Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Cases
Riccardo Stracuzzi
Cesare Cases merita, (1) tra i critici illustri presso i quali lo scrittore Gadda non è benvisto, (2) un posto speciale; e ciò perché il suo Un ingegnere de letteratura esce su Mondo Operaio nel 1958, proprio a ridosso del Pasticciaccio, di cui costituisce dunque una recensione o, per meglio dire, una stroncatura. Sicché – in una compagine critica ove agli annosi happy few, proprio in quel momento, si aggiungevano soprattutto i curiosi e gli acritici – il saggio di Cases pioveva imprevisto e imprevedibile, candidandosi ad essere la prima, e a lungo l’unica, sentenza contro Gadda. (3) Si vedranno tra breve alcuni degli argomenti di Cases, ma è opportuno notare sin d’ora che la posizione del critico, in quegli anni, non era ancora giunta a giudicare e oltrepassare il forte debito contratto nei confronti di Lukács, e nei confronti del marxismo di quest’ultimo. Ciò comporta che, da un lato, la stroncatura di Cases risulti incomprensibile, ove non la si cali entro il campo ideologico dal quale prendeva la parola; e, d’altro lato, che lo stesso Cases abbia successivamente preso le distanze da alcune parti della teoria lukácsiana. Rammentando le ragioni del suo intervento sul Pasticciaccio, egli stesso annota che in esso si manifestava qualcosa di «velleitario», ossia la «bizzarria di un certo tipo di critica militante». (4) Con ciò, nondimeno, non si può credere che Cases abbia cambiato la sua opinione; egli stesso, ancora nel ’96, ribadiva che l’intervento del 1958 «si potrà leggere anche quando la fama, forse eccessiva, di Gadda sarà declinata» (Cases 1996: 11).
Accennare alla natura degli argomenti di Cases, sia pure in estrema sintesi, servirà a spiegare perché la sua recensione possa effettivamente leggersi anche oggi, ben prima che la fama di Gadda sia declinata, e posto che abbia a declinare nei prossimi decenni. L’interesse, infatti, non consiste in ciò che vi si dice della scrittura gaddiana: su questo versante la recensione è poco fruttuosa oggi, come nel ’58; bensì in quel che riguarda una certa storia della critica militante italiana.
Credo si possa dire che Cases manca il suo bersaglio polemico: il che, per una stroncatura, non è davvero svista da poco. (5) La mancata captazione si coglie anzitutto da una prospettiva generale, diciamo con uno sguardo dall’alto. Il ragionamento di Cases, suddiviso nei suoi snodi discorsivi, rivela una fondamentale incapacità di strutturarsi: ogni argomento si suddivide in altri argomenti, infatti, e ciò potenzialmente all’infinito. Se il senso deraglia, è forse perché lo pregiudica una contrarietà irriflessa e, probabilmente, proiettiva. «Il moto diventa irrefrenabile», nota Cases circa lo sviluppo simbolico della carriera di Gadda (dalle prose milanesi del Castello e dell’Adalgisa, a quella romana del Pasticciaccio): lo stesso può dire chi legga Cases su Gadda, anzitutto quando cerchi l’ordine di questo discorso. Ammetto sin d’ora che il parziale riassunto che propongo non può surrogare la lettura integrale del saggio, e questa volta non per le ovvie strettezze della sintesi: è il discorso stesso, una volta analizzato, a rifiutare parafrasi.
Il saggio annota in incipit che dal Pasticciaccio non si può desumere la qualità milanese e ingegneresca dello scrittore Gadda; ma poiché egli «ci tiene tanto e ce lo ripete tanto spesso», e poiché ciò «è effettivamente importante», da quel punto si muove (Cases 1958: 41). Segue una prima ripartizione argomentativa che registro così (avvertendo che le frecce indicano una successione causale negli argomenti; i soli punto e virgola una giustapposizione): 1) tema della natura milanese e ingegneresca di Gadda: → 1.1) l’aspetto dell’ingegneria (pp. 41-42); 1.2) l’aspetto della milanesità (pp. 42-43); → 1.2.1) dall’aspetto milanese, e quindi culturale, all’aspetto psicologico dell’autore, sulla scorta di una sociologia (a sfondo meneghino) e una psicologia implicite; → 1.2.1.1) dalla condizione interiore dell’autore a suoi effetti sulla scrittura, qui puramente ostentata ovvero definita attraverso i contenuti (pp. 45- 48); → 1.2.1.1.1) dalla ostensione del testo, si tratta dell’esordio di Tendo al mio fine (RR I 119), al giudizio: scrittura persuasiva solo nel programma (eversione dell’ordine borghese), gli effetti divaricando da esso (p. 48); 1.2.1.1.1.1) raffronto con Quevedo tradotto da Gadda: differenze: Quevedo (come Swift e Hoffmann) oggettiva «le deformazioni che il capitalismo ingenera nella vita degli uomini», Gadda soggettiva (ossia deforma) il modo di rappresentare le deformazioni (p. 48); 1.2.1.1.1.1.1) sulla deformazione confronto con Jean Paul, censurato da Hegel: Jean Paul colleziona, nella pagina, oggetti disparati: anche Gadda, che però utilizza altri due pratiche discorsive: l’excursus e la deformazione verbale (pp. 48-49); → 1.2.1.1.1.1.1.1) l’excursus «serve a svalutare le capacità espositive del discorso» per evitare che si trasformi in racconto: ciò è manifestazione di nichilismo (pp. 49-50); 1.2.1.1.1.1.1.2) la deformazione verbale (nel che si intende il vario espressionismo derivativo, i dialetti, le lingue straniere, i tecnicismi ecc.) è ciò che riporta l’excursus «in seno all’unità stessa della parola» (pp. 50-51), cosicché Jean Paul deforma stilisticamente per via sintattica, Gadda soltanto per via lessicale. Mi fermo qui, non senza registrare tuttavia che, giunto al punto 1.2.1.1.1.1.1.1/2.1.2.2.1), Cases muove indietro al punto 1.2.1.1), inanellando dunque un nuovo punto 1.2.1.2): e sarebbe questa una svolta ordinata, se poi il discorso non continuasse a scindersi in termini che non conducono il 1.2n) a quel 2) cui dovrebbe approdare per essere persuasivo.
Non credo sia necessario soffermarsi troppo sulle asserzioni preconcette che ho riassunto, le quali calano nel discorso di Cases senza alcun segno di argomentazione, se non altro perché, spesso, non sono argomentabili: a) che si possa iniziare a trattare di un autore dalla sua condizione biografica, irridendo il fatto che egli se ne faccia scudo, per poi seguirlo in ciò; b) che un testo si possa selezionare e leggere per quello che vi è detto, ovvero vi è contenuto; c) che il programma della scrittura gaddiana stia nell’eversione dell’ideologia borghese, argomento che si sorregge sul riferimento alla«saluberrima stupidità» (RR I 123 n. 11) con cui Feo Averrois chiosa l’explicit di Tendo al mio fine; (6) d) che Quevedo e Swift e Hoffmann – messi così uno sopra l’altro, senza mediazione storica – usino una lingua referenziale per descrivere un mondo reificato, mentre Gadda usa una lingua reificata per descrivere un mondo referenziale; e) che l’osservazione di Hegel su Jean Paul, così simile a certe di Croce su d’Annunzio, sia degna di menzione (e invece anche Omero dorme, qualche volta); f) che il rallentamento descrittivo immanente alla scrittura gaddiana sia indizio di nichilismo; (7) g) che la scrittura gaddiana agisca a livello lessicale ma sia sintatticamente di ordito tradizionale; e così via.
In verità, il nucleo della critica di Cases, disseminato un po’ ovunque ma non articolato, si legge in una asserzione del ’96, questa volta pregevole per limpidezza:
Gadda si ribellò all’ordine attraverso il linguaggio, soprattutto attraverso l’eversione del linguaggio. Ciò che io non approvo in lui, e lo avevo scritto nel mio vecchio articolo, è proprio questo, appunto perché io ero socialista e quindi mi aspettavo l’eversione da una eversione esistenziale, politico-sociale, mentre invece lui l’aspettava sostanzialmente dalla riforma del linguaggio, dall’uso eretico del linguaggio. (Cases 1996: 15)
Si vede bene il punto; e si vede anche l’errore di questa posizione, che è definibile proprio a partire da ciò che la critica marxista deve fare, dall’interno dunque. Il critico pretende che il suo autore faccia con lui la rivoluzione; ma ciò, lungi dall’essere marxista, è puramente romantico. Egli identifica l’autore nell’uomo empirico, la realtà come altro dal linguaggio: come se il problema della res e del verbum fosse già risolto; come se l’unità di teoria e di prassi si desse in una postulata preminenza della seconda; come se il dovere ideologico del marxista consistesse nel ribaltare l’ordine in quanto tale, e non un ordine specifico (ossia quello del capitalismo). Quando un critico marxista affronta un autore ideologicamente reazionario – quale Gadda era senz’altro, e insieme a lui quasi tutti gli scrittori del Novecento (Proust, Musil, Jünger, Joyce, Pound, Eliot, Montale, giusto per fare qualche nome) – delle due l’una: o lo ignora, semplicemente; o, se decide di trattarne, deve decidere anche di comprendere la sua posizione ideologica, non per parteciparvi, ovviamente, ma per giungere a descrivere come il discorso di classe detti il suo funzionamento: ciò comporta riconoscere che la letteratura ha una funzione sociale determinata perché ha l’effetto di produrre un certo godimento, ideologicamente determinato. E ciò significa che quel godimento va analizzato nelle sue componenti prime e ultime, nello splendore della sua costituzione discorsiva: nella sua interna mistificazione che è, d’altronde, l’unica verità attraverso cui rivelare il suo effetto riposto.
L’incapacità di risolversi per una di queste due vie dà adito a discorsi in cui il quoziente di aggressività nei confronti dell’oggetto è direttamente proporzionale alla difficoltà di rintracciarvi un ordine: ecco allora che gli enunciati si sperdono in una prolissità non commisurata ai propri, confusi, punti di partenza; sicché al discorso non resta soluzione retorica che non sia l’iterazione, poco mascherata, del rifiuto. Anche di là dal caso Gadda, è notevole che Cases riesca commentatore felicissimo quando il suo discorso non è organicamente polemico; oppure, se polemico organicamente, quando tratta di fenomeni culturali o pensatori nettamente avversi al campo in cui il critico milita (p. es. il neo-positivismo che cerca di farsi una verginità marxista; il filosofo Armando Plebe ideologo prima comunista e poi missino; il sostrato idealistico e regressivo immanente alla filosofia heideggeriana ecc.). (8) Ancora più notevole, per contro, è che Cases non riesca affatto felice nel caso in cui l’oggetto della sua polemica non rientri a chiare lettere nei temi del marxismo vulgato: ciò avviene, per esempio, quando egli s’industria a incasellare entro la definizione di logotecnocrazia quelle metodologie letterarie che non siano sociologistiche, storicistiche o, peggio, esperienziali, dando così all’idealismo crociano una contraffatta patente di marxismo; oppure quando dedica una interminabile e noiosa stroncatura a L’attore, romanzo del 1970 di Mario Soldati. (9) Non credo sia necessario, per un critico militante, militare contro Soldati, il quale non è mai passato per campione significativo dell’ideologia borghese. Ciò non è necessario perché l’oggetto è già poco qualificato: dedicargli tante pagine significa, semmai, riconoscergli un rilievo ideologico che non ha. Anche un Marx può incappare in simili equivoci; ma poi le molte pagine dell’Ideologia tedesca – troppe e troppo ripetitive, soprattutto nella confutazione dell’idealismo di Stirner – sono da lui e da Engels abbandonate «alla rodente critica dei topi», perché, con il solo fatto di scriverle, i due autori hanno «raggiunto il loro scopo principale, che è di veder chiaro in loro stessi». (10) Così, si potrebbe aggiungere, da potersi dedicare a compiti più ambiziosi.
Cases, nel ’58, si chiede polemicamente per quale lettore il Pasticciaccio sia prodotto. La domanda è mal posta: bisognerebbe chiedere quale lettore esso riesca effettivamente a produrre. Sostenere che il Pasticciaccio isoli nella collettività dei lettori coloro che sono regressivamente vincolati alla propria koinè dialettale e, insieme, illusi di godere della «cultura senza rinunciare all’ignoranza e all’incoscienza» (p. 67), è cosa sbrigativa e, finalmente, reazionaria. Rispondere comporta ammettere che tali lettori esistono materialmente; e che, per ciò, al marxista che voglia evitare di parlare ai soli marxisti corre l’obbligo di smontare il Pasticciaccio in quanto testo determinato. Per farlo, però, non basterà il ricorso a qualche nozione sociologica o psicologica essenzialmente implicata nell’ideologia che si mostra di biasimare; servirà invece una certa dimestichezza con ciò su cui si regge un romanzo, ossia il linguaggio letterario nelle sue leggi materiali: morfologiche, lessicali, sintattiche, stilistiche o diegetiche che siano. Solo allora si sarà acquisito il diritto ideologico di spiegare a quei lettori in che modo il Pasticciaccio – in quanto individuo specifico e insieme fungibile di un sistema-sovrastruttura ben precedente – possa giustificare retroattivamente, e dialetticamente, un ordine che espropria i lettori stessi del loro diritto di classe.
Università di BolognaNote
1. Cesare Cases (Milano, 1920 – Firenze, 2005), laureato a Milano in estetica, poi germanista, francesista e italianista (soprattutto per i saggi raccolti nel volume Patrie lettere, Padova, Liviana, 1974 e, in versione accresciuta, Torino, Einaudi, 1987), è stato senza dubbio uno dei maggiori saggisti letterari (d’indirizzo marxista) del dopoguerra. Tra i molti titoli di merito, conta la sua attività di traduttore di Lukács (di cui fu il maggiore interprete italiano); e la sua attività di redattore presso Einaudi, vicino a quel Renato Solmi che, a sua volta, tradusse e introdusse in Italia Adorno, Horkheimer e Benjamin. Di Cases bisognerà vedere, di là dal grande numero delle prefazioni, introduzioni, curatele ecc.: (con C. Magris) L’anarchico al bivio: intellettuale e politica nel teatro di Dorst (Torino: Einaudi, 1974); Thomas Mann (Milano: Studio tesi, 1983); Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento (Torino: Einaudi, 1985); Su Lukács. Vicende di un’interpretazione (Torino: Einaudi, 1985); Patrie lettere, cit.; Il boom di Roscellino. Satire e polemiche (Torino: Einaudi, 1990), con qualche caustica allusione a Gadda: vd., alle pp. 71 e 73, l’eponimo racconto fantascientifico ma non troppo del 1963; La fredda impronta della forma: arte, fisica, e metafisica nell’opera di Ernst Jünger (Firenze: La Nuova Italia, 1997 – edizione della tesi di laurea del 1946, discussa con Banfi e Paci); Saggi e note di letteratura tedesca, a cura di F. Cambi (Trento: Università degli Studi, 20022); e le divertenti Confessioni di un ottuagenario (Roma: Donzelli, 20032). È stato edito recentemente il suo epistolario con Timpanaro, di grande interesse per meditare sui meriti di un certo marxismo italiano, e anche sui suoi demeriti (non per forza ascrivibili a Marx): C. Cases-S. Timpanaro, Un lapsus di Marx: carteggio 1956-1990, a cura di L. Baranelli (Pisa: Edizioni della Normale, 2004). Su Cases, non ancora molto studiato, sono da leggere: F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lendini (Milano: Mondadori, 2003), 199-207; 234-67; 1387-397; Id., Questioni di frontiera. Saggi di politica e letteratura 1965-1977 (Torino: Einaudi, 1977), 7-15, 78-90; e il medaglione di P.V. Mengaldo, in Profili critici del Novecento (Torino: Bollati Boringhieri, 1998), 65-70.
2. Credo si possa identificare una piccola cerchia di critici che, per ragioni differenti ma non incommensurabili, dubita della rilevanza di Gadda nel quadro del romanzo italiano del Novecento – a costituirla si chiameranno, insieme con Cases: Baldacci 1963 e 2000; Barilli 1964a; Fortini 1996 (ora pure in Fortini 2003: 1146-149); Mengaldo 1999; Sanguineti 2000, e vd. anche F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti (Milano: Anabasi, 1993), 51, 54, 142.
3. Lo ricorda lo stesso Cases più volte (Premessa all’edizione 1974, in Patrie lettere, cit., xii e Cases 1996: 11), e, al suo séguito, Mengaldo 1999: 118.
4. Così Patrie lettere, cit., xiii e Cases 1996: 12. Più in generale, circa il distacco meditato da alcuni aspetti della teoria lukácsiana, informa nel migliore dei modi la bella raccolta Su Lukács, cit., passim – ma vd. anzitutto la Prefazione (pp. xvii-xxiv), il notevole Lukács e i suoi critici (1972, trad. it. di N. Pasero, pp. 51-87) e Un carteggio (lettere tra Cases e Lukács, 1958-1965, pp. 149-95).
5. In questo senso, parlare di velleitarietà e bizzarria è ancora poco, soprattutto se ci si compiace di esse. Mengaldo 1999: 118 asserisce che «Cases adopera il suo marxismo pieghevole ma fermo per far emergere i tratti (non episodici ma sistematici) di stampo conservatore se non reazionario del pensiero dell’Ingegnere, del suo esistenzialismo tragico» (corsivo mio). Il che è quanto dire troppo e troppo poco: troppo perché – pur glissando sull’ossimoro di ciò che è dotato della qualità di piegarsi ma non lo fa, e quindi nega se stesso – se un marxista fa emergere quanto dovrebbe essere addirittura ovvio, ai suoi occhi, non si può attribuirgli gran merito (e per notare l’ovvio basta una paginetta); troppo poco perché si sorvola sul modo con cui sono impiegati tali reagenti e per ciò sul rapporto, ideologicamente tutt’altro che irreprensibile, che il marxista in questione stabilisce con il proprio oggetto.
6. L’argomento non è sostenibile, benché sembri convenire a taluni marxisti. Lo usa anche M. Spinella, Carlo Emilio Gadda o della trasgressione, Rinascita (25 maggio 1973): 48 – con intento plaudente però. Si tratta forse di una specie di sineddoche argomentativa (pars pro toto), ma è dubbio un giudizio critico che eleva la parte a tutto. La successione retorica di Tendo al mio fine accerta che la «saluberrima stupidità» non è in prima istanza «l’ideologia borghese», e che essa non intrattiene con il discorso dell’enunciatore un rapporto per cui il secondo possa divenirne l’eversore; semmai il discorso è destinato, e l’ironia non controdetermina in ciò, a esserne vinto: ecco la funzione del cavallo.
7. L’inferenza risulta addirittura inesplicabile, a meno di non conoscere Lukács, e specialmente quel suo saggio, intitolato in italiano Narrare o descrivere?, in cui si censurano Flaubert, Zola e i Goncourt a favore di Scott, Balzac, e Tolstoj: insomma, naturalismo (descrivente) contro realismo (narrante) – cfr. G. Lukács, Narrare o descrivere?, in Il marxismo e la critica letteraria, trad. di C. Cases (Torino: Einaudi, 19757), 269-323. Le ragioni per cui egli prende partito a favore del realismo narrante si limitano al fatto che, con quest’ultimo: «Noi costituiamo il pubblico di certi avvenimenti a cui i personaggi del romanzo prendono parte attiva. Questi avvenimenti, noi li viviamo» (p. 276, corsivo mio). È per la stessa ragione che Lukács, a più riprese, promuove Gor’kij e retrocede Joyce. Di là dal dibattito sul realismo socialista e a meno di non ridurre Lukács al più ortodosso zdanovista (ciò che non sarebbe legittimo), bisogna ammettere che qui agisce, contro Marx, un kitsch umanistico e vitalistico. Lo stesso che agisce talora in Cases, il quale non ha dubbi nel decidere che Gadda è sopravvalutato, e asserisce poi che Menzogna e sortilegio «è uno dei dieci o venti romanzi del Novecento che ci porteremmo dietro nella famosa isola deserta» («La Storia». Un confronto con «Menzogna e sortilegio», in Patrie lettere, cit., 105).
8. Marxismo e neopositivismo (1958) e Un filosofo in svendita (1972) si leggono in Il boom di Roscellino, cit., 3-68, 79-108; Heidegger uno e due (1953), in Il testimone secondario, cit., 75-82.
9. Il poeta e la figlia del macellaio (1978), in Il boom di Roscellino cit., pp. 195-216, dove si polemizza con Giovanni Pozzi, Pier Marco Bertinetto e Carlo Ossola (definiti logotecnocrati), perché i metodi da loro proposti per l’analisi testuale dell’opera letteraria avrebbero per effetto, sia pure indirettamente, di privare i soggetti (i.e. gli studenti) di una esperienza (i.e. la lettura) reale o almeno possibile. Evidente il contenuto regressivo dell’accusa: che la lettura debba essere esperienza, ossia dis-alienazione repentina per immediato conseguimento di coscienza. Nonché Marx, è Feuerbach qui a essere lontano. Per la lunga e, ancora una volta, disomogenea stroncatura di Soldati, vd. Il baricentro nel sedere (1971), in Patrie lettere, cit., 88-97.
10. Vd. K. Marx, Prefazionea Per la critica dell’economia politica (1859), trad. di E. Cantimori Mezzomonti (Roma: Editori Riuniti, 1957), 6. Le ragioni che resero sconsigliabile a Marx ed Engels la pubblicazione dell’Ideologia tedesca dipesero da questioni contingenti («Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa», ivi). Ciò non toglie che il testo rimase nel cassetto anche in séguito, mentre Marx si occupava d’altro.
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ISBN 1-904371-00-0
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