Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Pastiche

Riccardo Stracuzzi

Il primo a ricorrere all’argomento del pastiche, per descrivere la scrittura di Gadda, è stato Gianfranco Contini, e nella fattispecie nel primo dei suoi interventi dedicati all’Ingegnere: la recensione al Castello di Udine, allora appena apparso. (1) In quelle pagine il giovane filologo, non meno che critico militante, non si limitava a menzionare il pastiche entro la pur evidente sede del titolo, ma vi ritornava più volte, ritenendo che in esso si mostrasse un factum rilevante: «quanto di risentimento, di passione e di nevrastenia covi dietro al fatto del “pastiche”» (Contini 1989: 3). In séguito la proposta di Contini ha avuto fortuna, anche per la possibile assimilazione della nozione di pastiche a una delle parole-chiave della prosa gaddiana, il pasticcio, o il Pasticciaccio che marca il titolo di uno dei due romanzi maggiori. (2)

Recentemente ci si è chiesti se davvero il pastiche, in altre parole un breve testo scritto à la manière de, abbia a che fare la scrittura gaddiana: se cioè quelle che lo stesso Contini, nel brano citato, aveva definito «scritture mescidate» possano essere intese anche come scritture imitative. Donnarumma, per esempio, scrive: «La nozione di pastiche [in Contini] oscilla. Esso è, anzitutto, eterogeneità di una scrittura sul piano diacronico (compresenza di arcaismi e voci moderne) e sincronico (compresenza di vari livelli linguisitici, e tra questi del dialettismo). […] Anche se, in senso stilistico, (e in senso francese, proustiano), il pastiche è cosa diversa: cioè l’imitazione di un’altra scrittura (nella fattispecie arcaica, […]), senza che ne derivi di necessità il mistilinguismo» (Donnarumma 2001a: 195).

Come a dire: una confusione, più o meno strategica, tra pastiche (Proust e il suo Affair Lemoine) vs pasticcio come plurilinguismo (Gadda e, mettiamo, il suo Tendo al mio fine). Prima di Donnarumma, d’altronde, altri due studiosi avevano messo in questione l’idea del pastiche gaddiano. Fratnik, in una nota del suo notevole L’écriture detournée (Fratnik 1990: 106) segnalava che il termine pastiche è usato dalla critica gaddiana non nel senso corrente (quello di imitazione) nel quale è riconosciuto da un locutore francofono, ma semmai in quello di pot-pourri o di miscuglio, secondo l’accezione che esso condividerebbe con l’italiano pasticcio e che la parola francese avrebbe nel dizionario delle arti pittoriche (fonte citata: le Robert). A questa nota s’ispira Roscioni, quando suggerisce, tutto sommato con una cautela assai avveduta, che si può leggere in Gadda non solo il pastiche come occorrenza di un modello scrittorio pluristilistico, ma anche come intenzionato ricorso all’intertestualità, alla ripresa, alla imitazione allusiva (Roscioni 1995a: 198).

Come si vede, argomenti tra loro non propriamente coincidenti: più problematica Fratnik di Donnarumma, più problematico ancora Roscioni. Tuttavia, per decidere se la proposta di Contini abbia una sua fondatezza o meno, è ragionevole riflettere sulla storia della parola francese pastiche; non tanto per farne un etimon logos (in sé tutt’altro che misterioso), ma per seguire l’evoluzione dei contesti in cui essa è stata impiegata, i sottotesti ad essa connessi, etc. Spiace notare che questo lavoro non sembra essere stato uno dei problemi principali di critici e teorici della letteratura, e non solo italiani.

Genette, per esempio, che ha senz’altro pubblicato, riguardo al pastiche, lo studio teorico più rilevante degli ultimi anni, si limita a osservare che: «Le terme de pastiche apparaît en France à la fin du XVIIIe siècle dans le vocabulaire de la peinture. C’est un calque de l’italien pasticcio, littéralment “pâté”, qui designe d’abord un mélange d’imitations diverses, puis une imitation singulière», (3) con una certa rapidità di ricostruzione e un paio di considerevoli imprecisioni. Innanzitutto la parola pastiche è attestata nella lingua francese all’inizio, e non alla fine, del XVIII secolo (1719), e prima ancora alla fine del XVII (1699). (4) In secondo luogo, in queste prime attestazioni – nelle quali è da notare che il significato del termine è già solidamente tecnico e non comprende alcuna mescidazione di imitazioni differenti – si profila già che l’elemento del plurale, del variegato, del molteplice non è da intendere in senso estrinseco (varie imitazioni riunite insieme, centone, etc.), ma in senso decisamente intrinseco. Il pastiche è, da sùbito, una forma di plagio, di gioco d’autorità, dunque, e la sua duplicità consiste nel dichiarare testualmente un essere contemporaneo al non-essere: quadro di A che si presenta sotto il nome-d’autore (marca peritestuale) di B.

Considerato ciò, si vede bene che alla fine del XVIII secolo, la parola pastiche ha già maturato una funzionalizzazione tecnica, che la rende applicabile a diversi sistemi semiotici (pittura, letteratura, musica: già in Du Bos); e tanto ad usi negativi – Du Bos e, in parte, Marmontel (élements de littérature, 1787, in Oeuvres complètes, Paris, 1819-1820, ed. anast. Genève: Slatkine Reprints, 1968, 833-35) – quanto ad usi postivi: de Piles e Diderot (Salon de 1767, 1768, in J. Seznec & J. Adhémar, a cura di, Salons, vol. III: 1767, Oxford: Clarendon Press, 1963, 195-96): l’astrazione è compiuta.

Da questo luogo di astrazione non si muoverà più, ed è il caso di notare che esso contempla strutturalmente la doppiezza, l’intreccio di una varietà di stili (come ha segnalato Giachery 1990: 61): in altre parole, la compresenza intrinsecamente antifrastica del dire e del contrapporre al dire il modo di dire. Il pastiche è sempre, inevitabilmente, ironico: se la comicità o l’umorismo non sono suoi effetti necessari, non si può però seguire Genette nel tentativo di distinguere di un pastiche satirique da un pastiche admiratif, cioè separare la caricatura dal pastiche propriamente detto. Ma è, in fondo, l’opposizione genettiana di parodia e di pastiche a lasciare molti dubbi: «le parodiste ou travestisseur a essentiellement affaire à un texte, et accessoirement à un style; inversement l’imitateur a essentiellement affaire à un style, et accessoirement à un texte: sa cible est un style, et les motifs thématique qu’il comporte». (5)

Certo, il parodista genericamente inteso produce un apografo che ha come antigrafo un testo, laddove il pasticheur produce un apografo che ha come antigrafo un corpus di testi, e dunque lo stile che tali testi condividono (un nome d’autore, in altre parole); ma non è meno vero che anche il parodista in quanto tale costruisce il suo apografo a partire da uno stile, creando gli effetti della derisione che si prefigge grazie all’evocazione di un modello stilistico che è nelle competenze letterarie del suo lettore, per poi contrapporre ad esso un modello stilistico polarmente antitetico e corrispettivamente satirico: è quel meccanismo dell’incongruo linguistico così ben conosciuto dagli umoristi e dai comici. Si può certamente concordare con Genette quando osserva che alla parodia e alla caricatura soggiace un’ideologia del buono stile, l’affermazione etica e indiretta di una maggiore moralità dello stile semplice.

Anche il «convoluto Eraclito di Via San Simpliciano» è stato pastiché, per esempio, e da uno dei più noti pasticheur del Novecento italiano (anche perché uno dei pochissimi): Paolo Vita-Finzi ha scritto un Carlo Emilio Gadda, Lo scrittore enciclopedico, guazzabuglio quasi in regime di paroliberismo, che potrebbe essere l’involontaria imitazione di uno scadente Arbasino, più che che di Gadda. Il fallimento del pasticheur nostrano, in generale non troppo dotato di raffinatezza nell’imitazione, non deve stupire: non si può fare pastiche di una scrittura che è già implicitamente «scrittura del pastiche». (6)

Da tutto ciò si può derivare, certo, che un locatore francofono di pastiche riceverebbe più facilmente l’accezione di testo letterario volutamente redatto dallo scrittore A alla maniera dello scrittore B; ma non che quest’accezione esaurisca o anche solo spieghi sufficientemente la nozione in causa. Del resto, basta ripensare al solo Affaire Lemoine di Proust – al di là della nota raccolta di Reboux e Muller, ai nostrani Vita-Finzi e Serra, ai Contes drolatiques di Balzac, ai vari casi di pastiches isolati, effusi cioè entro i testi non integralmente imitativi, citati da Genette (7) – per convincersene: in effetti, che cos’è l’Affaire Lemoine se non una serie di micro-romanzi in sequenza nei quali l’autore implicito disegna per il suo lettore una sorta di romanzo-selezione, nel quale diversi spicchi diegetici sono raccontati, non in modo sequenziale, da differenti voci? (8)

Non basta leggere il divertissment proustiano portando l’attenzione sui vari pastiche presi uno ad uno, ma bisogna anche riconoscere che una delle ragioni del suo prodigioso effetto di mimetismo letterario deriva strutturalmente dalla giustapposizione di uno spicchio di storia raccontato alla maniera di Balzac, d’un altro spicchio raccontato alla maniera di Flaubert, della recensione al finto racconto di Flaubert scritta alla maniera di Sante-Beuve, d’un ulteriore spicchio raccontato alla maniera di de Regnier, dei Goncourt, di Michelet, di Faguet, di Renan e di quel Saint-Simon tanto caro a Gadda.

Il mimetismo risalta così non solo per la riproduzione, inevitabilmente ironica per quanto ammirativa, dei caratteri retorici e stilistici degli scrittori imitati, ma anche dalla contrapposizione dei generi del discorso letterario: il romanzo, il saggio letterario, il diario intimo, la prosa lirica, la prosa memoriale, la critica teatrale, e così via. Non è immotivato, dunque, affermare che la nozione di pastiche implica tanto quella di imitazione quanto quella di eterogeneità stilistica: se il mistilinguismo non vi è compreso di necessità, vi è certamente compreso il pluristilismo, di cui il precedente è per necessità caso specifico.

Seguire la scrittura di Gadda lungo la traccia del pastiche, allora, significherà potervi scoprire il calcolato codice compositivo, che non deriva da una banale polemica linguistica, né dalla volontà tutta razionalizzata di rappresentare il disordine del reale, ma dalla regolata sequenza di segmenti frasali che imitano, e quindi inevitabilmente deridono, i generi del discorso in quanto tali, il linguaggio cioè.

Gadda non scrive pastiches come ne ha scritti Proust, evidentemente; i suoi maîtres pastichés sono i lemmi del dizionario, le famiglie semantiche, le strategie argomentative che si celano nell’apparente neutralità di tali risorse dizionariali. Se si legge la favola 180 del Primo libro delle Favole (SGF II 57-58) ci si diverte dell’abile trovata, neo-francescana, di far parlare gli uccelli con i più diversi dialetti italiani: l’emiliano, il veneto, il napoletano e il toscano; ma soprattutto si ammira la sublime chiusa: «e altre finezze, e maravigliose e dolce istampite del trobàr cortés», che rinvia al pastiche d’apertura:

D’un’aperta fenestra dell’ipiscopio com’ebbe udito quel diavolìo, monzignor Basilio Taopapagòpuli arcivescovo di Laodicea se ne piacque assaissimo: e dacché scriveva l’omelìa, gli venne ancora da scrivere: «inzino a’ minimi augellini, con el vanir de’ raggi, da sera, e nel discolorare de le spezie universe, e’ raùnano a compieta: e rendono a l’Onnipotente grazie di chelli ampetrati benefizi ch’Ei così magnanima mente a loro necessitate ha compartìto, et implorando de le lor flebile boci, contro a la paurosa notte sopravvenente el Suo celeste riparo, da sotto l’ala richinano ‘l capetto, e beati e puri s’addormono». (SGF II 57)

Ma più interessante ancora è leggere il breve Tendo al mio fine che apre il Castello di Udine (RR I 119-23), confrontandolo con le prime due recensioni che Gadda dedicò alle prose di Tecchi: Un narratore: Bonaventura Tecchi (SGF I 698-701) e Tre storie d’amore (SGF I 739-44): si scoprirà che molti motivi, molte allusioni, molti riferimenti a tutta prima parzialmente opachi svelano che quella prefazione è una sorta di controcanto anti-tecchiano, un pastiche o autopastiche volutamente straniante con il quale l’Ingegnere reagisce all’autorità di un amico che, in quanto scrittore, non stimava troppo, ma che aveva svolto un ruolo assai importante nel suo avvicinamento alla letteratura. (9)

Il pastiche, sembra di poter considerare in conclusione, è una nozione di per se stessa non sufficiente a significare i limiti e la complessità interna della scrittura gaddiana: tuttavia essa rappresenta una delle vie attraverso le quali si può intraprendere una ricostruzione di quei modi e di quei dispositivi che agendo entro l’apparenza di un disordine e di un affastellamento continuo, tracciano le forme di un ordine, di una articolazione discorsiva perfettamente riconoscibile quanto non facilmente imitabile: in una parola, di uno stile.

Università di Bologna

Note

1. G. Contini, Carlo Emilio Gadda, o del «pastiche», Solaria 9, no. 1 (1934): 88-93, poi variamente ristampato con il titolo di Primo approccio al Castello di Udine: da ultimo in Contini 1989: 3-10.

2. Si vedano, p.e., Roscioni 1995a: 76-94 e Giachery 1990: 61-77.

3. G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré (Paris: Seuil, 19922), 117. Di qui forse l’opinione di Fratnik, che il sottosignificato mélange o pot-pourri, venga al termine pastiche dal linguaggio della pittura: non certo dal Robert (Dictionnaire alphabétique et analogique de la langue française, deuxième ed. revue et enrichie par A. Rey, Paris, Le Robert, 1986, t. viie, 164), che non allude a pastiche come centone d’imitazioni diverse, per quanto riguarda il gergo pittorico.

4. Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture (1719), ma si cita dalla riedizione postuma (Paris: Pissot, 1770, ed. anast. Genève-Paris, Slatkine, 1982), 74: «On appelle comunément des pastiches les tableaux que fait un Peintre imposteur, en imitant la main, la maniere de composer & le coloris d’un autre Peintre, sous le nom duquel il veut produire son propre ouvrage». L’attestazione precedente si ha, a prendere per buona la ricostruzione di F. Brunot, in Roger de Piles, Conversations sur la connaisance de la peinture (Paris: Langlois, 1677), per il quale i pastiches sono «tableaux, qui ne sont ni des Originaux, ni des Copies»; il loro nome viene dall’italiano «pastici, qui veut dire Pâtez: parce que de même que les choses différents qui assaisonnent un Pâté, se réduisent à un seul Goût; ainsi les faussetez qui composent un Pastiche, ne tendont qu’à faire une verité» – cit. in F. Brunot, Histoire de la langue française des origines à 1900, t. VI: Le XVIIIe siècle, première partie, fasc. deuxième (Paris: Armand Colin, 1930), 718. Ma il brano, in realtà, si legge nel più tardo trattato (sempre di de Piles) Abrégé de la vie des peintres (Paris: Muguet, 1699, riprod. fotomecc., Hildesheim, Olmes, 1969), 104, come ha indicato uno studioso italiano, e nella fattispecie quello stesso Roscioni (Roscioni 1995a: 82) che abbiamo visto porre non a caso problematicamente la distinzione tra pastiche e pasticcio.

5. Genette 1992: 107. Un tentativo di esemplificare la distinzione menzionata poco più sopra si trova a p. 130.

6. Si veda P. Vita-Finzi, Antologia apocrifa (Milano: Bompiani, 1978), 181-84. Non a migliori risultati giunge l’autore nei pastiches di Gozzano (pp. 196-99), di Pascoli (pp. 150-51) o di d’Annunzio (pp. 38-39), giocati sul facile registro della più corriva parodia e assai poco affini ai modelli stilistici imitati, nonostante l’opinione diffusa (come quella enfaticamente esclamativa da G. Almansi e G. Fink, in Quasi come. Parodia come letteratura, letteratura come parodia (Milano: Bompiani, 1976), p.e. alle pp. 165-67. Ma Pietro Pancrazi, recensendo una redazione intermedia dell’antologia (ora in Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. Galimberti, vol. II (Milano-Napoli: Ricciardi, 1967), 513-16, annota: «degli artisti insomma più difficili, egli ci dà lo scheletro esatto, quasi radiografato; ma la loro parola, proprio il tono personale, la polpa non sempre li ritrova» (p. 515: fatto a un pasticheur, non è poco rilievo).

7. P. Reboux & Ch. Muller, Antologie du pastiche (Paris: Crès, 1926); M. Serra, Visti da lontano (Milano: Mondadori, 1987); H. de Balzac, Contes drolatiques précedés de la Comédie Humaine (oeuvres ébauchées, II - Préface) (Paris: Gallimard, 1964), 429-977; Genette 1992: 118-124 e 129-130.

8. M. Proust, Pastiches et mélanges (Paris: Gallimard, 1919), 10-87.

9. Sul rapporto Gadda-Tecchi, e sulla ambiguità di amicizia e disistima letteraria, si veda Roscioni 1997: 289-92.

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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0

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