Barocco moderno:
Carlo Emilio Gadda e Roberto Longhi

Ezio Raimondi
Lecture of May 29

Avevamo visto ieri il rapporto e la profonda differenza tra Longhi e Gadda, la cui narrazione sovverte tutti i parametri, non è più a distanza, entra dentro le cose, addirittura assume l’occhio dell’animale. E qui bisognerebbe fare anche altre osservazioni vedendo in questo curioso movimento di raccordo con la letteratura contemporanea di che cosa Gadda poteva essere in debito nei riguardi di un D’Annunzio, il quale a modo suo aveva tentato di rappresentare la realtà anche attraverso un occhio non umano. Però l’occhio gaddiano è un occhio satirico-conoscitivo, profondamente diverso da ciò che D’Annunzio poteva avere proposto.

Ma adesso voglio tornare ad alcune note e poi ad alcune battute del testo principale. Si è già detto ieri come le note nel testo gaddiano in genere e ne L’Adalgisa in particolare ne facciano parte come seconda voce, come dialogato interno al narrato, a detta voce narrante. La nota in questione è una battuta vivissima dove Gadda parla già, in anticipo sulla Cognizione del dolore, del suo barocchismo, lo accetta e nello stesso tempo lo distanzia. Infatti si tratta sempre di un Barocco riflesso, rimeditato, profondamente trasformato:

«Uscito il sole dalla Vergine ed entràtogli il Pesce». Non è guari la Vergine, se tuttavia sono i Pesci, costellazione equinoziale di primavera: amando appunto il detto equinozio trastullarsi tra gli ittidi e il barbabucco: tutti i gusti son gusti. (I ritagli di tempo, RR I 422)

Ha fatto una prima battuta, si diverte a fare dell’enciclopedismo, denso dal di dentro; poi si autocommenta, diventa quasi una terza voce dentro la nota:

Il passo addimostra (se ve ne fosse bisogno!) la ben nota leggerezza dell’autore in materia zodiacale, il suo «barocchismo» e il vitando «macaronismo» del suo spirito cialtronico. E tenta invano l’autore per giustificarsi, adducendo aver egli attribuito l’immaginativa all’ossessione de’ duo gatti – meno informati ancora di lui circa i diportamenti del sole in relazione a’ disegni dello zodiaco – di veder resuscitato il maledetto dentone del cane lupo del marchese.

Specie di dialogo di Gadda con il Barocco che indica la complessità del suo rapporto con una certa tradizione. Ora una nota che riguarda Leibniz. Siamo nell’ultimo capitolo o disegno, se così vogliamo dire, de L’Adalgisa. Cita esattamente Leibniz e lo cita nella nota, nell’originale francese:

«Les petites perceptions» nella psicologia di Leibniz, (Nouveaux Essais sur l’Entendement Humain), sono incrementi infinitesimi nella vita dell’essere individuo. (L’Adalgisa, RR I 559)

Ho già detto dell’importanza di Leibniz nel mondo gaddiano e indicato tutta una serie di studi in cui Leibniz è posto in rapporto con la grande cultura barocca, anzi come il segno più straordinario del tentativo di una sintesi barocca. Il discorso leibniziano porta Gadda, assieme con altri elementi più moderni, all’idea della realtà come complessità, come realtà infinita, da cui poi la difficoltà di raccontare, la difficoltà di costruire. Avevamo visto la sorta di equivalenza stabilita da Gadda tra costruzione e invenzione, secondo cui l’una vuol dire anche l’altra. Qui torna fuori in modo molto esplicito il discorso di Leibniz, ma proprio perché apperceptions significa che dal mondo esterno si va verso il mondo interno, verso una nuova forma di:

incrementi infinitesimi dell’essere individuo, causali inavvertite della scelta.

Le piccole percezioni sono i fatti inavvertiti. Un giorno si dirà che all’inconscio da cui emergono le decisioni della vita morale e alle perceptions possono corrispondere poi le apperceptions, che invece sono un momento di riflessione sulle percezioni, quindi si direbbe di coscienza. E qui Gadda ha detto che sono le causali – causali inavvertite di cui non ci rendiamo conto e che tuttavia sono alla base della vita morale:

come «la [fonction] différencielle» è l’incremento infinitesimo della funzione algebrica.


Il paradigma morale, nelle sue ombre, nei suoi fondi oscuri, è stabilito nel rapporto con il mondo della matematica. Talora questa designazione quantitativa, meccanistica, di perceptions è apparentemente banale, sembra alludere ai motivi e agli impulsi dell’inconscio gaddiano. Ma ecco che Gadda porta Leibniz fino alla teoria dell’inconscio moderno:

In tale impiego noi dobbiamo accettarla come un simbolo idiomatico inadeguato (sei-settecentesco), dall’esplicita e divulgativa dialessi di un mondo razionaleggiante adibito a voler rappresentare fenomeni e fatti che soltanto una dialessi futura, se non un’esperienza e una coscienza future, (Dostoiewski, Proust, Freud) sarebbe un giorno pervenuta a descrivere, a catalogare.

Lasciando adesso stare un’analisi minuta del testo: dall’idea leibniziana sortisce una forma di pensiero e di analisi che un giorno diventa, nella letteratura o nella scienza o nella parascienza moderna, la prospettiva di Dostoevskij, di Proust, di Freud. Gadda così dà come conseguenza moderna di quella che è l’origine del suo modo di raccontare e soprattutto di interpretare la vita interna e oscura dell’uomo, il mondo delle causali inavvertite. È evidente poi che il narratore, per quanto può, non avendo mai la certezza di aver stabilito una rete completa, debba tentare di portare le causali da inavvertite ad avvertite e le renda, per così dire, esplicite. In linguaggio leibniziano, il narratore dalle petites perceptions deve cioè in qualche modo ricavare le apperceptions, il momento di coscienza, di riflessione, di chiarezza, di ciò che è oscuro in quella specie di posto lontano, nel fondo dell’essere.

è da supporre che il meccanismo profondo della evoluzione biologica (Goethe, Darwin, antesignani ed epigoni) e il suo segreto gioco si avvalgano, al loro progredire, di una misteriosa dinamica dell’inconscio o almeno dell’inavvertito (anche nella costruzione delle zone logiche superiori), prima che dei termini ufficiali della conoscenza, per es. degli enunciati di un’etica di superficie, e comunque esterna alle medulle e alle trippe.

Gadda non può fermarsi ad un tono solo proprio perché c’è questa continua dialogicità, questa sorta di enciclopedismo, di falso guazzabuglio governato da certe ragioni esplicative. Anche quando ha cominciato una nota così rigorosa, così piena di conseguenze logiche e storiografiche, ha alla fine il sussulto di un linguaggio che si rovescia e ne vengono fuori non tanto le midolla, quanto le medulle e le trippe.

Sono i fatti minimi, i richiami infinitesimi della necessità, le sottili elezioni dell’«istinto», le esperienze interne e talora incerte ed oscure, i battiti pazienti del coraggio senza parola, gli impulsi non confessati ad uomo, circonfluiti dalla verità buia dell’essere.

Gadda torna a scendere in un mondo di cose drammatiche e piene. Le sottili elezioni dell’istinto: Gadda è uno scrittore che ha sempre avuto fiducia nell’essere umano, sente fortissima l’attrazione della giovinezza come luogo dell’istinto, con le sue elezioni. I battiti pazienti del coraggio senza parola. Qui si sente, per usare un termine tradizionale, la pietà dell’uomo; il coraggio con cui si fa fronte alle cose, agli squilibri, alle durezze, e non si dice nulla: è la pietà. Lo scrittore trova allora la parola per questo coraggio senza parola.

Gli impulsi non confessati ad uomo sono le spinte, le pulsioni, quello che c’è anche di non nobile in noi, il sospetto che proviamo nei nostri riguardi, i sentimenti di colpa, i desideri, le crudeltà e malvagità, quello che non diciamo a nessuno, circonfluito e circondato dalla verità buia dell’essere. Nel profondo c’è un qualche vero, ma vale poi la pena di conoscere questo vero buio che è come un abisso? Lo scrittore scenderà nell’abisso dell’uomo, alle sue radici, le quali potrebbero anche essere, quando sono dominate dal male, radici fradice.

In Gadda non ci sono soltanto i grandi spagnoli ma anche Shakespeare, continuamente richiamato quest’ultimo per via di Amleto, da una parte, e Lear dall’altra. Ed è per questa linea che viene fuori Manzoni, fuori da certe prospettive letterarie: perché in Manzoni ci sono due personaggi che Gadda riassume dentro di sé – Don Abbondio da un lato, che è come dire l’involgarimento della vena donchisciottesca, e dall’altro l’Innominato, che è viceversa la linea shakespeariana:

non già e non sempre i fatti magni e memorandi de’ magnanimi Atridi, di che Clio pascola, e ci razzola Erato. Sono quelli veduti da Dio, e da Dio solo, per cui la tremante persona respinge il suggerimento della bassezza, affronta il cammino del Golgota: anche se nessuno vede, quando nessuno vede. «Le jour de la gloire» arriva così, per la carne e per l’anima, al di là e al di fuori delle trombe. (RR I 559-60)

è una nota di grande forza che muove in molte direzioni. Gadda sta dicendo che non ci sono solo gli eroi nel mondo della storia e nel mondo tragico, bisogna che ci sia anche quest’altra realtà. Qui lo scrittore satirico e lo scrittore antinapoleonico, che abbiamo già sentito, vogliono andare a misurare il buio dell’essere e gli uomini per ciò che sono nel loro silenzio:

L’io inconscio si sottrae benanco, talora, al canone e agli schemi educativi o corruttivi del luogo e del tempo, cioè dell’ambiente (franc. milieu) alle retoriche varie, per es. scolastiche o familiari, o sociali, quando esse tendono ad avvilupparlo della loro frode verbosa o a sorreggerlo del loro viatico inutile, per fiori e con mezzi che non riguardano le urgenze della vita. (RR I 560)

L’uomo è una supercostruzione su questo nucleo profondo, è un sistema culturale che avvolge un dato di natura. La sovrastruttura è un sistema di parole che spesso falsificano ciò che è dentro. Gadda parla infatti di frode verbosa, la parola come falsificazione. Gadda ha l’ossessione della parola come menzogna. Questo scrittore che altera di continuo le parole, che si diverte a giocarle, che le strombazza in tutti i modi concepibili, ha alla fin fine l’idea di una verità pura, che è quella dell’uomo in rapporto con un altro uomo. La frode è un desiderio di malizia sugli altri.

Tra gli scrittori che hanno avuto altrettanto intensamente questa prospettiva c’è sicuramente George Orwell. Anche in Orwell c’è l’idea continua della parola come menzogna. I satirici hanno questa sorta di paradosso, manovrano di continuo le parole, le fanno diventare come dei grandi bambocci, se non dei grandi mostri, ma poi hanno contemporaneamente l’istinto, la necessità della parola semplice come luogo del vero. Quindi hanno da una parte l’idea che la parola è il carnevale della frode e poi sognano invece la parola restituita alla sua semplicità. Dall’altra ci sono le urgenze della vita, il mondo del vitale, la natura, la forza, il flusso delle cose, in altre parole la giovinezza. Solo così si può capire quando Gadda legge Manzoni: sente che Renzo e Lucia sono i protagonisti dell’urgenza della giovinezza che deve vivere, mentre dall’altra parte ci sono i vecchi, a cominciare da Don Abbondio.

Si incontrano dunque, talora, individui ben nati, e relativamente ben vissuti, negli ambienti pedagogicamente più tristi: dacché resistenze insapute vigono e valgono in loro per una sorta di eredità (ignorata dall’erede) contro le istanze sovvertitrici degli esempi. Si vedano tal’altra volta, per contro, riuscire a male ragazzi «amorosamente» cioè pignolosamente educati, quando il crostone della retorica moralistica di superficie, il caramello etico rovesciato a parole sulla loro fralezza cremosa, non è valso a ricomporre in un’anima che va in pezzi, lo spirito e le ragioni della vita: cioè la brama di conquista biologica, di ascensione, di profittevole scelta, di accumulo.

Leggiamo il finale perché dà l’idea dell’etica in Gadda. Cos’è poi la vita quando non ci sia questo contrasto tra il crostone e la fralezza cremosa? Sotto non c’è solidità e quindi una volta saltato il crostone della convenzione, sotto resta qualcosa di spappolato. Sono le ragioni della vita, la brama di conquista biologica e la soddisfazione animale, la giovinezza, l’imperio della giovinezza. Poi ascensione: che è una parola quasi fogazzariana, redenta o restituita al suo significato in Fogazzaro. Profittevole scelta: una scelta che dà un progresso, profitto è il crescere con accumulo, nel senso di raccogliere, mettere insieme, che non è necessariamente in una accezione economica. La nota va ancora avanti, ma penso che risulti già con chiarezza la sua importanza. Nel fare una didascalia Gadda continua ad inventare. E qui si potrebbe proprio dire che la battuta saggistica diventa di continuo invenzione, nel momento in cui spiega un concetto, il concetto diventa immagine: il crostone, la fralezza cremosa. La denuncia di un problema è anche la sua presentazione.

Sacrifico le pagine sul carnevale. Il carnevale torna spesso in questo testo. Quando si parla di Bachtin, si parla sempre della sua idea di carnevale. Gadda usa l’idea di carnevale, di museo, di bazar delle parole e dei gesti, per conto suo. Si potrebbe quasi dire che è la sua stessa tradizione barocca, barocca nel profondo – la molteplicità, l’eterogeneo delle cose –, che lo porta in questa direzione. Mi fermo solo su una battuta sul romanzo, cioè sul gusto di fare romanzo. Lascio invece le altre battute sul linguaggio, quello che Gadda chiama lo «zefiro parlativo». La pagina prende avvio dagli oggetti di un salotto, per arrivare a parlare di atomismo, di caso, che è il contrario dell’ordine dell’esistenza:

Forse però però la goethiana Gelegenheit, che postula una preefficenza e preesistenza recettiva dello spirito? in amore, dunque, una valenza disponibile? Il guaio è che Donna Eleonora, nelle due tracce precipiti e parallele di quel casus, le era sembrato di potervi anzi di dovervi discernere, o comunque percepire, un impercetto clinamen. (RR I 488)

Clinamen è la vecchia citazione da Lucrezio. Dentro la necessità, dentro il movimento meccanico degli atomi, la possibilità di deviare e quindi, nella deviazione, la presenza anche di un margine di libertà da parte dell’uomo. Impercetto è il contrario: il non percepito. Si noti l’effetto d’insieme: che si scontra con il percepire. Ma quello che ci interessa viene adesso:

Oh! Forse un’idea. Un’idea obbligata, a non dir coatta: come mi vien suggerita da quel bernoccolo romanzatore che ci ossiede […]

Bernoccolo è l’attitudine, il gusto romanzatore. C’è nell’uomo una specie di spinta originaria a romanzare: «ci ossiede», si pensi al latino obses, obsides, che ci assedia, cioè che ci ossessiona. Si pensi poi al francese idées obsédantes, sono le idee ossessive. In questo caso Gadda, con il latinismo, col francesismo produce il tecnicismo. Il bernoccolo del romanzo, cioè la necessità di raccontare, è come un’ossessione; parla in generale, ma è evidente che ciò che sta dicendo vale in modo particolare per colui che sta raccontando, che sta rimescolando di continuo queste parole, ma c’è ancora qualche cosa:

[…] che ci ossiede, (e anche ai reluttanti, ai pudenti),

anche a quelli che non vogliono. Anche qui abbiamo una sorta di latinismo, un po’ violento: quelli che ne hanno vergogna. Solo che in latino non si potrebbe fare il participio presente. Gadda è andato a fare forza, nel momento stesso in cui assume un latinismo, alla tradizione latina, l’ha innovata.

[…] ogni qualvolta l’aspetto dei due destini è tale, da occludere in sé una possibilità verosimile.

La cosa che ci interessa è quella battuta che passa anche direttamente al narratore, e lui non è un riluttante: dentro L’Adalgisa il bernoccolo viene fuori. Abbiamo già visto che l’occhio de L’Adalgisa non riconosce più le gerarchie convenzionali del percepire gli oggetti, le cose, i fatti minori: le sensazioni degli animali sono importanti come ciò che perviene all’uomo. Il narratore cerca di mettere in chiaro quest’urgenza del vivere, da qualunque parte essa venga, anche se poi alla fine c’è sempre una presenza umana. Gli oggetti per Gadda fanno parte dei rapporti umani, sono intrisi di umanità, non perché vengono antropomorfizzati, ma perché fanno parte delle relazioni degli uomini che vivono tra quegli oggetti. Non solo, ma gli oggetti spesso sono chiamati, hanno un nome a partire da coloro che li usano. Quindi chiamare gli oggetti come li chiamano i loro proprietari o i loro utenti è già un modo per farli entrare in questo sistema di relazioni.

Gadda non è uno scrittore di dizionario, è uno scrittore degli usi lessicali e anche quando prende dal dizionario, trasferisce sempre i termini del dizionario ad un possibile parlante. È il contrario dell’operazione dannunziana, per la quale il dizionario è l’entità suprema e con la quale alla fine si annulla il parlante. In Gadda invece la parola è il parlato di qualcuno: è metonimica di una realtà umana e rimanda ad altre realtà umane. Questa e’ la sua dialogicità potenziale.

Vediamo come inizia L’Adalgisa e vediamo come finisce:

A lucidare i parquets, in casa Cavenaghi, era sempre venuta la «Confidenza», come in tante altre case, del resto. (Quando Girolamo ha smesso, RR I 301)

La Confidenza tra virgolette è una ditta per la pulizia delle case signorili. Chi racconta assume subito una sorta di discorsività media.

Be’… le migliori di Milano… Ossia, venuta… Inviava ne’ debiti giorni i suoi agenti specializzati: i quali, benché al primo saluto, li si sarebber detti dei vecchi brumisti, di quelli facili ad appisolarsi in serpa dentro un baverone d’un tabarro, bentosto invece si rivelavano animati da una bonarietà operosa e conclusiva: in un trasmestìo senza scampo, funzionari impareggiabili di Babilonia.

Ha cominciato a raccontare parlando di una consuetudine: una volta fatti arrivare gli agenti della ditta di pulizie, si ferma sui personaggi. È una sorta di dilatazione digressiva, allarga il quadro. Gadda dà una serie di rimandi: comincia ad emergere una figura e bisogna dare tutta una serie di dati relativi a quella figura. Funzionari impareggiabili di Babilonia perché creano a loro volta ordine e disordine.

Alcuni, e de’ più sagaci e scaltriti, di Hermes carrucolatore: ch’è un tipo quant’altri impavido di tutta la celeste combriccola.

Hermes è il dio del commercio, dell’attività. D’Annunzio parlava di sé come un Hermes macchinatore. Gadda invece, che forse ha in mente D’Annunzio, lo sta prendendo in giro perché a questo punto entriamo nella piccola vita borghese delle pulizie, di una casa signorile. Non dice macchinatore, ma carrucolatore – da carrucola. La sostituzione del termine definitorio del vecchio dio è a sua volta un gioco di deformazione. Teniamo conto poi che Hermes era anche il dio dei ladri. La vecchia genia degli dei dell’Olimpo è diventata una semplice combriccola, una compagnia fra le tante:

Ardeva in loro uno zelo muto, il tacito seme del ribaltamento. Ponevan l’occhio a ogni cosa: la mano, dopo l’occhio. Tanto che, dinamizzàndoli l’afflato del dio, in un battibaleno avevano bell’è che messo a soqquadro tutta casa […].

Hermes è il dio, l’afflato è l’ispirazione del dio. E quindi questi che devono fare le pulizie, ispirati dal dio Hermes, dinamizzati, quindi mossi così a lavorare, in un momento solo mettono tutto a soqquadro. Si capisce il ribaltamento, le sedie vengono ribaltate, per pulire bisogna capovolgere quasi tutto:

[…] seggiole, cuscini, tavolini, lettini: la chincaglieria del salotto e il bazàr del salone e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli) e i comò e il canapé e il cavallo a dòndolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Caveraghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, Lari, leonesse, orologio a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantù della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica.

Non è una semplice descrizione: è tutto un passaggio rapido, con accostamenti eterodossi, gli orinali e tutto il resto, ma soprattutto l’ultima battuta: prudenza e demenza domestica. Qualche volta arrivano dei disordini che per la voce femminile che dica tutto questo è un senso inveterato dell’ordine, mentre per chi ascolta è un segno di demenza, cioè di stranezza domestica:

[…] dapprima scravoltati gambe all’aria, poi simultanati, razionalizzati in una nuova e capovolta ragione, in una nuova e mirabile, per quanto imprevedibile, sintassi.

Il cumulo di oggetti è diventato anche un cumulo sintattico, non c’è più differenza. Si osservi quel verbo simultanare che, non per caso, viene da una tradizione lessicale futuristica, la simultaneità. Aggiunge ancora:

Cigolanti poltrone carriolavano stridendo a barricar gli anditi e i quarantottati passaggi, o si davano a rincorrere le quattro altre carrucole dell’ inopinata «ottomana della Teresa», che però questa qui viaggiava su certe sue rotaie speciali inventate e fabbricate apposta per lei, nel 1847, un anno prima del Quarantotto: rotaie a modo, di legno lucido e de’ più duri; da potere reggere l’incredibile quintalato. O si affiancavano, le poltronacce, in linea di colonne, in anticamera, come ansimanti battaglioni per tutto il Campo di Marte. (RR I 301-02)

Inutile commentare: è ovvio il riso, il gioco che c’è tra le parole. È venuto fuori un interno che non è solo un interno di oggetti. È un interno di oggetti e di costumi morali: le cose sono anche relazioni umane. Ed è in questo modo che si sviluppa il discorso. Uno dei tanti elementi che bisognerebbe indagare è il gioco dei motivi, come gli oggetti diventano motivi, insieme alle persone.

Vado alle battute finali de L’Adalgisa. Il tempo di questo libro è un tempo mescolato, non sempre riusciamo a definire bene i rapporti cronologici tra pezzo e pezzo; dobbiamo ricostruirli faticosamente, un poco come accade ne La coscienza di Zeno di Svevo. Il pezzo finale, in questo caso, vede comparire una donna che era comparsa anche prima, l’Adalgisa. È l’eroina ma non la protagonista: è il personaggio in cui si raccolgono le ragioni della milanesità, ma in un senso molto lato e molto provinciale. La scena si svolge al cimitero, dove i milanesi vanno spesso. Anche in Amleto ricorre una scena al cimitero: Amleto parla con un teschio. Nel nostro caso la visita porta a qualcosa di ben diverso, siamo nella Milano positivistico-novecentesca:

Il vecchio [una scultura funebre] non battè ciglio; nessun appunto gli si poteva muovere, almeno quanto al davanti. Ma siccome l’Adalgisa gli giro subito intorno una quindicina di volte, instancabile, salendo perfino con le sue scarpette nere sopra la tomba e osservando minutamente ogni cosa, ogni dettaglio, anche frammezzo ai diti dei piedi e nei due buchi degli orecchi, e anche di fianco e di dietro, così trovò che la falce era a posto, non meno della clepsidra e del lanternino: ma certi licheni verdastri, o nerastri, insistevano invece a incrostargli quell’altra falce, fra le due natiche, di una scandalosa flora criptogamica. (L’Adalgisa, RR I 551-52)

I licheni hanno un importante valore in Gadda, sono come le muffe della biologia e della storia, sono quindi un segno molto modesto, ma straordinario, più delle myricae virgiliane e pascoliane, perché danno il senso di un tempo lungo, vicino a quello che è il tempo degli uomini. È la natura inattaccabile che continua: la scandalosa flora. Scandaloso è già il punto di vista. Le due natiche: il piacere di insistere sul termine non comporta la sconsacrazione del cimitero, è la carnalizzazione di ciò che è anche funebre e diventa parte del nostro dire. I particolari più modesti e persino più grotteschi diventano parte di questa esperienza. Non c’è soltanto il ridicolo, c’è anche qualcos’altro, il quotidiano di ciò che rappresenta la morte, quindi uomini:

Le natiche in parola erano «rivolte a Settentrione», come le mura di Porta Nuova nei Promessi Sposi. Il vecchio necessitava inderogabilmente d’una operazioncella alquanto banale, che l’Adalgisa rimandò tuttavia al giorno dopo. Il tempo la ferì negli occhi, con una ventata di polvere. Fu, comunque, non cessava poi dal raccontarlo, una operazione più difficile del preventivato. (RR I 552)

A questo punto ciò che accade è racconto dell’Adalgisa ripetuto dal narratore:

Dove intervennero, oltre ai muscoli e al temperamento «fattivo» della donna, anche un raschino incurvo da meccanico, e più di un foglio di carta; carta vetrata, s’intende. Di borotalco non ci fu bisogno, come per il Gianfranco e per il Luciano quand’erano in fasce, ma certo le venne in mente anche questo. Grattò e raschiò per mezz’ora, per un’ora, forse: e le dita le si fecero tutte verdi come d’una tritura di prezzemolo. A opera finita, quando si sentì esausta, le venne la rabbia. Se la prese con le sorelle Carugati: «Vorarìa che vegnèssen on pô kì anka lor, de tant in tant, a vedè cose gh’è de noeuf… qui trì carampànn de via Brisa… cont el so rosari… e la soa testa che donda…»

Qui l’Adalgisa parla in presa diretta, è il suo dialetto come parte.

Attenzione adesso ai compartecipi della scena finale. Un naturalista non avrebbe mai potuto raccontare così, è come se il punto di vista si spostasse:

Due inservienti dinoccolati, la guardavano a bocca aperta; uno reggeva da una mano un inaffiatoio vuoto, s’era scordato di posarlo; l’altro si era ficcato un dito nel naso; e ci stava lavorando. «E loro cos’hin kì a fà, tütt l’ann?», gridò, rilevatasi, tutta rossa nel volto. Ma quelli, dopo un breve battibecco, le diedero della matta. «Se sèmm kì a fà!… perché ne moeur domà vün al més, a Milan». Si allontanarono protestando. L’Adalgisa non pervenne a capire che cosa borbottassero «intra de lor». Ma è quasi certo che la mandarono al diavolo.

L’Adalgisa finisce così, con questa scena, che è come un ultimo contrasto.


Passiamo ora a Quer pasticciaccio, dove la prima cosa da osservare è che da Milano ci spostiamo a Roma. Il milanese rende omaggio al sud, qui anzi la città vive di più persino di quanto non accadesse ne L’Adalgisa. Il testo è scritto nell’immediato dopoguerra, viene pubblicato in volume nel 1957. Gadda ha ormai esaurito le sue ritrosie di narratore, non nasconde più il suo bernoccolo romanzatore: costruisce i suoi io in forma pubblica, non più per travestirli. È un narratore, a suo modo, in una cultura che aveva prestato poca attenzione al romanzo come costruzione, e che quindi era meno pronta di altre a capire, credo, la novità di Gadda, per cui la sua novità linguistica sembrava cancellare anche la novità della costruzione. Con il rischio finale di dire che Gadda non è un vero narratore perché non sa finire. Abbiamo invece visto e percorso la strada concettuale di notevole forza che insegna a Gadda come sia quasi impossibile finire un racconto. Non era poi l’unico a fare questa esperienza – in altro modo anche Musil non riusciva a chiudere L’uomo senza qualità.

Dio forse può vedere le ragioni: le cause, le concause, le causali, le relazioni. Ma gli altri, il narratore che non è Dio cosa riesce a vedere? Molti erano i problemi, Gadda sapeva bene che nel sistema infinito di rapporti l’osservatore-narratore con il suo bernoccolo è finito?

Gadda allora si traveste da detective: aveva avuto sempre un interesse per il giallo. Per di più la letteratura moderna fra le sue ossessioni o, diciamo meglio, tra i suoi culti, ha quello del romanzo giallo come un elemento con cui fare i conti per costruire il racconto. Citiamone solo due: un inglese come Chesterton, e Brecht, che ha sempre amato l’idea dell’indagine.

Anche Gadda è moderno sotto questo profilo, più di altri scrittori. Qui c’è un detective che deve scoprire un delitto, un’indagine che va avanti a fatica: chi è stato il colpevole? Certo il romanzo finisce con una scoperta che è una domanda, per cui il lettore si chiede come stiano in realtà le cose, se ne va via insoddisfatto perché non sa cosa concludere. Ingravallo, è questo il suo nome, è in qualche modo il detective-scrittore o lo scrittore travestito da detective: certo è un filosofo e ha tutti i gusti e tutta la cultura del suo narratore, per cui il suo modo di intendere un’indagine è, né più né meno, che costruire la sua storia, leggiamo:

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. (Pasticciaccio, RR II 15)

Sintomatico: comincia con la collettività, la prima identificazione del personaggio è l’uso parlante di quelli che lo conoscono, quindi la dialogicità evidente. È come in uno specchio linguistico che viene riconosciuto il protagonista:

Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi.

Ténébreuse affaire è un vecchio titolo balzachiano, quindi c’è una citazione sottintesa. Ubiquo, cioè presente dappertutto, ma questo termine è già la voce mobile del narratore che non ha un livello solo, ne ha molti; quindi non è naturalismo questo, perché è uno strumento pseudonaturalistico innovato di continuo dai cambi di registri e di umori del narratore che, se guarda i personaggi, sembra sempre che guardi i fantasmi dei personaggi che ha intorno, che hanno già il loro rapporto con il personaggio di cui il narratore parla:

Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana.

Perché si capisca bene questo gusto, introduco una battuta di Brecht che illustra bene la tecnica di Gadda. Una volta Brecht in una delle sue pagine sui problemi del teatro doveva spiegare quand’è che un attore è un grande attore, e per dire quando lo è, ricorse ad un esempio: racconta di un attore che doveva recitare la parte di un signore decaduto. L’attore andava a cercare degli oggetti; nello spogliatoio cercò un vecchio cappello, un tubino mezzo rovinato e se lo mise. Si era messo nel taschino un vecchio spazzolino da denti, era questa la trovata dell’attore, dice Brecht, che, vecchio e sporco, conservava ancora il ricordo di un’altra abitudine. Una cosa del genere la fa anche Gadda:

Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo.

Ecco che è entrato in gioco il punto di vista consueto della padrona di casa, che è già stata coinvolta con tutte le sue abitudini. Siamo entrati nello spaccato di questa vita in tensione:

«Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!». Era, per lei, lo «statale distintissimo» lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della «bella assolata affittasi» e non ostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne».

Sta spiegando che l’affitto della camera era venuto attraverso un’inserzione sul Messaggero, cioè su uno dei giornali di Roma, dove si chiedeva di affittare ad un impiegato statale distintissimo, si diceva «bella assolata affittasi», sottintende camera. È un’ellissi tipica degli annunci pubblicitari ma molto divertente nella sua ambiguità. Escluse donne, e a questo punto il narratore deve fare una postilla, gioca su grandi stereotipi:

«Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda… sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione… che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume.» (RR II 15-16)

è scomparso per un momento Ingravallo ed è venuto fuori questo punto di vista; adesso torniamo a lui, ma intanto sono entrati dei rapporti a dare anche al personaggio secondario la sua pienezza.

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. (RR II 16)

è molto precisa la rettifica, e a questo punto il tono è satirico. Passando per l’esterno siamo entrati nel mondo mentale, nell’universo concettuale di Ingravallo:

Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio.

Ciò che dice è definito dall’effetto che fa su quelli che ascoltano; il personaggio non si può che dare che in rapporto a tutti coloro che vivono, parlando, con lui e ascoltando:

«Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia.

La parola causale è messa in primo piano e viene dichiarata come un tecnicismo giuridico, che è un modo per darle ancora più forza, più evidenza. Il romanzo sarà un romanzo sulle causali, di indagine su tutto questo:

L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente […].

La molteplicità delle cose, il plurale – non si può riportare la vita dell’uomo ad un unico filo, tante cose si mescolano insieme nel buio dell’essere:

[…] una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!.… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. (RR II 16-17)

è un confederato Gadda della lingua, l’aveva anche detto: «dalla cima delle Alpi a Capo Spartivento». Qui è una contaminazione, e lo dice:

La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». (RR II 17)

Sta parlando del delitto, del male; questi venti che soffiano e la ragione del mondo che viene meno: è scherzo. Poi pensa a tutt’altra cosa, cambia rapidamente il registro, lo scenario concettuale. I registri possono essere sempre attraversati dall’uno all’altro:

[…] e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo ad un pollo.

è l’anticlimax, al tono alto succede un fatto culinario.

E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addó n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto «cerchez la femme». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotia», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalla tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari.

è sempre il punto di vista della gente che non lo capisce, e che quindi assume la sua cultura come una mera esibizione, un inganno per gli sprovveduti:

Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta.

Per il 20 febbraio, domenica, Sant’Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a pranzo: «Alle tredici e mezzo, se le è comodo.» Era, disse la signora, «il genetliaco di Remo» […].

Lasciamo stare ora la decisione della signora Liliana, l’erotia del personaggio. Prima di andare al finale guardiamo il maresciallo Santarella, uno dei tanti uomini che il romanzo costruisce (o ci restituisce):

Era un formicolone, ’o maresciallo Santarella: come tutti i marescialli.

Perito dell’arte: è logico. Al momento buono sapeva chiudere un occhio o aprirli tutti e due, invece. (RR II 156)

Con gli occhi di mezzo, viene fuori il volto, è un grande primo piano. Ne L’Adalgisa veniva usato proprio il verbo filmare, l’allucinazione che filmava qualcosa. Qui abbiamo:

Una cera meravigliosa: un volto pieno, abbronzatorosso, nelle gote e nel naso, bleu-nero indove lo virilizzava barba rasa. La pelle generosa degli italici, nelle lor messi cotti, a luglio, a sole trebbiato: adusti, per dirla col Carducci.

Qui è il narratore che si diverte con questa sorta di enciclopedia, non soltanto parlata, ma letteraria: la lingua letteraria è messa non tanto in berlina quanto contraddetta dalla forza del parlato:

Una salute da sensale di campagna. Quei baffetti ritti alla Guglielmo. Quel pistolone sulla natica sinistra, che pesava tre chili. Metteva gioia in core a vederlo. Le ragazze, certe notti di luna piena, sognavano ’o maresciallo. Certi scarcagnati con addosso tutta la migragna dell’impero imminente, certi morti de fame de ladruncoli de biciclette, strulloni in ozio a giro per le strade e per le bettole il giorno, e la notte a travaglio, non gli pareva poi vero, a colpo fatto, di lasciarsi ammanettare da lui, di venir «messi dentro» da lui. Quando arrivava lui, puttana il diavolo, tiravano un respiro. Finita l’ansia, il pericolo: finito di sudare, di scalzare, di aggeggiare, di trasalire a uno scricchiolio, a un dubbio di cigolio lontano d’un cancello: di scassinare usci col cuore in gola: ecco, finita ogni pena: gli riprendeva la gioia, dentro, poveri ragazzi! La fiducia nel domani, gli riprendeva. Erano così contenti, solo a vederlo, che dimenticavano il loro triste obbligo, mannaggia er prefetto: l’obbligo di scappare con la refurtiva, e quel ch’era peggio coi ferri, anche, e stracarichi: dopo tanto affanno dover anche darsela a gambe! Checché. Lo salutavano con una guardata, con un risolino d’intesa, quello che vuole significare «tra noi…»: gli facevano omaggio spontaneo d’interi mazzi di grimaldelli, d’interi assortimenti di piè-di-porco. Gli chiedevano, riguardosamente, il suo ultimo prospero: per accendere, voluttuosamente, la loro ultima cicca. Haah! Hah! facevano espirando, con una voluttà in gola: o buttando fumo dal naso: «Ecco, sì, va be, capirà», dicevano: e gli porgevamo i polsi: nata in loro concupiscenza repentina delle catenelle da polso: come allo scassato e stanco non piace altro che il letto. Gli consegnavano le due zampette sgraffignone: ne facesse un po’ icché voleva: abbacinati da quel volto scurito, da quegli occhi fermi, neri, pungenti: da quelle bande rosse, ai calzoni, da quei galloni d’argento alla manica, da quella bandoliera bianca di vacchetta che era come l’insegna dell’autorità inquirente, perseguente, ammanettante: da quel V.E. nella granata d’argento, sul berretto: da quella pancetta, da quel culo. Sì, culo. Perché, lui si rigirava, pirlava, fremeva, poi di nuovo si rivoltava a scatto, piantava il par d’occhi in faccia a tutti e ad ognuno, a baffi ritti, e puntuti come du chiodi, e neri; agiva, deliberava, telefonava, trìc, trìc, tititrìc, bociava in nel tubo, chiedeva nerbo di due militi dalla Tenenza, impartiva ordini: a cui tutti obbedivano, il bello è questo, e in una sorta di algolagnica frenesia, gusto del dolore, di voluttà masocona presi nel cerchio magico del V.E., nell’ellisse gravitatoria di quel nucleo d’energia. Così felicemente irradiata a’ satelliti: e, dopo di loro, a tutti i ladri in genere. Che anelavano sol questo, appena vederlo: essere travolti in catorbia da un suo sguardo. Quando poi pareva finito tutto, ed eran le donne in susurri, papapapapà, riecco invece li spari della fremebonda Motoguzzi aggiungevano gloria alla gloria, vita alla vita. Demarrava tra nuvoli di polvere lasciando a mormorare le ragazze: le spose: le nipotine della Zamira a pie’ scalzi: dèmone fuggitivo di legione con bande rosse, esalato da dìruti castelli: dove la notte, soprappresa dalle ore non sue, bah, la s’era scordata di rincavernarlo: quand’ella spenge, invece, su le ruine di ogni torre, i due gialli cerchi del gufo. La tarda ala si ammencia, come uno sciàvero di tenebroso velluto, nel suo nido d’ombre e di sasso». (RR II 156-57)

D’improvviso viene fuori l’atmosfera della notte, con un lessico molto più rarefatto; poi si coagula di nuovo la tecnica delle parole in primo piano. Il personaggio è diventato tutta una serie di situazioni, le digressioni sui personaggi che guardano diventano parte integrante della figura di cui si sta parlando. Andiamo alle ultime pagine. È il momento in cui si dovrebbe risolvere il mistero:

Cercava, pensò duramente Ingravallo, nel suo dolore cercava di valorizzare il papà, nonché il diretro guasto del papà. «E cià pure la ciambella il gomma» sospirò, «che senza quella j’avrebbe fatto infezzione er decùbbito. Ancora stamane a le otto je faceva male, tanto male, diceva. Nun poteva sta’ dieci minuti, se po dì. Adesso nun se move da tre ore: nun dice na parola: me sa che nun patisce più, de gnente po più patire»: si rasciugò gli occhi, si soffiò il nasetto: «perché nun sente più gnente, oramai, né bene né male po sentì, povero padre… Er prete nun po esse qua prima dell’una, m’ha fatto dì. Ah, poveretti noi!». (RR II 275)

La cosa poi significativa in questo romanzo giallo è che la vittima è una persona con cui il detective ha un rapporto molto particolare, persino ambiguo; anche questo crea un’atmosfera inquietante. Un’indagine immersa in un pregiudizio affettivo è un’indagine assai più difficile:

«I signori! La signora Liliana potete dire! ché è stata sgozzata da un assassino!»: du occhi, fece, che la Tina impaurì, questa volta: «da un assassino,» ripetè, del «qua-le,» favellò curule, «aggio saputo il nome, il cognome!… e dove sta: e cosa fa…». La ragazza sbiancò, non disse a.

«Fuori il nome!» urlò Don Ciccio. «La polizzia lo conosce già chesto nome. Se lo dite subbito», la voce divenne grave, suasiva: «è tanto di guadagnato anche pe vvoi.»

«Sor dottò,» ripetè la Tina a prender tempo, esitante, «come j’ ’o posso dì, che nun so gnente?»

«Anche troppo lo sai, bugiarda,» urlò Ingravallo di nuovo, grugno a grugno. Di Pietrantonio allibì. «Sputa ’o nome, chillo ca tieni cà: o t’ ’o farà sputare ’o brigadiere, in caserma, a Marino: ’o brigadiere Pestalozzi.»

«No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de’ suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch’ella pareva scagliare audacemente all’offesa, in un subito corruccio, in un cipiglio: «no, nun so’ stata io!». Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe’ llà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi. (RR II 276)


Passiamo adesso a La cognizione del dolore, alla pagina in cui il protagonista viene presentato con la sua genealogia. Nel romanzo la Brianza di Gadda è rappresentata con caratteri fantastici, è una specie di realtà ispano-lombarda, è l’Italia del primo dopoguerra intorno agli anni ’20 e successivi. C’è poi il rapporto del protagonista con la madre, rapporto che può conoscere persino una brusca virata tragica, per cui qualcuno ha parlato di Amleto, di Oreste, con all’orizzonte il matricidio, che però è solo un’intenzione, e con il sospetto sul figlio e del figlio sulla madre. La casa è come un luogo sicuro, ma quando diventa notte l’abisso si apre e invade tutto. C’è un tono più lirico che altrove, il lirismo che è necessario quando si racconta l’interno. È un lirismo che passa di continuo dall’alto al basso e può mettere insieme il quotidiano e, quasi, l’orrore metafisico:

La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate. Il buon medico consumati i peggio dei sassi, era per arrivare al cancello: nella sua mente viva, piena di curiosità e di memoria, questi memorabili della illustre casata si sdipanarono con la prestezza del sogno: l’immagine del suo cliente gli ritornò, dopo quella dell’avo in una luce assurda. (RR I 606)

L’avo, era detto poco sopra, sarebbe poi il governatore Don Gonzalo di cui si racconta ne I promessi sposi, anzi lì era spiegato che il governatore era morto di rabbia, quasi di crepacuore perché aveva dovuto condannare non Renzo Tramaglino, ma quel certo Filarenzo Calzamaglia. Lì dunque Gadda aveva raccontato un capitolo ulteriore de I promessi sposi, passandola per genealogia del protagonista Gonzalo. Importante è la battuta finale, in una luce assurda.

Per parte materna il suo cliente veniva di sangue barbaro, germanico e unno, oltreché longobardo; ma l’ungaricità e il germanesimo non gli erano andati a finire nelle calze bianche, suole doppie, e nemmeno nei ginocchi, che ricordavano pochissimo quelli di Sigfrido; e anche nel ruolo di leone magiaro che si risveglia, aveva l’aria di valere piuttosto poco.

Il ritratto fatto dal medico a poco a poco diventa il discorso stesso del medico:

Germanico era in certe manìe d’ordine e di silenzio, e nell’odio della carta unta, dei gusci d’ovo, e dell’indugiare sulla porta coi convenevoli. In certo rovello interno a voler risalire il deflusso delle significazioni e delle cause […] (RR II 606-07)

Il deflusso delle significazioni e delle cause è ciò che fluisce dalla causa e la significa, è quello che Gadda chiama ermeneutica della realtà:

[…] in certo disdegno della superficie-vernice, in certa lentezza e opacità del giudizio, che in lui appariva essere inalazione prima che sternuto, e torbida e tarda sintesi, e non mai lampo-raggio color oro-pappagallo. Germanica, soprattutto, certa pedanteria più tenace del verme solitario, e per lui disastrosa, tanto dal barbiere che dallo stampatore. «Bisogna arrabattarsi!», gli dicevano. «Tirare a campare», soggiungevano. Non aveva nessun genio per l’arrabattarsi e il tirare a campare, nel di cui uso si trovava più impacciato che una foca a frigger tortelli. Attediato dai clamori della radio, avrebbe voluto una investitura da Dio, non a gestire la Néa Keltiké per gli stipendi di Don Felipe el Rey Católico, bensì a scrivere una postilla al Timeo, nel silenzio, per gli stipendi di nessuno.

E c’era, per lui, il problema del male: la favola della malattia, la strana favola propalata dai conquistadores, cui fu dato raccogliere le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero.

è il «male invisibile», di cui narra Saverio López, nel capitolo estremo de’ suoi Mirabilia Maragdagali.

Alla fine il personaggio è oramai un monologo che ha lasciato da parte il medico. Torniamo a vedere come Gadda imposta il romanzo. La cognizione del dolore: è un titolo comunicativo come La coscienza di Zeno, perché la cognizione può avere come oggetto della conoscenza il dolore, ma può anche essere vero che la cognizione avviene attraverso il dolore. In ogni caso Gadda parla di cognizione, che dal latino indica atto, conoscere. Inizia l’atto del conoscere; la narrazione comincia con un’indicazione temporale, da romanzo:

In quegli anni tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maradagàl, che è paese di non molte risorse, davano facoltà ai proprietari di campagna d’aderire o di non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte – (Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche) […] (RR I 571)

Si sente venir fuori subito questo spagnolo, una specie di seconda voce, come una seconda anima:

[…] e ciò in considerazione del fatto che essi già sottostavano a balzelli ed erano obbligati a contributi molteplici, il cui globale ammontare, in alcuni casi, raggiungeva e financo superava il valsente del poco banzavóis che la proprietà rustica arriva a fruttare, Cerere e Pale assenziendo, ogni anno bisestile: cioè nell’anno su quattro in cui non si sia verificata siccità, non pioggia persistente alle semine ed ai raccolti e non abbi avuto passo tutta la carovana delle malattie.

Ha cominciato, prendendo una specie di strada laterale, quella delle associazioni volontarie, poi ha alluso alla situazione economica del paese. Assenziendo è una specie di ablativo assoluto alla latina; poi la siccità e carovana delle malattie, elementi negativi:

Paventata, più che ogni altra, la ineluttabile «Peronospera banzavoisi» del Cattaneo […].

Il primo è un termine tecnico, il secondo è un’invenzione. Grande scrittore e poeta, tutti ricordano di Cattaneo le Notizie sulla Lombardia antica e moderna, modello di prosa allo stesso tempo scientifica e descrittiva. È come un omaggio in questo caso che Gadda fa al suo predecessore, a uno degli elementi della sua tradizione positivo-lombarda. Tanto più poi che, sia pure in maniera gaddiana, il brano ha tutta l’apparenza di un reperto tecnico, quasi appunto alla Cattaneo:

[…] essa opera, nella misera pianta, a un disseccamento e sfarinamento delle radicine e del fusto, proprio nei mesi dello sviluppo: e lascia ai disperati e agli affamati, invece del granone, un tritume simile a quello che lascia dietro di sé il tarlo, o il succhiello, in un trave di rovere. In talune plaghe bisogna poi fare i conti anche con la grandine.

Gadda parte più dal male che dal bene, dagli inconvenienti della agricoltura e delle sue disgrazie, le sue piccole catastrofi stagionali:

A quest’altro flagello, in verità, non è particolarmente esposta la involuta pannocchia del banzavóis che è una specie di granoturco dolciastro proprio a quel clima. Clima o cielo, in certe regioni, altrettanto grandinifero che il cielo incombente su alcune mezze pertiche della nostra indimenticabile Brianza: terra, se mai altra, meticolosamente perticata.

Il Maradagàl, com’è noto, uscì nel 1924 da un’aspra guerra col Parapagàl, stato limitrofo con popolazione della medesima origine etnica immigratavi via via dall’Europa, a far tempo dai primi decenni del secolo decimosettimo. Anche ciò è noto. I pochi Indios superstiti alla Reconquista e pervenuti fino al secolo e ai clamori della radio, vivono a tribù e quasi a branchi nei lontani «Territorios», felicitati da una loro speciale tubercolosi e da una loro speciale sifilide, oltreché dalla lontananza della gendarmeria: tratti, alcuni, e a gran fatica, dalla caparbietà d’un qualche missionario piemontese, nell’orto della Fede di Cristo, donde purtuttavia si assentano ancora, poi, di tanto in tanto, per una di quelle loro così deplorevoli bevute di caña, che li lasciano un paio di giorni a terra, lungo un sentiero, come i sassi. Ognuno dei due paesi sostiene di avere vinto la guerra e ne addossa all’altro la terribile responsabilità. (RR I 571-72)

Dopo questa specie di quadro storico Gadda racconta la storia dei vigilanti notturni:

Ora appunto, trattandosi di arruolare i vigili dei Nistituós de vigilancia para la noche, si deliberò venisse data la prelazione ai reduci di guerra, senza escluder dal novero i gloriosi feriti, quandoché beninteso apparissero idonei all’ufficio: il che torna a dire fisicamente ancor validi: e tanto prestanti, anzi, da poter assolvere a un incarico del genere, il quale può richiedere interventi manu armata e presume comunque, nel vigile, un certo grado di robustezza e di conseguente autorevolezza affinché il vigile possa efficacemente persuadere al fuorilegge ch’egli deve senzaltro seguirlo al più vicino posto di guardia. Seguirlo, o per dir meglio precederlo, visto che certi tipi è meglio metterseli davanti, che dietro. (RR I 572-73)

Si vede il mondo cupo e nevrotico di Gonzalo, e misto a tutto ciò il rapporto con la madre: una sorta di tragedia potenziale che più ancora che negli atti è nella coscienza umana. Andiamo semplicemente alle pagine conclusive del romanzo, col primo piano sul volto cadaverico:

Gli uomini lamentavano: «povera signora, povera signora!», le donne piangevano e pregavano sommessamente, poi sommessamente si soffiavano il naso, salvo la viriloide Peppa, che faceva solo, di quando in quando, il segno della Croce.

Poi il capo, tutto sangue, fu dolcemente deterso, senza rimuoverlo, senza strapparne un capello, con ovatta imbibita d’alcool e poi, come non bastava, di essenza e d’acqua di colonia, trovata in una fialetta sul tavolino: e ciò con estreme cautele: tutta la sala fu subito odorosa di alcool, di benzina, d’acqua di colonia, che vinsero i panni cristiani degli astanti. Ma, per detergere, ci vollero pazienza e tempo, al dottore, mentre i presenti inorridivano. Il capo, allora, palesò due ferite, apparentemente non gravi, al parietale destro e alla tempia destra e altre lacerazioni e abrasioni minori: e quella orrenda ecchimosi alla guancia destra, ch’era così spaventosamente tumefatta, fin sotto l’occhio. L’emorragia aveva imbrattato il capo, il viso, le labbra, il coagulo si era aggrumato e stagnato ne’ capelli, nell’orecchio destro, sulla faccia, sotto il naso, anche dal naso era venuto molto sangue: il lembo del lenzuolo, il cuscino, ne erano atrocemente arrossati.

Si comprese da tutti, al riscontrare delle tracce di sangue sullo spigolo del tavolino da notte, verso il letto, che il capo così ferito doveva avervi battuto violentemente; forse qualcuno doveva averla afferrata a due mani, pel collo, e averle sbattuto il capo contro lo spigolo del tavolino da notte per terrorizzarla, o deliberato ad ucciderla. Terribile fu e permaneva a tutti l’aspetto di quel volto ingiuriato, chessi conoscevano così nobile e buono pur nel disfacimento della vecchiezza.

Ora tumefatto, ferito. Inturpito da una cagione malvagia operante nell’assurdità della notte; e complice la fiducia o la bontà stessa della signora. Questa catena di cause riconduceva il sistema dolce e alto della vita all’orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero. Abbandono. (RR I 754)

Questo è un ritratto di una secca desolazione, la natura, la terra, la natura stessa del volto abbandonato:

«Lasciamola tranquilla», disse il dottore, «andate, uscite».

Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo recupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana l’impossibilità di dire: Io. L’ausilio dell’arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua e alcool dalle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella. E alle stecche delle persione già l’alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita. (RR I 755)

Nessun commento sulle ultime pagine, sulla conclusione sospesa della Cognizione. Ne chiedo scusa. Adesso però sono in grado di stabilire che se il Barocco moderno è questo, ci sono anche dei Barocchi falsi e antimoderni. Dirò poi che l’unica ragione per scrivere così è che la lettura è sempre in cammino, come il linguaggio e la vita; e se la letteratura deve servire a qualche cosa è la lettura a renderla possibile. E se il linguaggio e la vita sono sempre in cammino, una lettura non finita può benissimo essere in cammino.


Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

– lecture notes taken on May 29, 1991, during the course Barocco Moderno: C.E. Gadda e Roberto Longhi, Università di Bologna, academic year 1990/91. Previously published by BO-CUSL, Cooperativa Universitaria Studio e Lavoro, Bologna,1991.

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