Rughe, lame e tenebre del cuore.
Gadda legge Moravia (1945-1960)
Giancarlo Alfano
Nel 1960 Moravia firma un’introduzione ai Promessi sposi. Si trattava di un’edizione in una collana lussuosa dell’Einaudi, con disegni di Renato Guttuso: che la cura fosse affidata a due artisti conclamati della sinistra italiana implicava un’appropriazione del testo, ritenuto tradizionalmente un classico della cultura cattolica nazionale. Moravia seppe incarnare con sapienza il ruolo che gli era stato affidato.
Nell’introduzione, intitolata Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico, Moravia lancia infatti un profondo attacco alla dimensione ideologica del romanzo, stabilendo un parallelo tra Manzoni e gli scrittori sovietici contemporanei, campioni del realismo socialista. Al nuovo realismo obbediente ai dettami del socialismo reale corrisponderebbe un analogo realismo prono alle esigenze concettuali e propagandistiche del cattolicesimo romano dell’Ottocento.
È uno scritto ispirato, quello di Moravia, insinuante nella argomentazione ed efficace nella definizione sintetica, come quella a proposito di padre Cristoforo, la cui figura rivelerebbe «piuttosto la levigatezza della propaganda che la rugosità della realtà». (1) L’assunto che muove l’introduzione è chiaro: separare nel capolavoro ottocentesco ciò che è spurio, estraneo al fatto d’arte, da ciò che è realmente poetico; da una parte il linguaggio ordinario della polemica religiosa, dall’altra il discorso profondo che individua i moventi più intimi degli atti individuali nel contempo stesso rappresentandone le ragioni sociali e politiche. Per dimostrare questo assunto, l’autore contrappone le scene della conversione di Lorenzo in Cristoforo e dell’Innominato – a suo avviso infelici e semmai efficaci solo per dimostrare il fatto sociale piuttosto che quello spirituale (M 317) – alle altre scene, dove è descritta la corruzione pubblica, in cui, si tratti degli effetti della peste o della insufficiente moralità di don Abbondio, Manzoni giungerebbe a cogliere verità profonde del carattere italiano e delle dinamiche della vita collettiva.
La ragione di questa profondità starebbe – è questa la tesi moraviana – nell’esistenza di una duplice pulsione nello scrittore milanese: da una parte l’obbedienza a un corpo di prescrizioni, che lo induce al «realismo cattolico», dall’altra un intimo pessimismo e un decadentismo consapevole, che lo conducono a diffidare di ogni tipo di impegno politico e a prospettare un idillio religioso fatto di semplicità e purezza del cuore. Insomma, da una parte ci sarebbe la Storia, che assume sempre la forma della corruzione (individuale o sociale), dall’altra la Natura, la cui immagine è sintetizzata nelle «figure dei due protagonisti» (M 333). Ed è qui che Moravia affonda il suo ultimo colpo di rasoio nel capolavoro manzoniano, mostrando che un tale ideale, sovrastorico e anzi regressivo, risponde a una dimensione sociale precisa, e cioè al conservatorismo di quel padrone, che, se pure «guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui», non dimentica, però, «un sol momento che è il padrone» (M 337). (2)
Carlo Emilio Gadda recensisce sul Giorno di Milano l’edizione einaudiana poche settimane dopo la sua uscita. La sua attenzione si sofferma in maniera esclusiva sulle pagine di Moravia, che fermamente non condivide. E per più motivi. Il primo riguarda la totale svalutazione della dimensione risorgimentale che invece nei Promessi sposi va considerata addirittura fondante: il romanzo ottocentesco è, secondo Gadda, radicato dentro la Storia, tanto da assumere un significato morale assimilabile alla scelta di coerenza che portò altri, e il nome citato è quello del conte Confalonieri, al carcere austriaco dello Spielberg (SGF I 1177). Ma a Moravia è contestata soprattutto l’eccessiva analiticità – la recensione s’intitola infatti Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia – che renderebbe invisibili taluni aspetti precipui del capolavoro ottocentesco. In particolare Gadda non condivide la resecazione del corpo romanzesco in uno strato propagandistico, uno strato di sensibilità politica e sociale e in un terzo strato decadente, ove risiederebbero i sentimenti più profondi e oscuri.
È significativo che Gadda sottoscriva invece il giudizio moraviano che individua come migliori i sentimenti «più profondi e magari inconsci» dell’autore (SGF I 1179). L’opera letteraria non risponde infatti per lui a una «premeditazione concettuale» complessiva, a una «pianificazione dialettica» che tenga stretto ogni suo elemento come in una gabbia di necessità. La creazione letteraria, e quella manzoniana tra tutte, riesce al contrario «ricca d’interdipendenze e contrasti che hanno valore di realtà combinatoria […], di realtà logica quasi discendente da un superno decreto, e significato ironico-logico profondo: e attingono agli strati fondi e veritieri del conoscere, del rappresentare».
Occorre qui riflettere su una dimensione peculiare del fare narrativo gaddiano. Siamo infatti abituati a pensare allo scrittore milanese quasi come a un frammentista: certo, la contiguità con l’ambiente della Ronda e soprattutto lo stato frammentario, costitutivamente frammentario, dei suoi testi, hanno giustamente indotto i lettori più accorti a sottolinearne la distanza rispetto alla tradizione romanzesca dell’Ottocento con la sua aspirazione alla completezza, alla chiusura: semmai chiusura in un ciclo narrativo. Eppure Gadda, che nel campo di concentramento asburgico legge Le Disciple di Paul Bourget, ha amato auto-definirsi lo «Zoluzzo di Lombardia». È questo il punto: se la riflessione magistrale di Gian Carlo Roscioni ha per tempo insegnato che obiettivo gaddiano è «tutto vedere d’attorno per catalogare partitamente» (omnia circumspicere e singula enumerare), (3) è forse opportuno sottolineare che quel motto non si accampa sul frontespizio di una collezione di sparsi frammenti; si può osservare con attenzione e descrivere minuziosamente, semmai con una maggiore dinamicità fenomenologica (si veda L’incendio di via Keplero: Keplero, già, non «piazza Tolomeo»), ponendosi come fine un’articolazione narrativa vasta e complessa.
Si spiega così quell’attenzione per gli «strati fondi e veritieri del conoscere e del rappresentare», tra i quali, innanzitutto, c’è la capacità di cogliere ed esprimere «la verità dei rapporti di fatto» (SGF I 1180). Sarà forse sorprendente, ma questa formula è identica a quella coniata tredici anni dopo da Italo Calvino: (4) i «rapporti di forza» che lo scrittore ligure vedeva al centro del capolavoro manzoniano sono esattamente quei complessi fili che, trama e ordito, realizzano il tessuto del vivere quotidiano, la sua drammaticità congenita, se mi si passa l’espressione, la naturale vocazione del vivere a offrirsi per una soluzione narrativa.
Il nome dello scrittore ligure torna qui utile anche per la chiarezza con cui spiegò che «le vere forze in gioco del romanzo si rivelano essere cataclismi naturali e storici di lenta incubazione e conflagrazione improvvisa»: (5) se il tempo lungo della storia e quello lunghissimo della natura s’intrecciano creando quei singoli nodi che sono – visti ad altezza d’uomo – gli eventi della vita singolare e collettiva, gli accidenti della vita quotidiana, che, in quanto tali, soverchiano sempre le aspettative dell’uomo, sia pure il calcolo razionale del provvido. Uno scrittore e uno storico della letteratura, Calvino ed Ezio Raimondi, convergono allora negli stessi anni a riconoscere nei Promessi sposi un «romanzo senza idillio», (6) identificando il carattere al contempo politico e antipolitico di un’opera dov’è rappresentata l’impossibilità dell’uomo di intervenire sul proprio destino, proprio mentre lo scrittore ne restituisce le coordinate materiali.
Su questo stesso ambito di problemi si era soffermata la lettura di Gadda, che proprio a questo proposito aveva parlato di realtà combinatoria: la narrativa di Manzoni si era confrontata con la realtà presa in oggetto giungendo a rappresentare – e dunque a conoscere – la trama di relazioni che si era infittita intorno a ogni azione umana di quella realtà. L’ingegnere non aveva certo aspettato di recensire Moravia per proporre la sua interpretazione, che anzi risaliva alla fine degli anni Venti, a un articolo, oggi per noi celebre, pubblicato su Solaria nell’anno centenario della prima edizione del romanzo. L’incipit dell’Apologia manzoniana del 1927 suonava lapidario: «Con un disegno segreto e non appariscente egli disegnò li avvenimenti inavvertiti» (SGF I 679). La «segretezza» è nell’invisibilità di una trama che rende visibile l’aspetto nascosto della realtà, attraverso il gioco degli «apporti storici e teoretici» di cui lo scrittore ottocentesco seppe avvertire la «contaminazione».
Filo e garbuglio, dunque, come siamo stati avvertiti da tempo a proposito di Gadda, (7) ma una rete narrativa che sa rendere la contaminazione tra livelli, come una ragnatela tridimensionale, coi nodi che si chiudono intorno all’evento-zanzara creando uno sferoide in cui, virtualmente, tutto si tiene. Con tutta la sua grande carica modernista, il «convoluto Eraclito di San Simpliciano» mostra di aver saputo trarre il massimo dall’eredità ottocentesca. Se il lessico concettuale che il futuro autore del Pasticciaccio era venuto elaborando nelle prime prove narrative e negli scritti filosofici appare nel suo primo (e metodologico) scritto manzoniano, ciò accade perché egli ha deciso che la letteratura darà conto della inesistenza dell’evento singolo, della convergenza plurima delle cause, della tramatura molteplice di una realtà irriducibile a mappa o percorso ortogonale.
E vi è qui, in più, l’idea di una convergenza «segreta» del molteplice. L’intima ragione dell’Apologia manzoniana è infatti nella volontà di far apprezzare la reale qualità del capolavoro ottocentesco, la sua chiara costruzione, la forza visionaria. A questo scopo Gadda propone due percorsi, entrambi incentrati sul gradiente ottico (e, sia detto per inciso, da qui sembra provenire l’archivolto della interpretazione di Raimondi): da un lato egli ripropone in scorci sintetici scene del romanzo, dall’altro si concede equivalenze pittoriche, proponendo una filiazione culturale lombarda che trova la sua origine in Caravaggio. (8) Entrambe le vie consentono di cogliere il rapporto tra oggetti, abiti, gesti, colori e senso della storia, come in questo passaggio a mio avviso esemplare: «Il Signore comandò che Matteo lo seguisse, lasciando nella taverna i dadi e i nummi del mondo. Il Caravaggio vide e dipinse il Signore e Matteo e poi i giovinastri dalle turgide labbra, cocchieri, sgherri, garzoni. Meglio girare alla larga» (SGF I 682). La visione dell’artista è di tipo mentale, ma gli effetti di questa visione sono di carattere percettivo, illusionistico. Meglio girare alla larga, perché il coinvolgimento nei succhi della realtà può macchiare in maniera indelebile il tessuto narrativo: all’ideologia come conversione di un pensiero in forme Gadda sembra qui contrapporre un’accezione di ideologia come emersione della forma. Non il preconcetto che viene stiracchiato sul letto di Procuste della letteratura, ma il pensiero che emerge dalla letteratura.
La potenza icastica della rappresentazione manzoniana, altro che assumere il tono levigato, cioè lineare e a-problematico della propaganda, era dunque per Gadda, e questo sin dal 1927, il segno della potenza semantica dei Promessi sposi, capaci di riportare su pagina le rughe del reale. Vengono in mente le parole usate da Giovanni Raboni per ricordare un altro maestro lombardo del Novecento, Vittorio Sereni, la cui poesia egli ha definito «capiente», cioè dotata di quella specifica capacità che le permette di «accogliere» la storia e così «narrarla senza farsene fagocitare, senza perdere la propria identità e la propria distanza»: la pazienza della letteratura, l’attitudine a sentire e a ricevere dentro di sé, si trasforma in virtù attiva, in potenza informante. La capienza di cui ha parlato Raboni è la forza della poesia, quello straordinario ritrovato rappresentativo (e dunque conoscitivo) che attraverso il nodo singolare rende presente il tessuto scabroso dello sferoide che lo circonda. (9) Altra sarebbe allora la metafora geologica da adottare: non la tripartizione stratigrafica scelta da Moravia, ma l’evidenza altimetrica del paesaggio, nelle cui ascensioni e repentine discese, nei cui borri e strapiombi, nel cui movimento in superficie si legge l’oscura pressione delle forze sotterranee. (10)
Questo è del resto quanto avrebbe detto nei primi anni Settanta Calvino, quasi riprendendo (e comunque facendolo in maniera inconsapevole) la celebre immagine evocata da Walter Benjamin per definire l’allegoria come rappresentazione del «volto irredento della storia». (11) Quando, nel suo saggio del 1973, egli osserva che è «una natura abbandonata da Dio, quella che Manzoni rappresenta», lo scrittore ligure sembra davvero entrare in consonanza con la meditazione gaddiana, dove i mali e le abominazioni storiche, che «non sono palesi alle anime», si sintetizzano nel sommo male della fame (cioè la carestia: e Calvino parla di un «Manzoni storico ed economista» che «spiega la complessità di cause […] che portano alla carestia»), (12) per giungere infine all’«ultimo sbocco di una vita dissociale: la peste» (SGF I 686). La peste rappresenta il culmine della frattura politica, presentandosi come la grande metafora del venir meno di ogni legame sociale, alla cui sapiente descrizione anche Moravia rende omaggio, ritrovandovi il segno forse maggiore dell’arte manzoniana: «la corruzione – egli sentenzia – ispira il decadente Manzoni almeno quanto la conversione lo rende apatico a inespressivo» (M 330).
Nel confronto tra il carattere rugoso della realtà e la vocazione al taglio insita in ogni analisi pare insomma la peste il luogo simbolico della conciliazione, giacché essa illustra la capacità dell’artista di accogliere le molteplici istanze che convergono nella conflagrazione della catastrofe, in una descrizione che procede «con lenta e potente gradualità», ammette Moravia: cioè col passo lento dell’analisi ponderata.
Ma in che modo si possono conciliare rughe e lame, scabrosità del reale e lucidità mentale, riuscendo così a restituire il viluppo umano dentro la grande maglia delle forze che lo sovrastano? è forse proprio nell’opera di Moravia che possiamo individuare l’innesco di questa più profonda e piena rappresentazione; nell’opera di Moravia, così come la leggeva Carlo Emilio Gadda. Il quale aveva fatto apparire su Il Mondo del 3 novembre 1945 un articolo dedicato ad Agostino, breve romanzo moraviano la cui pubblicazione nel 1943 era stata avversata dal Regime e che in quello stesso 1945 era ripubblicato da Bompiani. Il saggio sarebbe stato poi ripreso in I viaggi la morte, raccolta apparsa nel 1958, l’anno dopo lo straordinario successo del Pasticciaccio. (13)
In realtà Gadda stava pensando ad Agostino già da qualche mese, evidentemente dopo la prima lettura, se è vero che in un’altra recensione, apparsa sulla stessa rivista il 2 giugno 1945 e dedicata a Luna di miele luna di fiele di Ramón Pérez de Ayala, già vi faceva riferimento. È un brano illuminante, che merita la nostra attenzione, tenendo intanto nella memoria le date 1938-1941 – periodo entro il quale avviene la pubblicazione sulla rivista Letteratura di alcuni tratti della Cognizione del dolore – (14) e dicembre 1945 – quando Gadda risponde ad Alberto Mondadori di essere impegnato nella stesura di «un volume giallo», che sarebbe stato pubblicato sulla medesima rivista a partire dall’anno successivo. (15)
Ecco il brano:
La frase tematica è un accordo a carattere genetico-sessuale-pediatrico-pedagogistico di notevole (per me) interesse: e mi fa rivivere l’accordo di fondo d’una novella di autore italiano innominabile: San Giorgio in casa Brocchi (Solaria, giugno 1931) e rimeditare la dolorosa verità-poesia del nuovo romanzo di Moravia, intitolato Agostino (Documento Editore, 1944, Roma). (Anime e schemi, SGF I 601)
L’autore italiano innominabile, per galateo retorico, è ovviamente lo stesso Carlo Emilio, il racconto cui fa riferimento costituisce uno dei pezzi raccolti in Accoppiamenti giudiziosi (1963), dove si narra l’iniziazione sessuale di «Brocchi Luigi, di anni diciannove» per merito della Jole, procace serva di casa. È uno dei tanti esempi della scrittura umoristica gaddiana, ma nella sua precocità – nel 1931 Gadda aveva all’attivo ancora pochissimi titoli – rivela un aspetto decisivo della complessiva operazione dello scrittore, quale possiamo oggi comprendere tenendo presenti gli episodi milanesi dell’Adalgisa (di cui effettivamente il racconto alluso può considerarsi un satellite) e le altre sue opere dei primi e pieni anni Trenta.
Come già abbiamo visto in precedenza parlando della sua vocazione costruttiva e anti-frammentaria, l’attenzione che in questo racconto Gadda mostra nei confronti della sfera sessuale si spiega con la sua attenzione al rapporto che lega sessualità e socialità. A lui, prorompente seguace di Zola, interessa il modo in cui il motivo psicologico si intreccia col fatto pubblico, così da farne uscire uno schema, un modello narrativo complesso, che va da dentro a fuori, e da fuori a dentro: dall’intimità alla società, e dalla complessità storica collettiva alla dimensione intima. Il sesso diventa così il piano di intersezione delle due sfere. Il lettore della Meccanica o di Novella seconda, del resto, conosce bene la potenza telescopica che dai cortei operai o dalle società di mutuo soccorso conduce a un’infanzia dissipata o a una storia di corna.
L’aspetto è tanto più interessante nel caso che qui ci interessa quando si ricordi che proprio nel 1938 Gadda stava progettando un volume distinto in quattro parti, di cui la seconda e la terza avrebbero dovuto esser dedicate a Milano e alle «meraviglie d’Italia», la prima riservata al racconto citato e la quarta destinata alla Cognizione del dolore, di cui egli aveva appena avviato la pubblicazione in rivista. Pur nella differenza di tono, è evidente che, prima ancora dell’apparizione del commissario Ingravallo, il «quanto di erotìa» rappresentava già l’energia potenziale subatomica di ogni fenomeno umano.
Ed ecco che la scoperta della sessualità, narrata a mezzo tra il comico lo psicoanalitico e l’approssimativo da Pérez de Ayala, spinge il recensore a mettere a confronto due esperienze pur differentissime come la propria e quella di Moravia: da una parte c’era il suo vecchio frutto narrativo in cui aveva rappresentato un giovinotto combattuto tra gli ammonimenti della madre, la ciceroniana tavola «dei doveri» e il richiamo della carne; dall’altra c’era Agostino.
Prima di volgerci anche noi al romanzetto moraviano è però forse utile un’ultima digressione, che riguarda questa volta l’ordinamento della raccolta I viaggi la morte. I saggi sono infatti suddivisi in tre sezioni, dedicate, grosso modo, alle dichiarazioni di poetica, alle riflessioni su opere altrui e a una meditazione intorno al tema, davvero cardinale per Gadda, del narcisismo e del conseguente egoismo. In quest’ultimo raggruppamento il discorso sull’infanzia e sul rapporto padre-figlio soccorre nell’individuare la causa prima della costituzione narcisistica dell’uomo e della conseguente sua incapacità di cogliere la trama di rapporti che lega i fatti del mondo ribadita nella celebre frase di sapore leibniziano: «Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che giungono sino a me» (L’egoista, SGF I 654; si torni al sempre fondamentale Roscioni 1995a).
Proprio una variazione di questa frase si legge in Il faut d’abord être coulpable, saggio del 1950 dedicato al Journal du voleur di Jean Genet, dov’è scritto che «Se un eredo-luetico alcolizzato, a Maracaybo, taglia la gola con un colpo di rasoio a una povera meticcia ch’egli sfruttava e picchiava fino a farla sputar sangue, io, io Carlo Emilio, ne sono per la mia quota parte responsabile» (SGF I 614). Contrario a ogni facile polarizzazione assiologia della coppia bene-male e incline piuttosto a vederne la co-implicazione, la compartecipazione dialettica (non hegeliana, di certo), Gadda coglie nella narrazione autobiografica la presunzione di un ideale integrativo di sé, che è per lui, al contrario, il più abnorme e insopportabile degli errori morali e concettuali. Ebbene, quel che qui interessa in questo nostro discorso su Gadda lettore di Moravia è che lo scrittore milanese ha inteso costruire, montando la sua raccolta di saggi, una sequenza che da Anime e schemi (che è il significativo titolo del saggio su Pérez de Ayala) giunge alla colpevolezza necessaria di ciascuno discussa a proposito di Genet: il ponte tra queste due variazioni sul rapporto tra sesso e soggettività è costituito da Agostino. La sequenza, si badi bene, non è cronologica, se è vero che tra il 1945 dei primi due scritti e il 1950 del terzo si sarebbero potute, o forse dovute inserire altre pagine saggistiche pure contenute in altri luoghi di I viaggi la morte. La successione dei saggi, pertanto, è subordinata a un altro obiettivo, quello di far emergere la normalità borghese di Agostino dentro un percorso che si compie con un discorso sulla assunzione consapevole della identità personale: bisogna essere colpevoli secondo Gadda, per poter entrare consapevolmente nel mondo; la condizione di purezza edenica è solo una costruzione immaginaria. Agostino, dal primo movimento edipico con cui si apre il romanzetto alla chiusura voyeuristica, apprende la sua compartecipazione al male del mondo.
Tra la costruzione schematica dell’evolvere delle anime nel racconto a tesi e la costruzione assolutoria dell’auto-biografo si sistema allora il romanzo della prima adolescenza, dov’è narrata la scoperta del sesso e il garbuglio in cui, di conseguenza, resta afferrato il soggetto. La questione mi pare fondamentale: la determinazione del garbuglio ha infatti a che fare con la capacità di riassumere i motivi diversi sottesi all’evento, secondo una precipua dimensione umana sulla quale lo scrittore deve fondare la complessa trama «d’interdipendenze e contrasti che hanno valore di realtà combinatoria», come Gadda avrebbe detto nel 1960 a proposito di Manzoni. Compartecipe nella definizione dell’evento, la storia del soggetto è a sua volta effetto di una rete articolata di eventi e sollecitazioni e linguaggi. Gadda pare qui riprendere la lezione del Bourget degli Essais de psychologie contemporaine e sottoscriverne la definizione del moi come «faisceau de phénomènes»: (16) solo che poi, non contempo, egli rituffa quel fascio nella eteroclita ganga della realtà.
Ed ecco che nella recensione ad Agostino, dopo aver insistito sulla macchinazione si direbbe allegorica dello sviluppo narrativo del romanzetto, Carlo Emilio osserva come l’arte di Moravia obbedisca soprattutto a una vocazione ottica, a un’osservazione degli eventi priva di ogni tendenza sentimentale, e insomma come essa sia scevra dalla compassione. Ne consegue un moralismo indagatore – nel senso dei pensatori del Grand Siècle: un Pascal, un La Bruyère – che può sottintendere un intero percorso di sofferenza senza indugiare nella morosità del racconto puntuale. È questo moralismo fattosi economia narrativa che Gadda (supremo «costruttivista», abbiamo detto) approva, giacché è in questo modo che la strutturale pluralità del modo di divenir soggetto di ciascun individuo può cagliare in una fictio determinata: un soggetto e il suo modo di diventare soggetto. La scoperta del sesso, osserva infatti lo scrittore milanese, «varia col clima, coi luoghi, con l’ambiente […] Soprattutto con la propria costituzione di ogni “soggetto”» («Agostino» di Alberto Moravia, SGF I 608).
In questo processo, osserva poi Gadda, hanno un ruolo decisivo i «modelli (che io chiamo modelli narcissici) su cui conformare la propria nascente maschilità» (SGF I 609), il che significa che la determinazione del proprio posto nel mondo avviene attraverso una sorta di interscambio, o di contrattazione, attraverso cui il soggetto proietta il proprio io nel mondo esterno, dal quale riceve indicazioni comportamentali e immagini esemplari. Anime e schemi, per tornare al titolo della recensione a Pérez de Ayala: l’anima individuale entra in uno schema che le consente di darsi un nome e una consistenza socialmente riconosciute. Come già aveva fatto Manzoni, le rughe della realtà vanno affrontare con una sintesi poeticamente efficace: i moventi della storia collettiva entrano nella specola individuale per mezzo del sesso e dei comportamenti che il giovane apprende come efficaci per soddisfare una pulsione che per lui non ha ancora un nome e la cui torbida, enigmatica natura gli sfugge perennemente. «Agostino trova […] i suoi campioni nella monellesca masnada dei ragazzotti e ragazzi che costituisce […] una specie di associazione» (SGF I 610). Che questa associazione sia «primitiva» conta meno rispetto al fatto che è una organizzazione sociale; è un «ruvido magazzino», certo, che però risponde a una ragione collettiva: l’io si fa tale attraverso un noi, per mezzo di una filiera di identificazioni che, tutte, rispondono a quella logica del «bovarismo» identificata da Jules de Gaultier nel suo influente saggio del 1903. (17)
Dei tre processi cui è sottoposto l’appena pubere protagonista: l’apprendimento dell’eros nella sua forma di contaminazione edipica (la giovane madre desiderabile come donna); l’apprendimento dell’eros come immersione in un medium linguistico e comportamentale; l’apprendimento dell’eros come forma della omosessualità, Gadda si sofferma più lungamente sul secondo. Che il terzo sia escluso, se non nello scorcio conclusivo, è segnale di una certa omofobia gaddiana, su cui si è molto discusso e su cui di certo molto si continuerà a discutere. Che invece il primo sia trattato come un modo generale della psiche nei suoi processi ancora infantili è conferma di una peculiare lettura di Freud, cui sono sempre affiancati Rousseau (che infatti è citato) e la letteratura in generale. (18) Ma che l’autore milanese si soffermi maggiormente sul secondo processo è l’indice di un’istanza assai profonda nella intelligenza artistica di Gadda: luogo di snodo tra l’individuo e la Storia è infatti, per riprendere un’espressione dedicata ai rozzi giovinastri in cui s’imbatte Agostino, la «laborante fisiologia» (SGF I 610). Alla radice dei conflitti sociali si legge una convertibilità del sesso in strumento di uniformazione o al contrario di identificazione.
«Ecco la spiaggia dei poveri (ed aborigeni), dopo quella dei “bagnanti”: il canneto, il fiumiciattolo»; dietro lo scenario della compiaciuta e pur surriscaldata vacanza borghese si apre lo squarcio di un territorio selvaggio: le rane da acchiappare, i funghi da cogliere, le piogge improvvise, le risse e i rossori… Come la petite bande delle Jeunes filles en fleur, l’oggetto del desiderio si presenta al plurale: il giovane entra in rapporto con il molteplice, nel quale deve apprendere a operare distinzioni e a stabilire differenze. La «coazione biopsichica» è forma profonda del soggetto, il calco sadico nel quale tutti fummo impastati, ma è altresì articolazione collettiva quando non direttamente sociale: tra l’oscurità delle ragioni biologiche e la complessità dei moventi storici si costruisce il romanzo del soggetto. (19)
Se è a questo livello che Carlo Emilio Gadda riconosce in azione, nell’operetta moraviana, quelle oscure ragioni del cuore che consentono di stringere insieme i due poli della rugosità evenemenziale e della lucidità rappresentativa, diventa allora facile comprendere le ragioni profonde del disaccordo che egli nutrì così vivace intorno all’interpretazione del capolavoro manzoniano. Al di là delle ragioni polemiche e ideologiche che potettero muovere la penna di Alberto Moravia, Gadda vide tradire da parte dello scrittore romano un modo profondo di affrontare le responsabilità costruttive della narrazione letteraria, quel modo che solo, a suo avviso, consentiva di tenere insieme – come aveva scritto nei suoi lontani appunti, allora ancora inediti, del Racconto ignoto di italiano del Novecento – la rappresentazione ab interiore, dalla specola del soggetto, e quella ab exteriore, ossia attraverso i movimenti della Storia. Alessandro Manzoni aveva saputo cogliere i moventi individuali profondi e sistemarli a confronto con le concause che sottendono ai fatti della storia; egli era stato capace di leggere le tenebre del cuore attraverso il caotico procedere degli eventi collettivi. Egli aveva, in questo modo, lasciato alle nuove e intemperanti generazioni del Novecento una preziosa indicazione di metodo.
In questo senso il realismo, di cui ha parlato di recente Ugo Dotti, (20) diviene qualcosa di diverso da un insieme di tecniche o da una semplice rappresentazione esteriore dei fenomeni storico-sociali. È, come avrebbe detto Capuana, un fatto di forma. Le forme del conflitto, l’aspra rugosità del reale possono essere trafitte dalla lama della forma letteraria soltanto quando la visione sia filtrata attraverso le fonde ragioni del cuore, dentro quegli abissi che la cultura secentesca di Lombardia aveva saputo trascinare in superficie, e che, agli occhi di Gadda, Moravia, col suo bisturi ideologico, riusciva appena a lambire. L’imposizione di una intelligenza esteriore alla sensibilità della scrittura letteraria finiva col tradire l’astuzia di uno scrittore, Moravia, che aveva invece mostrato di saper tenere insieme la sfera intima e quella storica, facendo risaltare quel piano d’intersezione che i più chiamano racconto. Uscito fuori dall’inatteso successo del Pasticiaccio, Gadda ripensava agli anni in cui aveva messo mano al suo romanzo, quando si era imbattuto nelle irrisolte ma stimolanti approssimazioni di Ayala e nella provocazione egotista di Genet. Gli stessi anni in cui aveva forse trovato nello scrittore romano un sodale nella necessità di essere historicus e poëta. La riduzione di Manzoni a Cavaliere della fede, ad avventizio dell’ideologia cattolica dovette farlo sobbalzare sulla seggiola: una definizione così perentoria e aggressiva rischiava di ridurre a una superficie levigata la delicata asprezza della storia, privandola di quegli umori, sedimenti e rovine che di solito ne screziano la complessa vernice. Una perdita eccessiva per chi credeva che attraverso la letteratura sortisca un pensiero, per chi era insomma convinto che la forma narrativa sia il reverso espressivo del mondo.
Università di Napoli Federico IINote
1. A. Moravia, Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico [1960], in L’uomo come fine e altri saggi (Milano: Mondadori, 1964), 322. D’ora in avanti le citazioni sono direttamente a testo, col rinvio di pagina preceduto dalla sigla M.
2. Quest’ultimo è, com’è noto, il giudizio che del capolavoro manzoniano aveva dato Antonio Gramsci. Del resto, l’introduzione di Moravia si comprende meglio all’interno del dibattito che negli anni Cinquanta si era aperto sui Promessi sposi e sugli scrittori cattolici in generale. Alcuni documenti di questo dibattito sono adesso presentati da S.S. Nigro nella sua introduzione e nella Nota all’edizione di G. Bassani, I Promessi Sposi. Un esperimento (Palermo: Sellerio editore, 2007).
3. Cfr. Roscioni 1995a.
4. I. Calvino, I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza [1973], in Saggi, ed. diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi (Milano: Mondadori, 1991), I, 328-41 (328).
5. Calvino 1991: 338.
6. E. Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi» (Torino: Einaudi, 1974).
7. Cfr. Fumi 1997 e Bologna 1998.
8. Cfr. Raimondi 2003a.
9. G. Raboni, Sereni a Milano, in Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, Luino 25-26 maggio 1991, a cura di D. Isella (Milano: All’insegna del pesce d’oro, 1992), 41-49.
10. Mi permetto di rinviare al mio Il giallo della geologia (Alfano 2009).
11. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco [1928] (Torino: Einaudi, 1971).
12. Calvino 1991: 338, 341
13. Un’accurata ricostruzione complessiva dei rapporti intercorsi tra i due scrittori si trova in Casini 2004a, dove tra l’altro si legge delle tensioni legate al conferimento del Premio Strega del 1952. Casini affronta nella seconda parte del suo saggio il confronto tra Gadda e Moravia intorno alla lezione manzoniana.
14. Cfr. Manzotti 1988.
15. Ricorda l’episodio Pinotti 1989: 1137.
16. P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine. études littéraires [1883], édition stabile et préface de A. Guyau (Paris: Gallimard, 1993), 101.
17. J. de Gaultier, Le Bovarysme. Essai sur le pouvoir d’imaginer (Paris: Société du Mercure de France), 1902.
18. Per la ricca e contraddittoria presenza di Freud in Gadda rimando soltanto a Amigoni 2001.
19. Per una genealogia dell’adolescenza in Moravia, si può leggere V. Mascaretti, Agostino e i suoi fratelli. Una ricerca tematica sull'adolescenza nella narrativa del Novecento, in Poetiche 1 (2005), 221-55. Ma su tutta la questione è imprescindibile J. Neubauer, Adolescenza fin-de-siècle [1992] (Bologna: il Mulino, 1997).
20. Dotti 2003: 1-35 (21-25).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-20-5
© 2011-2024 Giancarlo Alfano & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 7, EJGS 7/2011-2017.
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