Sulla parola del Pasticciaccio
Guido Guglielmi
ll primo capitolo del Pasticciaccio di Gadda si apre con la scena del pranzo nella casa di Liliana Balducci cui è invitato il commissario Ingravallo, e si chiude con l’episodio del furto dei gioielli compiuto ai danni della contessa Menegazzi. L’assassinio della Liliana Balducci occupa invece il secondo capitolo. C’è un doppio delitto. Quale la ragione di questo sdoppiamento? Il primo dei delitti è raccontato in chiave farsesca (un personaggio da farsa è la Menegazzi), il secondo in chiave tragica (Liliana Balducci è in tutto il romanzo una figura nobile), ma sempre con il contrappunto basso delle voci (della portinaia, dei casigliani, dei vicini, ecc.) che commentano il fatto o sono coinvolti nelle inchieste che seguono.
E qui, per comprendere la struttura del Pasticciaccio può servire un confronto con Il palazzo degli ori, la sceneggiatura tratta dal romanzo. Se nella sceneggiatura Gadda si propone – e più volte lo dichiara e segnala – di sollecitare la simpatia dello spettatore cinematografico per il mondo dei senza lavoro, ladri, prostitute, emarginati in genere, «per cui certe volte il reato è atto di santa ribellione», (1) completamente diversa è l’impostazione del romanzo. Autocitandosi nel Palazzo degli ori, Gadda nel presentare la figura della Zamira e la sua sartoria-laboratorio-bordello scrive: «Il “laboratorio”, che ospita cinque o sei belle ragazze per il lavoro giornaliero, è, anche per ciò, luogo che attrae. Nel romanzo questo fatto è spinto alle estreme conseguenze» (SVP 958). Nel romanzo cioè riceve la massima espansione. La sceneggiatura punta ad alimentare il suspense e la partecipazione emotiva del pubblico, come richiedeva la sua destinazione cinematografica, e secondo una vecchia aspirazione di Gadda. E che ci sia un plot ben delineato appartiene alla convenzione del giallo. Come appartiene alla convenzione del giallo che ci sia e si scopra un colpevole, almeno del giallo che aveva in mente Gadda. (Colpevole sarà la bellissima e psicopatica Virginia Troddu, che si ribella alla sua condizione di povera, seduce entrambi i coniugi Balducci, e alla fine uccide Liliana, per impossessarsi dei suoi gioielli e sognando di sposare un fantomatico industriale di Torino, identificabile col Balducci).
La poetica della sceneggiatura è intenzionalmente populista e neorealistica. E sono quindi volutamente enfatizzate le tinte fosche e romantico-sentimentali. Nel Pasticciaccio i due delitti costituiscono due poli del romanzo, quello comico e quello tragico. E sono due poli formali, dato che motivare la loro associazione e tenere saldamente i fili della narrazione non è più la preoccupazione eminente di Gadda. È un altro interesse – non di ordine empatico – che è richiesto al lettore. L’interesse che guida la lettura è per i registri della parola, per le intonazioni delle voci che sono, per così dire, l’ambiente, lo spazio di risonanza, dei due fattacci e di tutti gli eventi del romanzo. Gli eventi sono mediati dai discorsi che li raccontano. Ed è la parola in primo piano. Dal punto di vista sintattico – o della composizione – abbiamo una prevalenza del determinante sul determinato: del commento sull’azione o dell’aggettivo sul verbo. È invertito il rapporto tra l’elemento tematico e l’elemento circostanziale. Siamo in presenza di una degerarchizzazione delle funzioni del racconto Gadda persegue un effetto confusione. Per riprendere la parola della nota in margine al Racconto di ignoto italiano del novecento che recitava appunto: «mantenere omonimia per far crescere confusione».
Non ci sono invero omonimie nel Pasticciaccio, ma ci sono nomi, come quelli di Enea Retalli e Diomede Lanciani, che appartengono a personaggi che non figurano mai in prima persona, di cui siamo informati indirettamente (attraverso la parola della Ines Cionini e della Lavinia Mattonari) e che non è facile distinguere l’uno dall’altro. E si pensi al gusto di Gadda per le complicazioni genealogiche: alle intricate parentele di Liliana per esempio. È un altro modo per «far crescere confusione». Invece che giochi omonomici, abbiamo nomi di personaggi diversi che sembrano l’uno l’immagine speculare dell’altro. E il raddoppiamento rende incerte le identità. (Si tratta di un procedimento che potremmo già definire manieristico).
è evidente che Gadda non crea impedimenti alla narrazione, per creare suspense nel lettore, tanto meno per produrre una figura di investigatore (alla Poe o alla Connan Doyle), o una « ossedente immagine di giustiziere», secondo la battuta conclusiva del Palazzo degli ori cui corrisponde nel finale del Pasticciaccio l’espressione «il furore dell’ossesso» (RR II 276), ma cerca dilatazioni del racconto. C’è sì una continua sospensione della fabula, ma per dare spazio a espansioni collaterali della narrazione. Nel capitolo V abbiamo, per esempio, una serie straordinaria di descrizioni di don Corpi, prete gigante, confessore di Liliana mentre sta dando preziose informazioni (a Ingravallo e al dott. Fumi) sulle tante pupille e nipoti della donna. Ne citiamo l’ultima che cade nel momento più appassionante della deposizione del sacerdote (si sta parlando di Virginia):
due commissari attendevano: Ingravallo anzi all’impiedi, cupo, agitando nervosamente una gamba. I dieci ditoni del gigante si abbandonarono sul grembo, interzati, stretti l’uni all’artri: pettine e contropettine: quasi d’un apostolo de travertino, de quelli che stanno in piedi su la balaustrata, sopra ar cornicione de San Giovanni Laterano. Dieci chili de ossi de ditacci p’acciaccà le noci, in quella fossetta nera d’ ’a sottana: in dove scegnevano neri neri a correse dietro tutta la carovana de li bottoni da prete: che nun aveva né principio né fine, come il catalogo dei secoli. Le due scarpe in riposo, lustre, color beccamorto, non più di tutto il rimanente, d’altronde, priapavano fuori da la vesta che pareveno du affari proibbiti, bivaccavano per conto loro incontro a quell’artre der dottor Fumi, fin sotto a la greppia de le scartoffie, fra le quattro gamme der tavolo: con dentro, de certo, du pezzi de piedoni doppi de San Cristoforo de sasso. (RR II 134-35)
Le descrizioni-divagazioni di Gadda si accumulano secondo una tecnica di sviamento della linearità del racconto: siamo qui a un momento capitale delle indagini, di rivelazione della vita segreta – intima – della vittima. Ma l’intenzione della parola romanzesca va al di là del racconto. Il gioco parodico tra lingua letteraria, anche dotta o preziosa (priapavano), e il romanesco colpisce, attraverso la figura di un suo rappresentante, tutta una venerabile tradizione: tutto «il catalogo dei secoli». Siamo in presenza di un’epica grottesca che proietta il racconto in un’altra dimensione. Per Gadda, come si vede, risulta interessante non la parola funzionale, ma la libera, ed anche incongrua moltiplicazione di piani di significato, di riferimenti culturali e simbolici. Ancora un altro esempio. Il brano che citeremo molto parzialmente (la sua estensione è assolutamente antieconomica) si colloca in un altro momento cruciale e conclusivo dell’indagine. È il penultimo capitolo – il nono –, e stanno per essere trovati i gioielli rubati della contessa Menegazzi. Si tratterebbe quindi di una nervatura strutturale. È il brano famoso del passaggio del treno presso la casa cantoniera dove avverrà il ritrovamento:
Le galline, come ogni giorno, erano sopravvissute al dramma: da anni, oramai, le ex-alunne di Melpomene avevano sistemato in un rituale algolaghnico, teatralizzato in una «scena per turisti nordici», i più prevedibili e preventivati strappi del loro primo e giovenil errore, dello starnazzare e checchereccheccare per un nonnulla in un crescendo ebefrenico: e s’erano addate invece, di ragion poetica ben meditata, al silenzio e ai pallori vagotonici del misto. La loro iniziazione orfica, a poco a poco, s’era perfezionata a magistero: aveva raggiunto il climax di una sagacia pittorica, dimenticando i virtuosismi acustici della pubertà. Una semispenta o sonnecchiante e cionondimeno sempre disponibile e recuperata voluttà si ridestava in loro ogni giorno, con l’arrancar del misto e col fischio, alla consueta finzione: all’orgasmo artificioso della vittima che nessuno minaccia, allo zampettamento precipite e alla bersaglierata lungo la rotaia e la breccia, al tentativo di sollevamento (Delagrange volerà?), al simulato suicidio coi fanali addosso e concomitante deiezione d’un paio di bonbons, feffe-feffe trascorrendo. (RR II 222-23)
Lo starnazzare delle galline in vista di un merci, anzi del misto in arrivo, è occasione di un radotage in cui entrano spasticamente la musa della musica e della tragedia, un verso di Petrarca, la ragione orfica e poetica, un oscuro riferimento a Delagrange (il progettista di uno dei primi tentativi aviatori): il tutto come amplificazione epica di un’algolagnia e di un orgasmo (di gallina). È qui probabilmente la «maniera cretina» che Gadda si attribuisce nel Racconto italiano di ignoto del novecento, la maniera quinta, quella «fresca, puerile, mitica, omerica» in cui l’humour si apre al nonsense (SVP 396). Il lettore che volesse conoscere il seguito della storia, oramai giunta a un punto culminante, resta invece attratto e preso da una deriva di immagini. Il suspense (l’attesa della scoperta del colpevole) è sfruttato per dare modo alla scrittura di svilupparsi. E non importa quindi che l’attesa venga o non venga alla fine soddisfatta.
Si potrebbe parlare di una narrazione per la narrazione, di narrazione esondante il fatto narrato. Gadda si ferma sul dettaglio, al di fuori di ogni economia di mezzi, senza preoccuparsi della sua funzionalità, ed anzi facendosi beffe di essa. Ecco perché è difficile seguire la linea delle cose. Il lettore di Gadda si diverte a seguire, per così dire, le avventure di parole, non le avventure dei fatti. Questi ultimi sono pirandellianamente dei «sacchi vuoti» e non portano a nessuna conclusione. La digressione o la tecnica del differimento, diventa così un fatto strutturale della narrazione. La quale si divide in tanti segmenti, ognuno dei quali è congesto di particolari e insieme sommariamente collegato con i segmenti che precedono o seguono. Gli elementi portanti dell’azione non sono più che un canovaccio per una texture quanto mai ricca. La fabula è come occultata da una superfetazione linguistica.
Se c’è un modello classico di romanzo, quello che tocca il suo massimo sviluppo nell’Ottocento e che è costruito secondo un ordine funzionale, ha un principio, un mezzo, una fine, un altro modello è quello non classico, dei Rabelais, Cervantes, e Sterne, in cui il principio della causalità è molto tenue o non c’è affatto, e lascia il posto a quello della casualità. E allora abbiamo non un’arte di costruire plot, ma un’arte di narrare. E un humour è esercitato sulla linearità dei discorsi. Un poco come nella commedia dell’arte in primo piano sta la prestazione dell’attore, qui in primo piano sta la prestazione, il gestire verbale (i formalisti parlerebbero di skaz) dello scrittore che riprende e deforma le parlate altrui, e assume infatti tante maschere linguistiche. Scrivendo le lingue del mondo Gadda le investe della sua vis satirica, fa appunto in esse risuonare la propria voce. E questo è quello che egli ha teorizzato come uso spastico della parola.
Nella parola cioè si scontrano due accenti, quello di una delle lingue del romanzo, che può essere la lingua di una collettività (il romanesco nella fattispecie), di un personaggio, dei gerghi tecnici, della memoria letteraria; e quello dell’autore che non risuona in una propria lingua, ma si manifesta nella deformazione delle lingue altrui. La parola, detto altrimenti, patisce una lacerazione, uno spasmo, una contrazione di accenti. E qui forse – per estendere un poco il discorso a uno scrittore ammirato da Gadda – è la differenza rispetto alla parola di Céline. Gadda rivela una passione per il mondo, un interesse per gli aspetti delle cose, e quindi una complicità, un potente coinvolgimento, con e nel mondo, ma mantiene una distanza tra le lingue, scrive un romanzo della pluralità. Céline al contrario elabora la parola bassa seguendo la sua direzione, senza sdoppiarsi.
Gadda produce un effetto spastico perché non può più sottomettere (alla maniera dantesca) la molteplicità delle lingue, o potremmo dire degli aspetti del mondo, a un superiore criterio di valutazione o di verità, ma lascia che questo criterio si mantenga precario, instabile, problematico. Per cui egli può appunto dirsi un «dissociato noetico» – dissociato nelle tante lingue che assume e mima – e presentarci nella figura dell’investigatore, di Ingravallo, di colui che ricerca la verità, la propria autoparodia. E proprio in questo modo può darci il suo ritratto più veritiero. Che può essere anche un ritratto nobile, come quello di Gonzalo nella Cognizione del dolore. Solo che, anche in questo caso, si tratterà non di una maschera tragica, ma di una maschera di hidalgo, di un sublime donchisciottesco. Gadda che si nomina nel Pasticciaccio, alla fine del capitolo settimo, come Dante nel trentesimo canto del Purgatorio, non lo può fare invero se non in maniera grottesca, richiamando genealogie e paragoni comici, e sottolineando l’incertezza dei nomi (l’incertezza delle identità): «così accade, nei documenti della implacabile amministrazione di cui abbiamo e il piacere d’esser ministrati delle carte e dei bolli necessari a vivere, che il recupero di un Carlo Emilio da un precedente Paolo Maria, succeduto a sua volta al gran nome del morto di Canne, siarisarcito da un Gadòla: cui vien fatto, pertanto, di rifulgere nella esecrazione civica al posto di un Gadda» (RR II 185-86).
Come i nomi propri non sono assicurati (sono soggetti a corruzione) così non sono assicurate le identità. E non è assicurata l’autorità della parola d’autore, di una parola ordinatrice. Cèline scorona ogni dignità, fa parlare la verità del mondo in lingue o sottolingue destituite di ogni autorità. Al contrario Gadda guarda al mondo rappresentato da un altro spazio, ab exteriore, da una posizione di esteriorità: mantiene a sé un’autonomia, che vede però continuamente soverchiata, e resa inferma, dall’ontologia del mondo. Céline punta a una massima riduzione e abbassametto di sé. Egli si pone allo stesso livello degli altri personaggi, e lì esprime una propria figura, e si nomina (Ferdinand). Valorizza un’umanità nella materialità più infima e inventa un continuum verbale o sottoverbale, una lingua magmatica o in fusione. Gadda trasforma invece le lingue in maschere. E ha bisogno quindi di un livello linguistico più alto, di un livello appunto metalinguistico, di una differenza tra parola raffigurante e parola raffigurata. E solo attraverso questa differenza può liberare una espressività, cioè quella componente non razionale, corporeo-vitalistica che, come nei motti di spirito indagati da Freud, non può dichiararsi, se non indirettamente. La lingua di Gadda non è infatti, direbbe Bachtin, direttamente intenzionale. Essa contraffà lingue altre (altrui): che vengono così oggettivate – trattate metalinguisticamente – e rese convenzionali. Per altro quanto più la sua parola si mostra deresponsabilizzata da una volontà di significazione diretta, tanto più lascia affiorare significati e pulsioni oscure.
Il gioco di parole è sempre un rivelatore di questi contenuti nascosti. La proliferazione dei verba mette da parte le res, e fa affiorare l’oscuro. Per poter dire e per poter dirsi Gadda insomma sovraccarica l’artificio della scrittura. Egli ha bisogno della protezione di uno stile. E in qualche modo rovescia il sublime d’en bas di Flaubert. Ci dà il basso ma mediato dall’artificio della scrittura. Di qui la sua lontananza sia dalla radicalità di una lingua come quella di Céline, antecedente, per così dire, la distinzione di comico e tragico, sia dalla gioiosità del modello macaronico e carnevalesco-rabelaisiano E si dovrebbe piuttosto parlare di un carnevalesco interiorizzato, come accade del resto al carnevalesco moderno o romanticizzato che è appunto puramente letterario, non ha più un mondo – una cultura popolare e antagonistica – che gli corrisponda, e si traduce in studi, in esercizi di stile. Propria dell’hidalgo è la malinconia, quello stato cui si addice il motto di Bruno ricordato da Pirandello: «in tristitia hilaris, in hilaritate tristis». E l’ottimismo vitale, il piacere e la curiosità per il sensibile di Gadda, si congiunge infatti con una visione di degradazione del mondo e di perdita di ogni verità. Una visione luttuosa quindi, e tuttavia contraddetta dalla materia paziente che proprio in quel vuoto esprime la sua rivolta e chiede un’affermazione comica.
Gadda dunque espressionista. Ma di che tipo è suo espressionismo? Secondo una definizione generalissima, l’espressionismo corrisponde ad una volontà di rompere la lingua e la grammatica, avvertite come un elemento ritardante del pensiero. Attorno a questo problema, ricordiamo, si sviluppa tutta una riflessione primonovecentesca. Così Bergson condanna duramente la grammatica e la lingua, in quanto esse comprimono e rendono inautentico il pensiero. Ed anche Croce è, in maniera diversa, sulla stessa linea. Nell’espressionismo si esprime un odio della parola media, convenzionale, comunicativa. In una lettera del 31 gennaio 1913 a Giuseppe Prezzolini, inviandogli il manoscritto dei Frammenti lirici, Clemente Rebora parla espressamente di questa ostilità verso la convenzione della poesia. A chiarimento della sua poetica, scrive appunto: «ma è forse anche per odio alla poesia che ho poetato, o mi sono illuso di qualcosa di simile». (2) L’odio della poesia come ragione della poesia. È una dichiarazione di poetica espressionistica.
Ma l’espressionismo ha molte facce. Si tratta in tutti i casi di una pulsione semantica che spezza la cornice convenzionale della lingua. E Rebora è un poeta che fa violenza alla lingua, che scrive appunto in odio alla poesia sconvolgendone le forme. Ma prendiamo l’apertura di una prosa lirica, Coro a bocca chiusa. Il riferimento, come in tutte le altre prose liriche è naturalmente a un’esperienza della guerra vissuta in prima persona: «Afasia infusa d’occhio nemico che punta a due passi. La cosa cade recisa dal tempo: così tutto accade. Ma inseparabile male è dal vischio del corpo la sofferenza precisa. Non arde, e calcina le gambe: non fonde ma cola alle braccia e demenza alla faccia rimane – infusa d’occhio nemico che punta a due passi». (3) è un testo cifrato ed ellittico, in cui riconosciamo frasi ritmiche e misure canoniche (endecasillabi e novenari) ma appunto distese in prosa. Rebora evoca un trauma bellico, un’esperienza di choc, per definizione incomunicabile, e lo fa in una lingua che non può essere quella della comunicazione che lo razionalizzerebbe (e lo perderebbe). Così un nucleo espressivo informale, che ha nell’oscurità la sua verità, prova ad articolarsi e sillabarsi: a darsi una lingua. E parliamo di espressionismo. Come parliamo di espressionismo per i futuristi o i poeti trasmentali. O per Gadda. Ma il filone espressionista è ricco; e – lo ha spiegato Contini – lo si ritrova lungo tutta la nostra tradizione letteraria, e nella letteratura europea. Non sarà inutile quindi operare delle distinzioni, guardare ai suoi modi di realizzazione.
Contini ha parlato di funzione Gadda nella letteratura italiana. E ne ha tracciato la storia. Ma – ripetiamo la domanda – di che tipo è l’espressionismo di Gadda? L’odio per la lingua convenzionale è sicuramente un suo tratto costitutivo. Com’è un tratto costitutivo (fondativo) dello sperimentalismo in generale. Ma in Gadda come in Joyce quest’odio non porta affatto a un rifiuto della letteratura. Tanto Gadda che Joyce sono iperletterari. Gadda abbraccia tutto lo spettro della lingua, non rifiuta, sappiamo, né arcaismi né neologismi, vuole i doppioni e i sinonimi, è interessato ai dialetti, e a tutti i registri, alti e bassi, di parola. C’ è una parola espressionista in cui è distrutto sia il soggetto – l’io psicologico – che l’oggetto come correlativo mondano; ed in cui si esprime il rapporto di soggetto ed oggetto, al di fuori della mediazione sociale (convenzionale) della lingua. E di questo tipo è l’espressionismo, etico, di Rebora o di un Boine. Tanto Rebora che Boine – e in genere tutto l’espressionismo primo-novecentesco – risponde a un’esigenza etica, di messa in questione e di verificazione di sé, di fare del poetare un medium di conoscenza e di autoconoscenza per un progetto di vita che va al di là della letteratura. È un espressionismo transletterario. Di tutt’altra specie è l’espressionismo di Gadda, il quale se mai vuole fare della letteratura un mezzo per riscattare la sua condizione di «umiliato ed offeso». Gadda insomma scrive delle pagine d’arte (un po’ come i minori Dossi o Faldella). E negli anni della prosa d’arte la sua sarà ancora una prosa d’arte, ma con un’intenzione non di creare uno stile comune, un canone, una regola di buon gusto bletterario, ma di mettere in crisi ogni buona regola classicistica o tolemaica, e appunto di gettare uno sguardo altro sulla normale superficie delle cose.
L’atteggiamento di Gadda è critico verso le rappresentazioni comuni o le lingue del mondo. Ma sono poi esse l’oggetto della sua scrittura. Si potrebbe dire che sono esse, in qualche modo, i suoi personaggi. Per questo non troveremo in lui sapienza di intrecci, di legami logici tra eventi narrativi. Non per nulla Gadda ha scritto in fondo un solo romanzo: il Pasticciaccio, e in questo l’intreccio, abbiamo visto, ha una funzione secondaria. La razionalità del mondo è per Gadda troppo fragile per consentire una coerenza del racconto. La via di accesso al reale sarà data allora dai discorsi che il mondo tiene su se stesso. E i titolari della parola saranno, sappiamo, tutti gli strati sociali, e per stare al Pasticciaccio borghesi, poliziotti, ruffiane, prostitute ecc. Anche dove appare una lingua media, questa è alla pari delle altre lingue o dialetti, e non ha quindi nessuna centralità, tanto che è difficile parlare di scarti, in senso spitzeriano, rispetto a una norma linguistica. Lo stile medio – in senso lato manzoniano – è una delle tante modalità della parola che Gadda costruisce, al pari delle altre modalità, e rappresenta (mette in scena). Quante più parlate assume, tanto meno Gadda è portato a conferire ad una di esse uno statuto di verità. Egli rifiuta il concetto di norma. L’insieme degli scarti, o meglio degli slittamenti, da un livello all’altro, e da una tonalità all’altra, fanno la lingua di Gadda.
Nel Pasticciaccio ogni mondo si autorappresenta nella sua lingua. Tanto che si potrebbe parlare, usando categorie di Aristotele, di dramma piuttosto che di epica. Senonchè il dramma è trasposto nella narrazione, e la trasposizione produce un effetto distanziante ed ironico. L’immediatezza della parola del personaggio è mostrata, esposta, data in spettacolo, offerta, attraverso una lente deformante. Non è tanto la sua intenzione semantica che interessa Gadda, quanto la circoscrizione di un punto di vista. L’immediatezza è mediata da uno sguardo esterno. Questo era invero già un effetto naturalistico. La scrittura naturalistica è infatti ironica. Ma Gadda è antinaturalista. Egli non persegue l’ideale di una reductio ad unum dei nessi del reale, ma tende alla loro problematica moltiplicazione, tende insomma a una narrazione confusa. Tutte le parole di cui s’intesse la comunicazione sociale sono per Gadda rivelatrici di chi le assume, ma non del mondo su cui vertono. Anche la parola dell’autore, a cui i naturalisti volevano dare uno statuto di verità sul modello delle scienze naturali, soffre della medesima relatività delle altre parole. E non può allora esserci una lingua della rappresentazione, quella lingua che non manca mai nel romanzo classico, e rispetto alla quale si collocano e acquistano peso o prendono importanza tutte le parole del romanzo. Il mondo per Gadda è eracliteo, e non se ne può quindi fermare un significato. Gli si possono solo dare assetti provvisori, demolendo l’apparenza con cui si presenta: e cioè la normalità e la normatività delle lingue o delle parlate. Potremmo allora dire che il romanzo gaddiano è un romanzo della contraddizione delle lingue: ogni lingua contesta l’altra. Nessuna di esse è direttamente intenzionale, nessuna dice l’oggetto del discorso, il quale si allontana sullo sfondo ed è lasciato in sospeso. Abbiamo quindi con Gadda il fenomeno di una figura d’autore che smaschera la parzialità della parola altrui, l’attacca con i suoi acidi, la tratta spasticamente, ma non rivendica a sé nessun privilegio di historicus, e non ha una propria lingua. O ha una lingua che vive della pluralità delle lingue e si nasconde nella loro polifonia.
Bachtin – ricordiamo – ha definito polifonico, nella sua forma più radicale, il romanzo in cui autore e personaggio entrano in contatto l’uno con l’altro. L’autore allora non parla e discute del personaggio, ma parla e discute col personaggio. Egli dialogizza la propria parola. E questo sembra essere il caso di Gadda che abbiamo detto sempre a distanza dai suoi personaggi, ed anche da se stesso, ma sempre anche sprofondato in se stesso e nelle materie del mondo. Il problema della sua parola è che se essa da una parte riarticola parole altrui, e suona altra, non propria (artificiale) anche quando lo stile è medio o si avvicina a uno stile medio, dall’altra fa risuonare la voce dell’autore, è segnata della sua prepotente presenza di locutore. Gadda ci dà (nelle sue acrobazie o clownerie stilistiche) una doppia pronuncia o una pronuncia sdoppiata della stessa parola: ci dà un contrappunto di tonalità dissonanti, e fino allo stridere (allo spasmo) di tonalità alta – meditativa o lirico-meditativa – e tonalità dialettale e plebea. Il significato della sua dissociazione noetica sta appunto in questo: nella simultaneità perversa di tonalità antitetiche. E giustamente Sandro Maxia ha parlato di una sorta di ventriloquismo di Gadda. (4) Inutilmente si troverebbe in lui una pronuncia autentica, naturale, uno stile planus, perché ciò che si chiama identità (non è necessario ricordare la satira di Gadda contro l’io) non è altro che una sintesi di istanze discordanti, ed è questa sintesi che Gadda vuole fare esplodere per riattingere appunto la pluralità di voci che si occulta nell’unica parola convenzionale (sociale).
Potremmo dire che Gadda ripercorre a ritroso il processo di formazione del linguaggio, e riattiva il fondo dialettale, popolare, idiomatico, storico di ogni parola senza perdere nessuno stadio del suo sviluppo (gli arcaismi letterari gli interesseranno come i dialettismi). Ed egli non mira ad accordare i diversi registri di voce, magari in una prospettiva utopica, ma li fa dissuonare. Di qui l’effetto appunto grottesco. Gadda non si serve della polifonia (al modo di Dostoevskji che tuttavia egli anteponeva a Tolstoj) per dibattere ragioni – mondi ideologici – inconciliate e destinate a restare inconciliate, e che tuttavia si ripercuotono l’una nell’altra, sentono bachtinianamente l’una la vicinanza dell’altra, e ampliano smisuratamente lo spazio del discorso, il concertato delle voci. A Gadda non interessa un significato ultimo del mondo che potrebbe solo essere il caos, la morte di ogni significato, l’ultima «decombinazione dei possibili». È con le lingue del mondo che egli dialoga; e contro di esse si accanisce. La verità invece è irrapresentabile (come è irrapresentabile la morte di Liliana). Per cui potremmo anche dire che la direzione del suo discorso non è semantica, ma manieristica. Manieristica definiamo una parola che si realizza come contraffazione di altre parole.
Il grande manierismo cinquecentesco riprendeva e alterava i grandi modelli, quelli classici, verisimili, conformi a natura, e introduceva appunto una maniera. Esso rifiutava il principio della mimesi e esasperava le forme. Era platonizzante e antiaristotelico. Gadda è antinaturalista, e sviluppa un pensiero critico (in senso largamente kantiano), che diffida di ogni sostanza o di ogni cosa in sè. Ciò che per i manieristi erano i modelli classici, per Gadda sono i modelli realistici e naturalistici. Egli irride ogni parola sicura del proprio significato, e si abbandona appunto a una escursione nei dialetti, nelle parlate basse, che guardano al mondo da una prospettiva diversa, e danno un altro nome alla cose, sconvolgendo gli ordini del discorso o dei discorsi. Parodia e stilizzazione investono ogni parola. e non è risparmiata l’immagine d’autore (Ingravallo o Gonzalo). Le lingue particolari vengono da lui usufruite per rompere la monolingua della verità. E ad essa egli reagisce, risponde, deformandola. In nessuna lingua l’autore si riconosce. (Anche sulle tonalità alte della parola cade – direbbe Bachtin – un’ombra di oggettività). Occorre però aggiungere che non una comunicazione tra mondi diversi si instaura, ma una paralisi della comunicazione. I diversi mondi linguistici restano non accessibili gli uni agli altri: un po’ come le monadi leibniziane, essi non hanno porte e finestre (ma senza essere dei punti di vista sulla totalità). Quanto più discordante e instabile è l’io dell’enunciazione, tanto più inemendabili sono i mondi descritti.
C’è grande polifonia, ma è una polifonia congelata. E la malinconia di Gadda è appunto quella del manierista che può solo applicare il suo furore formale all’oggetto, e violentare la mimesi. Ma (torniamo a insistere su questo punto) è una malinconia che mentre nega l’oggetto, nello stesso tempo lo recupera. È l’altro lato della sua parola romanzesca. Attraverso manierismi, citazioni e semicitazioni di lingue altre, discontinuità tonali e distorsioni linguistiche, Gadda si riprende quello che non potrebbe dire in una lingua mediana ed affermativa. Perché, se egli non si riconosce in nessun universo di discorso, paradossalmente si rispecchia in ognuno di essi, siano essi basso-popolari o sublimi. Ed ovviamente si tratta, di uno specchio infranto, di frantumi di mondi, così come plurimo e discorde è l’io. Gadda insomma si esprime attraverso il no (Verneinung). Attraverso la negazione (il negativismo della scrittura) dà libero corso a ciò che altrimenti non avrebbe parola. Negando la propria identità, l’identità di un io «palo», di in io «cavicchio», districando il groviglio dell’io, si riappropria dei frantumi della propria realtà, di una parola morcelée, insieme corporale e sublime, dà espressione a una vitalità tanto più potente quanto più repressa, abbandonandosi a una scrittura rapsodica, a una specie appunto di radotage narrativo. Il suo segno manieristico concede tante più libertà quanto più è artificiale e elaborato. La retorica difficilis dello stile, conviene insistervi, è la condizione dell’espressione disinibita, più liberata. Freud direbbe che agisce come piacere preliminare – piacere estetico – di una jouissance più profonda.
Al principio dell’operazione gaddiana sta dunque un piacere della retorica, che è un piacere che passa attraverso il raro, il difforme, le sorprese del’ingenium. Non l’odio della letteratura quindi, ma un amore dell’arte della parola, della parola ardua. E questa è una differenza capitale rispetto all’espressionismo primonovecentesco, a prescindere dalle differenze non meno capitali di genere. (Il genere narrativo è estraneo, a parte Tozzi, alle poetiche dell’espressionismo primonoventesco.) E per questo parliamo per Gadda di manierismo, forse più propriamente che di barocco (che ha una componente emozionale, non intellettualizzata, e di stupore). E basta ritornare al brano di Rebora per cogliere immediatamente e toccare con mano la differenza. Rebora che confessava a Boine in data 29 luglio 1914 di considerare le lettere come una «sottospecie della lirica», e che gli capitava di spedirle anche senza recapito, subiva la coazione di un nucleo espressivo intollerante dei vincoli del lessico e della grammatica convenzionale. La sua lingua composita, mescolata, dinamica, è mossa da un’intenzione di radicale autochiarimento, da una prepotente volontà semantica. E dunque capiamo il suo «odio della poesia».
Al contrario in Gadda troviamo una prepotente volontà artistica, un’esasperazione, una metastasi dell’elemento formale. Gadda ha bisogno di un più di forma, per liberare le sue phantasiai (metapsicologiche), per sviluppare il suo fescennino, lo humour del suo radotage. Il suo odio per la parola unica si traduce nella moltiplicazione delle parole, in una passione o delirio verbale, in un piacere del groviglio formale. Questo momento artistico o estetico è fondamentale in Gadda. Ed esso tanto più è evidente se consideriamo la scrittura, questa volta romanzesca, di un autore di una generazione assai posteriore alla sua, di diversa cultura, e di altro rilievo, ma di straordinario interesse. Intendiamo il Fenoglio del Partigiano Johnny. Fenoglio mescida le lingue (l’italiano e l’inglese), sia lessicalmente sia sintatticamente, e dunque costituisce una maccheronea. Ma egli mira proprio alla parola unica che Gadda irride; vuole metterci fenomenologicamente in presenza delle cose. Le cose si sottraggono. E Fenoglio mescola gli ordini linguistici, aggredisce le lingue, scontrandosi con l’impossibilità di trascenderle, mentre persegue una presa diretta sul reale. Ecco un brano del romanzo. (Il soggetto è Johnny che passa la prima notte in un rifugio di partigiani):
La tenebra era sinistra, la romba del vento sinistra, come scoperchiante il buio rifugio ad una lampeggiante irruzione di vista illuminata sentenza e di facilitata strage per giustizia, la tenebra ed il vento contenevano e convogliavano un ugual carico di agguato e di rischio attimically prior to just seen death. L’abbandonato sonno degli altri, non lo rassicurava, anzi era come il collasso davanti all’insostenibile show del pericolo, erano altrettanti cadaveri in attesa del protocollare colpo di grazia. Sperò che la spossatezza, quanto legittima e neghittosa, una tale spossatezza da annientarlo negli arti e nel cervello, l’avesse vinta, vinta fino all’alto mattino. Ma la spossatezza, annunciata da tanti araldi, non scese schierata in campo, e Johnny si alzò, incespicando orribilmente, avanzò all’ombra della porta, rough and tenacious in denegating egression. (5)
Mescolanza delle lingue, costruzioni all’inglese, determinante che precede il determinato, contorsioni verbali, violenza metaforica, sono qui altrettanti fenomeni espressionistici. Potremmo parlare di monstrum linguistico («lampeggiante irruzione di vista illuminata sentenza», «attimically»). Ma non c’è pastiche. Il racconto è condotto in terza persona, ma come invenzione autobografica. Ed è un racconto d’azione, di una grande gesta. Un racconto epico quindi. E tuttavia il narratore non segue affatto convenzioni epiche: egli si costruisce un idioletto. Avremo quindi una soluzione lirica: lirico-epica o lirico narrativa. L’io narrante si proietta nell’io narrato. E quest’ultimo prende la forma di una terza persona. Compare un nome proprio: Johnny. È un procedimento che possiamo dire neoromantico. Come sarà anche in Una questione privata.
Lo stesso può accadere al Gadda che si proietta in un personaggio. Ma in Gadda l’io narrante è lucido, autoironico, intellettuale. È un’immagine deformata, mediata, comica di se stesso che l’autore produce. Non così in Fenoglio. Il quale punta a una sovralingua. Scioglie e distende in racconto un’urgenza espressiva, una ancora inarticolata volontà di dire, che rifugge dalla lingua sociale o convenzionale, italiano o inglese che sia. E non esita a violare i confini tra le lingue. Dietro l’agrammaticalità della lingua di Fenoglio, sta la singolarità, l’alterezza-alterità, e quindi la solitudine di un io che si desolidarizza dagli altri mentre partecipa ad un’azione comune, che vive nella vicinanza massima con gli altri la propria differenza assoluta (la propria lontananza). Su questa solitudine ha insistito Gian Luigi Beccarla nel più bel libro scritto sul Partigiano Johnny. (6) Beccarla la legge invero epicamente, secondo il modello dei grandi miti (di Omero o della Bibbia). E certo la scrittura di Fenoglio è violentemente mistilingue, ma a dominante monologica. È però l’aspetto impartecipabile, non fungibile, non sociale, non convenzionale, o per dirla con una sola parola esistenziale, dell’io che Fenoglio vuole affermare, prima che esprimere. E sta proprio qui il suo espressionismo. Ed ecco allora una opposizione tra due varietà nettamente distinte e addirittura opposte dell’espressionismo: l’una intellettualizzata e grandiosamente manieristica, l’altra etica e lirico-narrativa (Segre 1991: 38). Dove Gadda scopre le lingue della realtà, le lingue dell’oralità e della scrittura, popolari e letterarie e rivela la sua iniziativa di grande fabbro nel parodiarle, contraffarle, distorcerle; Fenoglio esprime, produce un’invenzione di sé, proietta fuori di sè un personaggio o un doppio, al quale affida sia il proprio punto di vista che la sua lingua, contaminando prima e terza persona. O tendendo a neutralizzare la loro differenza. Gadda recupera la realtà attraverso la negazione; Fenoglio l’afferma direttamente, ma attraverso l’esperienza unica che l’io ne fa, in una lingua d’invenzione e autocomunicativa.
Università di BolognaNote
1. Per una lettura puntuale del testo gaddiano rimandiamo alla nota filologico-critica di Alba Andreini in Gadda 1983b: 103-10.
2. C. Rebora, Lettere (1893-1930), a cura di M. Marchione. Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 1976.
3. C. Rebora, Le poesie 1913-1957, a cura di G. Mussini e G. Scheiwiller. Milano: Garzanti, 1988.
4. S. Maxia, Deformare e occultare, in Moderna 1 (1999): 122.
5. B. Fenoglio, Romanzi e racconti, a cura di D. Isella (Torino: Einaudi, 1992), 483.
6. G.L. Beccarla, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica in Beppe Fenoglio (Milano: Serra e Riva Editori, 1984).
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