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Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista
Gianfranco Contini
Abbiamo sott’occhio un grosso volume collettivo di traduzioni (Narratori spagnoli. Raccolta di romanzi e racconti, a cura di Carlo Bo, Bompiani, Milano 1941), che, mirando a un’alta divulgazione, offre un compiuto panorama della narrativa castigliana. Nulla, a prima vista, parrebbe indicare che d’un tal volume potessimo occuparci in questa sede; (1) se non fosse che, di mezzo all’inevitabile uniformità e grigiore linguistico di così abbondanti versioni, ne spiccano due di Carlo Emilio Gadda dalla Peregrinación sabia di Salas Barbadillo e dal sueño di Quevedo El mundo por de dentro, con tali colori da rappresentare un esemplare, anzi il caso-limite, d’una certa possibilità di traduzione, un fatto nella storia delle traduzioni probabilmente senza precedenti – di sommo interesse anche teorico. Gadda è autore di alcuni volumi di prose narrative e di ricordi e di viaggio, noti per ora a un pubblico soprattutto d’iniziati, La Madonna dei filosofi, Il castello di Udine, Le meraviglie d’Italia (tutti editi dai Fratelli Parenti, Firenze, i primi due nella collezione di «Solaria», l’ultimo in quella di «Letteratura»), oltre che di numerose corrispondenze giornalistiche e di racconti ancora dispersi su varie riviste. Degli scrittori italiani oggi attivi egli è quello a cui si potrebbe applicare con maggior proprietà un predicato nell’uso critico della penisola piuttosto inconsueto, quello d’espressionista: categoria, del resto, più adatta, ivi, ad altre stagioni letterarie (Boine, Jahier) o ad altre regioni, geografiche e spirituali (Viani, il primo Pea). Come sentimmo acutamente rilevare una volta, una prosa di Gadda (il mirabile Studio 128 per l’apertura del racconto inedito: L’incendio di via Keplero, (2) nel Tesoretto del 1940) è il solo esempio italiano di unanimismo, oltre che in assoluto uno dei più validi. L’anima di Gadda si muove fra i poli sentimentali della reazione furente a una determinata vita borghese (del suo, diciamo, antivittorianesimo ambrosiano) e della disperata elegia innanzi al volto più mortale della condizione umana. Lombardo, e cioè conterraneo del vecchio Folengo, anzi milanese, e cioè concittadino del Porta, venuto alla letteratura dalla tecnica (è ingegnere industriale), la sua deformazione linguistica egli la ottiene con l’intervento d’immagini tecniche e col ricorso perenne alle più varie tradizioni di linguaggio, dall’aulica alla dialettale, lombarda prima e più tardi, per omaggio alla fiorentina sagacia, toscana. E l’interesse dell’umorismo o del lirismo di Gadda è tutt’altro che ristrettamente sperimentale, non appena si allenti l’urgenza delle causali psicologiche, rabbia o dolore, che dettavano il suo composito impasto. Quanto ai precedenti di Gadda, uomo di cultura chiaramente umanistica e, nell’eccellente senso, liceale, essi non sono molto più precisi dei nomi quassù vagamente indicati. Bacchelli, che avvicina l’animo di Gadda a Carlo Cattaneo, per lo stile invoca Rovani. È più ovvio fare il nome di Carlo Dossi (da cui scende successivamente la formazione culturale d’un Lucini e d’un Linati), ma è anche chiaro che Gadda non ha consumato le sue veglie sopra questi altri concittadini, e rigorosamente spontanee sono le affinità che lo legano a certa in gran parte sconosciuta zona stilistica dell’ultimo Ottocento nel nord d’Italia, anche fuori di Milano, anche più a ovest, verso A. G. Cagna e il vero maestro di lui, l’ingiustamente rimasto in ombra Giovanni Faldella, e addirittura il primissimo Edoardo Calandra.
Immaginiamo ora un temperamento, per qualche aspetto rabelaisiano (o joyciano), come quello descritto, innanzi all’impresa della traduzione. Sarebbe anche superfluo rilevare come tale operazione abbia sempre rivestito presso un vero scrittore un primordiale valore di esercizio stilistico; mentre, comunque, l’importanza di questo esercizio è accertata per la tradizione letteraria italiana di questo secolo, non solo per generazioni già classiche, da Linati a Cecchi, ma, quello che più importa, per i prosatori dell’ultima leva, un Elio Vittorini, un Cesare Pavese, un Tommaso Landolfi, che anche lavorando dall’inglese (o americano) e dal russo si son fatta la mano a diventare gli scrittori sicuri che sono. Sennonché nessuno di costoro, in quanto traduttore almeno, giunge alla forma attraverso la deformazione; e soltanto nelle versioni dal russo d’un vociano lombardo, dunque della prima generazione citata, Clemente Rèbora, è possibile sorprendere la presenza di termini dialettali. Il traduttore, liberato dall’impegno immaginativo, opera bensì in generale più libero; per dir tutto: più elegante del suo solito; ma solo Gadda ha osato varcare, e i risultati sono stati cospicui, i limiti imposti da un certo mito, tuttavia, di normalità. Si prenda addirittura un esempio estremo, da Quevedo, dominato da un fiorentinismo senz’altro inflato e caricaturale (si veda anche la scrittura diobono, come altrove diokane, crediammé, ettù bischero!), che non esclude, esige anzi per contemporaneità gli arcaismi (in sul, potrebbono, vermini, gallano):
Però, dico io, le bischeraggini che vanno scrivendo in sul marmo, sì, sì, tutte codeste bravazzate degli epitafî che le gallano al di sopra de’ vermini e della putrédine, quelle almeno, diobono, quelle potrebbono davvero tralasciarle di mettere, o cervelloni! Gli è che fino ai morti, dà retta, fino ai morti e alle morte, anche loro ci hanno pure loro la loro vanità: e appena possano, che ti montano volentieri in superbia, una superbietta minchioncella da andare a paro coi vivi. Laggiù al camposanto, senti, la è terra che frutto non dà, nòe? e l’è ancora più spaventosa di quest’ altra, che te tu vai pestando co’ tuoi piedi per tutto il tempo di vita: e in se stessa… di certo che non la merita onore: e nemmeno aratro, o vanga, o zappa che fosse. (3)
E beninteso non sono esclusi i prestiti al settore pratico-scientifico, là dove si discorre del «realizzo della tua porcheria», o dove certi «singhiozzoni da stiantare» (cioè toscaneggianti, ma verso la Toscana di Cellini, per intenderci) sono «stiracchiati in prolunga». Ma in genere, dei due autori barocchi, è il più moralista e più meditativo Quevedo che, movendo l’indignatio di Gadda, e dunque il suo secentismo, provoca procedimenti linguistici che arrivano a includere la parodia di se stessi: i varî strati, dialettale, aulico e scientifico, cozzano in una sarabanda virtuosistica entro una frase come «che le peccata tutte quante le abbino un’unica matrice». Violenze simili hanno una limitata durata, interna beninteso (ché dimensioni vaste ha l’opera folenghiana, fecondo è il Dossi, per ragioni non dissimili da quelle per cui è insaziata, non esaustivamente espressa, la lussuria carnale). Barbadillo per contro, più inventivo, più narrativo e fantastico, si offre meglio, di Gadda, ai riposi. Nel passo che offriamo la poesia è ottenuta anzitutto con ricorsi tecnici (evacuato, intròito, aliquota):
Queste [volpacce], sotto lo stimolo della natura, si vedevano oramai nella necessità di lasciar allentare il ventre: ma non si peritàvano a mollare in presenza de’ compagni, non volendo raffermare il sospetto d’una cosa già di per se stessa evidente: era giocoforza, infatti, che dalla quantità dell’evacuato si avesse a giudicare circa l’eccesso dell’intròito. – Andaron dunque in cerca d’un sitarello un po’ fuori di mano, celato agli sguardi del prossimo, e lì si scaricarono d’una forte aliquota del peso che li zavorrava.
Costì predominano, a patto s’intenda di non irrigidire troppo la distinzione fra Gadda da Quevedo e Gadda da Barbadillo, le manipolazioni lessicali, incluse quelle di «Wortbildung», e di formazione suffissale in ispecie: manipolazioni che si possono in largo senso chiamare gergali (per esempio «Le due volpi non erano però così sbronze quanto le scimmie», «avevano il cervello zuppo nello spiroppone della sbornia», «disarmarli dell’arme della parpagliola»). Scarsi sono i prestiti chiesti alla lingua dell’originale: isolato è pellecchio (da Quevedo), ossia pellejo, derivato di lì («lo scabro pellecchio dell’Ulisse») in un testo in proprio (su «Primato», 15 marzo 1942), (4) dove l’autore stesso provvede a definirlo «vitando spagnolesimo»; mentre naranzo non meno che di naranjo è eco della forma lombarda. È invece indispensabile notare come Gadda tocchi spesso la sua poesia attraverso la sua punteggiatura più risentita, cioè a dire riformando i periodi secondo l’articolazione sintattica che ha più la sua cifra. Così in questa clausola sui «regazzini» e le loro armi puerili in un tumulto villereccio:
Sassi, sassi! di lor natura pesi, e torpenti; ma il braccio che li tira glie le presta lui l’ali, veloci ali.
O in uno stupendo elogio della fronde d’ulivo:
Ell’è, dunque, luce alle luci. Consideratene la facoltà, l’onnipresente valore. Contro uggia e tristezza, un verde allegro e festante, giocondo ammanto dei colli e della riviera. Allegro, e quel che conta, perenne. Contro necessità e fame, un prezioso alimento. Contro le cieche tenebre dell’ignoranza, lume e splendore.
E nella lucida serenità del finale:
Così disse. E così fecero. Durante il ritorno, mi pare, non gli accadde cosa che fosse degna di nota. Emendati e guariti camminavano i chiari cammini. Esenti ormai dalla giurisdizione dei fati, che non hanno alcun potere sugli animi forti e modesti.
Può darsi che in questa distensione sovrana e, a suo modo, classica stia il livello più alto di Gadda. Ma una coscienza storica non riesce a concepirla fuori dal precedente fermento, accorato o ebbro. E non andava posto ritardo, ci sembra, a segnalare, in tutta la sua latitudine, la portata paradigmatica di quest’esperienza di stile. Se l’argomento Gadda non è un inedito neppure in sede di analisi universitaria (si veda infatti lo scritto di Giacomo Devoto negli «Annali» della Normale di Pisa, 1936, cui fece séguito una postilla dell’interessato, su «Letteratura», fascicolo 2), una tale spregiudicatezza in presenza dell’originale, inaudita, non può andare senz’aggiungere qualcosa d’essenziale al ritratto del nostro autore.
Note
1. (Cioè su una rivista di critica stilistica, che usciva a Zurigo).
2. (A suo tempo nella raccolta Novelle dal Ducato in fiamme, ora in Accoppiamenti giudiziosi).
3. Che il punto di partenza tonale non sia nel testo, proverà la citazione dell’originale (lo diamo secondo la Biblioteca de autores españoles, XXIII 327-28): «Mas las bravatas que en los túmulos sobrescriben podrición y gusanos, se podrían excusar; empero también los muertos tienen su vanidad, y los difuntos y difuntas su soberbia. Allí no va sino tierra de menos fruto y más espantosa de la que pisas, por sí no merecedora de alguna honra ni aun de ser cultivada con arado y azadón».
4. (Poi nell’Adalgisa: I ritagli di tempo).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371- 18-3
© 2007-2023 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. Previously published: G. Contini, Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista, in Trivium 1, no. 1 (1942): 74-77; then in Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (Turin: Einaudi, 1989), 55-60. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
The archival research carried out on behalf of EJGS was part of a project funded by the Edinburgh Development Trust, University of Edinburgh. The digitisation and editing of EJGS Supplement no. 7 were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.
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