Emilio e Narcisso

La scuola napoletana, che il nome del proprio restitutore e direi padre onora nel sommo nome di Ernesto Cacace, ha voluto sceverare e disgiungere dal voluminoso digesto di Pediatria un particolare e antistante libro o paragrafo e lo ha intitolato Nipiologia o scienza del lattante: nonché infante e giacente (νήπιος è infante). Il dottor Cacace fondò a Capua, nel 1905, il suo Istituto Nipiologico e lo trasferì nel 1915 a Napoli. Al congresso pediatrico di Rio de Janeiro (1922) fu riconosciuta alla Nipiologia dignità di disciplina, per quanto le parole valgano, speciale ed autonoma: fu proclamata a maggioranza opprimente la indipendenza della Nipiologia dalla Pediatria. I raduni o congressi o conciliaboli italiani di Ancona (1928), Bolzano (1930), Perugia (1932) e Bari (1933, Società Italiana per il Progresso delle Scienze) portarono a termine codesta guerra di secessione incruenta, misericorde anzi: e in oggi noi ci felicitiamo di aver sceverato e disgiunto, e di poter distinguere con sicurezza i lumi dai lumi: la lampada di Nipiologia da quell’altra, di Pediatria, non meno splendida e chiara. Consapevoli della disgiunzione saremo nipiologi alla culla, pediatri alla Cresima. Sorriderà la mamma al lattante: serberà lo scappellotto a Pieretto.

La specializzazione raccomandata dal Cacace è divenuta pratica e legge: Francia, Spagna, Americhe. Le Visitatrici dell’Istituto Nipioigienico di Capua hanno avuto, ed oggi hanno, le loro consorelle nel mondo. La Nipiologia è costituita da un insieme di ragionate ipotesi e di certezze normative e di cure e di sollecitudini di natura biologistica, psicologistica, antropologica, clinica, igienica: coopera e si coordina con tutte un poco le scienze dell’uman vivere, con i multipli e moltiplicati sistemi delle discipline della vita. È sagacia, è carità, è provvidenza.

Attenzione propriamente scientifica al nipio, illis temporibus, era stata ad ora ad ora negata o saltuariamente accordata. L’istinto materno faceva tutto, l’istinto paterno. La genesìa naturale naturalmente operava, sola: prendeva tutto su di sé: la naturale disposizione a portare a salvamento sua prole, a vegliarla, a raccogliere financo i derelitti sub ubera, sub tectum. Allattati dalla lupa salvatrice, o tralasciati a proda, un giorno, i gemelli, dalla reverenza dell’acque: le quali spaurirono esse medesime, del crimine di che avevano tacitamente commessa. Li raccolse Faustolo, sampognando alle greggi, li recò nella lor zana ad Acca Larenzia la su’ moglie, tutrice de’ frumentati lari latini, perché li avesse a crescere al Lazio. La condizione agreste o pastorale del Lazio, «terra aperta», recupera (in sul margine d’ogni paura delle selve) i nati dalla guerra e dallo stupro, da Mavorte e da Silvia.

Poca scienza, dimolto amore, dimolta (qualche volta) esperienza. Pochi tomi del digesto: dal De natura pueri di Ippocrate alla estirpazione delle tonsille caldeggiata da Celso (Aulo). Circa la scelta della balia Oribasio da Pergamo disquisisce da par suo. Molto citato, in dottrina, il Libellus de aegritudinibus infantum ac remediis, di Bagellardo da Fiume (Patavii, A.D. 1472). Il Trunconio ci ha dato un suo prezioso De custodienda puerorum sanitate, e il Sorano emulandolo (Saragozza, 1600) un non meno prezioso Método y orden de curar las enfermedades de los niños. Jean Paul (Richter) e Jean Jacques (Rosseau), nel Levana (1) e nello stupendo volume dell’Emilio, hanno ragionato per esquisita cognizione di puericoltura e di mamme e di balie, di latte, di alimenti, di capezzoli, di gridi e pianti, di risa, di segni, percettibili o meno percettibili, che i lattanti danno od emettono del loro bene stare: o male stare. Io affido alla vostra diligente lezione il «terzo frammento» del Levana, che si articola ne’ nove capi: inizio dell’uomo e dell’ educazione: la letizia infantile: i giochi: la danza: la musica: gli ordini e le proibizioni: le punizioni: gli strilli e i pianti: la fede infantile. Vorrei leggeste con meco tutto il primo libro, e possibilmente i consecutivi dell’Emilio: con il sicuro suo dettato e con la nettezza e col magistero del fulgurante suo stile, Gian Giacomo ne rapirà fino alla Grande Cataratta delle idee: la sua prosa, al contrario della nostra, s’è iridata d’idee. Ha in esecrazione i medici, ahimè! non credo forse i nipiologi.

«Les Caraïbes sont de la moitié plus heureux que nous. à peine l’enfant est-il sorti du sein de la mère et à peine jouit-il lor de la liberté de mouvoir et d’étendre ses membres, qu’on lui donne de nouveaux liens. On l’emmaillotte… il est entouré de linges et de bandages de toute espèce… Heureux si on ne l’a sul pas serré au point de l’empêcher de respirer» (33).

«En naissant, un enfant crie; sa première enfance se passe à pleurer…» (47). «Je n’ai nul dessein de m’étendre ici sur la vanité de la medecine. Les hommes… supposent toujours qu’en traitant un malade on le guérit, et qu’en cherchant une vérité on la trouve» (61).

«On me dira… que les fautes sont du médecin, mais que la médecine en elle même est infaillible. à la bonne heure; mais qu’elle vienne donc: sans le médecin; car, tant qu’ils viendront ensemble, il y aura cent fois plus à craindre des erreurs de l’artiste qu’à espérer du secours de l’art» (62). «Le choix (la scelta della balia) n’est point un si grand mystère; les règles en sont connues…» (67), e tuttavia ne ragiona.

«Les villes sont les gouffres de l’espèce humaine. Au bout de quelques générations les races y périssent ou dégénèrent; il faut les renouveler, et c’est toujours la campagne qui fournit à ce renouvellement (73). Verità sociologica e storica ignorata da molti storici e sociologhi.

«On peut se servir du thermomètre pour la mesurer exactement» (La temperatura dell’acqua, per i bagnettini e le abluzioncelle del lattante) (74). Via le fasce!, strumento e simbolo più primo e aborrito della costrizione. Ma le balie testarde, infingarde, resistono allo svincolamento salutare: «…l’enfant bien garrotté donne moins de peine que celui qu’il faut veiller incessamment. D’ailleurs sa malpropreté devient plus sensible dans un habit ouvert; il faut le nettoyer plus souvent» (76).

«La seule habitude qu’on doit laisser prendre à l’enfant est de n’en contracter aucune…» (81).

«La malaise des besoins s’exprime par des signes, quand le secours d’autrui est nécessaire pour y pourvoir». Fatto inevitabile e regola generale nella dialessi del mondo. «De là les cris des enfants; ils pleurent beaucoup; cela doit être» (85). «… une langue naturelle et commune à tous les hommes (lo strillare del nipio)… Cette langue n’est pas articulée, mais elle est accentuée, sonore, intelligible…» (in Repetti 11 pure, piano terzo). «Les nourrices sont nos maîtres dans cette langue; elles entendent tout ce que disent leurs nourrisons…» (86). E il dramma, dantescamente inscritto a memoria, del nurrissone che si azzitta tutt’a un tratto nella su’ bile, da crederlo morto di colpo, perché la nutrice lo ha frappato:

«…tacque, di colpo. Pensai fosse intimidito. Ecco un’anima servile, mi dissi, da cui non caveremo nulla: se non con la frusta. Sbagliavo. Il poverino soffocava dalla collera, non respirava più: lo vidi diventar viola. Un momento dopo arrivarono gli strilli: tutti i segni del risentimento, del dolore, della disperazione… i segni propri e possibili di quell’età…» (88).

Un’anima ingiustamente ritenuta «servile» in una creatura di due mesi. Una balia pohobuona. Una suffocazione mancata. Una catarsi di «cris aigus». Oh! Il bel tema! per un concorso fra narratori italiani!

«…Il faut étudier avec soins leur langage et leurs signes…» (93). Filologia e semantica, dunque. E le pagine sul divezzamento: «On sèvre trop tôt tous les enfants» (96). E per avvezzarli a mâcher, a masticare: «…de petits bâtons de pain dur ou de biscuit semblable au pain de Piémont, qu’on appelle dans le pays des grisses». Grissini di Novara. E in chiusura: «Les premiers développements de l’enfance se font presque tous à la fois. L’enfant apprend à parler, à manger, à marcher, à peu près dans le même temps… Auparavant… il ne sent pas même sa propre existence. Vivit, et est vitae nescius ipse suae (Ovidius, Tristia)» (106).

Nella prima età della vita extra-uterina, Gian Giacomo non si stanca d’insistervi, l’infante è tuttavia parasita della madre: di poppa di sua madre il sostento: le cure necessarie glie le va prestando la mamma: s’annegherebbe nelle proprie feci ed urine, a trascurarlo. Per fisici impulsi, per impeti segnaletici immediati, sofferenza, letizia, dà di sé notizie quando strilla e quando chiagne: e la madre quel diabolico semaforismo lo interpetra: lei la capisce subito se è sete se è fame: o che cosa diavolo è. Prima ancora, oh!, che ci avesse indagato sopra il Cacace.

E nemmeno ha facoltà, il nipiolino, di persona o d’animale semovente: la mamma se lo toglie su, come sollevare un fagotto: di qui a lì lo deve trasportare la mamma, come si trasporta un fagotto. Venisse il lupo, l’avoltoio, da sé solo non si smuove, l’innocente, l’indifeso. Strilla. E natura lo ha ben provveduto da chiamar soccorso, al di là di tutte le cortine del silenzio, oppure del rumore.

Poi, poco a poco, il parasitismo alla madre s’è attenuato, per le occorrenze prime e non più mediate, ora, del vivere. Il nipio si fa bambino che comprende, che comunque parla: i denti li ha messi: e può dunque mordere: e sgranocchiare le prime indigestioni a sua posta. Si alimenta da sé, pescando col cucchiarone nella pappa: e ne brodola metà sul bavaglino. Trotterellando sulle sue gambucce deàmbula, incespica: batte del nasetto sulle selci: chiagne: strilla: non s’è fatto nulla. Esprime desideri e opinioni, apprezzatissime dai genitori estasiati. Dentro i limiti della sua facultà mentale, e d’uno schematizzante linguaggio – (ma la chiacchiera è più lata del giudizio) – egli principia a render manifesto il suo essere: la sua anima a prender cognizione di sé. Si afferma in lui, per conati e per gradi, un’attitudine eristica, e la virtù puntuta del dire, contrastando od emulando altri, il più fanfaronesco dei pronomi di persona: io. Principia, la tenera mònade, ad annodare i fili delle sue relazioni con il mondo: e nel mondo è compreso l’io, il sé, veduto come chi dicesse dal di fuori.(2) Il groppo, il centro, il nodo-ragno d’un siffatto ragnatelo di riferimenti infiniti, principia percepire e tradurre ad atti, se pur annaspando nello incerto, la sua funzione poetica. E arriva pure constatare, il bimbo, che la macchina corporea la gli s’è perfezionata ad io fisico oramai libero e uno, non oltre parasita alla su’ balia e al di lei carnale tepore, così provvido e molle, e all’esclusive di lei cure: che possono addentar susina, gli acuminati dentini: che le gambucce lo reggano, per le prime corserelle verso l’incespicone impreveduto. Blocca e domina, alfine, l’erogative sue tendenze. Pipì e pupù signoreggia, a tempo debito serbandole, a vaso predisposto. La coscienza del sé, dell’io uno e facultato, la gli si coagula, ben presto, in un più elevato sistema di riferimento di quanto la mera sensazione non la fosse: in una carica affettiva che ha risonanza dalla psiche. Questa nova carica e splendida la si soprappone in guisa di fastigio a quelle prime angosce del vivere: ch’erano patite e solo registrate per affanno, per puntura di dolore, per solletico ben potremmo dire di piacere: la vapora via come un inno, alquanto fanfaronetto e smargiasso, da quel tutto-fisico e tutto-vegetativo abbandono che l’era ed è delle carni, abbandonate in culla a un loro intrinseco ben essere, sotto al cielo e sotto ai sereni spiri della Italia. L’era un benessere di tutto il grassottello corpiciattolo con minima libertà delle gambucce che, dal materassuzzo, in aere le manovellano a vuoto: e dei ditini pollici e ditini alluci delle mani ovvero cioè de’ piedi così animosamente, per quanto vanamente e con infinita bava e saliva, le lunghe ore succiati.

Erano, allora, le sole angosce: del troppo tepore, o del mancamento di esso, del respiro, del cibo: le angosce proprie alla macchina: la nova carica, invece, la si colora dei colori del sentire: di quel «sentire», di quel «sentimiento», che farà la bazza degli Educatori e dei Maestri. Il «sentire del fanciullo» dovrà venir infatti educato, dal primo che capita, amministrato, dai molti, e unto e conspurcato della deiezione loro, che essi chiamarono la Legge: e utilizzato, da un furbo di provincia e scacarcione vile e smargiasso (ch’era leone ai deboli, e ad una malvagia belva nelle grinfie l’era spaurato conigliolo): e insomma stiracchiato un po’ da tutti: e mandato a spengersi in guerra, il sentire, alla bella guerra, per la bella faccia dei resistenti superstiti. Tiriamo avanti.

Educit obstetrix, educat nutrix, instituit paedagogus, docet magister. È Varrone che parla.

Detta carica affettiva, luce alta e subito dopo gli albori estremamente intensa per l’anima, è corroborata, è avvalorata da ogni buon successo, da ogni buon incontro dell’io: è avvilita o mortificata dal contrario: dalla disavventura, dal male, dalla tabe, dalle percosse, dall’oltraggio, da ferita e da fame: dalla incombente minaccia che l’altrui «massa psichica» senza dichiarata inimicizia comporta, e reca ad atto, quando inconsapevole e nolente, nel nostro confronto.

Carica affettiva! Che si colora dei colori del sentire! Del sentir di sé! Del sentire altamente di sé!

Quale nome dare, in quali pernacchie avvolgere, un così eletto e così poco sentimentale sentimento? è desso un indice della funzione vitale? è causa agente? o vocazione e chiamata? o pure effetto, consecutivo dell’azione e della vita? è uno strumento, un’arma, è una cintura di salvezza, da Dio dataci o dalla su’ fattoressa la natura? e a qual fine? A render possibile, e comunque poi a sovvenire la nostra funzione, a communire, la nostra funzione vitale? è un utensile ad officina, un residuo fecale sulla defecata pelle terrestre, una bandiera, una corona? D’alloro o di spini? 0 di fichi secchi? Memento, memento homo: quia pulvis es.

In passato lo chiamarono egoismo: lo conglomerò nell’egoismo la scienza etica, faute de nuances dans la terminologie scientifique. Lo ascrisse a debito, o a credito, dell’angoscia prima del vivente, del suo egoismo vitale, nucleale: dell’egoismo fagico, addentatore dilaniatore del cibo, e bucco-esofagico, cioè appropriatore, insalivatore e peptonizzatore del cibo. Che lievita ad egoismo avaro dipoi, e in cupidità d’avere si rafferma: e si palesa per dichiarato nome ed azione nella libidine incameratrice dell’acquisto, e nel ringhio del possesso. (Vivissimo nei bambini e nei poveri, oltreché beninteso nei ricchi e nei vecchi: nei poveri è dinamico e diveniristico, e talora aggressivo malamente: e talora stagnante, sognante, lodevolmente remissivo: nei ricchi è più conservativo e più statico: nei ricchi che stanno ulteriormente ad arricchire è alacremente dinamico, brusadellico: e duramente iperconservativo iperstatico. Solo un ministro delle finanze valtellinese può strappar di bocca la bistecca a un molosso bustese in fase di accentuato arricchimento).

Nei decenni primi del decorso secolo, un altro nome si fece alla ribalta: «egotismo». Una t di più. È già qualche cosa. Console a Civitavecchia, l’Enrico Beyle, 1837, intitolò certi suoi giovanili ricordi: Souvenirs d’égotisme. (Sentiment exagéré de sa personalité, nel Petit Larousse Illustré.) Lo Stendhal è un egotista: e sa di essere, oltre tutto. Non si rizza insino all’altitudine del Nano, del Nano in Trono, dell’Aiaccio: non si protubera da podio, nella volgarità priapata del Predappio: non arriva all’egotismo di un musico, o di una poeta in genere, o di un poeta lirico in ispecie: del divo di Pescara: ma egotistuccio gli è lui pure, se pur prosatore.

Il conato stesso del disegnare «volontaristicamente» la propria terrena traiettoria, il voler essere, il voler conferire alla propria anima una significazione programmata, l’appetire e l’arrivare meritare alle non più regie poste un ufficio, il fasciare, del tepore d’una scranna o cattedra, la propria solerzia maestra, e’ sono isforzi che una certa opinion di sé la dimandano: e d’adibire all’opera certa centropetente ovvero centripeta lubido, certa risolutezza egocentrica, di cui appunto ogni egotismo resulta.

Il romanzo The egoist di George Meredith ci propone in atti una specie d’egoismo, di qualità sociale, che è fagico, economico, terriero, feudalistico, di timbro inglese e baronettico, e però conservatore, dopo la conquista (o dopo l’eversione delle spossessate badìe), implicato per altro d’egotismo, di vanità-orgoglio, anche di civiltà e gentilezza e dei resultati del dressage, e coronato, ad effetto, del sentimento centrico della personalità.

Questo senso centrico, nel rovinio tragico di tutti i vincoli antichi e nel polverone della festa populi, io lo chiamo fissazione tolemaica. Meredith era socialista, quanto un inglese può essere: e cioè fermamente. Un conservatore, in generale; e un conservatore inglese in particolare, che poteva altro uscir fuora se non la bestia nera, per lui? altro che il simbolo, e il nome, d’ogni più duro egocentrismo? Pure, non lo dà divedere, alle prime pagine: le bardottine s’incantano, e a sogni azzurri la loro testolina si dischiude: o forse non le leggan Meredith. Sta di fatto che… alle prime, il baronetto bello e ben pettinato non dispiace. Homo bellus, perfettamente educato, discretamente colto, egli è per nascita, e per istinto si mantiene, al centro del sistema attivo (e conoscitivo) della county, du comté. Più forte di lui, la vanità ch’egli è cerca il su’ specchio nelle genti, nelle circostanti case, e lo trova. E riesce a tirare alla disperazione le ragazze, da tanto le noia, le fidanzate: l’una dopo l’altra. I ragionamenti che lui gli fa l’è un soggetto unico per tutti, che sia palese od occulto, dichiarato o sottinteso: il pronome collo-ritto, il prima persona pronome, il beato fra le donne, l’eminente fra gli uomini: quello che di sé dice io. A un certo momento, d’altronde, vo’ vu’ sapete bene che l’amore l’è contrassegnato da un passaggio, da un deflusso: dall’io al tu. È intuire, entusiasmarsi: è un penetrare nel tu: nel te, se volete. Quei ragionari all’io, all’io, all’io, e’ son talmente sedentari e compiaciuti, e così uggiosi a chi li ascolta, che le ragazze ne smagriscono: e venute al punto che gli è oramai svaporata la pazienza, lo piantano, per quanto e’ sia signore in castello. E guaio è che intanto, oltre noiar loro, quelle interminate e intortigliate ragioni del loro baronetto ci rompon l’anima a noi pure: ed è il solo difetto di una tecnica audace, che potremmo chiamare «a sorpresa», cioè sorprendente, se la sorpresa non durasse quanto il corso del Mississipì.

Ché se ben la donna, poerina, l’ami affisare per lunghe ore l’amato, e carezzarlo ne’ capegli, e coccolarlo, e dirgli sì sì sì te tu se’ bello, te t’hai sempre ragione, e non c’è altro che dica più ragioni di te, santo Iddio!, a un certo punto l’ha pur bisogno di sentire che quell’Io-nume e’ si smove: almeno un poco: e dall’altare dell’amore, in dove s’è collocato per suo decreto medesimo, aspira infine e condescende al miracolo. Quel restarsene a far da Io colassù, bloccato fermo sul su’ piedistallo di porfido, dentro le nuvole del suffumigio e d’una adorazione silente, ovvia, non è da Santo, non è da Io che si rispetti. A un certo punto il Santo Io deve far segno, un cenno è bastevole, della sua santa facultà: deve dischiuder l’anima al consenso, all’assenso: permettere al sintomo di sintomare, deve sudar qualcosa di sua pelle, protuberare sua grazia. Deve smoversi. Deve dar luce e miracolo.

1949

2

In uno de’ primi anni del secolo, 1902, sembrami, quando non fosse invece 1904, a designare il poco sentimentale sentimiento vanità – orgoglio – cognizione della propria unità biologica senso puntuale (monàdico) della persona propria – felicità di vivere (3) – letizia altera – esibita qualità – esibito pregio maschile compiacimento (estetizzato) di sé – uno psicologo inglese in una rivista di psicologia inglese (?) usò per primo quel vocabolo che ne gocciola tuttora dalla penna e sibila via d’in vetta alla scilinguata lingua tuttora.

Mi duole, mi duole di non rammentare il nome del geniale scienziato e d’altra parte non ho modo e men che meno ho tempo a ricerca: il Direttore dice: «si aspetta te» con volto da cui evapora il sorriso, al Redattore Capo gli riesce ancora di sorridere, un mezzo lampo stento e subito spento nel volto. L’inglese voleva un nome nuovo, per il «suo» sentimento: che non fosse il nome ch’era di già usato per l’angoscia appropriatrice, per l’ansia primordiale del vivere cioè dello spirare e ingerir cibo, per la volontà dura di «farsi largo nel mondo», a frumentare la propria fame con le terre, ad altri togliendone. Tutto questo, o nella fase statica e però conservativa o nella dinamica e brusadellica più sopra mentovate, era «egoismo». Ma lo stendhaliano «egotismo», il senso centrico e un tantinello esibito della propria personalità, lui, lo psicologo inglese, ne perfezionò il contorno e cavò fuora il nome giusto: che fu «narcisismo». E varò del pari gli aggettivi fiancheggianti «narcisistico», o «narcissico», e naturalmente il sostantivo «narcisista», per dire il gerente, il vettore, il portatore di una carica narcissica di particolare intensità, o particolarmente manifesta in una stagione della psiche. Avverto, une fois pour toutes, ch’io dovrò usare il vocabolo nelle due accezioni indispensabili, corrispondenti ai due gradi d’intensità della carica narcissica: a) per designare la carica normale, (prepuberale, giovanile, adulta); b) per designare la carica abnorme: e si tratta di una anomalia quantitativa (mille in luogo di cento) o di una anomalia di qualità cioè b-I di contenuto; b-II: di modo o metodo. Esempio a): «l’età narcissica lo conduceva ogni momento davanti allo specchio ad aggiustarsi la cravatta». Esempio b): «la narcisistica erezione di quel somaro in conspetto della folla ebriaca raggiungeva i limiti impensati del grottesco: la protuberazione narcisistica della sua somaraggine gli faceva dire cose ovvie in tono profetico: e anche balle dell’altro mondo». Sì, è l’aratro che scava il solco: c’era di bisogno il profeta forlimpopolo per venirne a cognizione noi, quando ogni par di bovi lo sa: ma è la spada che lo difende! e non è vero nulla: la non serve nulla a difenderlo: dal momento che ci vogliano carri armati e carburante e cannoni, e l’esercito unito, e te t’hai solo le tue balle: e le tue coltella a la cintola. E l’esercito te tu l’ha’ morto in principio, quando l’hai disseminato a spizzichi sulle quattro sponde, e nelle quattromila isole del mare. Nostro. Nostrissimo.

Ove si tratti d’a, ove si tratti b voi comprenderete dal contesto, talché non è duopo una ulteriore distinzione. L’impiego b comporta, include, una nota di riprovazione latente: se pure certa serena attitudine ch’io non mi ritrovo nel cervello, per quanto cerchi, possa valere ad attenuare o del tutto intralasciare detta nota: come accade ai clinici, appunto, che variamente ragionano sulla natura della dissenteria, ma con gran benignità di giudizio e ponderatezza d’opinioni quasi che la fosse acqua fresca.

Mi chiederete donde venga il nome, così felicemente scogitato dall’inglese. Per voi, amatissimi, per compiacervi, son tutto scienza, un’arca di scienza: sono un otre di sapienza.

Il cefisio Narcisso, come lo chiama don Gabriele, era difatti il figlio incredibilmente bello di Cefiso e della ninfa Lirìope. Li-ri-o-pe. Annotatelo da non dimenticarlo. Tiresia – no, non Teresa, Ti-re-sia – indovino o indovina alternamente sessuato o sessuata con periodicità sette anni, sette anni maschio sette femmina senza si poter mai arrivare a cavar lo sfizzio… già… né da maschio, né da femmina… non so se rendo l’idea, (4) – Tiresia aveva predetto, del tipo, «che sarebbe vissuto fino a che non avesse visto se stesso».

Nel primo essor dei quattordici, nel pieno éclat de’ suoi ligustri-rose (a noler citare garofani) con quella prima lanugine come di pesca d’agosto che gl’indorava l’indorabile, il Narcisso era amato e affocatamente era desiderato da mille: fanciulle, fanciull… e: sì, fanciulle. Pure non volle saper d’alcuna né di nulla: respinse tutte, tutto. La ninfa Eco (ninfa, scusate, vuol dire sposa, o bella ragazza in desio d’amore, cioè falled in love) arse ella pure di lui. E lui picche. Per disperata la riparò nei monti, ove non è che dirupi: fintantoché vi lasciò l’ossa, e una voce che rispondeva da una rupe. La dea Nèmesi, quella che la non perdona, conosciuto un tanto spregio del giovinino, la inviperò nello sdegno: e divisò ridurre lui pure a morire, a morir tisico, come lui, nel vano e nel troppo amore di sé, avea morto la ninfa. Vo’ vu’ mi domandate: perché ricusarsi, il crudele, all’amorose implorazioni della Eco? Nemmen l’Orazio ve ne potrebbe dire il perché: ma vi dirà il fatto come sta: quando vo’ vu’ vi leggerete gli otto asclepiadei maggiori espuntissimi (Carmina, IV, 10).

O crudelis adhuc et Veneris muneribus potens,
Insperata tuae cum veniet pluma superbiae
Et quae nunc umeris involitant deciderint comae…

che ve li volterò alla lettera, da non essere incriminato d’astruso: «O fin qui crudo, che dei doni di Venere ti suoli prevalere, quando la tua superbia fiorirà non attesa calugine, e que’ buccoloni d’oro che intorno agli omeri ti svolano ci avrà pazziato dentro la forbice, e quel colorito che emula ora la rosa e la porpora, mutato in secco, avra fatto a Ligurino il volto rugoso della zia, oh! allora sì sclamerai (vedendoti un altro allo specchio): ohimè, oh me, quest’uzzolo che mi frulla oggi perché non m’ha pizzicato ragazzo? con questo sentire perché non mi rifioriscono indenni le rosee gote di allora?»

Ce n’è d’avanzo. La repulsa narcisistica la poteva forse, per operazione interna de’ succhi del fisico, maturare un poco alla volta a consenso, sol che la Eco l’avessi avuto naso pazientare: come l’agro d’un acerbo frutto suol pure infradiciare a susina, che dopo caduta la marcisca per le terre.

Del crudel quattordicenne liriopesco ce ne fa storia e direi testimonianza l’Ovidio, in un suo poema buonissimo intitolato delle Metamorfosi (Metamorphoseon quindecim libri) ove al terzo libro ne potrete leggere, dal verso 339 al 510, salesianamente espunti da tutte le edizioni delle scuole:

Multi illum juvenes, multae cupiere puellae:
Sed fuit in tenera tam dura superbia forma:
Nulli illum juvenes, nullae tetigere puellae.

Finché di lui non tocco, che tu tocchi?, vedendolo agitar cerbiatti alla selva, Eco arse d’amore, la ninfa che non può tacere a chi le parla, non può parlare a chi tace:

Vocalis nymphe quae nec reticere loquenti
Nec prius ipsa loqui didicit, resonabilis Echo.

Non aveva altra voce, la garrula guaglioncella, se non a rimandare l’ultime parole d’una frase:

Reddere de multis ut verba novissima posset.

Questo bello scherzo lo doveva a Giuno, incazzatissima con lei. E perché mai? Tutte le volte che quel pomicione del su’ marito, della Giuno, l’era in patetici colloqui con tale o tal’altra nàiade o driade per entro le selve o ne’ monti, lei, ruffianella compiacente, la la teneva a bada la vecchia con le su’ novelle, sicché la frastornava e la istordiva con mille ciance fino a cavarle il tempo a riflettere e a rammentarsi che il su’ marito l’era in bosco: e di certo non solo, dato il tipo. Ch’era un sudicio da non se gli poter trovare l’eguale, né in cielo colassù, checché!, né men che meno in terra qua da noi, ove noi, poveri mimmi, s’è altrettanti agnellini al confronto.

Eco, ardendo, perseguiva Narcisso alla caccia, alle selve: «chi è là?», trasaliva lui, avvertendosi d’un frusciare per il bosco:

Dixerat «ecquis adest?», et «adest!» responderat Echo.

Credendo allora alla prossimità d’un compagno (di caccia), che tutto quell’intrico che le rame facevano gli nascondesse, «ritroviamoci costì!» lui grida: e lei, che a nessuna voce delle selve avrebbe fatto con più trepido animo rimando, lei la confermò ardente il richiamo: «troviamoci costì», e mangiò via, beninteso, la prima sillaba ri, con quella sorta di sempiterna afèresi di cui Giuno l’aveva in eterno multata; da parere il Capocchini, se il Capocchini inghiottisse le ri: ma inghiotte invece le ci: come altrettante mosche.

Se non che ritroviamoci ossia rincontriamoci, può voler pure dire, in sul linguino de’ latini e del Sulmona, facciamo all’amore: sì: per l’appunto costì:

«Huc coëamus!» ait, nullique libentius unquam
Responsura sono «coëamus» rettulit Echo.

E sbuca fuori dal folto, e gli appare: e lo avvinghia delle sue dolci braccia al collo. E lui, a vederla solo, sbigottisce, esteferato: (5) ne rifugge, discioltosi, paventando le si dover prestare a chechessia: «beh, che schifo!» sclamò inschifito: «piuttosto morire, che venire a letto con te!»; «ante» ait «emoriar, quam sit tibi copia nostri!». E lei pappagallina in fiamme, poerina, l’ultime parole solo: quelle che aveva fin là ritenute, che il caso le porgeva ora così belle:

«Sit tibi copia nostri!»: le più belle che possa dire una ragazza. La denegata dedizione e la dedizione per amore: nel gioco meraviglioso dell’Ovidio, del Nasone.

Spregiata, umiliata dalla repulsa, la Eco allora la dimandò ricetto alle selve: tra le rupi e gli antri del monte, accoltavi, la depone ivi il su’ dolore, da potervi poi depor l’ossa: perviene miseramente a sua fine. E la rupe, dove non è persona tuttavia, rimanda l’ultime parole di chi dica:

Reddere de multis ut verba novissima posset.

Di lei lasciando, che la s’è disseccata in una roccia, ed è fatta rupe le ossa ed è fatta schegge del monte (ossa ferunt lapidis traxisse figuram), seguita a far sicuro testimonio, il buon Naso, della vicenda e del destino di lui. De’ mille dispregiati perseguenti c’è chi lo aggancia d’odio e proferisce iettatura, levate a’ dei superni le palme: «Abbia lui pure ad impazzar d’amore», gridò, «mai a pervenir possedere l’amato», «sic amet ipse licet, sic non potiatur amato». E gli consente, detto fatto, la Ramnusia: dal su’ seggiolone di nuvole. Delicatissima descrizione della fonte, ombrata e cheta in un bosco. Narcisso vi perviene trafelato e tutto in un sudore dopo fatica e dopo caccia, e dentro calura da non dire: si butta a bere: ma nell’atto ch’egli estingue una sete, un’altra gli nasce inestinguibile nel cuore, sorpreso dalla bellezza di un volto, di un riso, che ascende a galla ne’ tremuli cerchi dello specchio (incorniciato da una misteriosa proda nenufàrica). Stupisce a così vivida immagine di che il silenzio e la solitudine si allieta, avvinto a lei da una sete nova degli occhi come a un simulacro di pario marmo che l’abbi fatto il Praxitele, fascinato in quel sembiante: i capelli d’oro e’ son degni di Bacco o di Apolline, e le guance d’impubere ove non anco è piuma né calugo. Ligustri-rose a strafottere, l’Ovidio: per il collo, manco a dirlo, è mobilitato l’avorio. Senza pur averne cognizione… desidera se stesso: mentre ammira è ammirato: chiede ed è chiesto lui: dà fuoco ed è fiamma:

Dumque petit petitur pariterque accendit et ardet.

Quello che vede non sa cos’è, né chi è: ma di quel che vede si sente bruciare innamorato. Quante volte a circondare il collo dell’amato immerge nella fonte le braccia, tante le ne ritrae senza collo, spiritando: per che il poeta è in un sudor d’angosce, il Nasone, e non si tiene dall’intervenire ad ammonire, a delucidare que’ fisici fenomeni della ombrosissima luce: e lo istruisce, da quel gran savio che è, de’ miracoli della riflessione (luminosa). Il giovinetto, invece, si abbandona a un suo disperato lirismo. Vorrei e non posso. Mi sforzo e la non mi riesce. Chi vol non pol, chi pol non vol. Chi fa non sa, chi sa non fa. Scruta per entro l’acque e nelle fonde ombre del fonte donde quella luce e quella vita sembrano voler emergere e vivere: e crede, crede di capire. Invoca, in una drammatica perorazione, la compiacenza di quelle selve medesime che pure a tanti compiacquero ne’ tanti secoli del mondo, e al Pomicione padre per primo e alle driadi evinte e alle najadi, ne’ recessi loro più segreti. In barba a Giuno e alla Fede. (6) «Vorrebbe, ecco», sclama, «vorrebbe lui pure! Ci sta! Ci sta! Tutte quante volte gli porgo i labbri a fior d’acqua, anche lui, ve’, avvicina subito i suoi propri, si studia con supino volto baciarmi!

Cupit ipse teneri!
Nam quotiens liquidis porreximus oscula lymphis,
Hic totiens ad me resupino nititur ore».

«Chi che tu sia, deh!» implora, «deh! non mi far morire di languore! Emergi una buona volta nella verità! A che gioco si sta giocando? abbòzzala! con tutti codesti balocchi costì nel guazzo! Levati, e splendi nella verità!».

E di nuovo implora:

«Perché, perché, meraviglioso amico, mi deludi? Dove ti celi, quand’io son già, per un foglio d’ombre intermesso appena, a raggiungerti?».

«Exigua prohibemur aqua».

«Non so che speranza con arridente volto mi consenti: tendi tu anche le braccia, quand’io le tendo: sorridi, quand’io sorrido: piangi se piango. Con cari cenni a tutti i miei cenni senza fallare il minimo rispondi: e per quanto dal moto de’ tuoi dolci labbri mi è dato di comprendere, mi dici parole che non odo:

Et, quantum motu formosi suspicor oris,
Verba refers aures non pervenientia nostras».

Disperato, distrutto, gli accade da ultimo d’annusar la ragia: (7) «Ma codesto costà son io stesso! lo vedo! Iste ego sum! sensi! nec me mea fallit imago! Ardo, ardo di me! Io, io, ho appiccato a me medesimo l’incendio, questa fiamma che nel core mi divora:

Uror amore mei, flammas moveoque feroque».

Il già superbetto… s’intriga allora in tutte le disperazioni, s’avvolge in ogni chiaroscuro d’ogni dubbio. Codesti dubbi, e la fine stessa del nano, e’ sono invero altrettante proposizioni analitiche riguardanti la vita della psiche. Teresa l’aveva dunque azzeccata: «ei vivrà… fintantoché non avrà veduto se stesso». Che farò?, dice l’adolescente: devo spiccarmi dal mi’ corpo? costituirmi in persona aliena e disgiunta da poterlo contemplare con gioia, da poterlo amare con fortuna? Mi spengo fanciullo. [Id est: la fase narcissica è sublimata, e in certa guisa cade annichilata, nel normale sviluppo (del corpo e dell’animo): la violenta, la tempestosa carica autoerotica si discioglie nei succhi etici della pubertà, della virilità, e, in genere, in quel solvente specifico che è tutto il gran lago della vita, della collettività civilmente consociata, che è lago e mare aperto quando non è beninteso invece pozzanghera, o addirittura fogna e latrina. La vita adulta, poi, la conosce un supernarcisismo di carattere genetico (procreante), un altro di carattere operativo e potremmo dire artigiano ossia tecnico, un altro di carattere etico e sociale, e via via.] Lui, il personaggio ovidiano, si dischiude in alto la tunica, si percote il petto, sangue ne sgorga, si strugge a poco a poco e si spegne, muore consumato. Eco lo risaluta miserando. Lui sospirava: «Indarno, diletto amico!»: e smoriva: e lei «Indarno, diletto amico!» dalla cupezza delle sue rupi remote. E lui «vale!» a se medesimo morente: e lei «vale!» a lui medesimo morente.

Le sorelle naiadi e le driadi lo piansero, dalle fredde fonti e nei boschi, e in quel lutto e in que’ gemiti si recisero per il di lui amore le chiome: e gli apprestavano già il cataletto. Ma fattesi là, dov’era steso, a toglierne il raggelato corpo ne’ funebri, in quel luogo ci ritrovarono un fiore, un narciso.

Ναρϰάω ha significato d’intorpidire, d’irrigidire, anche d’inchetire e stordire: donde narcòtico. Egli è però, il Narciso, l’irrigidito in sé, l’intorpidito, il sonnolente (nell’alba acerba di prepubertà non ancor levatosi a brùzzico), quegli che non dà, che non si dà: che non si sdà: ove non alluda invece, l’arcano della favola splendida, a manazione attiva se pur lenta di codesto fiore giovinetto, a facultà operativa: di codesto giglio e bocciuol di rosa del diavolo. Tale opera, infatti, il sottil veneno di bellezza (di che ne diremo dimolta peste più avanti), che con sua sottilità perviene, chi la contempli, chi vi s’indugi, chi vi s’incanti, a inebetire e stordire: a tirar fuor di senno.

Il fisico e botanico ed entomòlogo Renato Antonio Ferchault de Réaumur (1683-1757), il poeta prosatore viaggiatore ed epistolografo Francesco Algarotti (1712-1764), divulgatore de’ più reconditi filosofemi del grande Newton, l’academico di tutte academie e centenario in gloria Bernardo Le Bouvier o Le Bovier sieur de Fontenelle (1657-1757), (8) autore dei celebrati Intrattenimenti sulla pluralità de’ mondi, e dichiaratore felicissimo di tutto l’astruso de’ Vortici del Cartesio, il fisico, storico, moralista e filosafo evoluzionista Giovanni Wolfango Goethe (1749-1832) a cui siamo debitori della rinomata memoria Sulla esistenza di un osso intermascellare nell’uomo, come negli animali, dell’altra Sulla metamorfosi delle piante e di una rinomatissima per quanto totalmente sballata Teoria dei colori (1810), l’economista, pedagogista e filosafo Melchiorre Gioia (1767-1829) che ci lasciò il noto trattato Del merito e delle ricompense, cioè offerta e remunerazione del prodotto, e l’aureo libriccino del Nuovo Galateo, dove s’impartiscono a’ giovinetti i più giudiziosi ammonimenti, suggerimenti e consigli, e in que’ tempi medesimi a un incirca il matematico e fisico Agostino Giovanni Fresnel (1788-1827), divinatore de’ più reconditi arcani che sono intrinseci a tutti i variopinti fatti e infiniti giochi della luce, massime ne’ meandri e ne’ reticoli delle cristalline formazioni, l’abate Ferdinando Galiani (1728-1770) che compose il bel libro Sulla moneta e i piacevolissimi ovvero cioè molto divertenti Dialogues sur le Commerce des blés, (9) di che soleva dire, il signor di Voltaire, «che Platone e Molière s’erano uniti per comporli» e che «non s’era mai meglio ragionato, né più piacevolmente che in quelli», il matematico Pietro Luigi Moreau visconte di Maupertuis (1698-1759), ritrovatore del principio meccanico detto di minima azione, lo scrittore e quarantottista insigne Carlo Cattaneo (1801-1869), fondatore e redattore del Politecnico, la matematichessa e filosafa Maria Gaetana Agnesi (10) (1715-1799), esimia commentatrice del trattato su le sezioni coniche del marchese di L’Hópital, e autrice delle famose Istituzioni Analitiche ad uso della Gioventù Italiana dei miei stivali, e ancora l’astronomo Schiaparelli direttore della specola braidense e osservatore delle fenditure (o canali) di Marte (pianeta Marte) e redattore di un catasto o mappa di essi, il grande fisico, filosafo e medico Gustavo Teodoro Fechner (11) (1801-1887), e lo psicologista Casimiro Doniselli (12) della ex-regia università di Milano, tutti questi pensosissimi e supremamente cogniti spiriti ebbero a formarsi, de’ diportamenti di Narcisso e della disavventura di Eco, un’opinione strettamente fisica e dirò trigonometrica. Molto illuminata-mente, o, poi, molto positiva-mente. Questa fisica opinione, oltretutto, permetteva loro di ritrarre il zampetto dalle panie della favola prima ancora d’averlo messo a quel vischio, e di destricarsi, prima ancora d’averle addosso, dalle capziose reti dell’Ovidio. L’opinione era ferma. E cioè: che la ragazza Eco l’è nient’altro che il simbolo del suono riflettuto ovvero sia rimandato (da una parete piana ed elastica avente a contropiano un’altra elastica): e Narcisso l’è lui pure il nòcciolo, il fàntasma d’una ipotiposi allegorica, e cioè il trasposto psicologico d’un fatto fisico, la riflessione della luce: per cui vale il ben noto principio secondo cui l’incidenza, l’angolo della incidenza (il bacio di Narcisso) eguaglia la riflessione, l’angolo della riflessione (il controbacio a vuoto di quell’altro macaco). Mentre nel caso della rifrazione, del raggio rifratto, e per ogni coppia di mezzi, p.e. aria-flint, vale il teorema: costanza del rapporto dei seni:

sen i

= costante.

sen r

Io, vermiciattolo, condivido pienamente il criterio di quei sommi: il loro punto di vista è de’ più profondi e de’ più veridici che sieno. Ma credo che la esegesi positiva, jonicizzante, non debba escludere la psicologistica, e direi òrfica. La sovrapponibilità delle due interpretazioni, semmai, può testimoniare del genio di quel popolo che intuì e divinò e di poi descrisse e di poi celebrò nelle sue favole i dimolti moti della psiche, con una libertà che resulta impraticabile alla nostra cachettica prudenza: e vereconda stitichezza. Noi qua, col moccoletto a mano della nostra mortificata virtù, sempre che farebbe d’uopo, avendo bene indagato, arrivare a capir meglio, a fondarci sul fondo, siamo qui a bubbolare, d’ogni ombra che la candela medesima ci fa: sol che si tratti invece rubare, barare al gioco, smargiassare e mentire, allora non si bada a spese, non s’ha paura di nulla. Testa alta, petto in fuori.

1949

 

1. Nell’ottima (lo dice il traduttore stesso) traduzione di Saulle Darchini: Torino, U.T.E.T., già Fratelli Pomba Libraj in principio della contrada di Po, 1932. «Credo di poter affermare che questa Levana, anche per un tedesco un po’ in grado di leggere l’italiano, sarebbe più facile di intendersi che quella tedesca» (pag. 13). «To translate him properly is next to impossible», sosteneva il Carlyle (pag. 11).

2. Certi bambini, a chiamar sé, a dir di sé, dischiudono i labbruzzi le prime volte al loro proprio nome di persona (terza persona). «Etcio uòle biòtto» «Sergio vuole biscotto»: e il Sergio è lui stesso. E più facile, al bambino, attribuire il significato di agente a un ente altro da sé: vistoché la sua persona è soggetto squisitamente paziente, non anco facultato ad agire: continuamente sovvenuto dall’azione altrui.

3. La zoliana «joie de vivre» si esplica nel sacrificio (femminile) dirimpetto all’amato.

4. Gli dei lo avevano punito di tal pena’ d’aver incomodato, facendone pezzi a colpi di bastone quasi come d’anguille a Comacchio; certi serpentacci in amore. Era un groppo di vipere e viperoni: che s’erano intortigliati a palla, in una sorta di serpentesco mistero. E lui giù, sui misti, col màngano: proprio non si potéo tenere, poerino.

5. Esterrefatto: popolaresco bergamasco maccheronizzante.

6. La dea Fede, s’intende.

7. «Arriva finalmente a mangiar la foglia» (fiorentino gergale). Dicesi anche: «agguantar la maglia».

8. Il Fontenelle è con d’Alembert, Fénelon e Boileau tra i dialogisti dei Dialogues des Morts. Membro della Académie Française, della Académie des Inscriptions et Belles Lettres, della Reale Accademia di Berlino, della Società Reale di Londra, non gli sembrò il vero di redigere una Histoire de l’Académie e i celebri Eloges des Académiciens. «Un peu de faiblesse pour ce qui est beau», diceva di sé: «voilà mon mal». E diceva nella lettera indirizzata a Luciano messa avanti a guisa di prefazione ai citati suoi Dialoghi: «J’aí fait moraliser mes morts, autrement il n’eút été la peine de les faire parler: des vivants auraient suffit, pour dire des choses inutiles».

Fu accusato di voler fabbricare Accademie per divenirne il Presidente. Forse Paolo Ferrari pensò a lui nel regalarci il tipo (micamal scemo) del marchese Colombi. Nelle Histoires des Oracles egli riesce a dimostrare che le antiche Sibille non erano démoni (con sesso feminino), ma delle ordinarie chiromanti e indovine. La gente credeva nei responsi loro perché «ci voleva credere». Con chiaroveggenza illuministica egli dà a Cesare quel che è di Cesare, cioè attribuisce alla credulità la responsabilità che le compete.

9. Il Manzoni del forno delle Grucce deve averli letti: io no, fino ad oggi: ma li leggerò con diletto.

10. In riconoscimento del citato lavoro, la Maestà di Maria Teresa, graziosa Imperatrice e Regina, si benignava concedere alla esimia analista milanese una scatola con diamanti, non consta a quale uso destinata, e un anello con diamanti. Il Sovrano Pontefice Benedetto Papa Decimoquarto, le largì una corona di pietre preziose legate in oro, chiamandola a leggere matematiche allo Studio di Bologna.

11. Il Fechner è l’autore d’un’opera innovatrice: Elemente der Psycophisik (1860). Speculazioni ardimentose e a momenti fantastiche, resultati positivi. Idee: non balorde. Egli enunciò quel principio-base (per la psicologia dei sensi superiori) che in onore di Weber il su’ maestro egli chiamò per l’appunto il principio di Weber e che in oggi si suole più comunemente chiamare il teorema di Fechner. «L’intensità della sensazione varia come il logaritmo della intensità dello stimolo». Cioè: la sensazione percorre in un raccourci logaritmico (base 2, circa) la scala che il fenomeno eccitatore (esterno) percorre nella variazione aritmetica 1, 2, 3, 4, 5… Il che si osserva più agevolmente nella fisiologia dell’udito: ove i numeri d’ordine che noi conferiamo alle ottave successive della scala musicale, dicendole prima, seconda, terza, quarta, quinta… sono i logaritmi, base 2, del numero di vibrazioni proprie di dette ottave rispetto a una convenzionale ottava zero di partenza, ossia 21 = 2, 22 = 4, 23 = 8, 24 = 16, 25 = 32. Un essenziale reparto dell’orecchio nostro, la chiocciola, davanti al variare delle vibrazioni musicali è un estrattore di logaritmi base 2. La sua semantica, il suo semaforo si esprimono logaritmicamente al cervello.

12. Casimiro Doniselli ha notato che la chiocciola ha la struttura di una spirale di Cartesio, o logaritmica: che è nient’altro, i matematici lo sanno, se non una tavola grafica di logaritmi. Il medico e matematico Elia de Cyon (cioè Sionne) aveva dimostrato già che il laberinto si colloca, per i suoi tre archi ad un punto solo convergenti, in tre piani ortogonali fra loro xy, yz, zx: ch’esso è dunque diobono il cartesianissimo organo di riferimento per la provenienza del suono e per l’orientamento nello spazio. Ablato un arco dopo l’altro a’ colombi (previa anestesia), i colombi e’ smarrivano il loro senso prospettico e l’orientamento ne’ tre piani basso-alto (xy) destra-sinistra (yz) e indietro-avanti (zx). L’occhio de’ prospettici e di Pier della Francesca sarebbe grandemente aiutato, dicano, dalle prestazioni del laberinto: e i sordi sarebbero minimi prospettici. E difatti il sono: ciò consta.

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