L’oceano delle parvenze:
dal bateau ivre a Gonzalo

Giuseppe Bonifacino

1. Il «problema del male»: movimenti d’avvio

Come per Gonzalo – che nella sua cogitazione malinconica ne raddoppia in figure di racconto e ne diffrange in chiave allegorica (1) la parola e lo sguardo –, c’era, per Gadda, fin dagli esordi narrativi e dalle congiunte riflessioni di poetica, il «problema del male» poi tematizzato nella Cognizione (RR I 607): la contraddizione che insidia il soggetto alle radici, e ne stringe d’assedio il mutevole profilo, ritagliandone l’ombra senza suono. Il male, tema etico che attraversa in profondità tutta la tradizione letteraria alla quale lo scrittore si ispirava – dall’Amleto shakespeariano a Manzoni a Dostoevskij – si rivela, nella Cognizione, come un’affezione primaria della mente, il fondo cieco e senza forma (invisibile) di ogni rappresentazione del reale: come la necessaria coestensione logica dell’essere, un vuoto di immagine, una negazione interna al suo divenire, che di esso si nutre, e lo dissipa. Un problema etico in quanto logico, per l’hidalgo curvo sui testi di Platone, o di Kant, o avvolto, al riparo di una silenziosa solitudine «tecnica» (RR I 764), nelle spire di una sua prosa «incollata» e detorta (RR I 616). Ma tutto riveniente, alle origini, dalla educazione letteraria sicuramente datata e rétro dell’apprendista romanziere, che cercava tra Stendhal e Balzac, o tra Zola e Dostoevskij, via Carducci e D’Annunzio, (2) i suoi paradigmi di poetica, la sua cifra di stile, e individuava il suo auctor in un modello manzoniano introiettato e difeso nelle sue ragioni cognitive e morali, ma rovesciato, nella sua intonazione profonda, dentro un mondo senza luce di redenzione.

Emergeva, in quel paradigma autoriale, proteso alla ricognizione della «complessità inarrivabile» della «stoffa totale umana» (Gadda 2003a: 23), una contraddizione struttiva, qua talis destinata a durare nella officinale arte poetica gaddiana, e nella sua prosa narrativa: quella, a suo tempo illustrata da Roscioni in una formula critica ormai classica (Roscioni 1969a: 31-81), tra vorace scrutinio analitico («singula enumerare») e onnivolgente prospezione sintetica («omnia circumspicere»): cioè il nesso contrastivo tra spazio (catalogazione positivistico-leibniziana) del dato combinatorio e tempo (comprensione-giudizio) della ragione onnisciente del narratore, moltiplicata, inseguendo una totalità che «vuole, e non può essere specificata» (Roscioni 1969a: 73), a espandersi e contraddirsi nell’interferenza dei punti di vista, e degli stili adibiti a dar loro voce. Sulle mostruose antinomie «racchiuse nella falsa unità della persona» (Racconto italiano, SVP 541), sul fermentante «tumulto delle dissonanze umane» (SVP 541), si distendevano, a comprenderle nell’ordine – nella semantica morale – del racconto, lo sguardo già pluriprospettico e la trama composita della voce – non ancora personaggio di se stessa, come poi nel Pasticciaccio – di un autore pensato quale intersezione fra il tempo orizzontale dei fenomeni e il tempo verticale della coscienza morale, ovvero come sintesi di tempo umano e tempo universale. (3)

Un autore, dunque, già insidiato da una costitutiva aporia, destinata a reduplicarsi, non già a ricomporsi: quella che giaceva irredenta al fondo del vitalismo logico-fenomenico del reale. Infatti, nella meccanica combinatoria dalla cui specola il caravaggesco progettista del Cahier traguardava la società da ritrarre e dispiegare in «racconto» (SVP 395) o «poema» (SVP 415), si profilava l’ambiguo «problema del male» che alimentava una «dialessi» non conciliativa tra opposti: in una ricezione obliqua e distorcente del sistema crociano dei distinti, (4) da Gadda rinominati, con lessico verosimilmente mutuato dalla sua formazione ingegneresca, (5) come «polarità» (SVP 407). Vale a dire, come relazione tra elementi mai unificabili e tuttavia indisgiungibili, ognuno dei quali comportava la necessità di pensare contestualmente il suo antagonista. E se come una trama di rapporti segnati da antinomia si andava configurando il reale da riordinare (chiudere-interpretare) nel testo, coinvolutivo e relazionale – estrema «possibilità» del lavoro autopoietico del logos – non poteva non essere anche il male che gli era intrinseco, come il rovescio, l’anima concava e distruttiva, d’ogni legame o figura.

L’assunto etico sempre rivendicato, fin dalle sue fondazioni, dalla poetica di Gadda, avrebbe presto rivelato, nella Meditazione, il suo spessore logico-euristico: fino ad assurgere, nella Cognizione, a terreno di coltura e condizione (de-)strutturante dell’atto, eminentemente conoscitivo, della narrazione. Era un’etica cresciuta e doppiata nel rovello razionalistico della combinazione: e comportava l’istituzione e la verifica narrativa di un valore – di un senso del mondo, di un ordine – in sé contraddetto e bifronte, perché non pensabile, per la stessa dynamis multipolare che ne animava e reggeva lo svolgimento, senza la sua negazione. Il finalismo dell’etica gaddiana era destinato ad attorcersi in un logorante e autotelico delirio d’immobilità della forma: (6) e a revocare progressivamente in dubbio – prima per la sua costruzione relazionale, poi attraverso il suo revirement psicoanalitico – la centralità del soggetto autoriale, (7) e la sovranità della sua parola.

Del problema del male, orizzonte e cifra dell’euresi, la metafora del bateau ivre, nel saggio solariano del ’27 dedicato ai simbolisti, metteva in scena la peripezia, e, prima di occultarsi in una falda custode di discontinue ma coerenti metamorfosi, tornava con rinnovato protagonismo, e con rilevante aggiustamento della sua accezione problematica, nella meditazione cui Gadda demandava il chiarimento gnoseologico della propria ragion poetica, formulandovi premesse e paradigmi del suo officinale realismo noumenico. E infine agiva, ma introiettata nello sguardo della mente, a sedimentarne una nuova «grammatica della visione» (Manzotti 1996: 325), nel libro che riscrive quella poetica in forma di autobiografia tragica, e celebrandone la sontuosa agonia, in sé svolgendola lungo un percorso di progressiva sottrazione dell’essere al tempo, e del tempo all’essere, se ne fa romanzo: allegoria narrativa della crisi del tempo del romanzo, e della fine del romanzo come forma continua e organica – comprensione euristica – del tempo del soggetto e del mondo. (8)

2. Etica in metafora: il «bateau ivre»

Quantitativamente non profusa, ma di decisiva pregnanza, l’immagine del bateau ivre spiccava, nella rilettura simpatetico-contrastiva di Baudelaire e Rimbaud, come autoesposizione metaforica del soggetto poetante, prolettica proiezione autobiografica (9) del suo fecondo ma autodistruttivo dérèglement: e scandiva, nel suo percorso, le stazioni di una avventura estetica non integrata da un fine morale. La sua navigazione, come quella dell’occhio e della mente di Gonzalo, stretto nel suo spazio domestico – deserto o violato, duale (Madre/Figlio) o molteplice (la folla dei peones, le oltraggiose non-forme) –, come in un disperato esilio da ogni metafisica sistematrice, era una «corsa nello spazio puro» (SGF I 573), scisso dalla coordinata temporale che ne riparava, per il kantismo scolastico ma non ortodosso del saggista solariano, (10) il potenziale etico, coniugando l’enunciazione letterariamente irrinunziabile della verità al lavoro altrimenti sterile della poiesi fantastica.

La crescente accensione dell’ebbrezza simbolista fagocitava in vertigine lirica la trama temporale, la sua teleologia protesa alla decantazione narrativa, cioè allo sviluppo etico, della parola poetica. L’abbandono all’estasi corrotta della deriva («la trama caotica del sogno», SGF I 572), metteva in scena la frammentazione caleidoscopica di un io regressivo e immemore: che, sottraendosi al principium individuationis, sommetteva le misure dell’ordito figurale alla barocca «germinazione simbolica» dell’analogia (SGF I 575): ed era destinato perciò a raggiungere, nel naufragio onirico del voyant, «la percezione e l’espressione del dissolvimento morale» (SGF I 579). Il suo folle volo si spezzava nel rimpianto di un mondo («l’Europe aux anciens parapets») (11) vivo solo – come l’oceano ristretto nella pozzanghera («la flache | noire et froide») dei malinconici giochi di infanzia del poeta nell’ora del crepuscolo (Rimbaud 1998: 136, vv. 93-96) – nella distanza incolmabile di una memoria senza continuità di possesso, precipitata nella rivelazione del «caos adirezionale», dell’oceano dove si inabissano, e per sempre si smagliano, «i vincoli d’ogni teleologia» (SGF I 581): dove, dunque, trionfano i decettivi allettamenti della Parvenza, il suo amplesso contaminatore dell’atto sacro della conoscenza e della sua moralità riparatrice (la «facoltà santa del giudizio», RR I 703).

La fuga avventurosa del bateau in uno spazio non strutturato dal «meccanismo segreto della conseguenza» (SGF I 562), o dalla superna, astrale armonia dei matemi kepleriani, la sua discesa dalla «corrente regolare» dei «fiumi impassibili» del logos morale alla «libertà oceanica» (SGF I 574) del caos fenomenico, non conseguiva l’agognata liberazione estetica dal tempo, e dai decreti dell’istanza etica che ne abita il corso e ne detta il senso. E si ricordi, a margine, come l’icona tematica del bateau ivre nel giovane Gadda convochi e implichi per contiguità quella del fiume: che, dal Racconto italiano (il «Dévero», SVP 536-42), alla Meccanica (nella sontuosa, funebre protasi, RR II 469), alla Cognizione (il «fiume di catrame» della «cara normalità della contingenza», RR I 627), allegorizza l’euresi organicistica di un tempo biologico-eracliteo la cui verità è costitutivamente insidiata dalla contraddizione e dalla morte.

Ma per il Gadda solariano, per il suo lirismo gnoseologico in sé bisognoso di dispiegamento narrativo, non si dava conoscenza che nel tempo: e l’ansioso «migrare dei simbolisti» verso l’impossibile cattura espressiva dell’ignoto, il loro «perdersi nella casualità oceanica» (SGF I 581), restava confitto nella tirannide temporale che avrebbe voluto trascendere. Involto in un «destino tragicamente spaziale» senza riscatto teleologico, proteso – analogamente al virgiliano Palinuro, proiezione figurale, dalla Passeggiata alla Cognizione, dell’autobiografico «tema dell’escluso» (12) – a inseguire invano il fuggitivo orizzonte della gemmazione onirica delle parvenze, il migrante rimbaudiano restava irretito – tra parole («Ô future Vigueur», Rimbaud 1998: 136, v. 88) che lasciavano riaffiorare l’inconcussa «idea temporale dello sviluppo» (SGF I 582) – nello «spasimo tragico» della «più vasta dissoluzione» e della «più sconfinata casualità» (SGF I 581). Ma, secondo l’impura aisthesis di Gadda, nella sua inquieta contaminazione di logos e imago, di ethos e scrittura, «attorno al puro esteta» si apriva l’«ossessione dell’abisso morale» (SGF I 584): di una morte etica ed euristica. La morte – radice antinomica del tempo, pensiero estremo e segreto che ne abita il corso e ne solca, tacito, le forme – fissava il contesto e l’approdo del voyage del «puro esteta», disegnando la linea di demarcazione fra «l’al di là spaziale e ipologico della fantasia pura» (SGF I 586) e la «serie temporale degli sviluppi» (SGF I 584): ovvero tra lirica e romanzo.

3. Traslazioni di un’immagine: dall’analogia all’allegoria

Nel suo ingenuo simbolismo etico – tra Orazio e Beethoven, tra Goethe e Carducci – Gadda ascriveva dunque alla letteratura un progetto d’ordine, una intentio struttiva delle forme («Se abbiamo camminato e navigato, non era a cercare immagini e sogni, ma per mettere in ordine il mondo», SGF I 578), che la ormai urgente riflessione filosofica era prossima a giustificare, ma, proprio in questo, anche a decostruire nelle sue fondazioni teoriche: il progetto d’ordine – il romanzo – che Gonzalo abbandonerà, nel suo pellegrinaggio solitario «verso la notte», all’inachévement di una cognizione senza approdo, di una tragedia senza catarsi né adempimento di forma.

Da un lato, infatti, ancora permane, nella Meditazione, il riferimento normativizzante al tema etico drammaticamente sceneggiato nello spasmo estetico del bateau (una postilla dell’autore alla prima stesura del paragrafo III della sua «Meditazione prima» (13) richiama il Rimbaud del saggio solariano a proposito dell’arduo «equilibrio fra compito e realizzazione» che, solo, può condurre verso quel «buon adempimento» in cui consiste la precaria – «grama» – felicità del «sistema»; sullo stesso registro tematico anche le postille al paragrafo XV). (14) Senonché, non più adibito a pretesto esegetico per ascrivere un progetto d’ordine cognitivo alla letteratura, il bateau ivre viene presto assunto come metafora della ardua condizione epistemica del filosofo (o del poeta indagatore del reale), cioè della desultoria dinamica spazio-temporale dell’euresi, della sua certezza infondata: (15) «Il terreno del filosofo è la mobile duna o la palude deglutitrice: o meglio la tolda di una nave reluttante contro nere tempeste. Ed è questa nave il “bateau ivre” delle dissonanze umane, sul di cui ponte, non che osservare e riferire, è difficile reggersi» (SVP 860).

La dimensione temporale, già postulata nel saggio solariano come tensione immanente anche alla poesia che la fugge e la nega, involucro protettivo (garante di senso) del voyage letterario, sembra ora calata nell’atto conoscitivo stesso, e assorbita nella parola che ne interpreta il mai chiuso sistema relazionale. La conoscenza è processualità mai interrotta, fluenza eraclitea (e bergsoniana, ça va sans dire), ermeneutica interminabile: comporta una mai sostante mutazione interna, endogenetica, delle immagini e dei concetti che ne intessono la labile trama metamorfica. Il soggetto di questo movimento relazionale non svolge la sua quête sul fondamento di un ethos causalistico: «grama» è la sua «sostanza», curvata a funzione logica solo provvisoriamente sovrana di un mai chiuso sistema. Ogni categoria è mobile, cangiante il suo statuto. La struttura teleologica della temporalità si spezza e frantuma in adespota meccanica combinatoria. La centralità dell’io si svela ipostasi vuota: il suo tempo, non più armonico e centripeto principio coordinatore, si sfalda, rovina, muore come maschera. Nel suo orizzonte non spicca alcun bagliore teleologico: il suo lavoro euristico non conosce altro frutto che se stesso, la sconfinata apertura del suo movimento.

Revocatane la consunta presunzione di unità, prefigurando, in chiave teoretica, il vagabondaggio di Gonzalo, ma anche il carcerario vagare della Madre, tra le parvenze di un santuario domestico o di un mondo profanato, senza più la garanzia etica ordinatrice del reticolo spazio-temporale, il filosofo-scrittore della Meditazione è condannato – o liberato – ad una migrazione interminabile: alla navigazione senza fine del bateau cui Rimbaud affidava l’esercizio della sua poiesi fantastica, la disetica inversione del legame semantico tra res e verba. Il soggetto della Meditazione, pensato nella torsione allegorica dell’icona simbolista – come, poi, Gonzalo, che ne agisce narrativamente gli assunti –, non detiene più la sovranità di una forma: sta dentro la perenne deformazione della conoscenza e dei suoi oggetti, partecipe della forma giammai compiuta del suo stesso movimento. Il suo fine è nella sua deriva: dissipazione colma di un progrediente acquisto gnoseologico (il tempo-schema del sinfonismo delle cause molteplici), ma sempre insidiato dalla sua polarità negativa, come da un’ombra entro cui ritrarsi e perire.

E scoprire l’intima aporia dell’euresi, testimoniarne in sé la negazione, dischiuderà a Gonzalo, navigatore in balia dell’oceano delle parvenze, la cognizione del dolore, cioè la percezione, nella camera della mente, della pulsazione disgiuntiva che incide il cuore del processo euristico. Il soggetto di ogni impresa d’euresi (lo scrittore-filosofo investito dell’arduo compito etico della cognizione/romanzo) non poteva più, come un «celigena disceso dall’assoluto» (SVP 676), istituire forme stabili, perfette, dei suoi oggetti: nominandoli e contemplandoli, come dall’alto. La categoria di causa, sottoposta a revisione «combinatoria», per troppo di molteplicità si arricchisce e si complica, fino ad esplodere.

Non c’è immagine che ne trattenga il moto inesausto, che ne sospenda la fuga e ne componga il senso in racconto. Il suo tempo si spazializza nella vertigine pluralistica dei frammenti, nell’apocope drammatica che ne incide il percorso, e ne spezza la tensione costruttiva, la volontà di forma. La conoscenza del reale, perimetrato ed attraversato fino al suo diaframma noumenico, non può che consistere in una interminata trasmutazione di forme: come nell’itinerario, senza ordine o meta, del bateau ivre, nel suo viaggio folgorato dal caos, nella dissociazione critica in esso figurata. La discontinuità del fondamento, la rastremazione temporale del dato (pausa logica affetta da una molteplicità non semplificabile) offre un precario viatico alla peripezia della «mente indagatrice»: «il dato è per gli altri uno stacco sicuro dalla terra ferma, una predella ferma per spiccare un bel salto. Per me è lo stacco da una tolda traballante (bateau ivre): o una predella già essa moventesi» (SVP 667). L’oggetto del conoscere (del procedere estetico e logico) nella Meditazione risulta sottoposto ad una duplice deformazione: quella implicata dalla sua relazione col soggetto (la polarità combinatoria che inventa il reale) (16) e quella dettata dalla sua infaticabile mutazione interna, dal ritmo coinvolutivo del suo divenire.

Qui lo scrittore dichiara in primis a se stesso la propria consapevolezza della provvisorietà semantica (della temporalità ermeneutica) dell’oggetto, mai catturato, e sempre di nuovo istituito, dal suo accanimento euristico. Nella conoscenza, nel suo tempo eracliteo, continuo e discreto, istante e durata si stringono senza integrarsi. (17) Se infatti «l’eterno tolemaismo e inguaribile dell’indagatore» era il «primo tema» del tractatus gaddiano sulla dualità combinatoria del reale, cioè sulla tensione dissociativa che ne fende l’autocostruzione molteplice – l’icastico sintagma «de perfractis cogitatio» ne costituiva un possibile titolo (SVP 1314) –, il bateau rimbaudiano ne esemplifica assunti e procedure teoriche: rovesciando la lineare continuità finalistico-tolemaica della rappresentazione nel tempo-immagine (schermo e parvenza) della coesistenza logica di tutte le relazioni che compongono-sono il fenomeno:

noi abbiamo una realtà per noi: la tolda traballante del pazzo naviglio. Siamo consci che ciò che a noi sembra l’eterno e l’assoluto non è che questo assito mobile che al rullio e al beccheggio ci fa parer l’oceano sollevarsi fino alle stelle e precipitare fino agli abissi […]. Eterno tolemaismo e inguaribile dell’indagatore. È il primo tema della nostra meditazione. […] A me uomo e mente finita l’effetto pare un seguito, come l’eco profonda che i monti mi rimandarono di ogni cannonata. […] Ma nell’adempimento totale la cannonata ed i monti e l’eco sono già connaturati e legati e necessarî. (SVP 1320-321, corsivi miei)

è un diverso statuto del tempo, della sua figura, aperta a cercarsi e sempre di nuovo a perdersi, che qui viene messo in gioco: e il suo schema sarà fissato, poi, et pour cause, nell’icona allegorica che suggellerà la prima edizione della Cognizione, dove l’eco deduce dal tempo svuotato il «nome del dolore» (RR I 714). Ma su questo torneremo più avanti.

Dunque, del processo euristico, la scrittura letteraria dovrà esporre la continuità e la successione solo apparenti: e sarà la prospettiva multifocale inscritta nel movimento del bateau ivre a dare spazio ed evidenza di scrittura alla relazione perpetuamente mutevole di un soggetto e di un oggetto assunti come campi e funzioni di uno sguardo che intreccia in sé innumeri piani prospettici, e a sancire la coinvoluzione senza soggetto degli orizzonti conoscitivi, a interpretare e testimoniare – incorporandola nella sua pluralizzazione percettiva – l’impossibilità di fissare un primum ontologico della conoscenza, e di acquisire un punto di vista (un luogo, come il terrazzo per Gonzalo, di osservazione e di ascolto: una lingua) (18) che possa pronunciarne l’incatturabile cominciamento: «Quando le nuvole sorgono, come sogni, dai monti e dalle foreste: diademate di folgori le montagne attendono i battaglioni d’assalto: il soldato si ferma, guarda lontano e pensa: “Quali saranno i miei atti?” Ma già sono. Così ci chiediamo: “Donde comincerò?” Ma abbiamo già cominciato» (SVP 859).

Nel vago lirismo della scena incipitaria della Meditazione – calco del movimento d’avvio di una poesia giovanile, (19) qui arricchito dal timbro interrogativo che ne allarga il registro tematico, si disegnano, come a comporre un miniaturistico incunabolo del grande libro a venire, figure e tipologie che intesseranno la statica, minimale vicenda (Manzotti 1987a: xxvi sgg.) della Cognizione: le nuvole, il loro moto ciclico, condensazione simbolica del fluire eracliteo – lo ha sapientemente indagato Manzotti (20) –, il soldato, la maschera militare che copre e imprigiona la negata identità di Gonzalo, la sua frustrata impossibilità di riscatto e di testimonianza morale, l’epos invano perseguito, curvato a stingersi in logorante amletismo, in richiesta di un ethos sempre come mancante a se stesso; e il problema della funzione tematica e iconica del tempo, della sua struttura, della sua intima vis euristica: un tempo remoto ad ogni sguardo che voglia interrogarlo e comprenderlo (la Madre), estraneo e imprendibile alla parola che si protenda a catturarne movimento ed immagine, a raccontarne la vicenda, restituendole ordine e senso, e può, invece, solo fissarne, nella trascorrenza alterna di luci ed ombre, la dynamis aporetica, la giunzione ossimorica delle polarità che ne scandiscono e inventano il corso, come a negarne sempre di nuovo lo svolgimento, annodandolo alla radice della sua contraddizione non conciliabile tra buio e splendore, tra sterile sovranità della mente e perduto fasto del mondo.

La Cognizione vive già qui, in questo minimo scenario lirico della difficile fondazione dell’euresi. Già qui la meditazione gaddiana tende ad erompere e precipitare nel ritmo spastico della figura, a raccontare o tematizzare in immagine – nella coinvoluzione combinatoria sottesa all’atto narrativo – la sua domanda di cognizione, la sua euresi pensata come necessaria auto-rappresentazione, come theatrum della integrazione sinestetica di sguardo e ascolto, come contaminazione disarmonica di soggetti e di forme. Nel breve giro del preludio della Meditazione prende corpo, insomma, quello che poi costituirà il centro del tormento ermeneutico di Gonzalo, logoro esegeta della morte e del tempo: già qui, infatti, si delinea per allegoria il problema dell’inizio dell’atto cognitivo, e, per conseguenza, della dimensione antinomica del tempo, asse dinamico e struttura ordinatrice della sua rappresentazione, e però anche processo già sempre in atto, che non trae avvio da alcun presupposto – del quale, anzi, attesta l’impensabilità, come il moto dissociativo, in sé moltiplicato e rifratto, del bateau ivre. «Non esiste purezza originaria, non c’è, per Gadda, inizio assoluto, sottratto al divenire» – ha scritto Niva Lorenzini (Lorenzini 1999: 132). La deformazione – la vita: nella sua doppia, embricata temporalità, fenomenica e noumenica – sarebbe negata, se un momento ne venisse pensato come autonomo, diviso dal suo movimento. La parola, per rappresentarlo, può solo fingerlo, nella sua interna aporia, e la conoscenza trovare ordine solo nella compiuta enunciazione del suo produttivo disordine, solo in quanto parvenza del suo mai intermesso mutare. L’immagine della complessità del reale è, necessariamente, immagine della contemporaneità molteplice dei suoi elementi, viluppo metonimico, o nodo antinomico, delle sue non-finite parvenze.

Il bateau ivre varrà, allora, come immagine della autofondazione dell’euresi, della provvisorietà irredenta del suo dato iniziale, del suo «acquisito logico» (SVP 723): pausa – interstizio di un tempo senza inizio – mantenuta nelle torsioni della scrittura, nel suo movimento asintotico (Risset 1970: 244-51), nella sua spastica protensione a catturare e penetrare un molteplice che le sfugge sempre e sempre le cresce dentro, suo confine e sua piega, schermato dalla aggrovigliata rete delle parvenze che lo coprono e insieme lo intessono. E non altro che parvenze accoglie, nella sua percezione, la mente issata sulla tolda traballante del naviglio rimbaudiano: ma di quelle parvenze sommuove la maschera mendace, incrementandone l’interna divaricazione semantica, la contaminazione, in esse, nella loro polarità all’inattinto noumeno, di verità e bugie. L’etica – altera facies della poetica gaddiana, com’è noto: matrice della sua antagonistica ripulsa delle mendaci lusinghe della retorica – si ritrae nell’euresi. Solo il segno, l’immagine in sé contraddittoria del divenire, può esporne l’immanenza al travaglio delle forme. La parvenza è necessaria allo sguardo ebbro (non predeterminato da fini) dell’euresi: in essa si occulta, e si mostra, una verità mai catturabile in una forma chiusa: giacché muta mentre e perché la si conosce, in uno con lo sguardo che la riceve e la indaga, restituendola in una forma che si dà solo come permanente ricerca, come movimento della e nella forma. L’euresi è movimento: di logos e figura. Del logos in quanto figura. È il movimento della cognizione del filosofo e dello scrittore. È il movimento del bateau ivre.

Le prescrizioni teleologiche che avevano comportato la condanna del simbolismo di Rimbaud e Baudelaire patiscono una contraddizione profonda ma vitale, nella revisione dell’idea sistematrice che animava il Gadda in cerca di romanzo. Dalla Meccanica al Fulmine, l’impianto narrativo permane ancora dissimmetrico alla curva desostanzialistica della Meditazione – e come intento a interrogare una tradizione da cui non sa staccarsi. (21) Ma progressivamente sembra poi farsene carico nella intricata sovversione delle gerarchie dei significati e dei punti di vista, nel rovesciamento del rapporto tra fabula e intreccio (è il secondo che tende, per così dire, a determinare la prima: o, comunque, a fagocitarla), nella contaminazione febbrile dei registri e dei codici, nella profusa accumulazione invasiva delle immagini entro un tempo del racconto aperto e scentrato, sontuosamente digressivo e come d’un tratto sfinito.

4. Il tempo, la morte

L’eticità negativa affiorata nel viaggio del bateau sembra dunque trasmettersi a Gonzalo (ma poi, in altro registro, anche a Ingravallo): dostoevskijano martire e scoliasta del problema del male, per lui eminentemente euristico, ultimo confine, o pensiero – nell’immanenza logica della morte all’euresi –, dell’etica e della sua sterile peripezia. L’esperienza dell’hidalgo si svela infatti radicalmente a-teleologica, contrastiva a quella della Madre, il cui perfetto sinfonismo astrale, protetto dalla antica luce delle ordinate geometrie kepleriane che ne custodiscono l’illusa memoria, si specchia e si oscura nell’infinito buio terreno di un dolore privo di riscatto, nella folgorazione di un «oltraggio che non ha ricostituzione nelle cose» (RR I 633).

Alla temporalità complessa ma lineare della causa, alla dispersa armonia della sua durata, che la Madre si ostina a evocare nel buio teatro della sua memoria, letteraria e/o esperienziale, non altro misurandone che la fine e la perdita, si oppone, in Gonzalo – a comporre l’allegorica tragedia del tempo che egli, con la Madre, interpreta –, la temporalità molteplice, irretita e confusa tra le immagini, della co-esistenza logica delle cose e delle anime. È il tempo di un essere non più inteso – nella Meditazione – come sostanza (come soggetto-sistema): ma come rapporto, trama di funzioni, plesso di instabili orizzonti esperienziali, connessione perennemente inquieta di antinomie e di linguaggi: come figura mobile – spettro ottico – di una disgregazione e reintegrazione senza fine. Per questo, la forma temporale (l’euresi narrativa) entro cui percepirlo ed esprimerlo deve intendersi come la rappresentazione – non più la sintesi – di quel movimento, il campo di visibilità – l’esposizione in codice figurale – di quella interminata deformazione logico-fenomenica: «il tempo è la parvenza di questo processo deformatore» (SVP 1349). E l’immagine – la Parvenza – nel suo spasmo deformatore, assume, per contro, statuto e funzione radicalmente temporale: «qualcosa accade e per accade intendiamo “si deforma”» (SVP 742). Il tempo della Meditazione è quello che abita la mente di Gonzalo: identificato col movimento mai finito delle parvenze, senza più il dominio dell’esperienza acquisito e garantito nella certezza di una immagine che la fissi per sempre: nel lume della memoria e nella parola del suo racconto. E nell’ambiguo statuto semantico della parvenza – nello schermo d’immagini entro cui la deformazione distende le figure della sua «ontologia temporale» (Guglielmi 1994: 9) – cresce il paradosso del male, polarità costitutiva dello stesso ductus combinatorio: per la quale l’euresi non sembra avere – in Gonzalo – amore per il divenire. Perché la sua meditazione conosce il nucleo distruttivo del divenire. L’euresi gli si svela segnata da una sterilità intrinseca, dovuta alla sua stessa struttura duale, che deve negare se stessa per svolgersi, lacerarsi per crescere, perdere la vita per trovarla.

è il male di una mancata continuità della conoscenza, non di una mancante volontà di cognizione: e deriva dalla passione gnoseologica di Gonzalo, le pulsa dentro, come un segreto cuore di tenebra. Pensare fino in fondo l’essere in quanto divenire, pensarne il tempo in quanto composizione narrativa della combinazione-possibilità, non è lecito, senza coglierne anche la intima contraddizione che concorre a costituirlo, la polarità negativa che lo scompone e lo spezza: la morte. Che è, dell’essere, estrema mancanza, in quanto estrema pensabilità: dispersione/disperazione dei compossibili. Ed è prodotta nel pensiero, dal pensiero: è il pensiero, nella sua radicalità noumenica – non se ne possono, perciò, dare immagini. È irrappresentabile: anzi, è l’irrappresentabile. La morte toglie ad ogni rappresentazione la relazionale sostanza, e il divenire che la ricolma di tempo (di possibilità) – e toglie all’essere ogni rappresentazione. È l’inversione logica dell’essere, cresce nella sua pausa: alterità pervasiva del molteplice, essa non ha, non può avere immagine. La sua verità sta tutta nella negazione dell’immagine. Il suo accadere, il suo istante, si nega alla figura.

Nell’autobiografismo per così dire noumenico della Cognizione, a questo allude il male invisibile di Gonzalo: patologia dell’anima in quanto spasmo caravaggesco della mente. Il processo logico che crea, o inventa, il reale non può essere pensato immune dalla sua negazione, che ne è l’approdo necessario, l’orizzonte che lo compie e lo toglie. Pensare il divenire, il tempo, comporta pensarne la morte. E la morte è confitta nel tempo: nella tensione dinamica dei compossibili che ne suscita il movimento-parvenza, e proprio in quanto estrema pluralizzazione di quel movimento in un molteplice non polarizzato. Essa è il male del tempo – la malattia che ne abita originariamente la forma, il vuoto che ne ritma la genealogia. È la non-forma che imprigiona il noumeno: ciò che non può essere conosciuto in rappresentazione, ma semplicemente pensato – appunto come la morte, che gli è logicamente contigua. Ne è il margine metonimico, perché, come quello, non ha tempo né immagine. Non è, per statuto, visibile: come sa bene Gonzalo, malinconico contemplatore di un tempo dissolto e della vanità di ogni percorso euristico – segnato dal destino di negazione che ne solca il perduto, fuggitivo orizzonte –, testimone della impossibile salvezza richiesta al tempo in quanto principio d’ordine – forma – della deformazione. È la condanna euristica della parvenza, dalla cui luce è avvolto il divenire:

Oh, lungo il cammino delle generazioni, la luce!…. che recede, recede,…. opaca…. dell’immutato divenire; (RR I 604)

e in essa l’operare umano trova rappresentazione, si dà un’immagine – ma non trova riparo dalla legge distruttiva che vige nel nucleo logico del tempo. La luce si fa opaca – prolessi del «lento pallore della negazione» (RR I 703) che insidia e consuma il cammino di Gonzalo nel mondo – a mano a mano che il viaggiatore – ispirato, contro ogni ebbrezza simbolista, dal vano fulgore di una finalità senza adempimento – attraversa, nella sua quête spaziale, il tempo:

Ogni prassi è un’immagine…. […] e l’impresa chiamava avanti, avanti, i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. […] Fino allo incredibile approdo. (RR I 604)

La fuga regressiva della luce verso un orizzonte inattingibile disegna in emblema araldico la parabola discenditiva dell’euresi. Il divenire non è che opaco destino, processo elaborativo senza adempimento teleologico: «fatica de’ cantieri» cui non sovviene il labile ristoro di «un’idea» (RR I 291). L’approdo etico dell’immutato divenire – il compimento della prassi suscitata e alimentata dall’immagine – è la necessità euristica del nulla. Il tempo dell’euresi – la navigazione dei donchisciotteschi cavalieri (i quartati) che lo incarnano – culmina nella morte del simbolo etico (impresa o bandiera), nella sanzione del suo spettrale approdo allegorico. Al fondo del voyage nel tempo, come nel vagabondaggio spaziale dei viaggiatori senza ritorno di Baudelaire e Rimbaud, giace la vanità di ogni immagine.

La comprensione causalistica del mondo – il filo del tempo aggrovigliato nella deriva del bateau ivre – si rovescia e precipita nella nomenclatura barocca di un catalogo vano. Al cuore del tempo non c’è che la tenebra del non-essere – e la dissipazione metamorfica delle parvenze. Il cielo si distende sopra Gonzalo e la Madre come la pittura arcana di un tempo dissolto. I muti paradigmi della scienza kepleriana ne misurano il vuoto, l’assenza in esso di ogni finalità e d’ogni causa. Tempo degli astri (sub specie aeternitatis) e tempo umano (22) si intersecano, nel cielo della Cognizione, (23) come lacerati dalla decostruzione euristica della loro caduca (grama) sostanza. E le immagini tematiche del romanzo, in un paradossale adempimento anti-narrativo del progetto sinfonico e poematico del Cahier, si ripetono, intrecciandosi e divaricandosi in una curva di isomorfie che, destituendole di ogni durata narrativa, (24) le espone nella loro rastremata tensione diegetica di parvenze dell’inappropriabile processo deformatore.

Sono frantumi di una tessitura musiva logorata, lembi di terre emerse di un continente perduto. Non più colme del «flusso antico della possibilità», né protette dalla «sicurezza fondata della memoria» (RR I 678), musa e vestale di un tempo finito, non più legate da una concatenazione molteplice ma unitaria, entro l’arco di una «continuità che s’adempie» (RR I 680), quelle immagini, da più lati traguardate, per minime o plurime diffrazioni prospettiche, producono e agiscono – nella partitura contrappuntistica delle loro disgiuntive riprese – una temporalità a-costruttiva, una curva diegetica inerziale, viva solo nella dislocazione iterativa e speculare delle focalizzazioni: e talora – come nella progressiva epifania del dolore che deforma l’astratto incanto dell’idillio contemplato dal terrazzo –, scandita dall’eco di una pausa logica fissata in contrastiva sinestesia («il numero di bronzo» che ne infigge in parvenza acustica il vuoto trascorrere verso la negazione, RR I 714). Si pensi, ad esempio, al momento nel quale Gonzalo coglie, nel rintocco rituale dell’ora – nel prolettico sdoppiamento che alimenta la semantica binaria della temporalità in sé antinomica (buia o splendente, lutto o parvenza) dell’opera – l’epifania di un messaggio funebre, e proprio nel suono che scandisce il ritmo ripetitivo atto a simulare la continuità del fine rinviene l’immanenza del «decreto inappellabile» della fine, la verità grave di una parabola temporale precipitante dalla clamorosa sequenza bugiarda della vita alla silente e buia decombinazione della morte, in un rituale idillico presto incupito dal minaccioso presagio (l’anticipazione straordinaria) che ne prepara la tragica lacerazione o ne suscita e sottende lo spettrale ritorno nei punti-chiave del romanzo (la desolata elegia del tempo che ne chiude il settimo tratto, e la deserta apoteosi della parvenza che ne sospende, infine, ed illumina l’apocalisse dolorosa):

Tutto doveva continuare a svolgersi, e adempiersi: tutte le opere. Il domani dalle bocchette d’oriente affacciandosi con dorati cigli avrebbe ritrovato le cose: come il fabbro, dove lo ha lasciato nella fucina, ivi si ripiglia il martello […] ma non molto, non molto! e sarebbe scoccata l’ora vera, la verità grave: il decreto inappellabile di Lukones. (RR I 629)

Lo spazio del romanzo non contiene più verità custodite nel tempo. Non contiene più il tempo. È questo, invece, che ne incide, con la forza disgregante della sua non sedata antinomia, e ne logora la forma: la tradizionale vocazione alla forma. La cognizione romanzesca è dolore: non fonda più rappresentazioni di verità, non sa, non può ricomporre entro i suoi codici l’infinita deformazione del reale (e meglio si direbbe: la realtà non-finita della deformazione). Non può ricostruire sistemi, né perseguire sintesi. «Non [le] è dato affermare» (SGF I 429). Può solo raccontare la «favola della malattia», l’ancora non dispiegata «negazione», il suo «lento pallore» – il dato cromatico che ne testimonia l’intima temporalità regrediente, come quella illusa dal sogno delle virtù, verso l’azzeramento euristico del tempo –: che invade e sfigura il presente, e allontana e abbandona il passato, dissipandone le perse certezze.

5. Negazione e deformazione: l’oceano delle parvenze

E tuttavia la poetica gaddiana non rinunzia a conoscere, a rappresentare. Gadda non rinunzia al romanzo. Né rinunzia esplicitamente alla sua forma classica, cui si era educato nel sogno demiurgico della sua gioventù milanese: ma ne intrica l’ordito sinfonico (la deformazione euristicamente positiva) in un tempo che non può più costruire una forma radicata in un nucleo di verità, ma solo una figura (parvenza) contigua ad essa, ma ad essa mai ricongiunta. Vi resiste la ostinazione etica della parola, non garantita da tradizione di valori, né protetta da modelli, se non quello, furente e melanconico, della parodia. Il processo deformatore dissipa, mentre la nutre, la voce narrante: imprigionata nel groviglio delle apparenze, o in sdegnosa fuga da esso, verso un remoto universo lirico-sublime del quale la stessa struttura composita e multigenere (25) della Cognizione dichiara la contaminazione antilirica e lo storico esaurimento.

Il vitalismo logico del mondo pulsa come irretito in se stesso: deformare il reale vale – per Gonzalo, doppio non simmetrico dell’autore, ma problematicamente complementare ad esso (26) – a respingerne le ingannevoli forme: e, per il narratore che vi si specchia, ad opporre l’intarsio lirico o il ghigno grottesco della satira alla irredimibile deformità della parvenza. L’etica, e il romanzo, che ne trascrive la perfetta inattualità, possono resistere solo nell’estrema denuncia dell’esproprio euristico del fenomenico mondo, nella ripulsa dei suoi miseri allettamenti, nella spietata cernita delle immagini vane che lo gremiscono. Non possiede che questo, la letteratura: una definitiva assenza di una verità positiva, affermabile, e una conoscenza, e un’etica, che durano nella sontuosa stilizzazione della propria fine, nella deformazione non-finita – nello scrutinio semantico inesauribile e sempre mancante alla forma – di una realtà esposta e insieme celata nella sconfinata rete dei fenomeni. Su di essa il dolore – sfinita parola dell’etica, fulgurata reliquia del tempo, della sua dispersa Erlebnis (27) – infigge lo stigma che può, ancora, significarlo: che ancora può mostrare, racchiuse nella superficie inattraversabile della Parvenza, la verità e la conoscenza, nudi segni senza luce di noumeno. La negazione è l’estremo confine cui perviene la deformazione gaddiana del romanzo: che vuole la parvenza per negarla, per restaurarne e contrario il nucleo di verità che l’attraversa e la fugge – e non ne attinge che la maschera tragica, il disegno che ne rovescia in allegoria la teatralità vuota:

Ma […] negare vane immagini […] significa negare se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio […] è lacerare la possibilità: come si lacera un foglio inturpato leggendovi scrittura di bugìe.
Lo hidalgo […] era a negare se stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro. (RR I 703-04)

Non restano, allo scrittore coinvolto e travolto dalla negazione della società, e della sua euresi demandata a comprenderla nell’assoluto, ora infranto, del romanzo, che «astinenti lettere e pagine» (SGF I 429). Egli rifiuta la salvezza bugiarda di una disincantata resa al gioco disgiuntore delle Parvenze. La salvezza – la durata etica della sua funzione – per lui, è nella negazione: delle parvenze e di sé, che solo attraverso parvenze può rappresentarsi. Sommo gesto etico è lacerare, nel pensiero, la possibilità: negando l’inganno della rappresentazione, esponendone il nudo spasmo mascherale. La durata dell’io, nel rifiuto dell’immagine, si spezza. Il suo tempo cade, si svuota. L’atto narrativo, proprio in quanto deformazione euristica, non investe altro oggetto che la parvenza dei fenomeni, la loro falsa e vera immagine. Il contenuto di realtà implicato nell’immagine è negato: ma nella negazione si libera il suo contenuto di verità. Lo statuto bipolare dell’immagine si divarica: tra etica e retorica si stende la contraddizione che ne lacera l’ordito simbolico. Non c’è verità da salvare nel fenomeno – e, per converso, non c’è noumeno da catturare e verbalizzare nel segno. In Gadda, la verità (il noumeno non è esso solo il vero: ne fa parte, nella sua polarità al fenomeno) si ritrae in questa relazione conflittuale delle parvenze con l’altro che le nega ma fuori di esse non trova figura, ad esse immanente e da esse sempre diviso. La verità del romanzo non ha più un intero da significare, una totalità da raccontare: l’intreccio dei tempi è strozzato nella gemmazione delle polarità che li costituiscono. La voce narrante può solo negarne – deformarne – l’inganno simbolico, la vana immagine armonica. Ma la sua negazione non conduce all’acquisto e al dispiegamento di una verità. La sua parola sfocia nel vuoto. La verità è solo allegorica.

Lacerati gli ormeggi della concatenazione causalistica, dispersane in groviglio di frammenti la trama, come il bateau rimbaudiano, la conoscenza di Gonzalo riconosce in ogni oggetto la parvenza di un processo deformatore, non abitato da certezze o valori, non garantito dalla durata semantica di una intatta sostanza. Tra ostensione fenomenica e inviolabilità del noumeno, nella Parvenza vibrano senza scomporsi in immagine di verità i profili e i confini labili e perpetuamente mobili delle cose, che i nomi non valgono più a trattenere nella vuota certezza del segno. Solo nel tempo della consecuzione adempiuta le parole comprendevano in sé le cose, e le lasciavano durare in un nome: come nei libri cui la Madre di Gonzalo attingeva le smemorate sillabe che ora ne attraversano la solitaria prigionia nel cronotopo domestico. L’euresi di Gonzalo, che non persegue fini, e pensa ogni causa come relazione, polarità, con-causa, non domina più il tempo. E i nomi della vita non vi hanno più dimora. Della loro antica ricchezza non resta – in un tempo ormai deserto, immobile come un idillio, schiacciato come un’icona – che un suono ripetuto e solitario, l’eco di una verità sfuggente e perduta, la pausata cadenza di un ritmo che precipita in dissonanza o silenzio. E dalla ciclica epifania visiva e sonora di un tempo ristretto in suono e immagine affiora l’ultimo nome pronunciabile, che non pertiene al linguaggio metamorfico della vita, ma sempre rinvia alla parola terribile della morte, in uno sconfinato ma oppressivo teatro della mente animato solo dalle modalità sinestetiche (il suono, la luce) che allestiscono e fingono il tempo – l’orizzonte da cui perpetuamente fuggiva, e cui sempre di nuovo tendeva, il bateau –, il suo logos inabissato nell’eco che ne scompone l’intenzione sinfonica, la idillica armonia:

Dall’antro della fucina rendeva la percossa al monte: il rimando del monte precipitava sulle cose, dal tempo vuoto deduceva il nome del dolore. (RR I 714)

Un nome, quello del dolore, che non istituisce, ma toglie, e nega, ogni figura, mostrandone l’intima costituzione ossimorica. E proprio per questo chiude il viaggio dello sguardo e dell’ascolto nello incredibile approdo alla eterna finzione della temporalità: terra desolata del vero – scena di un noumeno che non si svela, sospeso tra il buio dell’assenza di forma e l’arcano bagliore della maschera. Non dietro, ma dentro la Parvenza, indivisibile da essa, dal suo corpo mendace, si dipana o resiste il tenue ragnatelo del noumeno. Mai separate né mai riaggregate nello spasmo vitale della forma-parvenza, verità e finzione abitano il tessuto logico del movimento deformatore: e, come le ore di luce e quelle di buio, fanno, sono il tempo, parvenze della sua verità in antinomia. «Due note… ritenute e profonde» (RR I 732), scaturite dallo schema noumenico dell’aisthesis, espongono a Gonzalo una Cognizione non protesa verso orizzonti di verità, ma curvata nel ciclo perenne delle immagini, icona di una migrante alternanza di luci ed ombre. (28)

Il tempo della Cognizione si svela, qui, processo interamente vuoto: schermo di un mai finito conflitto di parvenze. E anche qui, una volta di più, Gonzalo si attesta come il precipitato allegorico della percezione-cognizione acostruttiva inscenata dal bateau ivre: del quale, in clausola alla sua drammatica minaccia alla madre, una similitudine, intimamente dissonante nel suo tono dimesso, riconvoca il campo metaforico: «questa frase non aveva senso, ma la pronunziò realmente (così certe volte il battello, accostando, sorpassa il pontile)» (RR I 737). Qui la cadenza discenditiva, richiamando il moto inerziale del bateau, e compiendone l’implicito assunto allegorico, prefigura, ed infine avvia, nell’automatismo del suo movimento, il voyage sprotetto dell’hidalgo, il suo destino di migrante opposto e complementare alla sedente rimemorazione, alla attesa deserta, senza compenso di presenze o di immagini, della Madre: e sancisce il suo esilio euristico, lo sperpero doloroso della sua Cognizione nell’oceano delle parvenze. Per il Gadda della Cognizione, come già per Rimbaud, la tradizione è un mondo senza uscite: ma vivo solo nel rimpianto che ne scrive la morte.

E quando, infine, la «stanchezza senza soccorso» della morte incide della sua estrema negazione il volto della Madre, come il pensiero del Male, che lacera il nucleo violato dell’Essere, l’epifania albare, stagliandosi, nel suo immoto splendore, come il deserto emblema del tempo, a replicarne l’incanto rituale e vano, si profila analoga allo scenario desolato («Les Aubes sont navrantes», Rimbaud 1998: 136, v. 89), all’inadempiuta catarsi entro cui il bateau rimbaudiano consumava la sua tragedia etica, la sua estetica apocalisse. Il movimento dell’alba evocata dal canto del gallo (29) consiste nell’entrare in scena, come ad officiare un rito antichissimo, eterno: ed enumerare, in un catalogo senza fine d’euresi, le parvenze ignare e immutabili di un universo ormai disabitato da soggetti e da nomi, come in una paradossale, tragica apoteosi della deriva ateleologica (ma spasticamente etica) dei viaggiatori simbolisti che nella loro «migrazione estetica […] amano adibire l’esperienza a catalogo» (SGF I 564). La cognizione del dolore finisce – intermette – nell’elenco delle parvenze del mondo. Il noumeno (la verità, la Madre) muore, riversandosi nell’apparire («la solitudine della campagna apparita»). Il noumeno non è che l’orlo del fenomeno, la sua irrappresentabile polarità, l’ora buia della Parvenza. E solo in essa può avere rappresentazione, perché ne è il negativo. Solo la Parvenza, che gli si oppone, e ne manifesta l’inconoscibilità, può mostrarlo in sé, nella sua superficie intrascendibile. Il tempo è, infine, icona di questa intrascendibilità – schema, o teatro, del conflitto insolubile tra Parvenza ed euresi. E per questo, anche, il romanzo della Cognizione – ogni romanzo di Gadda – non può finire. L’apparenza non sa finire. Il suo tempo non ha destino che lo chiuda. È irretito nel suo movimento: come il tempo (lo sguardo) migrante del bateau ivre, perpetuamente mobile e diffratto, per sempre perduto fuori e dentro di sé.

Università di Bari

Note

1. Hanno aperto la strada ad una interpretazione allegorica della scrittura gaddiana gli studi di R. Luperini (Luperini 1986: 22-39 e 1990: 259-78).

2. Al riguardo, oltre alle acute notazioni di Guglielmi 1994: 3-18, sono da vedere lo studio analitico di R. Donnarumma (Donnarumma 2001a) e, per una prospettiva focalizzata sulle intertestualità balzachiane e dannunziane nella Cognizione, Rinaldi 2001.

3. Cfr., sul tema, Benedetti 1995: 71-89 e Lugnani 2001.

4. Cfr. Lucchini 1988a: 14-54, e de Jorio Frisari 2001: 123-50.

5. Sulla presenza della terminologia scientifica nella ideazione letteraria gaddiana cfr. Segre 1994: 83-98.

6. Già testimoniato in Tendo al mio fine (1931), paradossale dichiarazione di poetica, doppiata e straniata nella stessa valenza iconica dell’impasto stilistico arcaizzante (RR I 119-23).

7. A partire dai classici studi di G.C. Roscioni, insistentemente tematizzata dai critici di Gadda: e con particolare densità problematica da Benedetti 1983 e Bertone 1993.

8. Cfr. Luperini 1986 e 1990 e Guglielmi 1994.

9. Ribadita, peraltro, in un intervento di servizio della stagione radiofonica dello scrittore: «il bastimento alla deriva è evidentemente l’autore» (Il simbolismo, SGF I 1060).

10. In ordine alla filosofia di Gadda è d’obbligo il rinvio alle analisi fondative di G.C. Roscioni (1969a, 1974, 1997); ed ora, nell’affollata schiera dei lavori, spesso assai rilevanti, che ne discutono implicazioni e temi, si segnalano, per sensibilità teorica, Bertoni 2001 e Dombroski 2002, sul quale è da vedere l’acuta recensione di D. Conrieri (Conrieri 2002b: 33-36).

11. A. Rimbaud, Le Bateau ivre, in Opere, trad. e cura di I. Margoni (Milano: Feltrinelli, 1998), 136, v. 84.

12. Rilevato con finezza e diffusamente analizzato da F.G. Pedriali (1990 e 2002c), ma anche, da altra prospettiva, in Botti 1996: 181-202. Il riferimento virgiliano affiora in una delle inedite Battute da interpolare riportate da E. Manzotti nella Appendice della edizione critica della Cognizione del dolore da lui curata e commentata, con il prezioso viatico di una importante Introduzione (Manzotti 1987a: 568).

13. Lo segnala P. Italia nella puntuale Nota al testo della Meditazione milanese da lei stessa curato, SVP 1303.

14. Cfr., rispettivamente, SVP 1318, 644, 1343, 744.

15. Analizza acutamente le traslazioni in chiave gnoseologica del paradigma metaforico offerto dal bateau ivre Bertoni 2001: 94-101. Ma cfr. anche il denso de Jorio Frisari 1996: 117-57.

16. SVP 751. E cfr. Bertoni 2001: 105 sgg.

17. Non è un caso che G. Contini, a proposito della «peculiarità del “romanzo” gaddiano come messa in opera di costituenti narrativi», rilevasse che «“romanzo”, “novella”, “racconto”, ecc., sono designazioni tradizionali tutte da reinterpretare, aspirazioni a un continuo attuato in forma discreta» (Contini 1989: 48, corsivo mio). Una lucida analisi del lungo esercizio esegetico continiano su Gadda e delle sue implicazioni teoriche e di metodo è condotta da Donnarumma 2001a: 183-218.

18. Cfr., al riguardo, le acute e fini osservazioni di N. Lorenzini (Lorenzini 1999 e 2002b).

19. Gadda 1993a: 28. Nelle sue Note di commento la curatrice M.A. Terzoli ricorda opportunamente che il passo era già stato ripreso fedelmente nel vasto cantiere del Cahier (Gadda 1993a: 80). Nella sua Nota al testo della Meditazione P. Italia fornisce una significativa campionatura della persistenza di quella immagine nell’opus gaddiano, SVP 1308, nota 31.

20. Cfr. il fondamentale Manzotti 1993c: 35-43, nonché Manzotti 1996: 313 sgg., e Manzotti 1997: 82 sgg.

21. Cfr., in proposito, Luperini 1986 e 1990, nonché Donnarumma 2001a.

22. Sulla complexio temporum della Cognizione, cfr. Savettieri 2002 (ma è da vedere anche il propedeutico Savettieri 2001).

23. Sul cielo nella Cognizione, si veda il denso e suggestivo Pedriali 2002b.

24. Cfr. Manzotti 1987a: xxiii sgg.

25. Cfr. Luperini 1986 e 1990, e Fagioli 2002a.

26. Su tale questione, densa di implicazioni ermeneutiche, si veda Fagioli 2002b.

27. Su questo nodo tematico decisivo della modernità letteraria nel Novecento cfr. R. Luperini, Estraneità e tramonto dell’esperienza nella autocoscienza del moderno, in Allegoria 12, n. 36 (2000): 5-17.

28. Manzotti 1993c ha offerto una lettura magistrale del brano cui ci riferiamo.

29. «E alle stecche delle persiane già l’alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita», RR I 755. Corsivi miei.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-06-X

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