Latino e greco nel plurilinguismo
dell’Eros e Priapo

Antonio La Penna

Non credo che il plurilinguismo di Gadda risponda ad una funzione unica. Forse la funzione più frequente, e anche più propria di Gadda, è l’espressione magmatica, con punte liriche talora alte, del caos irrazionale, istintuale, mostruoso e feroce, angoscioso che sono il mondo e la vita. Certamente non manca la funzione mimetica; ma più che l’accostamento al mimetismo, abbastanza diffuso nella narrativa del realismo, usato anche da Pascoli in poesia, frequente ancora nella letteratura italiana dell’ultimo mezzo secolo (il caso più noto, forse, è quello di Pasolini) sarà calzante il ricorso al concetto, elaborato nella critica sul romanzo, specialmente dell’Ottocento, di empathy, cioè il metodo narrativo che ritrae la realtà dal punto di vista del personaggio in azione; solo che Gadda mescola in modo inestricabile l’empathy con la sympathy, cioè col commento del narratore (sono caratteristici i suoi continui interventi estrosi nel racconto). (1) Il plurilinguismo risponde anche al forte bisogno di espressività, che ricerca i mezzi in tutte le direzioni, dovunque possa trovarli, e ricorre anche alla deformazione innovativa (la libertà di innovare non è la stessa cosa che il mimetismo); non raramente coincide con l’espressionismo caricaturale e deformante; come Petronio, Gadda è un grande esempio di parodia. Bisogna infine ammettere che il plurilinguismo si unisce non raramente al preziosismo, e che in questa miscela non manca un virtuosismo capriccioso a futile. Ma è lontana da me l’ambizione di affrontare nell’insieme un problema così complesso e difficile: il mio proposito è di illustrare, limitandomi a Eros e Priapo, la componente latina e greca del plurilinguismo di Gadda. La presenza di questa componente non è confrontabile con quella dei dialetti italiani, ma neppure si può considerare marginale e merita maggiore attenzione: credo che sia, in complesso, più operante della componente francese. (2)

Il titolo, Eros e Priapo, richiama alla mente del lettore Petronio; ma non mi sembra che Gadda si sia mai incontrato con i due scrittori latini (ambedue narratori) che sotto certi aspetti gli erano più congeniali: Petronio col suo plurilinguismo, Apuleio col suo realismo prezioso. Il primo autore latino che incontriamo nell’Eros e Priapo, più precisamente nella prefazione, è Virgilio. Essendogli stato chiesto di accompagnare l’opera con qualche notizia biografica, Gadda si sottrae all’invito e argomenta così il rifiuto:

Il redattore non crede sia lecito farsi biografo, nemmeno per accenni, d’un essere solo e già circonfuso della silente fumèa che rende inetta al volo ogni ala al di sopra il lago mortifero: unde locum Grai dixerunt nomine Aornon.

L’autore dell’esametro latino non è citato; sappiamo che il verso proviene dall’Eneide (VI 242): probabilmente non è di Virgilio: manca in fondamentali codici antichi e appare una glossa dotta; quindi gli editori generalmente espungono il verso. Non sono in grado di appurare quale edizione di Virgilio Gadda avesse usato: può darsi che lì il verso non venisse espunto; ma, anche se era messo fra parentesi quadre, difficilmente Gadda si lasciava impressionare dall’espunzione, che avrà considerata una pedanteria di filologi, mentre trovava suggestivo il quadro del lago coperto di fumo su cui volavano gli uccelli. Proseguendo con la fantasia verso l’oltretomba il Gadda incontra il portitor, il traghettatore, cioè Caronte; nel ritratto barocco sono chiare le tracce di Dante, poeta molto familiare a Gadda, ma dalla Divina Commedia risale al VI dell’Eneide e cita il ritratto di Caronte: 298-301 e 304 (omessi 302-03). Alla fine della prefazione richiama, sempre dallo stesso brano del VI dell’Eneide, un quadro di attesa angosciosa, quello delle anime affollate sulle rive dell’Acheronte, che anelano di passare sull’altra riva:

La moltitudine anelante al tragitto implora il traghettatore, come rapita al di là d’ogni conforto brama verso la riva; e il poeta ne signifera le voci e i gesti, comuni a la turba, d’ognuno il gesto onde sollecita la sperata preferenza. Così e non altramente potrà del buio terrore biografare di sé quello per cui tali o tali altri vorrebbero farsi ad ultimo non domandati biografi.

E cita Aen. VI 305-08 e 313 sg. (omettendo 309-12). La liricità di questa prefazione deve molto all’Eneide.

Ben altro uso Gadda fa di Virgilio quando ricorre a lui come celebratore del filoimperialismo trionfalistico augusteo per la caricatura del Duce (o del «kuce», come egli lo chiama) e del fascismo. Vengono ricordate le vicende belliche dell’Africa del nord e dell’Albania nel corso della seconda guerra mondiale:

Così, cadauna due volte, andarono prese e poi riperdute a foco ed a sangue la Libia e Pollonia; due volte servite e disservite cadauna e trionfate, di que’ due lidi incorporandi ossia sponde, le genti.

Segue la citazione di Ge. III 33;

bisque triumphatae utroque ab litore gentes. (3)

Pare che Gadda abbia l’abitudine di citare a memoria: perciò il nominativo triumphatae invece dell’accusativo triumphatas, con uno iato non impossibile, ma insolito. A memoria egli cita da brani, alcuni dei quali tornano più volte nelle sue opere: tra questi, appunto, il proemio del III libro delle Georgiche: per es., quando, a proposito di teatri fastosi, ricorda «i battenti istoriati d’oro e d’avorio massiccio» (Adalgisa, RR I 428; Cognizione, RR I 692), ha in mente, come è stato già notato, il sontuoso tempio simbolico che Virgilio promette di erigere per Ottaviano in riva al Mincio (Ge. 11126 sg.):

In foribus pugnam ex auro solidoque elephanto faciam…

Un verso famoso della quarta ecloga (61: «Matri longa decem tulerunt fastidia menses») viene citato in una satira della politica fascista che promuoveva la prolificità delle donne (Eros, SGF II 265).

Tuttavia Gadda privilegia, a suo modo, il Virgilio della pietas e degli episodi commoventi: «la pietas erotico-celebrativa del Poeta (Camilla e il suo squadrone) o reverente-celebrativa (Palinuro)» (SGF II 352-53). Queste reminiscenze pongono qualche problema: non capisco come c’entra l’eros a proposito della vergine Camilla; l’episodio di Palinuro non si distingue per il sentimento di reverenza. Una memoria approssimativa e deformante si scorge dietro un accenno all’episodio di Eurialo e Niso: «Il plotone si volge tal fiata al tenente come Niso in pericolo al suo salvatore» (SGF II 277). Niso si rivolge ai Rutuli perché rivolgano contro di lui le armi e risparmino Eurialo (Aen. IX 427 sgg.): dunque egli cerca di salvare Eurialo, non di salvare se stesso. Deformazione non voluta; si constata solo che Gadda usava i suoi testi con tutta libertà e non sentiva nessun bisogno di controllo.

Una felice osservazione possiamo leggere a proposito dell’uso dei colori da parte di Virgilio; il passo riguarda il fasto della Chiesa cattolica e degli alti prelati:

E cardinale è prencipe in berlina dorata e non è straccione da canto di strada: esibisce i colori che Vergilio e il Doge tanto amavano e io pure, dietro a Vergilio e al Vecellio; e cioè porpora a oro. (4)

Mi pare che tra i poeti antichi il più familiare a Gadda sia Orazio. «La funeraria priapata di codesto cervellone» (cioè del «kuce») viene accostata alla cupa lussuria di Tiberio nella sua solitudine di Capri (una delle pagine più notevoli di Gadda); il quadro gli è suggerito da Svetonio o da Tacito, che egli richiama esplicitamente; al vecchio che si spegne in preda ad «un rancuroso delirio persecutivo» egli contrappone il giovane che, erede delle virtù della gente Claudia, cruda fierezza e sagacia, aveva vinto Reti e Vindelici; e a questo proposito egli cita un verso di una nota ode di Orazio (Carm. IV 4, 73): nil claudias sic non perficiunt manus. Anche qui cita a memoria, sostituendo l’acc. Claudias, che non dà senso, al nom. Claudiae. Per ragioni che non saprei indicare, questa battaglia del Metauro, nell’evocazione di Orazio, rimase impressa nella memoria di Gadda e torna con insistenza nelle sue opere. (5) Al quadro del giovane condottiero vittorioso segue quello, ispirato da ammirazione, dell’imperatore prudente, che rinuncia ad una politica di espansione:

Tiberio Cesare antepose per tal modo la incolumità e le fortune vere dello stato alla jattanza d’un proprio fanfaronesco trionfo. Ne oblivimini, quaeso. Date suum unicuique.

Se il priapismo del «kuce» fa pensare alle turpitudini senili di Tiberio, la sua prudenza di governo viene contrapposta alla farsa vanagloriosa dell’imperialismo fascista (SGF II 227 sgg.) Non sembra che Gadda disprezzasse le odi politiche di Orazio, che pure non brillano per ispirazione poetica. Accennando con ripugnanza alle bambine che a quattro anni imitano le madri truccandosi, egli ha presente il quadro della corruzione morale nella Roma augustea che Orazio traccia nell’ultima delle odi romane; cita, infatti (Carm. III 6, 22 sg.):… et fingitur artibus | iam nunc…; e commenta: «artes è quel che vo’ vu’ dite maquillage o trucco» (SGF II 305). Da questa stessa ode egli raccoglie sul serio l’ammonimento contro «la morbosa tendenza a innalzarsi (sic), ad eccellere (sic) in forma scenica e talora delittuosa, senza discriminazione etica: senza subordinare l’Io a Dio»; e cita (Carm. III 6, 9): Dis te minorem quod geris, imperas. Divertente la nota che Gadda aggiunge fra parentesi: «La virgola ce l’ho messa io, per proprio comodo» (SGF II 347). Dobbiamo credere che la virgola mancasse nell’edizione (forse un’antologia scolastica) che aveva sotto gli occhi; si trova, però, nelle edizioni più note dalla fine dell’Ottocento in poi; probabile che con la nota Gadda volesse sfottere i filologi pedanti: la caricatura della filologia affiora anche qualche altra volta nelle opere di Gadda: credo che ad essa si possa ricondurre l’ostentazione di etimologie arbitrarie; diversa la polemica contro gli storici, di cui gli danno fastidio l’idealismo e il teleologismo. Un’altra ode politica rimasta nella memoria di Gadda è quella, ben nota, in cui compare la metafora della nave nella tempesta, riferita alto Stato (Carm. I 14):

Oh, l’avesse gridato daddovero, tira a la riva! («Fortiter occupa portum», Orazio) codesto pilota che a inabissar la nave ne richiedeva il silenzio.

Il riferimento va, per contrasto, al pilota della sciagurata Italia contemporanea.

Si sa che di solito componimenti iniziali e finali di libro restano più facilmente nella memoria: ciò vale, in qualche misura, anche per Gadda. Quando egli evoca, in un breve, ma molto efficace quadro caricaturale, la demagogia e le parate spettacolari con cui il fascismo conquistava le masse, gli vengono in mente i ludi usati dagli edili della plebe di Roma antica e la mobile turba dei Quiriti che innalzava i suoi prediletti alle alte cariche, e cita dalla prima ode di Orazio (Carm. I 1, 7 sg.):

Hunc si mobilium turba Quiritium
certat tergeminis tollere honoribus. (SGF II 282)

Una citazione di questo proemio ricorre anche nel Pasticciaccio: questa volta è il cacciatore che manet sub Iove frigido (Carm. I 1, 35), dimentico della tenera sposa (RR II 90). Ma l’ode di Orazio che più insiste nella memoria di Gadda, è, se non erro, il commiato del libro II, più precisamente l’ultima strofa, in cui il poeta chiede per sè funerali senza lamenti, senza grida di invocazione e senza fasti; Gadda se ne ricorda quando condanna con disgusto l’ostentazione del lutto:

Absint inane funere neniae
luctusque turpes et querimoniae
………….....sepulcri
mitte supervacuos honores. (6)

Con tutta probabilità è il funerale che Gadda desiderava anche per sè. Il ricordo, dolorosamente tenace, di questa strofa affiora più volte, non per caso, nella Cognizione (RR I 730, 771). A parte, però, questo passo, non si può dire che la meditazione lirica di Orazio sulla morte abbia lasciato una traccia ben visibile in Gadda. In una bizzarra invettiva contro l’attaccamento ai propri beni, manifestazione di follia narcisistica, egli cita Carm. II 14, 22-24 (solo i cipressi seguiranno il padrone nell’oltretomba). (7) Uno dei passi più amati pare la rapida evocazione degli appuntamenti serali degli innamorati nell’ode famosa che incomincia con la veduta del Soratte coperto di neve (Carm. I 9, 18 sg.). Nell’Eros e Priapo, veramente, la citazione è fatta ad altro proposito e sembra un capriccio insignificante: siccome immediatamente prima che a Orazio accenna al Campo Marzio, frequentato dai giovani romani per gli sport, Gadda se ne ricorda a proposito delle esibizioni sportive del capo del fascismo, associate ad altre esibizioni di virilità (SGF II 359-60); ma in altre opere si scorgono indizi che egli era affezionato a quell’abbozzo di fresca scena erotica: nel Pasticciaccio, a proposito dei primi amori di una donna presto abbandonata, ascoltiamo «i leni susurri al cader della notte»; ma sono convinto (o quasi) che l’ipogramma oraziano sia sotto «i liquidi susurri» di serve e granatieri, «ne’ viali, a ora di sera» (Pasticciaccio, RR II 147; Castello, RR I 269).

Queste reminiscenze vanno tutte all’Orazio lirico, che certamente Gadda privilegiava; ma almeno una traccia dell’Orazio satirico (benché il passo in questione si trovi in un’epistola) mi pare di scorgere. In una pagina che ho avuto già occasione di ricordare, quella che mette in caricatura l’attaccamento alle ricchezze, l’ostentazione, le vanterie dei ricchi, Gadda disegna la caricatura di un cacciatore vanitoso (il bersaglio, naturalmente, è sempre lo stesso):

Vanta oggi l’arme e il focile: e quella gran macchina, e quel gran tuono, è da fulminar passerette. Vanta lepre detto da noi lepora ch’egli ha impallinato quando non occiso: reduce di gran gambate a i’ borgo, se non porrà glorioso dentro casacca lasca le sei ch’egli ha crompo, di mercato manco, al più lesto se non più fortunato che lui. Cacciatore e vanitoso, grande. (Eros, SGF II 365)

Questo cacciatore che ostenta selvaggina comprata, rassomiglia molto ad un personaggio, un certo Gargilio, che Orazio deride in una sua epistola satirica (Epist. I 6, 57-61):

Grangilius – qui mane plagas, venabula, servos
differtum transire forum populumque iubebat,
unus ut e multis populo spectante referret
emptum mulus aprum –…

Dunque al mattino grande ostentazione di apparato venatorio alla folla stupita, ma la sera riporta sul mulo un cinghiale comprato.

Dalle altre opere di Gadda (di cui, però, io ho solo una conoscenza parziale) ricordo un solo accenno (non esplicito) a satire di Orazio: nella Cognizione (RR I 723) l’aggettivo ficulno, riferito ad un bastoncello di cui si serve un raccoglitore di funghi per frugare nell’erba, proviene, com’è stato già notato, da una satira di Orazio (I 8, 1), farsesca e di gusto un po’ barocco. Di questa satira e di quella del viaggio a Brindisi (I 5), sono state notate altre tracce.

Gli altri poeti augustei sono quasi assenti; ma almeno due tracce si scorgono di Ovidio. Nella rievocazione di un’atroce scena di guerra nella mente di Gadda torna, da Ovidio (Met. XV 400), l’immagine della fenice che brucia nei profumi per poi rinascere (finitque in odoribus aevum) (Eros, SGF II 273 sgg.). Fu affascinato dall’episodio di Eco:

Desolata udì Eco eternarsi, contro rupe, il vano chiamare. E Ovidio ne trasse pagina per il meraviglioso poema (Ovidio, Metamorphoseon, lib. XV). (SGF II 372)

L’episodio di Eco, però, è nel III libro (356-510), non nel XV. Va rilevata l’ammirazione di Gadda per le Metamorfosi (probabilmente egli conosceva, di Ovidio, solo brani di quest’opera): un giudizio significativo, che non stupisce, ma che andrebbe spiegato.

Scarsa la presenza di Catullo nell’opera di Gadda; anche quando la si avverte, è, a parte qualche punta oscena o caricaturale, poco viva. Nell’Eros e Priapo una volta, a proposito di beni di lusso, menziona «il phaselo» e «la lectica»: echi effimeri di carmi catulliani (4, 1; 10, 16) (SGF II 365). Inoltre credo che una reminiscenza evanescente da Catullo (probabilmente non derivata da lettura diretta) abbia causato un errore. Dissertando sulla donna, Gadda accenna una volta, molto fugacemente e fra parentesi a Virgilio: «Virgilio, Eneide, donne abbandonate nell’isola» (SGF II 256): pensa, naturalmente, a Didone; ma Didone non viene abbandonata in un’isola: in un’isola viene abbandonata l’Arianna di Catullo.

Poeti, dunque, dell’età augustea e della fine della repubblica. Al di fuori di quest’area si collocano Plauto e Fedro. Il volgare e grottesco capo del fascismo viene assimilato più volte a Pirgopolinice (questo è un Leit-motiv di Eros e Priapo): «il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso» (SGF II 227); «il Pirgopolinice degli spettacoli e delle fanfare» (SGF II 247 sgg.); «Pirgopolinice il glorioso non fu capace di sublimazione dell’amore cioè dell’impulso parallelo all’amore, ma solo di priapesca per quanto funesta vantardigia» (SGF II 275); «Quegli imitatori della bucca, e del caffo, di Pirgopolinice, Faccia feroce…» (SGF II 285). (8) Gadda doveva sentirsi congeniale con la comicità deformante ed estrosa di Plauto; ma questi passi non bastano a dimostrare che egli lo avesse letto; né so se si possano trovare tracce abbastanza chiare nelle altre opere: occorrerebbe una piccola ricerca apposita. Invece ha letto qualche favola di Fedro. Vale la pena di trascrivere il passo in cui cita la brevissima favola della volpe e della maschera:

Dal punto di vista dell’Uno e Mimico, dico che udendo quel grido, egli è tirato ad enfiar sé e a formare di sé quella persona da scene di cui mirabilmente ebbe a narrare in una sua favola il Fedro, uomo elegantissimo:

Personam tragicam forte vulpes viderat:
O quanta species! inquit, cerebrum non habet.

Cerebello non ha: dacché impriapato la persona tutta, unica sua cura e ineluttabile conato è questo: ch’ei percepisce, raggiunge, «plasma», tiene, subiuga la sua folla in qualità e come in carne di femina: e plauditrice grandissima. (9)

Cita di nuovo la favola a proposito degli atteggiamenti ultraistrioneschi del solito personaggio:

Sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere in su’ maniera: e nient’altro… (SGF II 356 sgg.)

A proposito della politica imperialistica e dei pretesti per giustificarla Gadda cita un verso della favola del lupo e dell’agnello (SGF II 294); a proposito del narcisismo del demagogo cita la favola del gracchio che si adorna delle penne del pavone:

Allorché un narcisista-cornacchia delibera nobilitare il deretano suo col pavesarlo tutto di pavonesche penne all’ingiro:

pennas pavoni quae deciderant sustulit
seque exornavit

(e qui si dibatte del pavone etico ufficiale), è naturale cosa ch’egli accetti indistintamente le più variopinte inanità dell’iride. (SGF II 351)

Anche La Fontaine era poeta familiare a Gadda. Questi contatti andrebbero illuminati in una trattazione su Gadda autore di favole; qui mi limito a segnalare la funzione demistificante della favola esopica in Eros e Priapo, una lunga satira della più istrionica mistificazione che l’Italia abbia conosciuta. Tuttavia anche la conoscenza di Fedro è, probabilmente, limitata: si osserverà che le tre favole citate sono tutte del I libro.

Il prosatore latino più presente in Eros e Priapo è, se non erro, Cesare. Particolarmente un episodio, del resto famoso, e giustamente famoso, gli era rimasto nella memoria, come si vede anche da altri scritti (Castello, RR I 128): il terrore da cui fu preso l’esercito romano mentre si avvicinava a quello germanico di Ariovisto, e il discorso con cui Cesare mutò rapidamente quello stato d’animo (Bellum Gallicum I 39-41). Un po’ bizzarro, ma consono con la logica di Gadda, è l’uso che egli fa di questo episodio: la capacità di persuasione e suggestione che Cesare ha sul consiglio degli ufficiali, è affine al fascino che il capo del fascismo esercita sulle donne italiane: dietro c’è un concetto che assimila la collettività alla femmina suggestionabile e volubile, un concetto diffuso in teorie di psicologia della massa degli inizi del Novecento; ricorre, per es., nel nazionalista Scipio Sighele, fu assimilato da Mussolini e da Hitler. Anche una collettività militare è una femmina che il maschio, cioè il capo, può manipolare. Ecco l’argomentazione di Gadda:

Casi classici e di facile indagazione si presentano nel movere le collettività militari. Gran rapporto di Cesare agli offiziali in ogni grado, discritto nel primo libro della guerra gallica, da persuaderli andare di buon animo contro al re Ariovisto avversaro: dove Cesare è mastio: ed è femina la spaurita collettività degli offiziali sua: femina da prima tribolata e testante (10), come davanti a morte secura, poi revigorita a consenziente, come dopo carezza d’amoroso. (SGF II 277)

Da letture fatte negli anni delle scuole medie, che frequentai sotto il regime fascista, ricordo che questo episodio fu narrato in modo esaltante (per la mia emotività di allora) da Alfredo Panzini. Anche Gadda ne subì il fascino. Dallo stesso episodio (B.G. I 40, 5) proviene anche l’altra citazione di Cesare in Eros e Priapo (SGF II 246; usus ac disciplina quam a nobis accepissent: si riferisce agli schiavi ribelli di Spartaco).

Gli scrittori latini che compaiono in questa rassegna, sono gli stessi che troviamo, per quanto ne so, nelle altre opere di Gadda: si aggiungono Livio e, con maggior peso, Cicerone. Una prima conclusione si impone con evidenza: gli autori latini di Gadda sono quelli che ha letti nel ginnasio e nel liceo classico (il «Parini» di Milano): lettura antologica; può darsi che per conto suo avesse ampliato, ma non di molto, le conoscenze: un impulso poteva venire dalla madre, Adele Lehr, professoressa di lettere e di francese, che aveva scritto un Contributo alla storia romana dalla morte di Giulio Cesare alla morte di Cicerone (pubblicato nel 1891). L’origine scolastica delle conoscenze di testi è dimostrata anche dalla presenza, benché molto rara, di elementi di grammatica latina, per es., paradigmi di verbi. (11) La formazione linguistica di latino data dalla scuola non si dimostra fragile: si nota, come abbiamo visto, qualche errore di memoria, ma non troviamo fraintendimenti grossolani, come in Ezra Pound. Basata da queste letture scolastiche, l’idea di Roma che Gadda s’era fatta, non è negativa: nonostante l’accenno alla corruzione dei costumi in età augustea, suggerito, come abbiamo visto, da un’ode romana di Orazio, la Roma che egli ha in mente, è una Roma sana e vigorosa; a formare questa immagine avrà contribuito anche la lettura di Carducci, la cui opera poetica frequentò e amò (forse la presenza di Carducci nelle opere di Gadda non è ancora bene esplorata). Quindi resta quasi assente un’immagine di Roma diffusa dalla metà dell’Ottocento in poi, formatasi sulle pagine di Petronio, Marziale, Giovenale, Tacito, Svetonio, cioè la Roma putrida e crudele, ma non priva di fascino, di Messalina, Agrippina, Nerone, Domiziano. In Eros e Priapo non è Roma antica l’oggetto della grottesca satira, ma la Roma fascista: il culto della romanità alimentato e ostentato dal fascismo fa risaltare più vividamente la pomposa miseria morale e la fiacchezza di muscoli del regime.

Tuttavia, se è vero che quasi solo gli autori letti a scuola hanno lasciato qualche traccia, è anche vero che non tutto il latino di Gadda è passato attraverso questo canale. C’è qualche traccia di latino biblico, specialmente del Vangelo di Matteo, e di latino della liturgia cattolica; in altre opere viene citata qualche iscrizione latina; alcuni, anche se rarissimi, elementi provengono dalla letteratura filosofica e scientifica moderna in latino: è opportuno ricordare che Gadda nel 1922, già laureato in ingegneria, si iscrisse all’Accademia scientifico-letteraria di Milano con l’intenzione di laurearsi in filosofia; anche se non poté continuare in questa direzione, frequentava, però, opere di filosofi moderni che scrissero in latino, o anche in latino, come Spinoza e Leibniz. Infine va tenuto conto del latino entrato nella lingua comune del ceto colto, non solo di quello dotto, del nostro paese. Da queste diverse aree provengono nel plurilinguismo di Gadda non rari elementi lessicali: ne segnalerò alcuni, limitandomi a Eros e Priapo: nisi (SGF II 237), sine, in volgus, «cioè comunemente» (269; 303: forse coniazione di Gadda), hodie (SGF II 234). Dalla psicanalisi, per la quale Gadda nutriva non poco interesse, proviene lubido, da cui egli coniò autolubido (323) e iperlubido (367); da Freud, esplicitamente, invidia penis (348; 353). Dal linguaggio scientifico provengono le «maculae o foculae della foto-sfera solare» (312): suppongo (senza esserne certo) che Gadda abbia foggiato foculae per analogia con maculae: in latino sono attestate le forme foculus e focula, -orum. Non raro il ricorso a frasi latine correnti, che in parte risalgono ad autori antichi (per es. SGF II 277, modo vita supersit proviene da Virgilio, Ge. III 10, cioè da un proemio ben noto a Gadda); qualche volta, però, le frasi sono coniate col gusto della caricature deformante: per es., tempore vendemmiae (SGF II 268); ad majorem gloriam viduae, a proposito delle vedovone che fanno pompa del loro dolore (SGF II 373). Queste ultime frasi rientrano nel divertimento del latino maccheronico, che qualche volta Gadda si concede. In Eros e Priapo, per es., l’ammonimento Ne oblivimini, quaeso. Date suum unicuique (SGF II 227). Probabilmente il maggiore exploit di latino maccheronico nelle opere di Gadda si trova in una battuta con cui egli reagisce all’encomio che una nobildonna gli fa del valore dimostrato da Edda Ciano, novella Clelia, quando, durante la seconda guerra mondiale, una nave ospedale, su cui la contessa prestava servizio di crocerossina, fu silurata dagli Inglesi nella baia di Valona. Incomincia con «Hic Patria, hit salta»; e qui Gadda, ostentando la sua erudizione, annota che la frase deforma «Hic Rhodus, hit salta», che egli conosce da Cicerone; poi prosegue con irruente vena plautina (SGF II 317 sgg.):

Sitisne? Excurisne? Pedesne? Valde gaudeo, sus. Nam jam jam Adamillum montem inter omnes Alpium montes nivalis comitissa non insiluit, neque pater patriae qui Faba Magna in volgus appellatur quique Faba Maxima Unica a Sophonismis. (12) Ricciolonibus jactatur.

Gadda vanta, implicitamente, la sua perizia e il suo ardimento di alpinista. Pagina gustosa; ma il peso del latino maccheronico in Gadda non va esagerato; pur essendo egli un ammiratore di Folengo (e di Rabelais), le esibizioni di latino maccheronico restano, mi sembra, sporadiche e marginali.

Probabilmente la più larga presenza del latino in Gadda non è nelle citazioni e nel lessico in latino, ma nei latinismi che usa in italiano. Per darne la prova occorrerebbe una lunga e minuta trattazione (e si potrebbe compilare un piccolo dizionario), ma qui mi limito ad alcuni esempi. Un latinismo da lui prediletto è « ossedente» (mi riferisco, anche ad altre forme dello stesso verbo) (SGF II 253): la predilezione per questo vocabolo è dimostrata dalla presenza in altre opere. (13) Inoltre «cluni» («tutto il macchinozzo del bacino e de’ cluni», SGF II 268); «minace» (284: «la minace bucca le ganasce quadre del Furioso Ingrogato»); «divozione» come traduzione del latino devotio, il sacrificio della propria vita agli dèi inferi (301); «lachi zanzarosi» (305); «lari tumultuati» per «violazione di domicilio» (341); «il treno pòstico e i seni» (361, e anche 359); «cipolla deflente», cioè «che fa piangere» (372). Si tratta, come si vede, di latinismi lessicali; l’unico caso che io ricordi di latinismo morfologico, caso esilarante, è «bischerrimi» (331), a cui va unito «bischerrimamente» (349): da felice ispirazione toscana. Ai latinismi e grecismi si possono aggiungere, in grande quantità, i riferimenti alla mitologia e, in misura minore, alla storia antica.

Molto più modesta la presenza del greco. Tuttavia fra i narratori italiani è il solo, per quanto ne so, che nelle sue opere scrive parole in greco; oggi sarebbe inimmaginabile. In Eros e Priapo troviamo ἥρως (274), συμπάθεια e ἀντιπάθεια (281), ρεῦμα (370); πομπή (372). Qualche volta trascrive il greco. Un caso curioso ricorre in un passo che deride la vigliaccheria del solito personaggio: dopo essersi vantato di pilotare gli aerei «personalmente», ora, al solo pensare alla caccia di Montgomery, «si sentiva i borborigmi nella epizümìa» (SGF II 228). Evidentemente «epizümìa» è trascrizione di ἐπιθυμία; ma ἐπιθυμία significa desiderio, passione, mentre qui si riferisce ad una parte del corpo, cioè al ventre. Ricorre anche qualche raro caso di grecismo: per es., «sicinnide» (un’antica danza comica greca) (SGF II 239) (14); «batrace a cavallo» (356); «il Batrace Tritacco» (286: splendida caricatura).

Anche la cultura greca di Eros e Priapo (e delle altre opere) deve qualche cosa alla scuola media. Un testo rimasto nella memoria è l’Anabasi di Senofonte: a proposito delle vicende della seconda guerra mondiale nell’Africa del nord Gadda pensa alla marcia di andata e ritorno di Senofonte (229: «La rotta, la disperata anàbasi»); a quella marcia ricorre il pensiero, quando, poco dopo, a proposito del passo romano, evoca «le cosce villose dei diecimila» (SGF II 230). Probabilmente agli anni di studi di filosofia risale il contatto con Platone. Eros e Priapo è, sì, una satira grottesca del fascismo e soprattutto del suo capo, ma risponde anche ad un bisogno di capire attraverso un’analisi psicologica; per tale analisi cerca una guida anche nella concezione platonica dell’anima – ecco un momento di questa riflessione (SGF II 231 sgg.):

Mi propongo annotare ed esprimere […] quegli impulsi animali a non dire animaleschi da i’ Plato per il suo Timeo e per il Fedro topicizzati nello ἐπιθυμητικόν, cioè nel pacco dello addome ch’è il gran vaso di tutte le trippe i quali impulsi o moventi hanno tanta e talora preminente parte nella bieca storia degli omini, in quella dell’omo individuo, come in quella d’ogni aggregazione di òmini.

Il termine, ἐπιθυμητικόν, è scritto in greco, ma non del tutto esattamente. Teoria e termine vengono da Aristotele, che, però, segue Platone, e il termine indica la sede dei desideri dell’anima; l’addome viene indicato, drasticamente e con disprezzo, da Gadda. Ora capiamo meglio il passo sull’ἐπιθυμία.

Poiché siamo tornati alla filosofia, propongo, alla fine, un piccolo problema filologico. Nella lunga indagine psicologica Gadda osserva (320 sgg.): «Fortissima è, nel dodicenne, l’attrazione a rubar frutta, che poi risulta incomestibile»; e spiega questa attrazione con «una vera e classica lubido narcissico-esibitiva. (I compagni ammirano e vorrebbero imitare l’eroe)». Mi pare certo che Gadda sia partito dal famoso episodio del furto delle pere nel II libro delle Confessioni (9-18) di Agostino e dalla spiegazione che il filosofo cristiano ne dà; Freud si sovrappone ad Agostino: questo intreccio avrebbe bisogno di un’analisi attenta, per la quale questo non è il momento opportuno.

Come il plurilinguismo in generale, così l’uso del latino da parte di Gadda non è riconducibile ad una sola funzione. Anche i testi latini letti a scuola offrivano materiali e stimoli nella molteplice ricerca di espressività; nell’Eros e Priapo si offriva la particolare ragione che il fascismo voleva presentarsi come il ritorno della Roma imperiale e così faceva risaltare meglio il suo aspetto carnevalesco; e la carica demistificatoria di Fedro contribuiva a svelare la farsa del potere. La presenza di Virgilio, però, ha anche una funzione diversa, quella di contribuire alla Cognizione e all’espressione del dolore. Infine il latino serve efficacemente al lusus comico che l’amarezza della satira non elimina.

Università di Firenze
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Note

1. Questi concetti furono trasportati nell’analisi dei testi di Virgilio da Brooks Otis, Virgil. A Study in Civilised Poetry, Oxford 1963; l’impostazione fu in parte accolta, in parte modificata da me nello studio Sul cosiddetto stile soggettivo e sul cosiddetto simbolismo di Virgilio, in Dialoghi di archeologia 1 (1967): 220-44.

2. Tuttavia Flores 1964: 381-98, costituisce un felice avvio; quando Flores scriveva, Eros e Priapo non era stato ancora pubblicato in edizione completa (ed. parziale in Officina, nel 1955 e 1956). Scarsi accenni nel saggio, peraltro egregio, di Roscioni (Roscioni 1969a); qualche buona annotazione in più nella bella monografia di A. Pecoraro (Pecoraro 1998a). Sulla cultura classica nella formazione di Gadda e nelle prime opere, fino al Castello di Udine, va visto l’articolo di Dante Isella (Isella 2001b: 105-15).

3. SGF II 230 sgg.; Pollonia è Valona.

4. SGF II 371. Si noterà il preziosistico Vergilio, pascoliano e dannunziano.

5. Cfr. Castello, RR I 132; Adalgisa, RR I 392, 452, 473; Cognizione, RR I 595.

6. Eros, SGF II 372 sg. – un indizio che egli citi a memoria è nel delecte Maecenas invece di dilecte. Il commiato del III libro è presente più volte nell’Adalgisa. Cfr. RR I 409; con molti dubbi sospetto a p. 457 «così la muta ostia dietro il garzone del Flàmine» una lontana eco di Carm. III 30, 9 scandet cum tacita virgine pontifex. Forse anche Adalgisa, RR I 467 & 479, «dopo la silente galoppata di Libitina» presuppone III 30, 6 sgg.

7. Eros, SGF II 364. Il famoso Omnes eodem cogimur (Carm. II 3, 25) è citato nell’Adalgisa, RR I 467.

8. Cfr. anche SGF II 274; 296.

9. SGF II 279. Il grido è quello che viene dalla massa idolatrante.

10. I tribuni militum, atterriti nella previsione della morte, facevano testamento (B.G. I, 39, 5).

11. Cfr., per es, Eros, SGF II 240 «conoscere (novi, novisse)»; Cognizione, RR I 618, 627 (paradigma di donare e di obferre).

12. Deformazione voluta, credo, per Sophonisbis.

13. Cfr. Castello, RR I 168, 172; Adalgisa, RR I 488; Cognizione, RR I 488; Pasticciaccio, RR II 31; 157.

14. Cfr. Castello, RR I 160.

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