschia semplicità solendo dire: “Ciò fa bene a un ragazzo”»).

4. Su Solferino e sul ruolo di Dunant nell’improvvisazione dei soccorsi da parte dei civili, e per una riproduzione della foto dei morti di Melegnano, cfr. Jonathan Marwill, Visiting Modern War in Risorgimento Italy (New York: Palgrave MacMillan, 2010), 54-122 (86). Cfr. anche J. Henry Dunant, A Memory of Solferino / Un souvenir de Solferino (Norwich: Jarrold and Sons, 1947), 20-38, per il memoriale delle ore immediatamente successive alla conclusione dei combattimenti; Christopher Duggan, The Force of Destiny. A History of Italy since 1796 (Boston: Houghton Mifflin, 2008), 203-205, per il richiamo alle rimostranze rivolte a Cavour da Napoleone III, comandante supremo delle truppe franco-sarde nel ’59, e riassumibili in il Piemonte ancora non mette abbastanza truppe sul campo di battaglia – concetto di cui sono tentata di fare l’unità di misura di tutte le cose, in queste premesse, perché, al minimo dei requisiti, un popolo, per meritare e mantenere dignità di nazione, deve dimostrare di non porre limite al numero di giovani vite messe a disposizione della patria.

5. Nella dromologia di Virilio la guerra è pura velocità logistica, e dunque risultato economico netto. Per Clausewitz comporta invece un passaggio di stato dalla solidità, o stasi della pace, alla liquidità del conflitto, in seguito alla rottura di argini – tale è la liquidità dell’azione militare da richiedere nel soldato nuove abilità motorie in un mezzo che oppone forme di resistenza non prevedibili dal tavolino della teoria. Cfr. Paul Virilio & Sylvère Lotringer, Pure War (Los Angeles: Semiotext(e), 2008), 7-79; Karl von Clausewitz, Della guerra, trad. it. (Milano: Mondadori, 1970), 86-89 (88). Ma cfr. anche: Leed 1979: 96-105, o Das 2005: 1-105 (33, 41, 42, 108, per le foto), a proposito dell’estenuante liquidità del denso pudding materico prodotto dalla più nuova capacità di attrito della Prima Guerra mondiale; Stefania Bartoloni, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918 (Venezia: Marsilio, 2003), 155-216, e Yvonne McEwen, In the Company of Nurses. The History of the British Army Nursing Service in the Great War (Edimburgo: Edinburgh University Press, 2014), 139-164 circa l’impatto, su medici e paramedici, degli avanzi di materia vivente in transito per gli ospedali militari del ’14-’18.

6. Sulla difficoltà di capire la rivoluzione francese, a cominciare dai ragazzi del Terrore, si pronunciano: David Andress, The Terror. Civil War in the French Revolution (Londra: Abacus, 2005), 1-7, 371-377; Edward G. Andrew, Imperial Republics. Revolution, War, and Territorial Expansion from the English Civil War to the French Revolution (Toronto: Toronto University Press, 2011), ix-xxi, 3-26, 140-166 (danno da riflettere le parole di Saint-Just riportate a p. 156: «There is something terrible in the sacred love of la patrie; it is so very exclusive that it sacrifices all to the public interest without pity, without horror, without human respect»); Harold Behr, The French Revolution. A Tale of Terror and Hope for Our Times (Eastbourne: Sussex Academic Press, 2015), 98-101, 103-109, 113 (dove viene citato Engels, da una lettera a Marx: «[Terror was] not the reign of people who inspire terror, but of people who are themselves terrified»); Joy Connolly, The Life of Roman Republicanism (Princeton: Princeton University Press, 2015), 203-208; Jonathan Israel, Revolutionary Ideas. An Intellectual History of the French Revolution from The Rights of Man to Robespierre (Princeton: Princeton University Press, 2014), 6-29, 450-573; Philip Pettit, Republicanism. A Theory of Freedom and Government (Oxford: Oxford University Press, 1997), 1-13, 283-305; Simon Schama, Citizens. A Chronicle of the French Revolution (Londra-New York: Penguin, 1989), 140-144; Noah Shusterman, The French Revolution. Faith, Desire, and Politics (Londra-New York: Routledge, 2014), 204-234; Ruth Scurr, Fatal Purity. Robespierre and the French Revolution (Londra: Vintage, 2007), 15-31; Sophie Wahnich, In Defence of the Terror. Liberty or Death in the French Revolution (Londra-New York: Verso, 2015), 1-33, 97-108. Sulla radicalizzazione in genere mi è risultato utile Alberto Toscano, Fanaticism. On the Uses of an Idea (Londra-New York: Verso, 2010), 98-148 – ma cfr. anche, visto che nella Roma repubblicana il discorso trova la sua formulazione più influente e duratura, Carlin A. Barton, Roman Honor. The Fire in the Bones (Berkeley-Los Angeles: California University Press, 2001), in particolare pp. 1-87, sui risvolti educativi del programma senatoriale di conquista territoriale; e Maurizio Viroli, For Love of Country. An Essay on Patriotism and Nationalism (Oxford: Clarendon Press, 1995), soprattutto pp. 18-40 sull’amore delle leggi, che inteso alla romana fa coincidere virtù civica e vivere libero.

7. Sul fondo privativo del munus, o impossibilità di essere con (il contrario del sum cum decostruito da Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Torino: Einaudi, 2001), v. Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità (Torino: Einaudi, 2006), vii-xxviii; Immunitas. Protezione e negazione della vita (Torino: Einaudi, 2002), 134-172; Bíos. Biopolitica e filosofia (Torino: Einaudi, 2004), 3-39 – e il più recente Le persone e le cose (Torino: Einaudi, 2014), 4-37, 73-115. Sulla trilogia biopolitica di Esposito cfr. Peter Langford, Roberto Esposito. Law, Community and the Political (Londra-New York: Routledge, 2015), 68-196. Tra le innumerevoli riprese e applicazioni dell’homo sacer di Giorgio Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino: Einaudi, 2005, 79-127) non trovo invece quanto avrei pensato non potesse mancare, cioè quell’idea di esclusiva sacrificale esercitata attivamente sulla prima età col passaggio dall’infanzia (o età della potenzialità della voce come pre-lingua e pre-storia, da in-fans = che non parla; cfr. Id., Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi, 2001, 5-66) alla puerizia (periodo propriamente scolare, e quindi esposto a overload-overdose pedagogico, specie discorsivo) – da cui qui il mio conio puer sacer. Tra le verifiche che non danno esito includo: Kevin Attell, Giorgio Agamben. Beyond the Threshold of Deconstruction (New York: Fordham University Press, 2015), 40-83, 125-166; Paolo Bartoloni, Infancy, in The Agamben Dictionary, a cura di A Murray & J. Whyte (Edimburgo: Edinburgh University Press, 2011), 105-106; Timothy Campbell, Improper Life. Technology and Biopolitics from Heidegger to Agamben (Minneapolis: Minnesota University Press, 2011), 1-30; Claire Colebrook & Jason Maxwell, Agamben (Cambridge: Polity, 2016), 1-90; Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben. A Critical Introduction (Stanford: Stanford University Press, 2009), 81-120, 200-246; Colby Dickinson & Adam Kotsko, Agamben’s Coming Philosophy. Finding a New Use for Theology (Londra-New York: Rowan & Littlefield, 2015), 1-11; Paul Hegarty, Giorgio Agamben, in From Agamben to Žižek. Contemporary Critical Theorists, a cura di J. Simons (Edimburgo: Edinburgh University Press, 2010), 14-28; Alison Ross (ed.), The Agamben Effect, in The South Atlantic Quarterly, num. spec., 107 (2007), 1: 1-13. Sugli orientamenti della biopolitica italiana in generale, cfr. Lorenzo Chiesa (ed.), Italian Thought Today. Bio-economy, Human Nature, Christianity (Londra-New York: Routledge, 2015), 77-84; Lorenzo Chiesa & Alberto Toscano (edd.), The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics (Melbourne: re.press, 2009), 1-10; Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Bologna: il Mulino, 2012), 167-222; Paul Virno & Michael Hardt (edd.), Radical Thought in Italy. A Potential Politics (Minneapolis: Minnesota University Press, 1996), 1-10. Utili al mio discorso sono stati poi, tra gli altri: Jon Savage, Teenage. The Creation of Youth 1875-1945 (Londra: Pimlico, 2007), 16-32, 131-196 (143-151 per la nozione di olocausto generazionale sui cui concludo il paragrafo precedente), e Lawrence Hill, Blood. A Biography of the Stuff of Life (Londra: Oneworld, 2014), 1-66, 196-252, grazie al quale elaboro l’idea di corpo stagno maschile (se versa sangue, lo fa virilmente, a cominciare dalle ferite ottenute nel gioco, da ragazzini, e destinate tanto all’invidia dei compagni che alle cure della madre – con tattica, quest’ultima, che mi suggerisce il collegamento, forse troppo sportivo, con Banti 2011: 79-82, e la didascalia al film muto Il piccolo garibaldino, 1909, «Mamma, guarda: son morto da soldato!», pronunciata al momento dell’esibizione della ferita letale ricevuta al costato).

8. Cit. risp. da: Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, a cura di R. Guerri (Udine: Gaspari, 2016), 85-175 (su Paolo Marconi v. pp. 163-167, in particolare p. 167, per la ripresa di d’Annunzio 2005: 21, che a sua volta riprende Lc., 6, 20-23, e Mt., 5, 1-12); e Ganapini 2008: 480-483, in part. p. 482 per la citazione dal racconto a fondo autobiografico di Giose Rimanelli, Il tiro al piccione, 1945 – ma cfr. anche la testimonianza di C. Mazzantini, nella stessa pagina: «Traversammo quei diciotto mesi di odio e di sangue con una gran cantata. Era tutta la nostra cultura, tutto ciò che avevamo imparato in quei vent’anni dentro i quali eravamo nati», e più in generale v. l’accusa di fratricidio che ricade dopo l’8 settembre ’43 sui giovanissimi ribelli (hanno voluto la guerra civile, benché senza l’ignavia di una Vecchia Italia malamente fascistizzata: commento che mi permette di chiudere il circolo vizioso lasciato in sospeso in incipit, dove dico che gli istigatori si defilano, ecc. ecc.). Invariabilmente prezioso a livello teorico Esposito, di cui qui riprendo, spazializzandola, la problematizzazione della distinzione bíos vs. zoé di Agamben – v. Esposito 2004: 185-215, e la prefazione all’edizione americana (Minneapolis: Minnesota University Press, 2008), vii-xlii, in partic. p. xl: «there can be no zoé that isn’t already bíos». Sul «sacro egoismo» del Paese alla altezza del ’14 (prima temporeggiatore neutrale, poi strategicamente interventista sotto Antonio Salandra, classe ’53, Presidente del Consiglio dopo la caduta di Giolitti; il sintagma con cui si apre questo periodo è suo) e sulla dichiarazione di guerra all’Austria nel maggio del ’15 (metterà in azione un ultramaturo ma militarmente inesperto comandante supremo: Luigi Cadorna, classe nientemeno ’50), cfr. tra gli altri G. Irving Root, Battles in the Alps. A History of the Italian Front of the First World War (Baltimore: PublishAmerica, 2008), 15-35. Sul nostos impossibile della generazione del ’15 (partita volontaria, chiede e cerca la morte dalla non-vita della sussistenza in trincea, pur di non contemplare il rientro, o passaggio nei ranghi della società civile come età adulta), v. inoltre Mondini 2014: 163-212, e Papadia 2013:155-194. Ma cfr. anche, per i richiami all’antropologia del combattente, versione fronte italiano, Vanda Wilcox, Morale and the Italian Army during the First World War (Cambridge: Cambridge University Press, 2016), in partic. pp. 1-17 per la tesi che in guerra si accetta l’annullamento di gruppo per solidarietà di gruppo, in una congiuntura di relazioni immediate e primarie venutesi a stabilire tra coetanei divenuti commilitoni. E v. poi, versione cult book spinto, Jack Donovan, The Way of Men (Milwaukee: Dissonant Hum, 2012), 1-64 (con motivo variamente ripreso: «Men have always had a role apart, and they still judge one another according to the demands of that role as a guardian in a small gang fighting for survival against encroaching doom», p. 15, per cui cfr. anche il passo di Gadda cit. alla n. 13) e 147-159.

9. Sulla gestione terminale delle persone e delle cose sotto Roma v. tra gli altri: Clifford Ando, Roman Social Imaginaries. Language and Thought in Contexts of Empire (Toronto: Toronto University Press, 2015), 3-27; Gianluca Desanctis, La logica del confine. Per un’antropologia dello spazio nel mondo romano (Roma: Carocci, 2015), 19-120; Anthony Kamm & Abigail Graham, The Romans. An Introduction (Londra-New York: Routledge, 2015), 1-65; Guy Lanoue, Rome Eternal. The City as Fatherland (Oxford: Legenda, 2015), 1-52; Susan P. Mattern, Rome and the Enemy. Imperial Strategy and the Principate (Berkeley-Los Angeles: California University Press, 1999), 1-122 – in contesto biopolitico non può ovviamente mancare un ulteriore richiamo alla Roma legislatrice delle (e sulle) origini discussa in Esposito 2014: vii-xviii, 3-16.

10. Conia il termine, in contesto psicanalitico, relativamente al solo Isacco, e collegandolo alla Grande Guerra, S. Giora Shoham, The Isaac Syndrome, in American Imago (1976) 33.4: 329-349 – nello stesso saggio v. inoltre in epigrafe la citazione da una delle variazioni sull’episodio biblico a firma di Søren Kierkegaard (Timore e tremore, 1843), brano e testo che hanno contribuito a farmi estendere il conio ad Abramo (non è straordinario, infatti, che manchi una sua sindrome?): «When Isaac again saw Abraham’s face it was changed, his glance was wild, his form was horror. He seized Isaac by the throat, threw him to the ground and said, “Stupid boy, dost thou then suppose that I am thy father? I am an idolator. Dost thou suppose that this is God’s bidding? No, it is my desire”» (p. 329). Sulla disattivazione perlomeno teorica del mondo com’è, cfr. invece due classici dell’utopia dell’inoperosità: Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa, trad. it. (Napoli: Cronopio, 2002, 19861); e Giorgio Agamben, La comunità che viene (Torino: Bollati Boringhieri, 2001, 19901).

11. Testo di Papini, da La vita non è sacra (1913), cit. in Isnenghi 1997: 98-99. Ebefobico è mio conio, ottenuto pensando a un’altra sindrome a direzione unica (ebefrenia, o dementia praecox, o psicosi adolescenziale, dal greco hebe = giovinezza; non hanno invece nome marcato da specializzazione prefissale comparabili manifestazioni schizofreniche della maggiore e/o tarda età). Ebefrenico, tengo a notare vista la tesi sostenuta sin qui, è vocabolo iperattivo nel Gadda satirico (riuscitissima, ad esempio, la combinazione mascellone ebefrenico riservata al duce, VM SGF I 595), dietro adozione di un termine emerso dalla psichiatria positiva nell’ultimo quarto dell’Ottocento (molto utile a questo riguardo Zublena 2013: 193-212). Gli tiene buona compagnia, quanto a occorrenze, e di nuovo non è un caso in tanto patriarcato, il termine isteria e isterica (da hustéra, utero, come il vittorianesimo torna entusiasticamente a predicare). Sulla coazione al discorso intergenerazionale, e sullo sfogo violento di fantasie di potenza di marca parentale in Pinocchio (1883), rimando a F.G. Pedriali, La farmacia degli incurabili. Da Collodi a Calvino (Ravenna: Longo, 2006), 11-19. Ma v. anche: Agamben 2001: 69-92; Giorgio Manganelli, Pinocchio. Un libro parallelo (Milano: Adelphi, 2002); Vittorio Spinazzola, Pinocchio & C. La grande narrativa italiana per ragazzi (Milano: il Saggiatore, 1997), 9-46 – non dimenticando in più di registrare l’utilizzo fascista della pinocchiata (e dice bene il curatore di una recente riedizione: chi da ragazzo di legno ha subito ed è sopravvissuto, facilmente si trasforma in randello per le teste dure della prossima generazione di dissidenti), cfr. Pinocchio in camicia nera. Quattro «pinocchiate» fasciste, a cura di Luciano Curreri (Cuneo: Nerosubianco, 2008), 115-135. Sul fronte negletto della storiografia della Grande Guerra, cfr. in partic. Nicola Labanca, The Italian Front, in The Cambridge History of the First World War, I, Global War, a cura di Jay M. Winter (Cambridge: Cambridge University Press, 2014), 266-296 – ma cfr. anche Stefano Ardito, Alpi di guerra, Alpi di pace. Luoghi, volti e storie della Grande Guerra sulle Alpi (Milano: Corbaccio, 2014), 9-23 (a p. 12 il commento, riportato, che del fronte italiano alla stampa internazionale interessasse soltanto lo straordinario scenario alpino, specie per il confronto con la monotonia delle fangose Fiandre: «le Dolomiti facevano notizia perché erano già note al turismo»); John MacDonald & Želiko Cimprić, Caporetto and the Isonzo Campaign. The Italian Front 1915-1918 (Barnsley: Pen & Sword Military, 2011), 1-20; Root 2008: 9-14; Mark Thompson, The White War. Life and Death on the Italian Front 1915-1919 (Londra: Faber & Faber, 2008), 1-14 (p. 11, per il commento sul rilancio dei morti necessario a compensare i pochi caduti del Risorgimento). V. inoltre Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (Torino: Einaudi, 1979), 230-232, per il passo, amarissimo, sul protonazismo di un’infanzia cresciuta nell’ombra lunga della Grande Guerra (è quanto invero rende possibile lo stato totale hitleriano: l’«oppressione di tutti ad opera di tutti», p. 230).

12. La guerra di Gadda è diventata oggetto di attenzione specifica a partire da quattro pubblicazioni chiave degli anni Novanta: Gadda 1991a, Ungarelli 1994a, Gorni 1995, e Roscioni 1997. Tra gli interventi recenti si vedano invece in part.: Carta 2010: 13-115, Daniele 2009, Gigante 2012, Marra 2012, Mileschi 2007a: 27-84, e Terzoli 2003; per un primo accenno di lettura agambeniana dei giornali di guerra, v. Carmello 2016. Davvero utile per comprendere la continuità della deriva dall’interventismo al(l’anti)fascismo risulta inoltre Savettieri 2009; ma v. pure Pedriali 2003 e 2013d. Punto di riferimento imprescindibile per lo stesso arco esperienziale è il monologo di Fabrizio Gifuni, L’ingegner Gadda va alla guerra, o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro, ora in Gifuni & Bertolucci 2012 – che ha portato anche al progetto e poi al volume Pedriali 2013a. Degli studi dedicati alla Grande Guerra citati in questo saggio si occupano di Gadda: Isnenghi 1997, in part. capp. 2-3; Mondini 2014: 66, 83, 142, 293-295, 297; Thompson 2008: 67-68, 151, 302-304, 309-310, 392-393; Wilcox 2016: 143. Sulla guerra del fratello minore Enrico (1896-1918), dalla cui corrispondenza con la madre Adele cito in epigrafe, v. invece Azzini 2014. Per la definizione della condizione di non vita in cui versa la vita al netto della partecipazione alla Storia, cfr. almeno Come lavoro (1949), SGF I 427-454 (427), e EP SGF II 219-220; per le ripercussioni a livello di articolazione del plot, o trama narrativa gestita dal non vivo, tra i miei altri interventi v. Pedriali 2013b e 2013c.

13. Da L’alpinismo, SGF I 977-1000 (1000) – qui con richiamo anticipato alla n. 8. Cfr. anche Rinaldo Rinaldi, La montagna scritta. Piccole storie del paesaggio alpino (Milano: Unicopli, 2000), 74-88, 97-109, a proposito dell’anacronismo della montagna per la generazione (e classe sociale) che partì volontaria nel ’15, avendo praticato il mito alpinistico (seleziona e prepara i puri) in forma di sport da adolescenti, il caso una volta di più di Gadda. Per cui tanto più merita il confronto col testo, poco noto, affetto da automatismi marziali introiettati sino a produrre la deformazione dell’accaduto, di una lettera scritta da Gadda alla madre, dal campo di prigionia, nel dicembre del ’18, a conflitto concluso: «Casse e vestiti e libri saranno ora sepolti nella neve, dove gli alpini non operano più; i cari libri della mia adolescenza sono scomparsi con lei, con la vita intera: il Carducci da te regalatomi, il testo che illuminò il mio primo studio, che rese felice il primo fiorire della mia mente; e i tre volumi delle Laudi, il prezioso dono di Enrico Ronchetti; e il trattato di Analisi Infinitesimale del Todhunter. Ma queste sono ancora sciocchezze e miserie: ho perduto la ragione di vivere, ho perduto i miei alpini, ho dovuto guastare le mie mitragliatrici, che spararono implacabilmente, con ferma misura. Rivedo ancora, rivedrò sempre, nel giorno e nella notte del Krasji, sotto la rabbia del fuoco nemico e della tormenta autunnale, i miei alpini ridere, parlar franchi, manifestare la certezza della resistenza, quella che sciaguratamente non fu nel cuore di tutti: avevano nel cuore la certezza da me creata con cura perenne, in ogni momento della vita comune, e i visi contraffatti dal gelo specchiavano i miei sentimenti, in loro trasfusi. Oh! Io non trascinai alla battaglia una masnada accozzata dal caso, ma vi condussi un reparto di soldati e di alpini, formato fin dal primo tirocinio nella guarnigione, sorvegliato con crescente sollecitudine, animo per animo noto a me come le cifre d’un calcolo, piegato uomo per uomo alla mia volontà» – cit. in Italia 2003d: 41-42. Per un confronto con la relazione asciuttamente tecnica presentata alla commissione militare che lo interroga su quegli stessi momenti, v. Ungarelli 1994a: 34-47; e v. inoltre, a ulteriore dimostrazione della consapevolezza della modestia del proprio ruolo militare, a dispetto dell’aspirazione alla gloria del fare tutto il proprio dovere, le ultime volontà comunicate a un amico di famiglia, nel ’16: «che l’annuncio della mia caduta, ecc. ecc. sia fatto nella forma più laconica e più seria possibile: cioè senza amplificazioni, né lodi, né parole come: “Patria, onore, fervente giovinezza, fiore degli anni, odiato nemico, fieri e addolorati, costernati ma fieri, triste o tragico annunzio, ecc. ecc.”. Mi raccomando soprattutto di non cadere nel ridicolo facendomi “guidare il mio plotone all’assalto”, mentre io comando una sezione di mitragliatrici, che somiglia, per il suo peso, a una batteria d’assedio»; preferibile, nel suo caso, la formula: «“Carlo Emilio Gadda – Sottotenente del 3º [sic] Regg.to Alpini – cadde nelle linee di combattimento”», cit. in Roscioni 1997: 129. Il puer che più non si muove riflette la battuta «No: non mi muovo» che chiude in apparente ultraironia la nota biografica apparsa per la prima volta sulla quarta di copertina del Pasticciaccio, in risposta alla domanda «“Che cosa fai tutto il giorno?” gli chiedono le persone indaffarate: “non ti muovi mai?”» (SGF II 872, 113). L’espressione ha peraltro origine seria, letterale, nel rovesciamento dell’eccesso di mobilità con cui Gadda a suo tempo aveva reagito al chiuso del campo di prigionia – tra le varie occorrenze, non limitate ai diari, v. «La violenza frenetica dell’immaginare mi porta all’eccitazione fisica della marcia forzata. I compagni mi fermano, mi annoiano: “dove vai? a che pensi?”, o mi dileggiano: “uno, due; uno, due”. “Penso al Sacramento”, è la risposta» (GGP SGF II 784), e v. inoltre Pedriali 2007a: 165-209. La «frase-ritratto» fatta circolare dal Pasticciaccio incuriosirà un ammiratore del calibro di Piero Chiara, il quale al difficile intervistato riesce a strappare un chiarimento essenziale: «“No: non mi muovo” significa: ho camminato quand’era il tempo, quando il cuore e le gambe reggevano. [...] Nell’aprile del 1916 “mi muovevo” sui ghiacciai dell’Adamello e nell’estate del 1917 tra le doline del Carso. C’è chi mi accusa d’immobilità, oggi, in rapporto agli ideali di oggi. Io mi son mosso per i “miei” ideali [...]. Del tutto immobile risulterò nel Duemila» – cit. in Roncoroni 2013: 23-24. Le rimanenti citazioni in corpo al mio penultimo paragrafo vengono da SGF I 1181-1182 e Gadda 1993b: 125, 267, 218 rispettivamente.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
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