Gadda e Dostoevskij

Sergia Adamo

«Sto leggendo Dostojewski – bene!», annota Gadda il 26 marzo del 1924, mentre si accinge all’impresa problematica del Racconto italiano di ignoto del novecento. Il riferimento allo scrittore russo chiude la lista delle «letture da fare per la redazione del romanzo» (SVP 573), alcune delle quali sono segnalate per «richiami d’espressione» o di «stile» (Machiavelli, Balzac, Le rouge et le noir), mentre altre vengono apertamente associate alla rappresentazione di un delitto (il Fogazzaro di Malombra, Le Disciple di Bourget). Questa indicazione di un seminale interesse di Gadda per Dostoevskij, legato alle riflessioni che costituiscono il nucleo del pensiero gaddiano sulla forma romanzesca, si distingue però dalle altre che la affiancano per l’esplicita ammissione di una lettura in corso e per l’apposizione dell’annotazione valutativa positiva («bene!»).

è certo difficile definire i termini dell’interesse di Gadda per Dostoevskij a quest’altezza cronologica sulla base di questa breve annotazione che sembrerebbe suggerire che l’autore dell’Idiota figurava in quel momento tra le frequentazioni gaddiane, nulla di più. Ma è un dato di fatto che questa lettura, tra le opere di Dostoevskij, stesse privilegiando i grandi romanzi della maturità, e in particolare l’Idiota, appunto, dando origine a considerazioni che ponevano lo scrittore russo come modello di costruzioni narrative. Si può vedere a questo proposito la ripetuta menzione che nel secondo Cahier d’études, all’altezza del gennaio 1925, viene fatta del personaggio di Nastas’ja Filippovna come modello di Emma Renzi, versione italiana «gretta e furbesca» (SVP 537), «strana e pratica» (SVP 548) dell’eroina dostoevskiana.

Questi spunti, accanto ad altri che li affiancheranno negli anni e nelle opere a venire, se proiettati sullo sfondo del panorama culturale dell’Italia degli anni Venti, dove l’autore dei Karamazov stava solo cominciando a conquistare il rango di grande classico della letteratura e di modello di narrativa romanzesca, (1) invitano ad analizzare da vicino le ragioni dell’interesse gaddiano per lo scrittore russo. Un interesse, come si proverà a dimostrare, che non dipende da mode e correnti, ma che propone prospettive originali di accostamento direttamente connesse ai nuclei centrali della riflessione gaddiana.

Proprio cioè perché frutto di un’originale elaborazione personale, radicata nei nuclei costitutivi della scrittura gaddiana e dei suoi rovelli, la riflessione su Dostoevskij, che percorre trasversalmente tutta l’opera dell’autore della Cognizione, può essere assunta come punto di partenza per una rilettura di alcuni aspetti centrali dell’esperienza gaddiana stessa. È sulla base di alcuni scarti rispetto alle interpretazioni coeve, ossia sulla base dell’originalità delle letture gaddiane, che Dostoevskij assume nelle riflessioni di Gadda un ruolo che punta direttamente ai nodi profondi della scrittura. Due questioni in particolare accomunano le riflessioni dei due scrittori, e in essi tendono a intrecciarsi. In primo luogo, la scelta del romanzo con il connesso rovello del romanzesco, opzione su cui Gadda riflette a lungo, in varie forme (critiche o metanarrative, letterarie o filosofiche) e in vari momenti della sua esperienza letteraria, e che anche per Dostoevskij rappresentò sempre una questione aperta, passibile di continue ridefinizioni e di necessarie rimotivazioni. In secondo luogo, l’indagine del nodo della causalità e delle concause in relazione al problema della responsabilità e della colpa. Né nell’uno, né nell’altro scrittore si dà la riflessione su tali questioni se non nello spazio romanzesco, anzi sembra quasi che la sempre più esplicita centralità che esse assumono in entrambi sia direttamente collegata a una progressiva acquisizione di consapevolezza della complessità e delle potenzialità aperte della forma romanzo. Da questi grovigli, che Dostoevskij forse per primo ha imposto alla coscienza letteraria della tradizione europea (per chi sapeva e voleva coglierli), sembra essere profondamente investita, infatti, la scrittura di Gadda.

1. Originalità di una lettura

Un confronto con la storia della ricezione di Dostoevskij in Italia, che contestualizzi l’approccio italiano a uno scrittore oggi certo considerato canonico ma per tutta la prima metà del Novecento solo occasionalmente e problematicamente inserito tra i grandi della letteratura, può rivelare che tra le menzioni gaddiane prende forma una considerazione di Dostoevskij che si distingue singolarmente rispetto al panorama coevo della cultura italiana. Bisogna infatti tenere conto del fatto che in quegli anni Dostoevskij rappresentava ancora in Italia una sorta di autore eccentrico, a cui ci si accostava per lo più per motivi ideologici e politici o per un interesse al limite del morboso legato alle vicissitudini da cui era stata caratterizzata la sua vita. Tra le sue opere, le più note e discusse erano quelle memorialistiche a sfondo autobiografico oppure i romanzi brevi e i racconti oppure ancora raccolte ibride di frammenti eterogenei che venivano allestite e immesse sul mercato.

Michail Bachtin, nel primo capitolo del suo fondamentale lavoro su Dostoevskij, (2) ha discusso ed evidenziato tutte le implicazioni di un atteggiamento, diffuso nella stessa cultura russa a lui contemporanea, teso a ridurre la portata delle opere di Dostoevskij alla sola dimensione filosofica disconoscendo apertamente gli aspetti della costruzione letteraria e delle riflessioni narrative che puntavano direttamente alla dirompenza della polifonia e del dialogismo. Secondo Bachtin, non voler vedere gli aspetti specificamente letterari delle opere di Dostoevskij significa, infatti, perdere di vista, più o meno consapevolmente, ciò che fa dello scrittore russo un grande innovatore, colui che ha aperto la dimensione del letterario a nuove potenzialità di narrare e discutere la multiformità e la pluralità dell’umano nelle sue varie intersecazioni.

Le politiche editoriali e la ricezione critica di Dostoevskij nella cultura italiana, fino a una certa altezza cronologica in particolare, sembrano rispondere a questa esigenza di riduzione del potenziale letterariamente innovativo che si concentra soprattutto nei grandi romanzi dostoevskiani, da Delitto e castigo all’Idiota, dai Demoni ai Fratelli Karamazov. Smembrare queste opere tagliando alcune loro parti e ripubblicandole in edizioni separate, riproporre le traduzioni francesi con le loro vistose manipolazioni, imporre testi brevi, biografici, autobiografici o pubblicistici andava nella direzione di un sistematico annullamento della considerazione di Dostoevskij come scrittore e dunque di una riduzione delle caratteristiche di novità e problematicità della creazione letteraria. E, d’altro canto, anche il percorso della ricezione critica dello scrittore russo in Italia rivela un’attenzione specifica che conferma e amplifica le consuetudini editoriali nella considerazione degli aspetti ideologici e politici.

Il fatto che Gadda citi apertamente un personaggio dell’Idiota come modello per una figura che attraverso varie incarnazioni apparirà e riapparirà nelle sue opere rivela un interesse che non segue le direzioni più tipiche e consolidate nella cultura italiana coeva proprio nel concentrarsi su un romanzo veramente polifonico e nel rivelare una curiosità per gli aspetti specificamente creativi, di costruzione letteraria. Si tratta di un interesse non occasionale che si approfondirà e si amplierà negli anni pur mantenendo sempre presenti alcuni spunti connotanti dell’opera dello scrittore russo come nodi problematici di riflessione e costantemente evidenziando la complessità dostoevskiana, la sua profondità. Ancora nel 1972, lo scrittore avrebbe risposto a una domanda in cui l’intervistatore gli chiedeva quale tra i due più popolari scrittori russi, Tolstoj e Dostoevskij, lo interessasse maggiormente, con queste parole:

Penso che Dostoevskij sia, non so, collocato in una sfera di maggiore, come dire, di maggiore profondità… (Gadda 1993b: 214)

Le domande di fondo che questo apprezzamento suscita riguardano da una parte il significato che una certa lettura di Dostoevskij poteva assumere negli anni in cui Gadda compiva la sua formazione come narratore, all’altezza del 1924-1925, dall’altra la necessità di interrogarsi sulle eventuali ulteriori dimensioni che la considerazione di questi aspetti può aggiungere all’opera gaddiana.

Non si può non ricordare certo che di lì a non più di un anno, nel 1926, nel corsivo d’apertura di Solaria, sulle cui pagine lo stesso Gadda avrebbe visto le sue prime pubblicazioni, lo scrittore russo sarebbe stato identificato come grande modello di una narrazione romanzesca di ampio respiro, più attenta alla sostanza etica dell’agire umano che all’esornazione di esclusivo impatto stilistico-formale. Ma la dichiarazione di fede dostoevskiana («Per noi insomma Dostoevskij è un grande scrittore!») che suggellava nel finale le affermazioni programmatiche della rivista in nome di «un’arte singolarmente drammatica ed umana», celava dietro il tono «svagato» una presa di posizione innovativa nel panorama italiano. (3) Lungi dal ribadire un dato di fatto acquisito, una tale affermazione costituiva un primo aperto riconoscimento da parte italiana nei confronti dello scrittore russo, sempre visto, fino a questo momento, come un caso letterario di difficile decifrazione e collocazione all’interno del panorama culturale nazionale.

Il Dostoevskij che i solariani avevano presente al momento della stesura del corsivo d’apertura non era certo quello più noto in Italia dove, nella critica e nelle politiche editoriali delle traduzioni, come già ricordato, si era sempre privilegiato il pubblicista del Diario di uno scrittore (reso però in forma costantemente frammentaria), il memorialista di Memorie da una casa di morti e, soprattutto, l’autore di racconti e romanzi brevi. A partire, per esempio da Povera gente, che dal 1891 ebbe numerose ristampe nell’edizione Treves e venne ripreso nel 1917 dalla casa editrice Carabba di Lanciano (ed è proprio questa edizione a figurare nel fondo gaddiano della Biblioteca del Burcardo, anche se con una nota di possesso di Enrico Gadda). In generale, si può affermare che la letteratura russa fosse conosciuta in Italia soprattutto attraverso la mediazione francese, dato che una scuola autonoma di slavistica iniziò a svilupparsi solo negli anni Venti, grazie all’opera di studiosi come Ettore Lo Gatto e Giovanni Maver. Varie operazioni editoriali, da parte di case editrici come Treves e Sonzogno, avevano sostenuto una visione della letteratura russa come espressione mostruosa e ancestrale di un popolo lontano e misterioso, caratterizzato da peculiarità che lo rendevano diverso e incompatibile con lo spirito della nazione italiana ancora in formazione. E lo scrittore su cui più aveva influito questo approccio era stato sicuramente Dostoevskij, sul quale in Italia aveva continuato a lungo a pesare il giudizio del primo divulgatore francese del romanzo russo, Eugène Melchior de Vogüé, che lo aveva definito «un phénomène d’un autre monde» (Adamo 1998: 26-35).

Dostoevskij era diventato così una sorta di chiave d’accesso al mondo russo, che incuriosiva e affascinava, e suscitava la ricerca di testimonianze dirette, mentre la problematicità della sua opera, ai fini di un’accettazione seppur marginale ai parametri della tradizione, doveva essere negata attraverso il ricorso ai dati biografici, al pensiero, al contorno genericamente definito come «extra-letterario». E quando, anche all’interno della cultura vociana, la forma narrativa lunga veniva relegata ai margini del sistema letterario, lo scrittore veniva apprezzato per i suoi scritti politici, per la sua genialità esaltata da una vita di tormenti, per la sua figura di intellettuale. Il punto di svolta, rispetto a queste letture, può essere davvero collocato attorno al 1926, quando, accanto al corsivo di Solaria, esce un importante articolo sul Baretti di Piero Gobetti, il quale parla di un Dostoevschi classico, sottolineando la capacità universalizzante (e dunque classicizzante) dello scrittore russo e i massimi livelli di tragicità raggiunti dall’opera dostoevskiana nell’imperturbabile contemplazione del mostruoso, dell’informe, del morboso. (4) Sul versante editoriale è l’anno della nascita della casa editrice Slavia, la quale, facendo proprie le istanze della nascente slavistica di rispetto per la cultura russa, proponeva per la prima volta traduzioni rigorose, competenti, attente al testo di partenza.

E qui il discorso su Dostoevskij torna significativamente a Gadda: lo scrittore possedeva tra i suoi libri il primissimo volume della Slavia, I fratelli Karamazov, tradotto da Alfredo Polledro (in una edizione successiva); e non mancava nella sua biblioteca un’altra edizione che segnò una svolta importante nella ricezione italiana di Dostoevskij, perché era la prima, tardiva, traduzione di un romanzo centrale come I demoni, scritto nel 1873, ma uscito in italiano solo nel 1927, sempre nella traduzione di Polledro (e di cui Gadda possedeva la seconda edizione, del 1929).

Gadda, insomma, e lo si può affermare sulla base delle considerazioni del Racconto italiano, non si adegua alla vulgata dello scrittore mostruoso e diverso, anima del popolo russo, da vedere come modello di letterato rappresentativo di una cultura, soprattutto attraverso la biografia e il pensiero, disconoscendo la problematicità della dimensione costitutivamente letteraria; egli, piuttosto, pone Dostoevskij accanto ad altri modelli, lo ingloba nel suo canone fondamentale di letture, non come una curiosità ai limiti dell’esotico, ma come preciso spunto di riflessione su cui elaborare le proprie costruzioni narrative.

Gadda, del resto, non è alieno dalla considerazione di letture dell’opera dostoevskiana più correnti e preesistenti nella cultura italiana, precedenti alla lettura solariana, anzi dimostra di essere perfettamente consapevole di alcune costanti interpretative. Come già ricordato, uno dei libri da cui dipende l’accostamento italiano a Dostoevskij è senz’altro Memorie da una casa di morti, l’opera decisamente meno letteraria e meno problematica tra quelle dello scrittore russo; quella che per la presenza di riferimenti omologhi nel genere memorialistico di prigionia all’interno della tradizione italiana viene più facilmente assimilata (ed è, non a caso, la prima a essere tradotta, nel 1887). Memorie da una casa di morti costituisce un riferimento che appare isolatamente nel Castello di Udine, in Imagine di Calvi (originariamente pubblicato nel 1932 sull’Ambrosiano), in relazione all’esperienza della prigionia, rivelando, però, una particolare consapevolezza, ironica, dell’abuso di quest’opera da parte italiana. Si vedano, in proposito, passi come questo:

Prigioniero, mi vidi finalmente quell’essere nullo, perfettamente superfluo, quella foglia morta che il vento della miserabilità può sbatacchiare dentro l’inverno, verso la gioia di tutti gli pseudo-Dostoiewski della madre terra e per la mia infinita e cruciale mortificazione. (RR I 171)

Dove, appunto, si pone il problema dell’impossibilità di pensare l’esperienza nei termini di una letterarizzazione di maniera, inconsapevole, su cui Gadda non può non esercitare il proprio sarcasmo dissenziente.

Gli scrittori italiani che si rifacevano a Dostoevskij, lungo tutto il corso degli anni Venti, tendevano a riprodurre superficiali psicologismi, atmosfere cupe di scavo interiore che rimanevano un suggello stilematico o meccanicamente contenutistico e rivelavano, una volta di più, il disconoscimento degli aspetti strutturali specifici che nello scrittore russo sono inscindibili da quelli tematici. Non diversamente mi pare vadano intesi spunti dostoevskiani, che molti hanno rilevato, in scrittori come Tozzi o come Grazia Deledda, in cui a un interesse indubbio per le opere del russo si unisce un’attenzione specifica per l’indagine psicologica difficilmente legata alla ricerca di una forma intesa in termini bachtiniani. Ai tempi di Novella seconda, Gadda percepiva chiaramente la possibilità che Dostoevskij fosse assunto semplicisticamente come fonte per la riproduzione di psicologismi affettati e convenzionali. Quando descrive l’incontro di Denira Classis con «quello che i ragazzi di bar, i filosofi e gli agenti di cambio chiamano “la vita”» e che secondo lui sarebbe meglio definito come «quel portentoso e serpentesco groviglio di cui non se ne capisce niente» rivelava di avere ben chiara l’idea dell’esistenza di un manierato genere psicologistico in cui molti scrittori indulgevano proprio in base a controversi spunti dostoevskiani. Rilevava infatti qui Gadda che «solo certi presuntuosi novellieri di genere psicologistico si danno delle grand’arie per i loro poveri schemi e le stiracchiature più o meno dostoieschiane» (RR II 1038).

Del resto, ancora più consapevolmente sarcastico rispetto a quello che vedeva come pedissequa importazione di vuoti modelli nella cultura italiana sarà molti anni più tardi quando, nell’approntare la raccolta I viaggi la morte, sostituirà, nel saggio di Letteratura del 1937, Meditazione breve circa il dire e il fare (SGF I 1316), il rimprovero denotativo rivolto a chi credeva di aver «importato il Proust in Italia» con un più ben connotativamente gaddiano: «dandosi a credere di aver importato il Tolstoewski e magari il Prott». Tanto che l’originaria deprecazione dei vizi «dell’espressione», dei mali della «parlata falsa», nel 1937 attribuiti alla sola imitazione di maniera dell’autore della Recherche, arriva a suonare così:

Devo notare che parole vane sono ancora quelle, per quanto brutte, di chi si crede scansarle con lo scrivere male e con maltrattarne l’idioma. E quelle di chi non ha nulla da dire: e fabbrica pagine e pagine sopra i disegni della tappezzeria, dandosi a credere di aver importato il Tolstoewski e magari il Prott in Italia: o lucubrando sistemi falansterici nei quali invesca, dopo che se stesso, altri facitori e venditori di parole. (SGF I 449)

Ora, è proprio a Dostoevskij che più frequentemente veniva imputato in Italia di scrivere male ed era proprio sulla base di questo giudizio che si sanciva l’estraneità irrimediabile dello scrittore russo alla tradizione italiana stessa. Si trattava di aspetti che Solaria aveva ribaltato in connotazioni positive; recitava infatti il già ricordato Corsivo d’apertura:

non siamo idolatri di stilismi e purismi esagerati e se tra noi qualcuno sacrifica il bel ritmo di una frase e magari la proprietà del linguaggio nel tentativo di dar fiato a un’arte singolarmente drammatica e umana gli perdoniamo in anticipo con passione. (5)

Ma, al di là del cambiamento di segno, restava, profondamente radicato, lo stereotipo dello scrivere male di Dostoevskij, caratterizzazione che Gadda, ancora una volta, dimostra di avere ben presente nella sua convenzionalità.

Inoltre, nello stesso 1931 in cui Leone Ginzburg si fa promotore di un memorabile fascicolo della Cultura per celebrare il cinquantenario della morte di Dostoevskij, un fascicolo che, nel rifiutare gli approcci riduttivamente biografici, costituisce tuttora un contributo fondamentale negli studi dostoevskiani, Gadda scrive, per l’Ambrosiano del 17 novembre, una recensione agli Essai critiques di Marcel Arland (pubblicati dalle edizioni della «Nouvelle Revue Française») in cui non si dimostra certo entusiasta dell’approccio biografico proposto dallo scrittore francese a Dostoevskij, accanto a Wilde e a Nouveau, definendo il saggio in questione come nient’altro che «un abile riassunto di idee, ormai generalmente acquisite, circa i caratteri umani dei tre» (SGF I 721).

E a tutto questo va aggiunto anche il fatto che Gadda lesse sicuramente I demoni, l’opera dostoevskiana, come si è detto, più radicalmente estranea alla cultura italiana. Lo prova, per esempio, il fatto che nel Fontanone a Montorio, pubblicato sull’Italia letteraria nell’agosto del 1933 e confluito poi nel Castello di Udine, Gadda cita come termine di paragone per la figura della stiratrice italiana un personaggio tutto sommato secondario nel romanzo dostoevskiano, Mar’ja Timofeevna, moglie deforme di Stavrogin, definendola «demente e lacera, sposa al principe, accoltellata dal galeotto» (RR I 260). E nel 1937, nel già ricordato Meditazione breve circa il dire e il fare, porta come esempio quello dei personaggi «degli indemoniati, o dei semplici o dei Simplìci» (creati da Dostoevskij, Molière e Flaubert, e naturalmente Galileo) per esplicitare i termini del processo per cui lo scrittore riesce a prendere «nozione», «nozione critica, dei limiti di validità, cioè del campo di applicabilità del suo segno espressivo» (SGF I 453). Una Cognizione, in sostanza, che si realizza nel momento in cui lo scrittore dà la parola ai personaggi sopra descritti. «E quelli, i personaggi – conclude Gadda – patiscono o agiscono, comunque si buttano: e si urtano ed errano e peccano e vanno al diavolo, quasi comandati, cioè inspirati, insufflati, da parole demoniache, da dèmoni divenuti parole, dopo che sentimenti o impulsi» (SGF I 453).

E queste riflessioni si trovano proprio in pagine che discutono esplicitamente, forse più esplicitamente che in altri luoghi gaddiani, le deformazioni dell’«arte del dire» (SGF I 445) e il nodo della falsità della parola, e pongono subito, in apertura, il nesso tra Poetica ed Etica.

Si tratta certo, per quanto riguarda Dostoevskij, di menzioni fugaci, che potrebbero sembrare isolate. Ma ciò che spinge a considerarle come degne di attenzione è da una parte il legame che costantemente si istituisce con le problematiche che Gadda sente più affini e brucianti nella direzione di una ricerca continua di approfondimento e svisceramento, dall’altra il rifiuto di un adeguamento alle vulgate interpretative volte a enfatizzare aspetti esclusivamente ideologici e contenutistici o a prendere in considerazione solo determinate opere in determinate traduzioni. L’acutezza con cui Gadda individua invece in Dostoevskij un modello di costruzione narrativa invita ora a guardare più da vicino le ragioni specifiche di questo apprezzamento.

2. «Il romanzo romanzesco»

Nel 1950, nell’Intervista al microfono, Gadda riconosceva: «La narrazione è certamente uno de’ miei obiettivi» (SGF I 502), pur ammettendo che tale interesse si era modificato e variato negli anni. E, cosa che interessa qui particolarmente, per spiegare le motivazioni della centralità della narrazione, usava un aperto riferimento dostoevskiano con connotazioni da romanzo popolare, come si vede nelle considerazioni che seguono:

Nella mia vita di «umiliato e offeso» la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la «mia» verità, il «mio» modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice rattenendo l’ira, lo sdegno. […] La mia scrittura si è dunque volta al narrare, al puro narrare […]. (SGF I 503)

Ma già dai tempi in cui si trovava alle prese con il Racconto italiano, ancor prima dell’uscita delle dichiarazioni di principio solariane, Gadda, come si è visto, aveva legato la lettura di Dostoevskij a riflessioni compositive non aliene da meditazioni radicali sullo statuto del letterario e del romanzo, in particolare. È accanto ai già ricordati riferimenti al modello di Nastas’ja Filppovna che lo scrittore identifica come sua «maggiore difficoltà» la necessità di venire a capo del problema dell’intreccio, ingarbugliato punto nodale in cui si articolano letteratura e vita. E per fare questo focalizza la propria attenzione su quello che a questa altezza chiama l’«istinto delle combinazioni», cioè, secondo la definizione gaddiana, «il profondo e oscuro dissociarsi della realtà in elementi che talora (etica) perdono di vista il nesso unitario» (SVP 460). Ed è da qui che poi partono le ulteriori riflessioni sulla necessità di mediazione ideale tra una conduzione del romanzo «ab interiore» e una «ab exteriore» (SVP 461), nel momento in cui il passaggio costitutivo «dal semplice al complesso, dall’uno al molteplice» rivela il fine gaddiano come quello della creazione di un «romanzo della pluralità» (SVP 462). Al di là della tentazione di una sin troppo facile e semplicistica assimilazione di questa definizione di pluralità alla formulazione della polifonia romanzesca, che precorrerebbe addirittura, il Bachtin del 1929, (6) resta però l’evidenza di un riferimento dostoevskiano che tocca, non a caso, proprio l’ambito della riflessione sul romanzo come pluralità.

Il nome di Dostoevskij ritorna più di una volta nelle postille al testo. La prima volta si tratta della semplice annotazione del nome dello scrittore russo (SVP 1280) accanto a una formulazione, del 27 agosto 1924, di un discorso che suscita «uno scrosciante applauso» (SVP 453) e che potrebbe senz’altro essere collegato, quale spunto da sviluppare, a esiti dostevskiani di pubbliche orazioni, come per esempio quella dello scrittore Karmazinov nei Demoni. Mentre di «subcosciente Dostojewski» (SVP 1280) parla un’altra postilla, apposta a un appello, di due giorni successivo, nel quale l’autore chiede venia alle proprie lettrici in nome dell’assenza di menzogna per le seguenti colpe:

[…] per la zoccolante miseria, per la sudicia volgarità, per l’enfasi spropositata, per la folle movibilità, per la saccente presunzione, per la crudele velenosità, per la grossa approssimazione, per la perversa mania del retroscena […]. (SVP 457)

Ma che Dostoevskij non rimanesse un accenno subcosciente, ma un modello ben presente e quasi normativo lo dimostra un’ulteriore postilla che accanto a un «Calmatevi» di chiara ascendenza manzoniana scritto nella mattina del 14 dicembre 1914, recita testualmente: «Tocco sbagliato, forse Dostoiewski non fa così» (SVP 1285).

Si evidenzia qui, tra l’altro, come corollario alla questione centrale del romanzo della pluralità, un interrogativo che si apre sulla possibilità di una traduzione culturale dei modelli. Quando, per esempio, nel Racconto italiano Gadda menziona la già ricordata intenzione di fare riferimento a Nastas’ja Filippovna per costruire il suo personaggio di Emma Renzi, pone questa idea in alternativa alla possibilità che Emma assuma caratteristiche più tipicamente italiane. Il problema della specificità dei paradigmi di riferimento e della necessità di tramutarli in realtà radicate in connotazioni nazionali permane fino al Castello di Udine. Nel Fontanone a Montorio, tra le riflessioni che ruotano attorno all’individuazione di un nuovo personaggio italiano, viene citata la già ricordata stiratrice modellata su Mar’ja Timofeevna, con l’aggiunta di una sarcastica dichiarazione d’intenti: «I rubli dell’eccidio si farebbe del nostro meglio per tradurli in lire». E nelle stesse pagine l’incipiente influsso dostoevskiano sulle patrie lettere viene stigmatizzato nel riferimento a un «imminente Dostoiewski» (RR I 261), oppure al fatto che «Balzac e Dostoiewski erano in viaggio» (RR I 260).

Ma al di là di questa sottesa resistenza a un’applicazione meccanica del modello, Dostoevskij, altre volte, è più esplicitamente e genericamente menzionato nella rosa di nomi canonici da considerare come paradigmi di riuscita letteraria, e allora compare oltre che a Balzac, accanto a Dickens, Tolstoj, Stendhal, Hölderlin (SGF I 596), a Molière, Flaubert, Galileo (SGF I 453), ma anche a Leibniz e ai Vangeli (SGF I 655) e persino a Dante e alla Bibbia (SGF I 922). E ancora, nell’introduzione al romanzo I Makurell di Hjalmar Bergman, scritta per la traduzione italiana pubblicata dall’Einaudi nel 1945, Gadda usa Dostoevskij come parametro per valutare l’opera di cui sta scrivendo e nel contempo per esplicitare il suo giudizio nei confronti dello scrittore russo, scrivendo: «la magia della rappresentazione dostoevskiana è più alta, il realizzo è più netto» (SGF I 932).

Al di là delle menzioni singole e specifiche e in relazione a questa rete di riferimenti espliciti, nel rapporto di Gadda con Dostoevskij l’interpellazione continua della forma romanzo, e, per meglio dire, dello statuto del romanzesco e delle sue potenzialità si intreccia, come si proverà a dimostrare, con l’articolazione problematica tra letteratura e filosofia. Dostoevskij, per la cultura italiana della prima metà del Novecento, era, al pari di, seppure in modo diverso da Gadda, scrittore/non scrittore, pensatore e filosofo prima che romanziere, ma era colui in cui pure l’autore della Cognizione poteva ritrovare soluzioni romanzesche su cui riflettere. Inoltre, lo scrittore russo poteva porsi come modello per una letteratura che non disconoscesse il ruolo del lettore e che sapesse incorporare e intrecciare diversi registri, livelli, linguaggi, schemi narrativi per operare una commistione che non rinunciasse né all’intensità e alla profondità della scrittura, né al contatto con il pubblico (7) (progetto che Gadda renderà esplicito nella Nota costruttiva a Novella seconda).

Si può ipotizzare che Dostoevskij entri nella rete gaddiana come mobile fulcro, come riferimento dinamico attorno al quale si articola l’elaborazione del narrare romanzesco rivolto al lettore come forma di conoscenza e acquisizione della complessità, anche quando non è esplicitamente menzionato. Si consideri, a questo proposito, il modo in cui nello stesso anno, 1928, due opere prossime per data di composizione, Novella seconda e la Meditazione milanese articolano il nesso sopra citato di filosofia e letteratura. Nella Meditazione, per esempio, si pongono questioni relative al concetto di patria e alle sue connotazioni che vanno lette in linea con quanto sopra ricordato a proposito del problema delle peculiarità locali nella scrittura e che ancora una volta chiamano in causa il nome di Dostoevskij come quello di un classico:

Exemplum: Noi diciamo la percezione del vedere e il sentimento della patria: mi concederete che l’una spogliata de’ suoi elementi simbolici o significativi (come pura registrazione) è cosa relativamente semplice pur sommando già in sé molteplici e prelibate relazioni (intensità, luminosità, spazialità, colore, ecc. e queste scindibile ne’ loro elementi, ecc.) – e il sentimento patria è cosa così enormemente complessa e mobile, sia come lenta elaborazione storica sia come motivazione attuale nella coscienza-cultura del singolo, che solo il genio divinatore dello Shakespeare, e la mobile e vivida e complessa interpretazione del Balzac o di Dostoiewski potrebbe dipanarne le fila. (SVP 825)

Se la Meditazione milanese rappresenta più esplicitamente l’interesse filosofico, come ha scritto Robert Dombroski (Dombroski 2002a) «per l’interrelazione di io coscienza e mondo quale oggetto di percezione», ma anche la presa d’atto dello scacco speculativo intrinseco a questa, pur irrinunciabile prospettiva, Novella seconda è il laboratorio, l’officina letteraria dove le questioni si pongono con un particolare riferimento al lettore, all’aspetto ricettivo. E mi riferisco qui, evidentemente, alle precisazioni della nota costruttiva:

Interessare anche il grosso pubblico. E cioè arrivare al pubblico fino attraverso il grosso: doppia faccia, doppio aspetto. Interessare la plebaglia per raggiungere e penetrare un’altezza espressiva che mi faccia apprezzare dai cervelli buoni. (RR II 1318)

Da cui consegue la scelta del romanzo e del romanzesco:

Il pubblico ha diritto di essere divertito. Troppi scrittori lo annoiano senza misericordia. Bisogna dunque riportare in scena anche il romanzo romanzesco. (RR II 1318)

Scelta che è ripetutamente ribadita:

Mio desiderio di essere romanzesco, interessante […]. In tal caso non basta lo schema tragico del processo (spscr. della tragedia) Pettine puro e semplice. Occorre complicarla romanzescamente. […] In questa novella io voglio movimento romanzesco, scherlokholmesismo, per diverse ragioni […]. Non è detto che la vita sia sempre semplice, piana, piatta. Talora è complicatissima e romanzeschissima. […] Voglio fare sulla novella una prova per arrivare poi al romanzo, anche per il vecchio progetto, se mai, del racconto italiano. Dunque: complicazione del tema. – (Complicazione mia per una novella, suggerita dalla «montatura» della difesa Pettine.) […] non allontanarsi da Renzo Pettine, che deve essere il centro, il fulcro del romanzesco. (RR II 1317-318)

Ritengo significativo che nel marzo del 1928 Gadda sembri ritrovare nella vicenda del matricida Pettine, che aveva tenuto in casa per settimane il cadavere dell’uccisa, suggestioni che vanno ben al di là della comune attrazione morbosa per il delitto che pure costituiva uno dei motivi del clamore e dell’attenzione che il caso stava suscitando nell’opinione pubblica italiana dell’epoca. Nell’aula del tribunale si discuteva se l’imputato fosse capace di intendere e di volere, e dunque se fosse attribuibile a lui la responsabilità del crimine, la sua volontarietà. Non è un caso che nel momento in cui Gadda è catturato nel rovello manzoniano di raggiungere il pubblico fino attraverso il grosso adotti materialmente pratiche di scrittura che richiamano quelle dell’ultimo Dostoevskij, quello delle parti narrative del Diario di uno scrittore e poi dei Karamazov: l’attenzione ai fatti di cronaca nera, la frequentazione minuziosa di atti processuali e cronache giudiziarie, la scoperta di una rete di corrispondenze tra il romanzo del reale nel momento dell’infrazione e della rottura dei codici e delle convenzioni e i nodi cruciali della sua rappresentazione letteraria. Tutto questo accumulo di spunti si lega, sia per Gadda, sia per Dostoevskij, in vari momenti e secondo diverse declinazioni all’emergere dell’esigenza di aprire il letterario a negoziare i propri materiali e i propri procedimenti con ciò che sta convenzionalmente o tradizionalmente fuori di esso (cosa su cui del resto Gadda riflette esplicitamente negli anni di Novella seconda, nel 1929, nel saggio pubblicato su Solaria Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche). In questo caso sono in particolare i riferimenti alla legge, all’ambito giuridico e sociale che istituiscono questa apertura. E proprio in relazione allo sfondo giuridico il delitto e il crimine costituirebbero un polo significante di attrazione paradossale. Il delitto è un nucleo che si pone alla base delle riflessioni compositive di Gadda; quell’ipotizzato «assassinio di Maria de la Garde», che si trova nelle primissime note del primo Cahier d’études (SVP 401) del Racconto italiano, non solo dà subito origine a una elaborazione esplicita della questione delle cause e della necessità, ma si lega alla sfera della definizione della legge:

In sostanza io voglio affermare che anche le azioni immorali o criminali rientrano nella legge universale e mi afferro più che al determinismo eredità (Lombroso, neurologia, psicologia sperimentale, studî biologici) alla mia idea della combinazione possibilità. (SVP 406)

E ancora:

Il determinismo è la lettura della curva della ananche, non la sua spiegazione. Io interpreterei con una reversione della norma (legge) per cui si ha l’abnorme (ex lege), la cui presenza rende possibile alla norma di sussistere (concetto mio della polarità) | ed entra con la norma in condizioni di equilibrio. […] è un concetto ancora molto oscuro. Nella nozione volgare: «Non c’è legge senza eccezione, ogni legge ha le sue eccezioni». «Le eccezioni confermano la regola». (SVP 407)

è nel complesso articolarsi di queste considerazioni che mi pare si possa individuare un riferimento dostoevskiano. È in Dostoevskij che, rispetto allo spazio romanzesco in cui si crea un mondo con le sue leggi, il delitto è il momento catalizzatore che attraverso l’infrazione di queste leggi fa emergere il nucleo fondante del mondo rappresentato. In questo senso lo scrittore russo può diventare un paradigma, come nelle riflessioni programmatiche di Solaria, di una visione romanzesca compiutamente, ma non riduttivamente, articolata attorno all’intreccio, in cui la dimensione etica e il continuo forzare i confini del letterario verso altre sfere trovano nella rappresentazione del delitto la propria leva e il proprio punto di appoggio a un tempo.

Tutto questo ritorna prepotentemente nell’articolazione tra Novella seconda e la Meditazione milanese. Con un esito, però, peculiarmente gaddiano. Era difficile che chi leggeva le cronache che comparivano quasi quotidianamente nella pagina giudiziaria del Corriere della sera non notasse che la prima pagina dello stesso quotidiano, negli stessi giorni era occupata dai resoconti della riforma del sistema penale, il futuro codice Rocco. La posta in gioco in entrambi i casi, i resoconti processuali e quelli parlamentari, era la possibilità di determinare la responsabilità, la problematicità di una definizione univoca dei meccanismi di attribuzione della colpa, la complessità della dimensione che con un termine prettamente giuridico si definisce come quella delle causali. Credo non sia senza significato che Gadda avesse potuto leggere sul Corriere del 20 marzo 1928 un articolo dedicato anche alle causali del delitto che sarebbe poi sfociato nella lunga disquisizione sui fatti che costituiscono o non costituiscono reato e sull’attrazione che questi esercitano sul pubblico nella novella incompiuta. È nella sfera giuridica che il termine causale si apre per definizione alla considerazione delle concause; oppure, per dirlo con le parole di Ciccio Ingravallo al quale «il termine giuridico le causali, la causale sfuggiva preferentemente di bocca», è in questo ambito che esso si lega strettamente all’opinione che bisognerebbe sostituire «alla causa le cause» (RR II 16).

è questo il magistero dostoevskiano: guardare fuori dal letterario, non solo alla filosofia, ma al mondo della legge che esplode nel momento del delitto, alle cronache giudiziarie che di questa dirompenza danno conto, ai fatti di cronaca che rivelano intrecci e bisogno profondo di indagine; ma non per riempire una forma di materiali esterni, bensì per rifornire di senso la dimensione stessa del letterario, proprio, anche se paradossalmente, in virtù della sua specificità. Dopotutto, se Emma Renzi, lo si è ripetutamente rilevato, si genera da Nastas’ja Filippovna (per esplicita ammissione di Gadda), Dejanira Classis può essere vista come uno sviluppo di Emma Renzi proprio attraverso la mediazione del resoconto giornalistico del fatto di cronaca. Non mi sembra azzardato pensare che Gadda potesse ritrovare nelle descrizioni di Erminia Ferrara (la madre uccisa da Renzo Pettine, modello reale di Denira Classis) che le cronache processuali del Corriere della sera riportavano giorno dopo giorno alcuni dei tratti che egli stesso avrebbe voluto attribuire a Emma Renzi, soprattutto nella visione del figlio Gigetto. Una «strega forsennata» che amava circondarsi di «pellicce, gioielli, cappelli: ingegneri, avvocati, giureconsulti: scarpe, calze, giarrettiere. Colonnelli!» e a cui si aggiunge la problematica presenza del figlio, nel progetto del romanzo; nelle cronache processuali, secondo le testimonianze rilasciate durante il dibattimento, una donna forte, «insaziabile di denaro», che maltratta il marito e che suscita questa esclamazione da parte di un teste: «Ma quella non era una madre: era un demonio!». (8)

Ha notato molto opportunamente Ferdinando Amigoni, in una nota a piè di pagina (Amigoni 1995a: 161-62, n. 1), che l’interesse per la lettura dei giornali e l’attrazione per il fatto di cronaca accomuna Gadda e Dostoevskij proprio in nome dell’intreccio tra i legami della realtà che in essi si rivelano. Su questa scorta lo stesso Amigoni ha individuato una rete di puntuali riferimenti intertestuali nel Pasticciaccio cha accomunerebbe, nel loro destino, Liliana Balducci e Lizaveta, uccisa da Raskol’nikov (Amigoni 1995a: 102-04), a confermare in qualche modo la costante presenza dostoevskiana che ruota attorno al tema del delitto e del delitto commesso nei confronti di una donna che sembrerebbe in qualche modo predestinata a esso. In Dostoevskij è certo questo il caso di Nastas’ja Filippovna e anche quello delle due vittime di Delitto e castigo che assurgono al ruolo di capro espiatorio e che fanno sì che la narrazione altro non sia che una conseguenza del loro, inevitabile e necessario, sacrificio. Si tratta di due diverse incarnazioni della possibilità di compimento del destino del capro espiatorio. In questo senso, è certo più importante per il Gadda di Novella seconda e poi della Cognizione del dolore il modello dell’eroina dell’Idiota la cui uccisione aleggia su tutto il romanzo e determina, con l’attesa, la tensione verso l’epilogo; mentre senz’altro il modello di uccisione di donna che sembra più presente al Gadda del Pasticciaccio è quello di Delitto e castigo collocato poco dopo l’inizio della narrazione a dare origine a una serie di indagini incrociate che si svolgono su diversi piani, a diversi livelli e da diversi punti di vista.

è vero che in Dostoevskij l’assassinio di una donna è un elemento strutturale e ricorrente; ma è anche vero che la funzione del capro espiatorio, il ruolo della vittima predestinata, nello scrittore russo non è sempre ed esclusivamente svolto da figure femminili, come invece accade, sistematicamente, in Gadda (che aggiunge alla connotazione di genere sessuale l’identità materna, naturalmente). I personaggi di Šatov e Kirillov nei Demoni svolgono questa stessa funzione, per esempio; e ancor più fortemente caratterizzato da questo ruolo è senz’altro il vecchio Fëdor Karamazov, colui che deve per forza essere ucciso, colui che tutto il romanzo dipinge insistentemente come colui che fatalmente soccomberà per mano dei figli.

Per questo, nel contesto di queste considerazioni, al di là delle menzioni esplicite dell’Idiota o delle reminiscenze di Delitto e castigo, a me pare che l’opera dostoevskiana che ritorna con maggiore insistenza tra le pagine di Gadda producendo possibilità di letture incrociate e quella che vale la pena di considerare più dettagliatamente sia I fratelli Karamazov. E che lo sia proprio in quanto chiave del rapporto tra la letteratura e altri discorsi (in particolare quello della cronaca e quello giuridico), della centralità del tema del delitto che da questo intreccio è illuminata, ma soprattutto dell’indagine etica delle concause del bene e del male. Gadda dovette vedere nei Karamazov l’apertura di un approfondimento, sin nelle zone più oscure dell’inconscio, degli infinitesimali spostamenti percettivi in grado di costituire causali inavvertite di scelta nell’agire umano, come dice una nota dell’Adalgisa (che origina dalla spiegazione del concetto delle «petites perceptions» in Leibniz, RR I 559-560), la possibilità di una disincantata disamina dei nessi e delle correlazioni costitutive che definiscono il concetto di responsabilità e colpa. Non è solo sul piano della condivisione di nodi tematici o di modalità di indagine che l’ultimo romanzo dostoevskiano cattura e mantiene l’attenzione e le riflessioni di Gadda: la forma catartica del dramma dostoevskiano, che individua nel delitto l’elemento catalizzatore di una serie di nessi causali incrociati e sovrapposti e lo rende attraverso una commistione di lucidità e allucinazione della parola capace di penetrare e approfondire i meandri della conoscenza, agisce proprio attraverso la messa in scena narrativa dell’enigma della responsabilità.

3. «Il gravame comune delle colpe»

I Karamazov ritornano in effetti, con una certa insistenza citazionista nelle opere di Gadda. Vengono occasionalmente nominati nel Castello di Udine, in Sibili dentro le valli (RR I 268) in un catalogo assortito di classici; sono richiamati nei ricordi di un’esperienza di lavoro in Lorena, nel Pozzo numero quattordici del 1934, poi raccolto in volume nelle Meraviglie d’Italia, in cui per descrivere l’ambiente dove si era trovato, Gadda scrive:

Non era Francia, non era Germania: c’era una prevalenza di polacchi, di croati, di cechi. C’erano anche forse degli italiani. Dei caffè chiusi, da Fratelli Karamazoff, dove si entrava come in una chiesa, per trovarci molti giornali col mànico e certi ceffi! (RR I 123)

E si ritrovano ancora nella prima appendice di Eros e Priapo, nella menzione di Dmitrij Karamazov come termine di paragone per il contribuente lombardo che «di fronte alla fiscalità impersonata ne’ funzionari siciliani di Via Manin si trova nello stesso stato d’animo del capitano Karamazof di fronte al funzionario che lo interrogò nudo, per deprimerne le ultime resistenze psicologiche» (SGF II 1034). (9)

I fratelli Karamazov dovette essere sempre costantemente presente a Gadda, e in particolare alcuni suoi personaggi, tra cui lo starec Zosima, che viene nominato, per esempio nel 1939 in una recensione dell’Ambrosiano al Mulino del Po di Bacchelli, un personaggio del quale viene giudicato non all’altezza degli «Stariez dei Karamàzof», e poi ancora in una intervista tarda del 1972, in cui a una domanda relativa a quale preferisse tra i romanzi di Dostoevskij, rispose «quello in cui figurano gli Starets» (Gadda 1993b: 215).

Ma, non a caso, il più delle volte le menzioni dei Karamazov si legano proprio al nodo della definizione delle causali, dei nessi intrecciati della colpa e della responsabilità, in una dimensione che mantiene sempre al centro della sua visione la costruzione romanzesca. Per esempio, accanto al celebre esempio della libellula che vola a Tokio, nell’Egoista, Teofilo teorizza e definisce come tale colui che «ignora e trascura questi nessi, queste correlazioni di fatto», colui insomma che «non ha letto e non ha meditato a sufficienza la monadologia di Leibniz, né i Karamazov di Dostoiewski» (SGF I 655). In particolare, di Dostoevskij a Gadda interessa, e viene detto qui esplicitamente, «il riconoscimento del gravame comune delle colpe: sì che la colpa di uno è colpa di tutti» (SGF I 656). Una formulazione molto simile, e nuovamente legata a Dostoevskij, si trova nella recensione al Journal du voleur di Jean Genet che Gadda pubblicò nel 1950 su Paragone con il titolo di Il faut d’abord être coupable (il motto riportato sulla fascetta del libro, come spiega l’autore) che denota una volta di più l’interesse gaddiano per i problemi della responsabilità e della colpa come spazio di indagine e di moltiplicazione delle riflessioni e non come semplice categorizzazione definitoria. Il problema che viene subito impostato è quello della «cognizione» del male, nella contrapposizione di una prospettiva metafisica e di una «nozione storica» (SGF I 612). Da qui il discorso si apre poi a una definizione della colpa che chiama in causa la necessità di «tutti i colpevoli, tutti i peccatori», che propone una visione articolata in cui «il crimine, il male, il peccato, i peccatori, i delinquenti, come termini conecessari all’articolazione, cioè alla costruzione e alla espressione, della vita […]» (SGF I 613). Ed è da qui che deriva la formulazione del motivo dell’intreccio di cause e concause che connotano la responsabilità:

Se un eredoluetico alcoolizzato, a Maracaybo, taglia la gola con un colpo di rasoio a una povera meticcia ch’egli sfruttava e picchiava fino a farla sputar sangue, io, io Carlo Emilio, ne sono per la mia quota parte responsabile. (SGF I 614)

Ed è sempre qui che ricompare, di nuovo accanto a quello di Leibniz, il nome di Dostoevskij nella considerazione del tema (che del resto è un nodo centrale per lo scrittore russo) della correlazione tra bene e male:

Dostoiewski sembra accentuare questa verità con la potente arsi del dramma. Leibniz, ereditando da Origene e da’ più pensosi scolastici, ha energicamente affermato la correlazione bene-male […]. (SGF I 614)

Leibniz e Dostoevskij si avvicinano, pur nella loro irrimediabile diversità, soprattutto dal punto di vista storico, proprio ruotando attorno al perno dell’indagine circospetta delle causali, e dei problemi a esse connessi. (10) Nella nota 13 dell’Adalgisa, la questione si era posta proprio nei termini di una ripresa leibniziana da parte di Dostoevskij, assieme agli esempi di Proust e Freud, delle «petites perceptions», definite, come ho già ricordato, «causali inavvertite della scelta» (RR I 559), formulate quantitativamente e meccanicisticamente, a detta di Gadda, da parte del filosofo tedesco, ma già volte ad alludere «ai motivi e agli impulsi della zona inconscia dell’io»:

In tale impiego noi dobbiamo accettarla come un simbolo idiomatico inadeguato (sei-settecentesco), dalla esplicita e divulgativa dialessi di un mondo razionaleggiante adibito a voler rappresentare fenomeni e fatti che soltanto una dialessi futura, se non un’esperienza e una coscienza future, (Dostoiewski, Proust, Freud), sarebbe un giorno pervenuta a descrivere, a catalogare. (RR I 559)

Quindi, sì, si può trattare certo di menzioni ripetute e ribadite, ma non si può non notare come questo nucleo di riferimenti si coaguli infine intorno ai nessi assolutamente nodali nelle riflessioni gaddiane. Ferdinando Amigoni ha rivelato la persistenza della lettura gaddiana dei Karamazov sino al momento della stesura delle ultime pagine del Pasticciaccio, rinvenendo un puntuale riferimento testuale in cui Assunta richiama in modo dettagliato una descrizione di Grušen’ka e alla cui base ci sarebbe un comune utilizzo della negazione freudiana in relazione al parricidio/matricidio, che Amigoni assimila (Amigoni 1995a: 130-39).

Ma a me pare che per comprendere tutta la portata di questi riferimenti sia necessario tornare alla Cognizione e valutare in essa la presenza dostoevskiana come nucleo compositivo fondante. Si tratta di considerazioni certo non nuove negli studi gaddiani; tra le opere di Gadda, La cognizione è il testo che è stato più spesso e con più successo sottoposto a uno scandaglio finalizzato a evidenziare richiami e riferimenti a Dostoesvkij, e in particolare al suo ultimo romanzo. Giustamente, Emilio Manzotti ha rilevato che «la Cognizione intrattiene legami d’elezione col Dostoevskij dei Fratelli Karamazov» (Manzotti 1987a: xlvii) e Raffaele Donnarumma ha scritto che nella Cognizione sono i Karamazov «a impostare la trama e a definire la figura del protagonista», e, ancora più esplicitamente, che «la volontà di riferirsi ai Karamazov è comunque così chiara che in essi è lo stesso nucleo generatore della Cognizione» (Donnarumma 2001a: 50, 89). (11)

Al di là di questi ineludibili riconoscimenti – e mi sia consentito qui un azzardo logico nell’argomentazione –, credo si debba dar ragione a Giancarlo Roscioni quando scrive esplicitamente che «Gonzalo non è un Karamazov» (Roscioni 1995a: 101), perché da questa osservazione si possono far conseguire alcuni sviluppi interpretativi. È vero, infatti, che l’hidalgo veste apertamente altri panni: ora quelli di Edipo, ora quelli di don Chisciotte, ora quelli di Amleto, ora quelli di Stephen Dedalus (Roscioni 1995a: 168). La Cognizione accoglie in sé espliciti riferimenti a tante altre opere, in uno spettro ampio di volutamente esplicitate ricorrenze testuali, mentre Dostoevskij e i Karamazov sembrerebbero rimanere fuori da questa galleria di citazioni e da questo reticolo di aperta e ostentata intertestualità. Ma se è anche vero, come ha sostenuto Robert Dombroski, che la letterarietà esasperatamente asserita come paradigma interpretativo della realtà, in particolare nella Cognizione, deve essere intesa come «copertura» e «maschera», e che, seguendo «l’infinita catena di allusioni» che le tracce intertestuali dei testi gaddiani innescano, «si finirebbe non solo con l’abbracciare l’intera produzione gaddiana ma col risalire a quella di altri autori, quali Dostoevskij e Céline, che Gadda ben conosceva» (Dombroski 2002a: 94), sembra lecito ipotizzare un riferimento più ampio, generale, strutturale, da ricercare non tanto nelle singole citazioni verbali o tematiche, ma in quegli elementi costitutivi dell’impianto, nei nuclei ricorrenti e nodali, nei grumi romanzeschi, per dirla con Contini, che nella Cognizione si declinano in termini peculiarmente karamazoviani.

è evidente che i due romanzi condividono strutturalmente l’attesa spasmodica del delitto, una sorta di atmosfera da cronaca di morte annunciata, lo scontro caratteriale tra i personaggi principali, la trama stessa orientata sul delitto, sulla morte. Tratti che si riflettono anche a livello di singole situazioni narrative, come quella, su cui già è stata attirata l’attenzione, della vittima che attende di essere sacrificata vagando in solitudine nella propria grande casa. (12)

Ma non è al livello dei temi, delle situazioni narrative o di altri isolati dettagli intertestuali che gli aperti riferimenti a Dostoevskij da parte di Gadda invitano a indagare il rapporto costitutivo tra i due romanzi. Il nodo centrale affermato e riaffermato in varie opere e in vari momenti è quello della responsabilità, nella molteplicità delle causali e dei loro inestricabili grovigli, la dimensione in cui, come era nei primi progetti di Gadda, la poetica si lega all’etica, la narrazione diventa lo spazio di esplicazione dei legami complessi della realtà. Scrive, infatti, Gadda, in una recensione al Male oscuro di Giuseppe Berto del 1965:

Allegra allegrona, eccettuati gli alti momenti umoristici e umoristico-satirici, l’incessante e vivido moto di caratteri, il subito ribollimento degli èmpiti di ogni cuore non è la trama e men che meno la chiave etica de I fratelli Karamazov, dove l’uccisione del padre ad opera di uno dei quattro mette in stato di accusa piuttosto il padre che il figlio. (SGF I 1206)

La possibilità di mettere in stato d’accusa da multipli punti di vista multiple soggettività attraverso e proprio in ragione della costruzione narrativa dell’intreccio è il nodo costitutivo del romanzo dostoevskiano che a Gadda si rivela essere molto chiaramente presente. In questa lettura gaddiana si sposta l’attenzione sulle responsabilità di Fëdor Karamazov:

è il caso di un padre il quale determina, col metterli al mondo così un po’ a casaccio e con l’appropriarsi i miseri beni che a loro spetterebbero, l’infelicità e la sventura dei figlioli. (SGF I 1206)

Se nella Cognizione del dolore Gonzalo lascia che altri commetta il delitto che lui stesso ha oscuramente desiderato e comunque non impedito, I fratelli Karamazov rappresenta davvero la posizione romanzesca del problema della responsabilità in termini di plurime causali e concause. Si pensi solo alla trama del romanzo. Può essere certo identificata nella storia di un parricidio. Ma di fatto il vero problema romanzesco, quello senza il quale il romanzo non avrebbe davvero né senso né consistenza non sono quello che si possono chiamare le motivazioni, bensì il problema della responsabilità, la volontarietà, la colpa, le conseguenze, e soprattutto il loro intricarsi, come questione aperta e bruciante. Chi ha ucciso Fëdor Karamazov? Smerdjakov, l’esecutore materiale, che comunque paga da sé, si autogiustifica, oppure Dmitrij che le prove condannano dal punto di vista giudiziario e che comunque aveva minacciato ripetutamente e pubblicamente di compiere l’assassinio del padre arrivando a chiedersi: «Perché vive un uomo del genere?» E però: che dire di Ivan a cui la verità era stata suggerita in anticipo e che comunque ha lasciato il campo libero all’assassino (e quasi inconsciamente non è riuscito a scagionare il fratello ingiustamente accusato con la sua testimonianza)? E del resto anche su Alëša pesa il fallimento del compito che gli era stato affidato dal suo starec, e cioè quello di ricomporre i tragici contrasti all’interno della sua famiglia per non lasciarli sfociare nel sangue. A tutti spetta una parte di responsabilità nella morte del vecchio Karamazov, persino al vecchio Karamazov stesso, come ci ricorda Gadda, e lo spazio romanzesco assurge così a luogo in cui problematicamente si realizza lo slabbrato dilemma etico della necessità di attribuire colpe e dell’impossibilità di farlo in modo univoco. È solo nello spazio narrativo del romanzo, multiforme e variegato, che possono intersecarsi e interagire singole entità, monadi leibniziane poste di fronte all’enigma tragico della responsabilità che connette costitutivamente elementi distinti. Ed è solo nello spazio narrativo del romanzo che si può dare la problematicità di questo enigma come oggetto privilegiato di indagine.

Come le causali non sono mai singole forze deterministiche dell’azione e del pensiero, ma vivono dinamicamente nella loro essenza concausale, così davvero Gonzalo non è un Karamazov, come propone Roscioni, ma, per parafrasare in modo paradossale le affermazioni dello studioso, è tutti e quattro (e ciò significa che allo stesso tempo non è nessuno di loro preso singolarmente).

L’hidalgo ricorda alcuni tratti di Smerdjakov, alla cui personalità, tra l’altro, Gadda dedica una disamina precisa nel saggio su Psicanalisi e letteratura:

Nei Karamazow di Dostoievski ci si è palesata, se pure di sfuggita, la crudeltà ragazzesca di Smerdjakov, il figlio spurio di Fiödor Pavlovich (Fiödor Pavlovich è, come ricorderete, padre ai tre, anzi ai quattro fratelli). Una triste e terribile congiuntura di motivi, fra cui l’epilessia, l’eredità ebefrenica, il senso d’invidia e d’inferiorità nel confronto dei nati legittimi, fanno di lui un anomalo, un parricida, un suicida. Ma è notevole che Dostoievski indichi proprio nell’efferatezza, più o meno inconscia, la fase caratteristicamente puerile dell’anomalia del personaggio. E l’efferatezza di Smerdjakov si esercita sull’animale che più la suggerisce, in quanto ce ne porge a sua volta un campionario indicibile, a spese delle sue proprie vittime: i topi. Così «il ragazzo era cresciuto senz’alcuna riconoscenza», si esprimeva Grigori: «un piccolo selvaggio rannicchiato nel proprio angolo. Fanciullo, provava gran piacere ad impiccare i gatti, e poi a sotterrarli in pompa magna». Alla operazione diabolica, si aggiunge, nel gioco, lo spirito imitativo della età: «Per far ciò si buttava sulle spalle un lenzuolo a mo’ di pianeta, e principiava a cantar l’uffizio, roteando sul gatto morto un qualunque oggetto, a guisa di turibolo». (SGF I 463)

Ed è molto facile individuare in questa analisi gaddiana il nucleo di spunti che sono la prima caratterizzazione di Gonzalo:

[…] e crudele: questo fin già da ragazzo: con le lucertole, che bacchettava perfidamente, coi polli del Giuseppe […] che inseguiva ferocemente con una sua pazza frusta, arrivando perfino, certe volte, tanto era lo spavento, a farli sollevar da terra e quasi volare, pensate! pensate! volare! come fossero falconi, i polli! (RR I 598)

Per poi continuare con la specifica crudeltà sul gatto; crudeltà più psicologica, in cui allo spirito imitativo della giovane età si sostituisce una sorta di curiosità scientifica, ma che comunque conduce alla morte, perché «ogni oltraggio è morte» (RR I 598). Del resto, Smerdjakov è la figura più potente ed esplicita della morte. Ha sicuramente ragione Leucadi quando nota, con un’osservazione funzionale al suo discorso sull’importanza dell’olfatto, che Smerdjakov ha a che fare con il termine russo che significa «puzzolente» (smerdjaščij); ma è un dato di fatto che il nome stesso del personaggio non può non evocare, secondo un gioco di allusioni che Dostoevskij pratica sistematicamente con ognuna delle figure da lui create, la dimensione della morte (smert’ in russo), che gli è connotativamente intrinseca nel romanzo.

Gonzalo, però, anche grida, sbraita, compare improvvisamente al cospetto della persona che lo ha generato, minaccia apertamente l’assassinio come Dmitrij. Secondo le dicerie che lo presentano, come un vero eroe da tragedia shakesperiana, e secondo una dilazione che è propria anche del personaggio di Dmitrij nei Karamazov, in modo straniante, indiretto, prima che entri in scena, pare che «iracondo, in accessi bestiali di rabbia usasse maltrattamenti alla vecchia madre» (RR I 598). E le stesse dicerie aggiungono, tra l’altro, l’opinione diffusa «che fosse vorace, e avido di cibo e di vino», oltre che «avarissimo». Anche Dmitrij quando fa la sua comparsa nel monastero è accompagnato da voci che lo definiscono in termini che quasi coincidono, perché «tutti sapevano o avevano sentito parlare della vita di straordinarie inquietudini e di gozzovigliamenti a cui si stava dando qui da noi proprio negli ultimi tempi, come era nota a tutti la non comune esasperazione a cui era giunto nelle liti con suo padre per controversie legate al denaro». (13) E nel corso della lite con il padre arriva a pronunciare le parole che lo condanneranno poi al processo:

– Perché vive un uomo del genere! – ringhiò sordamente Dmitrij Fëdorovicˇ, ormai quasi furioso per l’ira, alzando troppo le spalle, da diventare quasi gobbo, – no, ditemi, gli si può ancora permettere di infamare la terra con la sua persona? […] (Dostoevskij 1958: IX, 96)

A cui Fëdor risponde prefigurando la sua morte e la responsabilità di Mitja:

– Lo sentite, eh? lo sentite, monaci, il parricida? (Dostoevskij 1958: IX, 96)

Timore che verrà ripetuto, a sancire l’atmosfera di attesa del delitto, quando Dmitrij, accompagnato da strepiti e grida, spalanca la porta e piomba nella sala della casa di suo padre, il quale griderà:

– Mi uccide, mi uccide! Non lasciare che mi uccida, no! (Dostoevskij 1958: IX, 176)

Per quanto riguarda Gonzalo, dal punto di vista della madre si viene a sapere che «Impotente rabbia era in lui nel figlio: dàtole un pretesto, subito si liberava in parole, tumultuando, vane e turpi: in efferate minacce» (RR I 688). Fino a che la minaccia sospesa viene formulata dal figlio in termini che sono solo apparentemente privi di senso: «Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e loro» (RR I 737). (14)

Ma del resto, Gonzalo, così come Ivan, raccoglie le sue cose e parte, lascia la vittima in balia del carnefice ben sapendo che in questo modo interagisce secondo una modalità di causalità omissiva con il delitto che si compirà. Le partenze dell’hidalgo sono ripetutamente ribadite, ma l’ultima tra esse ha connotazioni di commiato definitivo ben presenti:

Salì alla sua camera, dove, aperto alla pagina, lo attendeva il libro. Prese invece la valigetta, la riempì confusamente del necessario, povera suppellettile, ridiscese tutte le scale, uscì da basso. I lari gli dicevano senza poterlo seguire, gli dicevano dalla camera: «Addio! Addio». La madre, dal terrazzo, lo vide allontanarsi e discendere lungo il sentiero dei campi, dal terrazzo dove era rimasta. Lo salutava mentalmente, chiamandolo, chiamandolo, col nome che gli aveva dato, lontana dolcezza degli anni. Quando più vigorosi e verdi infoltivano gli ippocastani, sui viali dei bastioni spagnoli.
Poi i fumi delle ville esalarono dai colmigni, al limite del lontano occidente. Mezz’ora dopo il treno sibilò rotolando sulla torbiera: come su di un mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra. (RR I 737)

è vero che in questo la partenza di Ivan Karamazov differisce totalmente, perché il vecchio Karamazov ha la netta percezione di congedarsi da lui temporaneamente tanto che gli affida una commissione da fare lungo la strada; e lo stesso Ivan si trova in uno stato d’animo quasi sospeso di benessere e tranquillità. Ma che le due partenze siano omologhe nei confronti della realizzazione del delitto, lo testimoniano parole come quelle che Smerdjakov rivolge a Ivan e che potrebbero essere applicate indifferentemente al personaggio dostoevskiano o a Gonzalo:

Uccidere, no, non ne sareste stato capace in nessun modo, e non lo volevate, ma volere che qualcun altro uccidesse, questo sì lo volevate. (Dostoevskij 1958: X, 135)

Infine a Gonzalo spetta la responsabilità di non aver saputo venire a capo, come non ha saputo fare Alëša del nucleo probabilmente più problematico fra tutti, e anche in termini peculiarmente gaddiani, quello del rapporto tra fratelli. Lo starec Zosima aveva dato questo compito ad Alëša, esplicitamente. E di questo compito, Gonzalo si sente molto problematicamente investito, visto che il legame con il fratello morto è alla base di tutto il rovello dell’hidalgo, il sopravvissuto. Federica Pedriali (Pedriali 1997) ha fatto notare come l’idea stessa di Cognizione del dolore sia rimasta legata per Gadda a quella della morte del giovane fratello. E i Karamazov, dopotutto, sono anche il grande romanzo dei rapporti fraterni, dei loro vari intrecci e delle loro varie possibilità.

Davvero qui non si tratta della riproposizione di singoli elementi tematici o di microstruttura narrativa, ma ci si trova davanti a un processo di rielaborazione intertestuale che risponde profondamente alle domande di fondo che Gadda si pone nei confronti della letteratura, delle sue specificità e delle sue potenzialità in relazione alle questioni etiche che solo in essa sembrano poter trovare uno spazio di esplicazione. Il procedimento consisterebbe dunque nel partire dal nucleo di un romanzo che rappresenta narrativamente e proprio in virtù del potere dell’intreccio il problema della responsabilità e della colpa rivelando in esso l’enigma della pluralità (tutti sono colpevoli eppure uno solo è colpevole) per arrivare a un romanzo che amplifica ulteriormente la problematicità di questo nodo attraverso la diffrazione della pluralità (i fratelli Karamazov) nell’unità controversa di Gonzalo.

Emilio Manzotti aveva già suggerito che Gonzalo potesse condividere sia i tratti di Smerdjakov sia quelli di Dmitrij, riconoscendo, tra l’altro, in una nota, che il singolo come tale non si dà nell’opera di Gadda e che esso si diffrange sempre nella presenza del doppio e del «plurimo» (Manzotti 1987a: xlvii, xxxviii, n. 15). Lo stesso Manzotti, anche quando si sofferma su Gonzalo nei termini di un personaggio singolo compiuto in sé, propone prospettive che echeggiano interpretazioni dostoevskiane. Per esempio, citando Gottfried Benn, riporta la Cognizione all’insegna del romanzo «“im Sitzen, con un protagonista che si muove scarsamente, dagli atti che sono escursioni mentali, ed a suo agio solo in un mondo di pensieri e di articolazioni di pensieri” un romanzo insomma in cui “l’azione sta tutta nello scontro di posizioni concettuali”» La lettura bachtiniana del dialogismo e della polifonia si basa proprio su questo assunto; che diventa ancor più dostoevskiano se si considera che, sempre per Manzotti, tali posizioni concettuali riguardano, «il male, la colpa, il dolore» (Manzotti 1987a: vii). Raffaele Donnarumma ha poi ampliato questi spunti nei termini qui proposti fino a comprendere in Gonzalo tutti e quattro i fratelli Karamazov (2001a: 88-89).

Questa possibilità di diffrazione del personaggio gaddiano in una pluralità complessa di figure/concause del delitto e della morte (15) che corrisponde alla polifonia dostoevskiana della colpa, ma la cambia di segno, è un procedimento che mi pare possa rappresentare una soluzione compiutamente gaddiana. È la raffigurazione della molteplicità nell’unità: non solo è il nodo leibniziano fondamentale, ma è anche il principale progetto narrativo di Gadda fin dai tempi del Racconto italiano, in cui il proposito dichiarato era quello di passare «dal semplice al complesso, dall’uno al molteplice» con l’aggiunta di una nota tra parentesi: «e io ci dovrò passare essendo il mio un romanzo della pluralità» (SVP 462).

Individuate le motivazioni e descritte le modalità, resterebbero a questo punto tutti da indagare gli esiti di questa operazione gaddiana di trasferimento intertestuale. Gadda crede nella possibilità che il suo riuso dei Fratelli Karamazov costituisca una soluzione ai dilemmi che aveva cominciato a considerare nel Racconto italiano? è semplicemente alla ricerca di una meccanica ricreazione della polifonia? La mia ipotesi è che tutto questo non rappresenti che una dichiarazione metanarrativa di riconoscimento dell’impossibilità di adeguamento incondizionato al modello dostoevskiano, una rilettura intertestuale che rivelerebbe in filigrana i nodi che per Gadda restano aperti e irrisolti, quelli che Dostoevskij ha contribuito a evidenziare ma ai quali non ha dato nessuna risposta definitiva. Su questo bisognerebbe aprire probabilmente tutto un nuovo ambito di analisi che esulerebbe dagli intenti di questo saggio e su cui già altri hanno offerto degli spunti di riflessione. Raffaele Donnarumma, per esempio, ha dimostrato quanto questo tentativo gaddiano di diffrazione sia problematico e possa essere letto come una sorta di negazione delle potenzialità polifoniche della voce narrante che potrebbe solo duplicarsi ma non moltiplicarsi ulteriormente (Donnarumma 2001a: 88-89). Esisterebbe insomma, secondo Donnarumma, una importante distinzione da compiere tra il raggiungimento della polifonia come pluralità e la dimensione del doppio, della dualità che non può che essere letta come una incompiuta moltiplicazione del singolo, un’aspirazione inappagata alla pluralità. Lo scarto consisterebbe nel fatto che lo scontro di posizioni concettuali nel romanzo di Dostoevskij si fa dialogo perché ogni personaggio è l’idea e il concetto di cui si fa portatore, sullo stesso piano dell’autore, mentre in Gadda la posizione dell’autore resta indefinita e problematica, non certo risolta in un annullamento dostoevskiano del privilegio dell’onniscienza e della possibilità di dire una parola definitiva sul mondo rappresentato.

Questa posizione è molto chiara nei Karamazov con la presenza, caso unico tra i grandi romanzi dostoevskiani, di una prefazione dell’autore. Si tratta di un elemento che potrebbe aver costituito per Gadda un ulteriore motivo di interesse nei confronti dell’ultimo romanzo dostoevskiano proprio perché questa prefazione sembra mantenere il tono parodico e dissimulatorio così caratteristico degli interventi gaddiani d’autore (16) e farlo proprio in relazione al nesso tra individualità e pluralità dei personaggi protagonisti del romanzo. Infatti, qui Dostoevskij pone subito in tono parodico il falso problema del suo romanzo come biografia di un solo personaggio di cui egli si impegna in questo frammento metanarrativo a dimostrare la stranezza e l’originalità. Ora, si sa che in realtà i personaggi strani e originali di cui viene tracciata la biografia nel romanzo sono senz’altro più di uno, almeno quattro, se non probabilmente cinque, con il vecchio Fëdor. Infatti, il primo capitolo del romanzo si apre subito con questo personaggio e non con Alëša che viene invece preliminarmente definito come protagonista. È questa tensione tra personaggi, tra individualità e pluralità, che sembra corrispondere alla prospettiva con cui Gadda guarda ai Karamazov. Anche se il raggiungimento della pluralità tanto agognata nel Racconto italiano qui si dimostra quasi una chimera, in un discorso metaletterario che dice non tanto la ripresa di un modello, quanto la sua potenza e allo stesso tempo la sua inservibilità. Che la pluralità agognata e ricercata narrativamente attraverso questo complesso intreccio intertestuale non si realizzi in una conciliante riproduzione del modello polifonico non dipende certo da inadeguatezze gaddiane. Tutto questo testimonia piuttosto di una lettura di Dostoevskij profonda e complessa, di una riflessione articolata e consapevole, ma, allo stesso tempo anche di una scelta diversa, proprio perché meditata con originalità, in cui la rappresentazione della pluralità delle causali delle colpe resta un paradigma letterario, mentre i nodi che dietro questo processo si attorcigliano continuano a tormentare la scrittura, il romanzo e il suo autore.

Università di Trieste

Note

1. Su questo, mi permetto di rimandare alla ricognizione e alle valutazioni contenute in S. Adamo, Dostoevskij in Italia. Il dibattito sulle riviste (1869-1945) (Udine: Campanotto, 1998), passim. Tale panorama, incentrato essenzialmente sulla ricezione critica, mi pare venga confermato anche da ricognizioni che considerano l’aspetto della ricezione creativa da parte di diversi scrittori (Tozzi, Moravia, per esempio; cfr., tra gli altri, la recente rassegna di M. Martini, La fortuna di Dostoevskij in Italia, in G. Pacini, Fëdor Dostoevskij, Milano: Bruno Mondadori, 2002, 106-115), i quali, per lo meno fino a tutta la prima metà del Novecento, sembrano adeguarsi a questi schemi, privilegiando la dimensione filosofica e ideologica di Dostoevskij e tralasciando di considerare la possibilità di una riflessione metanarrativa sulla polifonia e sul dialogismo.

2. Cfr. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica (Torino: Einaudi, 1968). La prima edizione era uscita, passando quasi del tutto inosservata, nel 1929.

3. Cfr. Corsivo d’apertura in Solaria 1, no. 1 (1926): 3.

4. P. Gobetti, Dostoievschi classico, in Il Baretti 3, no. 3 (1926): 3.

5. Corsivo d’apertura, cit.

6. Mi pare non si possa formulare meglio il discrimine tra polifonia dostoevskiana e pluralità gaddiana di quanto ha fatto Raffaele Donnarumma: «Se Dostoevskij è il narratore che misura sia la propria voce sia la voce dei suoi personaggi su altre voci, confrontandosi con quelle, allora Gadda è un narratore dostoevskiano; anche se – e la differenza è capitale – un narratore che pone accanto all’idioletto storico, socialmente connotato, la parola letteraria, retoricamente codificata» (Donnarumma 2001a: 54-55).

7. Ha opportunamente insistito su questo punto Raffaele Donnarumma (Donnarumma 2001a: 49-51), operando anche, del resto, le dovute distinzioni tra la fede di Dostoevskij in questo tipo di progetto e la problematicità di cui esso è investito in Gadda (Donnarumma 2001a: 130-31). Va detto che nella cultura italiana la percezione delle caratteristiche di riuso dei generi popolari tipiche di Dostoevskij era stata esplicitata in un saggio (V. Pozner, Dostojevskij e il romanzo d’avventure) contenuto all’interno del celebre fascicolo della Cultura, a. 12, n.s., f. 2 (febbraio 1931): 128-50, curato da Leone Ginzburg nel cinquantenario della morte dello scrittore.

8. Queste parole si trovano nel resoconto processuale del 15 marzo 1928.

9. In quest’accenno, Gadda fa effettivamente riferimento a Dmitrij e non a Fëdor Karamazov come indicato nell’indice dei nomi della Biliografia e indici delle Opere nell’edizione diretta da Dante Isella.

10. Come nota Raffaele Donnarumma nel suo intervento, in questo stesso volume, «Riformare la categoria di causa». Gadda e la costruzione del romanzo.

11. Per quanto riguarda il rapporto con i Karamazov, in una prospettiva più specifica e ristretta rispetto a quella di Manzotti e Donnarumma, Giancarlo Leucadi ha attirato l’attenzione sulla suggestione che dovette esercitare su Gadda l’episodio della decomposizione del cadavere dello starec Zosima e ha mostrato in modo convincente quanto la persistenza quasi ossessiva della dimensione dell’olfatto fosse legata alle esalazioni cadaveriche, il cui prototipo narrativo sta appunto nell’episodio ricordato (Leucadi 2000: 134-36); episodio che lo stesso Gadda, del resto, come si è visto, nei suoi ultimi anni continuava a identificare come quello caratterizzante l’ultimo romanzo di Dostoevskij.

12. Cfr. Donnarumma 2001a: 89-90, il quale risolve questo paragone nella proposta di un nodo D’Annunzio-Dostoevskij particolarmente presente a Gadda.

13. F. M. Dostoevskij, Brat’ja Karamazovy, in Sobranie sočinenij v desjatich tomach, red. L. P. Grossman, A. S. Dolinin, V. V. Ermilov et al. (Moskva: Chudožestvennaja Literatura, 1958), IX, 88 (mia traduzione).

14. In questo parallelismo tra Gonzalo e Dmitrij, naturalmente, si esclude tutto quanto si riferisce all’epilogo del romanzo dostoevskiano e ancor prima a ciò che avviene dopo il delitto, perché tutti questi sviluppi presenti nei Fratelli Karamazov restano fuori dalla Cognizione del dolore.

15. Va ricordato anche, come fa notare Leucadi, che Gonzalo nel momento in cui viene visitato dal medico assume pure, e piuttosto esplicitamente, i tratti di un monaco, di un eremita, insomma di uno starec, come Zosima, nella cui vita, tra l’altro, ci sarebbe anche la morte di un fratello (Leucadi 2000: 135-36).

16. Su questo cfr. Bertone 1993: 125-43.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

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ISBN 1-904371-06-X

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