Primo approccio al Castello di Udine
Gianfranco Contini
Il caso Carlo Emilio Gadda è di quelli che posseggono, più che tutto, una grande importanza teorica. Ama e ha diritto di passare per calligrafo; e intanto serve a chiarire, proprio in linea di principio, quanto di risentimento, di passione e di nevrastenia covi dietro al fatto del «pastiche»; per che immane sfogo pratico un autore si decida a scritture così mescidate, scandalose. Fare il nome del Dossi, a proposito della Madonna dei Filosofi e, più, del Castello di Udine, è risorsa che tiene, già nascendo appena, del luogo comune; e tanto vale rilevare come il Dossi, nonostante la relativa urgenza empirica, mettiamo, della misoginia che gli dettava la Desinenza in A, si mettesse all’impresa con un cautissimo dosaggio; apparisse ormai gelido, cristallizzato, dedito a quel suo stile come a un esperimento autonomo e a una recisa professione. Vorremmo dire che lo stesso Joyce del Work in Progress (1) è meno egoista del Nostro: asceta del sistema, e santo, come tutti coloro che lasciano allinearsi un’opera nelle dimensioni eroiche, lavorative, d’un’immensa durata, Joyce non riesce tuttavia a cancellare, attraverso volumi folti, attraverso puntate e puntate, il fondo, l’esiguo fondo, d’una provincia; col proprio attaccamento e livore. Ecco dunque (in veste di metafora che contribuisca a risolvere il caso Gadda) almeno un altro esempio di manipolazione linguistica che «facit» un’«indignatio» geografica, locale: europeo solo in apparenza, e per il materiale grezzo messo in opera; e s’annetta il debito significato al fatto che il Dubliner tende a fuggire dalla risoluzione strettamente narrativa, in cui pur finisce lo Scapigliato citato più su, come già la corrente eruditissima e umanistica dei «pasticheurs» rinascimentali, dai nostri macaronici al Rabelais. Ricercando attorno nei medesimi anni di Alberto Pisani, qualche buon elemento comparativo si finirà per scoprire presso Edoardo Calandra: (2) nei Lancia di Faliceto la velleità rifacitiva, pertinente sempre a frammenti d’un pittoresco storico (si veda pertanto, in Gadda, Innocenzo II), non tiene sino alla fine, ma si sfianca e s’abbandona lungo moduli correnti e triviali. Con tutto ciò, oggi come oggi saremmo in vena di gridare: Onore al bizzarro che non riuscì a durarcela. Stiamo trattando, in margine, d’un autore che non fu sempre conseguente nelle funzioni sperimentali: gli mancò determinazione; o energia; o egoismo, la prigione dell’egoismo. Dovendo a questo punto riportare Gadda in Lombardia (e ancora rimaniamo nel campo di generali esigenze poste dalla sua scrittura, non già d’«influssi» positivamente subiti), ricorreremmo alla seconda Scapigliatura, quella che ha la progenitura dal Lucini; e penseremmo a Linati, o piuttosto alla contaminazione espressiva tipica di Linati (benché non separabile dall’espressionismo inerente all’impressionismo vociano, riscattatore dei linguaggi provinciali), che consiste nell’innestare su un primo purismo un suo privato dialetto fatto di larghissima onomatopea, d’imitazione della natura. «Il rabido rinculo degli affusti, il pronto ricupero, le vampe laceranti la notte, la sùbita impennata di qualche mulo nevrastenico nello schianto e nel lividore improvvisi, i gargarismi lontani e immortali delle autocolonne, fino all’alba! Su su per le spire infinite delle rotabili, dalla tenebra verso i crinali! Spiando l’ambiguità de’ culmini puntuati di fredde stelle». A parte l’argomento, questa non sarà prosa di Amori erranti, ma vaga non lontano da quella maniera.
Se ci tocca tradurre quelle allusioni nominali in equivalenze esplicite, diremo che la prosa di Gadda è tutta «provocata» dal malumore, dalla polemica. In un senso negativo, si può aggiungere che è tutta utile; resta al di qua del metodo disumano, che, una volta distaccata l’occasione, viaggia in proprio, quasi per inerzia; e non è che Gadda non appaia, in più d’un momento, un «odioso scrittore», come Serra disse un giorno per liberarsi, in via definitiva, dell’ossessione di Emilio Cecchi; ma invece di arrivare al dolo, alla fraude metafisica, egli pecca per la testardaggine del suo sforzo testimoniale. La sua fortuna sta appunto nel non poter percorrere le vie medie. O è ancora nella ganga dei fatti di cui si fa storico, e allora affastella trasposizioni troppo dirette, successive, contigue; o vive in distanza, e la pagina nasce da un processo di deposito e d’addensamento. Si capisce che questo è un puro modulo di constatazione: e che, pertanto, potrà servire di materiale a un giudizio prudente, quando si tratti o delle corrispondenze di crociera o della sistemazione pressoché narrativa di Polemiche e pace nel direttissimo; quanto di base a un segno risolutamente positivo, circa l’animus che muove rispettivamente i ricordi di guerra o le pagine, ancor tutte recenti, sulla sagra di Marino. Sennonché, l’appiglio alla «soluzione» Linati mostra chiaramente quale sia la via d’uscita di Gadda, il nucleo della sua vena: che è poi una resa della vita nella sua accezione integra, totale, radicale. A questo punto il caso si complica ancora: poiché una materia dispersa ha da essere continuamente richiamata a certi nuclei, invece di prolificare ha da fabbricarsi un centro; che è il metodo più genuino del nostro autore, anche se qualche volta egli s’affidi alle somme di termini e proceda dall’atomo, analiticamente; entro il caos, tuttora inerte, che comincia a formarsi, si percepiscono dei principi d’ordine, fonti di simmetria, arabeschi. Nel processo tumultuoso e visionario della Sibilla («per speculum in aenigmate») si isola una fase decorativa. E Gadda non si appaga della fisiologia della sua poetica, ma v’aggiunge l’intelligenza; non sa decidersi a respingere l’accaduto nell’àmbito del mero precedente, e cantare esso solo una sua forma implicita e sottintesa di scrittura – come certo tipo ideale d’autore rimasto a celebrare se stesso, quasi un sé a priori, in una forma sempre aperta di glossa perpetua e d’«introduzione» –, né d’altra parte a condensare in una sola parola l’impressione e la tecnica che la fissa. Così egli, con un libro di fondo modesto, viene a toccare uno dei punti ideali estremi del mestiere di scrittore. L’autocritica, e sia pure la semplice storia del proprio stile, è un momento essenziale in Gadda; e vive, quasi un Doppelgänger, accanto al fatto della sua concentrazione. Non per caso, quando Gadda scrive i capitoli migliori, anche le note ch’egli si fa aggiungere da un supposito commentatore hanno proprio un’autonomia più vivace. E in tali circostanze, per quello che è della «descrizione» (s’intenda la parola nell’accezione più ricca e storica, in quanto funzione principale della critica), al lettore che dia un rendiconto poco rimane da aggiungere. «Essi [gli articoli di guerra] piú tosto esprimono l’animo dell’Autore che non costituiscano una narrazione… – Il diario non era nel suo intento, e invece una espressione-sintesi… – D’attorno a un nucleo lirico o etico si aduna, si coagula una certa quantità di materia espressiva, come reminiscenza». Così, assai acutamente rileva il commento il carattere «pittoresco» (nella specie, «il mezzo sentitamente liceale», Livio-Cesare-Orazio) dell’Elogio a preludio di alcuni valentuomini: sarà certo questo il primo caso di commento d’autore schiettamente formale; e dove non indulga a dosi superflue d’umore, riesce a tal segno illuminante che ricavarne a puntino certa casistica è come sottolineare le singole modalità della fantasia gaddiana.
Citiamo, allora. «Il sasso [ai caduti della guerra] non dava tomba, o corona»; qui il commento precisa trattarsi della «corona dei legionari e dei martiri», la «civica corona» di Cesare, la «corona vitae» dell’Apoc. II 10. Ora, il condensare in un vocabolo un’intera filologia è liricamente operazione così spontanea che si vorrebbe chiamarla irresponsabile: tale è il modo con cui l’invocazione del pescatore, in un sonetto di Paul Valery (César, calme César, le pied sur toute chose), incorpora la tradizione aneddotica, argentea e poi medievale, sulla figura di Cesare. Ma nel nostro caso è un atto di volontà che stabilisce la polivalenza dei termini. La tecnica gaddiana è una forma d’ostinazione: per essa fine è parola ambigua, tra «finalità» e «morte», e pace [di «polemiche e pace»] ambigua, se anche non c’illumina il commento, tra «riposo» e «morte». Tutte queste sono modalità dell’accennata «coagulazione»; essa si esercita mediante una violenta presa di possesso: le proposizioni kantiane del «Ding an sich», dell’«oro giallo» si fanno avanti, a gomitate, entro una descrizione folta, quasi futuristica «sintesi», di polenta, pomeriggio e sonno, per porre l’ambiente; l’immagine, «batuffoli bianchi» («carovane di muli con batuffoli bianchi sopra gli orecchi»), sopraffà e sostituisce, fino al criptogramma, la cosa, «le nuvolette degli shrapnels»; così tutto il libro di Gadda gioca sopra un veloce scambio di dimensione fra la poetica analogica del simbolismo più letterale e la poetica lineare, fedelissima e schifiltosa delle trascrizioni oniriche. La vicinanza soverchia svaria, per disperazione, in cronologia; a distanza, la storia si fa come un’elegante nebulosa, qua e là addensata; perciò il diario è «impossibile». Nient’altro, allora, sono i momenti poetici, quando si vogliano separare, che i momenti d’impossibilità o di coagulazione. È, rimasta segreta, fino all’ultimo, l’intermittenza del cuore durante la quale alla gioventù in festa e in amore s’è associata la gioventù morta, il Monumento ai Caduti; improvvisamente: «Molti giovani sono partiti da Marino senza ritorno, non da tutti l’Ardeatina e la Flaminia si percorrono più che una volta. Alla cantina De Simoni oggi essi non bevono, né alle cannelle della loro fontana: la loro immagine si è cancellata nel tempo, come il volto de’ mori. Mi pare di vedere alcuno, cadendo, che ha nella destra l’arma e regge alto, con la sinistra, il piccolo globo, il simulacro alato. Nessuno più porge il bicchiere alla ragazza: Alberti Pericle, Amadei Augusto…». A Rodi la selvaggina, il cervo emblema dell’isola, liberati in motivo venatorio, si fanno caccia lombarda: «… girano ore e ore nella caldana del ferragosto in ritardo e poi pum! dopo l’interminabile agguato vien giù, dentro un batuffolo di piume, lo scheletrino del disperso, contro cui han lavorato congiunte… Non ci vanno [i cacciatori milanesi, a Rodi] perché il bello della caccia è uscir presto dalla sua casa, quando l’alito del mattino move la foglia del fràssino e la rosea nube si accende e si trasfigura; il dolce ramìcola, inconscio, cinguetta e pigola nella nuova felicità… il càmion gargarizza… E la sirena della filanda non riesce a svegliar lo scrittore, che dorme della quarta mentre gli arriva in cucina, a pie’ scalzi, il latte appena munto; e già acido». Dove, a segnare in clausola la dissociazione polemica dell’episodio, Gadda usurpa addirittura cesure e puntazione dell’impressionismo più fitto (e neppure necessariamente più qualificato): quale d’un Anselmo Bucci. Sciolto dalla remora d’una successione «esauriente»; quando lo spettacolo non è più dispersivo spettacolo, ma visione, Gadda indugia, e fiorisce d’eccellenti immagini o aneddoti, sui due ragazzi morituri, la miglior pagina del Castello. Immagini, che veramente si distaccano verso la citazione: «E lo ricordo, bersagliere irrefrenabile, stregato di movibilità!… Poi, di giorno, egli andava a spasso nel parco lunàtico dell’Altipiano, bellimbusto inseguito dalle furenti cagne: si godeva come un monello le sue cannonate, saltava come il garzone del lattaio se schiva il furgone, o se deferisce all’incedere della matrona». E aneddoti (ma nell’inesorabilità dell’ultimo giorno del mondo): «Sedutosi, appoggiò il capo sul palmo sinistro, la mano armata la lasciò sul ginocchio, pareva un poeta fra le rovine, in una calcografia wertheriana. I fiumi nitrici, nel mezzogiorno, lo indussero in un lieve tossire, decorosissimo, come un po’ di raucèdine d’una persona ben educata… La grandine delle scheggie e dei sassi era la farina del nostro mezzogiorno, tutto andava alla fine! Chinò il viso, come per pensare o pregare un momento, come lord Byron, come un fanciullo al liceo…». Ma l’esistenza della bella pagina, nel gruppo degli «articoli di guerra», non rimane gratuita e sospesa: quel gruppo possiede in solido un’atmosfera tonale, ed essa nasce dal fatto che il raccontatore si sente come sede ordinatrice, e i ricordi son tratti a una significazione certo dimostrativa; non l’«opus oratorium maxime», ma opera di quella «conviction» che Pascal oppone alla «persuasion»; sotto l’impulso di questo sillogismo assolutamente ideale una certa «lunghezza» di tono si stabilisce, e si ripete (misura), e l’autore scopre delle unità ritmiche. Esempi: «quando la fumana e il fragore delle furibonde battaglie toglievano alle anime il piacere d’esser venute a sto mondo», ecc.; e «quegli uomini che sbranavano del manzo malvagio nell’ultimo sole della lor vita, e inutilmente deglutivano l’ultimo pane»; oppure «E bisogna sudare, ve lo giuro, parola di tenente degli alpini, parola di facchino mancato: parola di uno che ha tirato su il cavo della teleferica fino al Rifugio Garibaldi ed al Brizio, ai primi zefiri dell’aprile: lo spago era lungo qualcosa come 900 metri, sto maledetto serpente!». Manca lo spazio, a inseguir la grammatica del fatto esposto: la crescente insistenza delle coordinazioni, o il mutuo richiamo degli attributi successivi (manzo malvagio, ultimo sole, inutilmente deglutivano). Monelli (pensiamo a qualche celebratore «epico» della guerra) resta prosa al confronto, e al confronto Jahier sembra muovere da un verso preconcetto. È meno ovvio notare che non sono altra cosa da questa respirazione le «nature» montane, schiettamente lombarde nel loro contenuto, di crode gelate, di cristalli e diedri nel puro granito, di verdi baratri «come catarro verde»; vento e polline sulla brughiera; ghiaccio e stelle, la «gemmante notte dove decede sotto la saraccata il fiotto inconoscibile del Mandrone, gocciolato, da stillanti caverne, nell’orrore del profondo»; e un’alba, resurrezione corale della vita sul «ghiacciaio carogna», «la paura di finire con un piede di meno fu come fiato di tromba». Decede, saraccata, flotto inconoscibile: nella durata ritmica le «deformazioni» sono riabilitate una per una; all’origine sta la «deformazione» singola, solitaria, sobria: il ramìcola estratto più su, o gli alpini «bruciati dal nevaio come dal deserto le facce de’ mauri»; dove si sfronda il metodo delle analogie frettolose e, ripetiamo, troppo prossime, «Garibaldi, cornucopia metropolitana…» (ma basti l’indicazione di p. 103).
E in conclusione: abbiamo interrogato il diarista Gadda come colui a cui s’attribuisce eminente dignità riflessiva, chiedendogli, quasi come a pensatore, ragione delle sue «pretese»; perché egli sta in quell’inquieta regione dove l’uomo non sceglie ancora tra il meditatore e il poeta: sua vocazione è di non abbandonare il bivio, suo compito è non decidersi; sotto pena di finire virtuoso e tecnicista. Ma che un atto di scrittura non sollecitato dall’uomo in lui non riesca di trovarlo, bisogna pur riconoscere. E indipendentemente da ogni resa lirica: non vogliamo dimenticare, o sottintendere, nel lettore di Gadda la simpatia del lombardo che, come lui, si lusinga di saper risalire al fico Ruminale, intendiamo dire alle fonti della civiltà («patet quod [Mediolanum] secunda Roma vocari meretur»), e che fra Tor di Nona e il Portico d’Ottavia; fra Porta Portese e il Gianicolo, sa dove metter le mani.
Note
1. (Così in «Transition». Poi Finnegans Wake).
2. (Oggi è noto che c’è di meglio in altri piemontesi, Giovanni Faldella, lo stesso A. G. Cagna).
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© 2007-2024 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. First published in Solaria 9, no. 1 (1934): 88-93, with the title Carlo Emilio Gadda, o del «pastiche»; then as Primo approccio al «Castello di Udine», in Quarant’anni d’amicizia (Turin: Einaudi, 1989), 3-10. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
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