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I nuovi borghi della Sicilia rurale

La Sicilia rurale (come ogni regione, del resto), è contraddistinta da una modulata varietà di condizioni agronomiche, i cui estremi termini sono l’aranceto e l’uliveto costieri, e il latifondo: che occupa le alte superfici dell’interno. La coltura intensiva, la suddivisione della proprietà, la presenza di abitazioni in tutta la campagna caratterizzano le parti più fertili e più accessibili del territorio, tenute dall’agrumeto, dall’ulivo, dal mandorlo, dalle vigne, dai frumenti densi, mentre che il latifondo si estende nella solitudine e si direbbe costituisca veramente il feudo della solitudine. «Il latifondo», così Giuseppe Tassinari in una perspicua enunciazione del fenomeno, (1) «non è terra incolta. Esso è caratterizzato da un ordinamento della produzione in cui si combinano cerealicoltura e pastorizia, da una assenza quasi completa di opere di miglioramento fondiario – case, strade, sistemazioni del terreno, colture arboree – ed altresì da speciali rapporti fra proprietà, impresa e mano d’opera, in un ambiente in cui la mancanza di igiene e di sicurezza dovevano giustificare l’assenteismo della proprietà, la precarietà dei contratti di lavoro, la presenza dell’intermediario («gabelloto») che affittava per subaffittare a sua volta la terra».

E ancora: «Sono state descritte più volte, e in modo ampio e completo dal Lorenzoni, le condizioni dei contadini siciliani, accentrati nei poverissimi villaggi dell’interno e costretti a comporre la loro misera economia coltivando quote di latifondo («spezzoni»), ubicate in feudi diversi e lontane molti chilometri dalle rispettive dimore».

In realtà il latifondo di Sicilia è legato a una fattispecie complessa. E devesi anzitutto individuare, entro il raduno delle cause, la natura dei terreni che andarono a costituir feudo.

Si tratta, per il più, di vasti pianori assolati, privi di corsi d’acqua e scarsi di circolazione idrica subumale, dai quali emergono le pietrose giogaie, nel sole accecante e nel torrido cielo della estate. L’uomo povero, solo ed inerme (voglio dire sprovveduto di capacità economiche) ne rifugge naturalmente, «ripiega» sul lontano villaggio. Nessuna traccia d’alberatura: non più l’ulivo, sogno della marina; non il noce di Campania, né il leccio di Tuscolo, né il castano, né il faggio (come invece le fragorose pendici del Sirente o della Maiella): e nemmeno il sùghero delle colline di Roselle o di Cosa, sui declivi arsicci, o sul fondo piano e deserto della vallèa. La terra, tuttavia, (e il lavoro lo denuncia) non relutta al coltivo in un diniego senza remissione: si tratta, per una metà circa, di lente coltri argillose: d’argille molto più compatte e fosforiche di quel che non risulti alla marra ed al seme la duna quaternaria dell’agro pometino, o dei calanchi appenninici fra Toscana e Romagna. Per l’altra metà sono terreni di medio impasto, atti quindi alle semine e alle colture cerealicole.

Ne risulta una situazione strana, che alletta la disperazione al lavoro e sembra defraudarla del premio; e che si lascia definire da alcune note di fondo, quasi un doloroso accordo tematico. Ecco, isolatamente, le note. 1º) Abbandono d’ogni idea o speranza di miglioramento ad opera del proprietario. La terra è lasciata qual’è: e se ne cava quanto se ne può cavare con l’aratura o col gregge; e vi riscontri un difetto o addirittura un mancare di strade, di sistemazioni, di ricoveri, di pozzi. 2°) Vi denoti una coltura estensiva, in alternanza di frumenti radi e di poveri pascoli, senza carità d’un fil d’ombra: e ne consegue la povertà del prodotto. 3°) Alla povertà del prodotto consegue la latitudine dei tenimenti, in quanto la sola estensione può compensare la proprietà del reddito esiguo. L’estensione moltiplicata per il reddito unitario è «grosso modo» una costante agrològica: tantoché i terreni più produttivi (oliveti, agrumeti, vigne, ecc.) ben più difficilmente andrebbero a conglomerarsi in un latifondo. Ivi si ha generalmente una proprietà fratta. 5°) Dalla carenza delle opere, come strade e accessi, e dei centri abitati, come casolari e villaggi, conseguì nel passato la poca sicurezza: non soltanto o non tanto per il viandante e per la sua borsa: ma per tutte in genere le sanzioni contrattuali della vita: che in tale estrema contingenza si allentano e malamente sussistono: o decadono dal tipo giuridico ed etico dell’uniformità e del costume per rivestirsi con il carattere effimero del caso per caso, del prendi e porta via. 6°) Conseguì ancora, s’è visto, il raduno di folte moltitudini in grandi e pochi villaggi, i quali assumono l’aspetto di un doloroso assembramento di poveri, a cui difetta il vivere, manca l’agio della casa e, sulle spalle dogliose, lo scuro mantello a gennaio. La Conversazione in Sicilia di Vittorini esprime nei segni di poesia amore e pietà di questi suoi fratelli diseredati. 7°) E ciò comporta il lungo viaggiare, chilometri e chilometri, che precede, a ogni nuovo sole, il penoso lavoro della campagna. Il contadino siciliano deve percorrere lunghissima strada a dorso di ciuco o di mulo, o di cavallo, o sul carrettello pitturato che reca gli arnesi della fatica, prima di aver raggiunto il luogo lontano della sua messe. 8°) L’amministrazione del feudo è demandata, le più volte, a rispettabili e solerti funzionari; che risiedono, talora, nel capoluogo urbano: quasi gerenti d’una società immobiliare. 9°) Ma la reale gestione agronomica delle terre, cioè d’uno o più «spezzoni» del feudo, si riporta «in facto» alle mani di un imprenditore e intermediario, il «gabelloto» a cui accennava il Ministro, che affitta dal principe a conto proprio per subaffittare ai coloni, o talvolta per cedere a lavoro. Il «gabelloto» si inserisce dunque fra proprietà e colonia e adempie, con suo profitto, alle mansioni effettive della gerenza. Arrogatosi per normale contratto e corresponsione del canone un appezzamento, magari estesissimo, lungo un determinato periodo di anni, lo governa a sua posta, osservando tuttavia la prescrizione d’uso, ma talvolta anche non osservandola: e in talun incontro evadendo dal recinto dell’uso per la scappatoia del mal tollerabile e comunque tollerato abuso.

Avvenimenti del mondo. Il disinteresse del principe lontano, la pazienza dei poveri sembra abbia consentito alla specie «gabelloto» di configurarsi in alcune dimensioni non del tutto o non sempre encomiabili nelle distrette d’una contingenza assai ardua. Del resto sono uomini esperti del vivere e figli in certo modo della durezza, dotati molte volte di capacità direttive, conoscitori della terra, pratici del mestiere (mestieraccio) nonché dell’ambiente, che portano su di sé la rampogna dei pochi e assenti, e la rancura dei molti e presenti, e affaticati, in una economia affaticata. «Quattro legni un fuoco da signore, e cinque un fuoco da fattore».

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Lo Stato fascista, esprimendo in azione la volontà e le direttive del Duce, ha guardato al latifondo siculo come a problema di bonifica integrale. Le opere necessarie sono riferibili a due competenze: statale e privata: cioè a un ente, lo Stato, che si superòrdina ai poteri economici e alla capacità giuridica del singolo, apportando al vasto cantiere il suo contributo finanziario di eccezione – attinto da tutta la fede di un popolo – nonché lo strumento del diritto, sotto specie di provvidenza legislativa avente valore di imperio. Pertengono allo Stato e agli organi esecutivi che ne dipendono tutte le opere «pubbliche» della bonifica: strade, acquedotti, villaggi rurali, sistemazioni idraulico-forestali, lavori di risanamento igienico. A carico del singolo possessore rimangono invece l’altre opere di migliorìa, non meno efficienti ed urgenti agli effetti della trasformazione, che si possono e debbono ascrivere alla privata responsabilità: così le fabbriche rurali per abitazione dei coloni, i piccoli serbatoî di acqua potabile o le vasche di abbeverata, e strade interpoderali, e sistemazioni del terreno, e impianti di colture legnose; stalle, recinti, ricoveri, e simili. Cito dall’esposto Tassinari: «Questo stretto coordinamento fra le opere pubbliche e quelle attinenti ai singoli fondi – caratteristica della Legge Mussolini – è condizione essenziale per la riuscita della trasformazione. Perciò la Legge comporta due distinti stanziamenti»: uno per le opere a carico dello Stato, uno per sovvenire al privato nell’adempimento degli obblighi miglioratari di sua spettanza. L’Ente di Colonizzazione, alle dipendenze del Ministero, e avente sede a Palermo, coordina e vigila la complessa azione della bonifica.

Il disposto giuridico fondamentale si intitola: «Legge 2 gennaio 1940-XVIII, N. I» per la Colonizzazione del latifondo siciliano, dove la parola «colonizzazione» ripete il suo senso dall’etimo colonus, cioè contadino, e vale «immissione di coloni nel territorio». La legge consta di 23 articoli e instituisce e disciplina gli obblighi miglioratarî della proprietà nei territori siculi ad economia latifondistica; determina il contributo dello Stato alle opere, la misura e la forma delle agevolazioni creditizie offerte dallo Stato ai privati, le modalità dei trasferimenti e delle cessioni di terre. Seguono il regio decreto 26 febbraio 1940-XVIII, N. 247, sull’Ordinamento dell’Ente di Colonizzazione del latifondo siciliano» e il decreto ministeriale 26 aprile 194o-XVIII al titolo «Direttive fondamentali per i proprietarî soggetti ad obbligo di colonizzazione»: inoltre la legge 2 giugno 1940-XVIII, N. 1078, di carattere tipicamente fascista e di ardita formulazione, che enuncia le «Norme per evitare il frazionamento delle unità poderali assegnate a contadini diretti coltivatori». E cito l’articolo: «Gli Enti… o i Consorzi… devono far risultare dalle note di trascrizione degli atti di assegnazione di unità poderali l’esistenza del vincolo di indivisibilità dei fondi, ai sensi della presente legge». E l’articolo 3: «Sono nulli gli atti tra vivi che abbiano per effetto il frazionamento della unità poderale». Altri articoli riguardano la complessa e delicata modalità delle assegnazioni ereditarie.

Il decreto ministeriale 25 giugno 194o-XVIII, n. 7087 circa l’«Appoderamento intorno ai borghi» e il testo del «Patto Colonico» obbligativo, (su 36 articoli, con una nitida Premessa), del 30 agosto 1940-XVIII, completano l’apparato giuridico: a cui il Ministro Tassinari ha dedicato la sua opera di bonificatore, trasfondendo nei dettati di legge quello spirito di alta consapevolezza, che è di chi viene adeguando il proprio operato alla sostanziale conoscenza dei problemi. In un anno di attività legiferante sono state emanate le norme tutte da cui si attiverà la bonifica.

Diversamente da quanto ebbero a prescrivere alcune leggi del passato, (rimaste lettera), la legge fascista si propone di compiere la trasformazione del latifondo «non contro la proprietà, ma con la proprietà». Il concorso tecnico e finanziario dello Stato alle opere di privata competenza è pure ingente. I proprietari siciliani lo hanno compreso fin dagli inizi. Il loro consenso alle provvidenze statali volute dal Duce «si è tangibilmente espresso attraverso la sottoscrizione di un numero di impegni, per la costruzione di case coloniche, che ha largamente superato il limite iniziale dal Duce stesso stabilito pel primo anno». (Così sempre il Ministro, nella conferenza citata).

Il privato, secondo la legge, può anche affidare all’Ente la trasformazione delle sue terre, corrispondendogli una quota-parte di esse, a titolo di indennizzo della migliorìa.

è poi presumibile che il fervoroso cantiere miglioratario e la somma delle attività e degli oneri che necessariamente vi si avranno a connettere segnino il principio d’un frazionamento della proprietà più compatta e direi più torpida. Questa riduzione automatica (non coercita) del feudo, questa articolazione del tappeto latifondistico, si manifesterà come naturale conseguenza del passaggio da forme estentive a forme intensive di coltura, ed è comunque ascrivibile all’aumento di valore unitario della terra trasformata, nonché alla accresciuta complessità della gestione d’un’azienda più produttiva.

Può riuscire di notevole interesse a questo riguardo la seguente silloge d’alcuni rilievi dell’Istituto Centrale di Statistica concernenti le aziende agrarie censite nell’isola. Aziende 452.419 per 2 milioni e 101.000 èttari. Di tali, 892 occupano 432.488 ettari, circa un quinto della superficie censita. Delle 892 aziende maggiori, 164 governano un’ampiezza di terre compresa fra i 500 e 1000 ettari, per una estensione totale di 109.166 ettari; mentre 64 aziende superano i 1ooo ettari ognuna, e le lor terre si computano a 119.477 ettari. Questi dati lasciano presagire di per se stessi che una riduzione della proprietà sotto bonifica è per risultare, nonché possibile, ma addirittura necessaria, quando si pensi all’ingente investimento di capitali che la trasformazione domanda.

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Le case rurali, che ospitano le famiglie coloniche a mano a mano recuperate a un miglior lavoro ed immesse nel latifondo, trovano e troveranno presidio nei «borghi».

Essi vengono costituiti in centri del vivere civile e dovranno appunto investirsi di tutti i compiti e gli attributi del capoluogo, senza presentar tuttavia rinnovato l’inconveniente che si vuole ovviare in ogni modo: cioè quello d’una fitta popolazione di contadini che si stipa nel villaggio in condizioni di scarsa igiene, di estrema povertà, a una distanza di chilometri dal luogo del lavoro. Il borgo della colonizzazione non ospiterà contadini: ma soltanto gli artigiani indispensabili (meccanici, sarti, stipettai, muratori, calzolai) e le botteghe delle derrate d’alimento o di vario commercio, e gli uffici, i posti sanitarî, le scuole. Il borgo deve esser visto come una cittadina sfollata: piccola capitale funzionalistica senza stento e senza gravezza di plebe. La plebe sana è nei campi, al lavoro. Ecco una idea chiara, delle più positivamente innovatrici.

è assolutamente escluso che il «borgo rurale» della bonificazione sicula abbia a dar ricetto ai lavoratori della campagna: dal momento che questi lavoratori si vogliono strappare agli attuali villaggi, e si vogliono immettere e direi spargere nelle ricreate colonie. Perciò il Ministro Tassinari e in subordine il direttore dell’Ente, dott. Nello Mazzocchi Alemanni, hanno fermamente circoscritto la struttura del borgo: gli otto borghi rurali sorti ognuno in ognuna delle otto provincie di Sicilia, (e consacrati nel nome alla memoria di un caduto delle guerre o della Rivoluzione fascista), comprendono soltanto gli edifici necessarî allo svolgimento della vita collettiva, dell’assistenza sociale, della coordinazione civile, nonché i magazzini e le botteghe dei rifornimenti. Sorgono così in ogni centro la chiesa parrocchiale con l’abitazione del parroco; la scuola con le abitazioni delle maestre; la delegazione della podesteria per i servizi di Stato civile; la sede del Fascio e delle organizzazioni dipendenti; la collettoria postale, con telegrafo e telefono; la stazione dei Reali Carabinieri con gli alloggi; la Casa di sanità, ove avranno a risiedere il medico-chirurgo, la levatrice, un assistente sanitario: dov’è allogata la farmacia, dov’è un posto di medicazione, e alcune camere di degenza; una locanda con alloggi, una rivendita di generi varî; e botteghe per artigiani e relativi quartieri: e ancora gli uffici dell’Ente di colonizzazione con la Casa del personale. I previsti ampliamenti verranno a completare la struttura del borgo con uno o più edifici per gli ammassi dei prodotti agricoli, con piccoli magazzini di deposito per macchine e strumenti agricoli, concimi, sementi, sacchi, legname d’opera. Nulla, in ogni modo, che non inerisca strettamente alla funzione del borgo.

Col podere dimostrativo, affidato a un normale colono giusta il succitato «patto colonico per il latifondo», si vogliono fornire alla collettività agricola le direttive tecniche per la bonifica, relative alla sistemazione dei terreni, alla intensificazione delle colture, alle piantagioni arboree, alla tenuta del bestiame e in genere alla condotta e al governo del campo.

Il disegno dei borghi fu commesso, con opportuna delibera, ad otto architetti siciliani; perchè fin dal suo sorgere (nella luce nuova delle opere e dei giorni attesi) l’edilizia rurale dell’appoderamento ripetesse dagli autori e inventori, nati nell’isola, forme congeniali alla natura e ai paesi di Sicilia: direi al senso del suo costume e della sua storia mediterranea, al suo essere: antico e nuovo. E davvero le forme han corrisposto, per felicità intera e nativa, all’aspettazione ed alla fede. Ho veduto i raduni bianchi dei cubi nella immensità della terra, quasi gregge portatovi da Geometria: e una limpida disciplina di masse, riquadri, diedri, gradi; e li avviva una grazia semplice, un’opportunità dell’atto, una speranza. E mi parvero già custoditi dal senno: non nati dall’arbitrio tetro, come può accadere a chi ha matita tra mano da fare i rettangoli, e soltanto matita. E vi erano brevi, puri portici: tinti alla calce i volti, i pilastri: e a sfondo il sereno. Archi a sesto, campiti di turchese. E la torre. Sul lastrico del cortile erano portate le ombre, come ore. E gli sgrondi cadevano alla serpentina lunga dei tegoli veduti in taglio, quasi ghirigoro o belluria: ma non ghirigoro, disegno sano anzi e venuto da necessità. E la porta era accesso già sacro, e la cucina in luce, con l’acquaio, pareva sbandire tutti i mali del luogo come dèmoni il fulgore dell’Arcangelo.

Il sottoborgo, ideato a fiancheggiare il borgo (nel luogo e nella funzione), dovrà sostenere le avanguardie della bonifica, cioè i casolari più lontani, e la loro gente, che sembra veramente dislocarsi ai confini del vivere. Dovrà rompere i troppo gravi intervalli della solitudine; con dimensioni minori di quelle del borgo, e struttura essenziale. È ovvio. Chiesa, scuola, farmacia, qualche negozio: viveri e arnesi.

Questa vertebra della miglioria, il borgo, è concetto, ed è già fatto, che occlude in sé note creative d’una disciplina, quasi paradigmatiche a un futuro assetto dell’agro, d’ogni agro forte.

Dirò, a chiudere questo rapido appunto, che in un anno di lavoro, e nonostante le difficoltà inerenti alla dura contingenza bellica, l’Ente di Colonizzazione ha precorso con l’opere il disposto della legge, movendo il complesso macchinismo degli atti, in precessione sulle promulghe statali.

Per tal modo il consuntivo del 1940-XVIII, primo anno della bonifica, si chiude alla voce «case coloniche» con un attivo di 2507 unità costruite, nelle quali già oggi vengono immessi i lavoratori della terra: 300 case, poi, vi figurano in corso di ultimazione. All’Ente, a Palermo, son pervenute più domande d’accasamento in podere (da parte di famiglie contadine), di quante non si possano accoglierne oggi: e questo sia ricordato a sfatare ogni dubbio circa l’animo onde il rurale di Sicilia ha giudicato il dispositivo della colonizzazione. Le famiglie mandate ne’ poderi sono le più numerose e capaci: quelle altresì che hanno conosciuto nel sangue de’ loro uomini la disciplina della battaglia.

Carlo Emilio Gadda

 

1. Giuseppe Tassinari, Ministro per l’Agricoltura e le Foreste. «La colonizzazione del latifondo siciliano». Conferenza tenuta in Palazzo Vecchio il 7 gennaio 1940-XVIII per l’inaugurazione dell’anno accademico dei Georgòfili.

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ISBN 1-904371-10-8

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Le opere pubbliche di Milano, Piazza Montegrappa a Varese, Le risorse minerarie del territorio etiopico and L’assetto economico dell’Impero were first published in L’Ambrosiano on 25 October 1935 (p. 3); 25 October 1935 (pp. 3-4); 13 June 1936 (p. 3); 23 June 1936 (pp. 1-2). La donna si prepara ai suoi compiti coloniali, Le marine da guerra delle Nazioni belligeranti…,e le loro forze militari terrestri and La colonizzazione del latifondo siciliano first came out in Le Vie d’Italia, issues 44, no. 10 (October 1938), pp. 1248-251; 45, no. 11 (November 1939), pp. 1391-399; 45, no. 11 (November 1939), pp. 1400-408; 47, no. 3 (March 1941): 335-43. I nuovi borghi della Sicilia rurale and I Littoriali del lavoro were first published in Nuova Antologia issues 76, 413 (January-February 1941), pp. 281-86; 76, 414 (March-April 1941), pp. 389-395.

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