Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Il palazzo degli ori
e Un maledetto imbroglio
Mara Santi
[0] Cinema
[1] Cinema, seconda parte e Teatro
[2] Cinema-Domingo del señorito en escasez
[3] Dal Carso alla sala di proiezione
[4] Il palazzo degli ori e Un maledetto imbroglio
Attorno al 1947 Gadda scrive Il palazzo degli ori (SVP 925-987), il trattamento cinematografico, in 30 scene, del Pasticciaccio che, indipendentemente dalla ragione, forse economica (SVP 1404-405), per cui viene realizzato, rappresenta il momento di maggiore avvicinamento di Gadda alle «manifestazioni artistiche a larga base» (Gadda 1979a: 60). Con ciò si intenda che nel Palazzo degli ori Gadda cerca di adattarsi alle regole costitutive e alle caratteristiche fondamentali del genere poliziesco, consolidate e riconoscibili per un pubblico medio, e che, parallelamente, intende dare corpo a un racconto di piana leggibilità. Lontano dalla tendenza acentrica e dalla stratificazione della propria narrativa, e soprattutto della seconda redazione del romanzo, Gadda organizza la vicenda in un intreccio moderatamente intricato, attorno ai due delitti commessi nel palazzo (rapina e omicidio), e la conclude con il completo chiarimento dei misteri, risultando semmai interessato alle implicazioni psicologiche dei personaggi che all’invenzione di un plot complesso o problematico. La struttura narrativa è infatti lineare e attenta a risultare chiara in ogni passaggio, si cura di recuperare segmenti fondamentali di scene pregresse, laddove la distanza temporale potrebbe sovrastare la memoria a breve termine dello spettatore, ed elimina le ambiguità fino a precisare quale debba essere il messaggio ricevuto dal pubblico. A ciò si aggiunga che Gadda non trascura di immettere qua e là elementi comici, distensivi, tipicamente da commedia:
Interrogatorio con qualche risultante comica: ella valorizza languidamente il reale spavento patito, e la disavventura, ai fini di una immediata «conquista» dei signori della polizia; (SVP 948)
I due agenti sono bei giovani e devono valersi di tale loro prerogativa per «agire» psicologicamente sulle donne portinaie, serve, signore, ecc., e in genere per dissimulare la loro qualità di agenti di P.S. Tale fatto è un dato ironico del film e va accentuato; (SVP 952)
Curiose e comiche interferenze telefoniche intralciano la conversazione tra Ingravallo (Roma) e Santarella (Marino) […] Pasticcio e sovrapposizione di voci e di dialetti e di notizie. (SVP 953)
Gadda pare insomma voler ristabilire una ratio, gradevole e confortante, alla «debilitata “ragione del mondo”» «strizzata nel vortice del delitto» (Pasticciaccio, RR II 17 / QPL RR II 283), una ratio che si esplicita con il disvelamento finale dell’enigma, la colpevolezza di un personaggio (Virginia), con cui è posta fine a tutti i fili narrativi, antiteticamente dunque rispetto al Pasticciaccio, «la [cui] compiutezza […] non va cercata nella trama» (Donnarumma 2002) e che, come dice Gadda, è «troncato apposta a metà» ma è comunque «finito […] letterariamente concluso. Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta» (Gadda 1993b: 171-72). Al contrario nel trattamento è spiegata la psicologia criminale dell’assassina oltreché il suo movente, il poliziotto è canonicamente responsabile della ricomposizione dell’ordine e lo scrittore si perita di puntualizzare le atmosfere, i significati di ciascun elemento con indicazioni che lascino poco adito a variazioni, già focalizzate sulla recitazione degli attori, sulla definizione delle inquadrature e persino dell’illuminazione. Si veda, a campione:
esagerazione surrealistica della sciarpa in una dissolvenza-lampo n.° 13: la sciarpa verde diventa un po’ un mito; (SVP 951-52)
Le inquadrature, in luce e ritmo tragici, devono portare alla tonalità massima il concetto-angoscia che il «palazzo degli ori» sia visitato da una misteriosa maledizione; (SVP 961)
Poi, per carrellata surreale, il viso durissimo di Ingravallo si accosta e dilata a primo piano, ossedente immagine del giustiziere. (SVP 987)
Ma la puntualità delle indicazioni, talora superflua in un trattamento, una certa approssimativa ripetitività lessicale nelle note tecnico registiche (si veda l’iterazione di lampi a indicare diversi movimenti di macchina e tipologie di montaggio), la lunghezza del testo sovrabbondante di contenuti e l’oscillazione stessa nella definizione dello scritto – chiamato ora «soggetto» (SVP 987) ora «sceneggiatura» (SVP 1403) senza che abbia, per opposte ragioni, le caratteristiche né dell’uno né dell’altra – lasciano trasparire una preparazione tecnica poco approfondita in fatto di cinematografia. Tuttavia se l’impostazione del lavoro secondo una precisa appartenenza di genere non è sostenuta da uno specialistico bagaglio tecnico, è invece basata, come detto, su una ben più sostanziale preoccupazione di comprensibilità, per la quale ogni messaggio è da costruirsi in relazione al mezzo di comunicazione cui è affidato e al pubblico cui è destinato. In altre parole una carente strumentazione tecnica nell’affrontare il cinema confermerebbe la predisposizione da parte di Gadda a un approccio sociologico, psicologico, quasi antropologico alle forme di arte e di comunicazione di massa.
Relativamente agli interessi epistemologici di Gadda si vedano l’esempio teorico-pratico offerto dalle sue Norme per la redazione di un testo radiofonico (SGF I 1081-091) o l’applicazione diretta in Il Tevere, lavoro preparatorio per un documentario televisivo (Gadda 1991b; ora SVP 1093-131). In particolare nelle Norme, al di là delle specifiche istruzioni sulla «adattabilità dello scritto al mezzo che lo diffonde», si trovano enucleati principi della comunicazione quali il «diritto economico e mentale del radioascoltatore» (SVP 1081) e l’organizzazione del discorso a partire dalla consapevolezza che il pubblico radiofonico «è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone sole”» (SVP 1084). Principi che, ri-contestualizzati, comportano il rispetto del diritto economico e mentale del pubblico cinematografico – non più pagamento di un «servigio» come nel caso «del radioascoltatore abbonato» (SVP 1081) ma piuttosto servizio commerciale di compravendita (biglietto d’ingresso per sogno della durata di tot minuti) – e la sua natura di gruppo. Il film deve allora preoccuparsi di allettare, di essere recepito e apprezzato dalla mente collettiva rappresentata dalla platea cinematografica, rispettandone le attese. In tal senso, però, risulta allora maturare da una ben più problematica riflessione l’adattamento cinematografico del Pasticciaccio realizzato da Pietro Germi.
Il 1959 vede infatti entrare nelle sale cinematografiche anche Un maledetto imbroglio: «libera riduzione dal romanzo di C. E. Gadda Quer pasticciaccio brutto di via Merulana edito in Italia da Garzanti» (dai titoli di testa), alla cui realizzazione Gadda non prende parte. Di fronte alla caotica, irrisolta complessità del Pasticciaccio, Germi non può che giungere, in primo luogo a livello strutturale e tematico, alle medesime conseguenze dello stesso Gadda: ridurre, semplificare, ricondurre a norma. Germi sposa cioè quella linea di sostanziale riordino, in direzione del discorso narrativo poliziesco canonico, che sembra rendersi necessaria al momento dello spostamento della narrazione in un diverso contesto di espressione, destinazione e ricezione. Allo stesso tempo Germi, con episodi e modi analoghi a quelli ipotizzati da Gadda, attiva nel film il sottotesto della commedia di costume, che però si fa qui portatrice di uno sguardo e di una lettura del mondo potenzialmente contraddittorie rispetto alla logica e al canone del noir, manifestando all’interno del genere problematiche non prima presenti, la cui eco riverbera anche su una implicita polemica condotta contro l’imperante filmografia neorealistica (A. Ricci 2005: 91-92, 95-96).
L’operazione di Germi non ha infatti solo un connotato di necessità, è al contrario sostenuta da scelte registiche che tendono a distanziare il film dal libro, cioè ad affrancarsi dalla ingombrante personalità del romanziere, per diventare «un’entità autosufficiente che si pone in posizione dialettica con il testo di riferimento» (Ricci 2005: 96) e soprattutto che stabilisce per propri interlocutori primari la produzione e la critica cinematografica degli anni ’50. Si valuti, in merito, la corsa finale di Claudia Cardinale dietro all’auto della polizia, che è una citazione neorealistica di Roma città aperta da leggersi in chiave antifrastica: sono infatti i rappresentanti delle forze del bene a sottrarre alla protagonista il compagno e la corsa di lei, cui nessuno pone termine violentemente, diventa una sorta di inseguimento vano dietro all’auto della polizia letteralmente in fuga, sollecitata da un angosciato Ingravallo. Resta tuttavia il dato evidente che l’affinità delle scelte di Germi e di Gadda e ancor più il ricorso a Gadda da parte di Germi per il proprio intento polemico, di critica sociale ma anche di destrutturazione del genere giallo alle cui regole è formalmente ossequioso, emenda, mi pare, almeno in parte, il giudizio di inadeguatezza comunemente espresso sul discorso filmico di Germi rispetto a quello letterario di Gadda, giudizio oramai stereotipato, ma frettoloso o troppo facile per non essere semplificatorio.
Universiteit GentPublished by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
© 2008-2024 by Mara Santi & EJGS. First published in EJGS. EJGS Supplement no. 1, third edition (2008).
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