Introduzione
alle poesie di Gadda

Maria Antonietta Terzoli

Quando vorrai ascoltare i profondi poemi che come la germinazione della tua gente si diffondono oltre il pulsare delle tue vene? (Racconto, SVP 577-78).

Con imbarazzo e alquante precisazioni, nel settembre del 1954 Gadda rispondeva a un’inchiesta del settimanale Epoca, sulle prime prove di poeti e scrittori, illustrate dalla loro viva voce:

Molti i conati, dai tredici in poi. Endecasillabi e prosa. Ottave infinite. Copiose terza rima. Ebbi rima facilissima, di tipo “estemporaneo”. (Ugo Betti, a Cellelager, mi disse un giorno a titolo di beffa e di sfida: ebbene, fammi una rima in acca. Ed io du tic au tac: – Cecca bislacca fa la vacca stracca.) […] La prima estrusione formalmente accettabile, nella fattispecie un sonetto, è del settembre-ottobre 1910: anni miei pressoché diciassette. Non vale molto, s’intende. Mi ero proposto di occupare il sonetto con un unico periodo sintattico, disdegnando l’enunciazione franta e per così dire disossata, non sorretta da un’impalcatura sintattica di tipo conforme: (scheletri dei grandi vertebrati nei musei).

Lo scrittore ormai affermato, nell’atto di confessare la priorità cronologica del verso rispetto alla prosa, deprimeva la portata di quei primi esercizi, designati con qualche sprezzatura “conati”, ascritti a una lontana giovinezza. Se poteva riconoscere che i versi si ponevano all’esordio della sua carriera, più difficilmente avrebbe ammesso che la loro frequentazione non era relegata a quegli inizi.

In realtà, dopo quell’esordio, la poesia non era mai stata del tutto intermessa dal prosatore. Seppur desultorio, l’esercizio si estende su un arco cronologico molto ampio: dal 1910, data presunta del primo testo, al 1963, anno dell’edizione in volume di una poesia del 1931, Autunno, già uscita su Solaria, e poi rielaborata come possibile finale lirico della Cognizione del dolore. Una singolare autocensura è però attiva in Gadda nei riguardi dei suoi versi, e fa sì che alla priorità di stesura in pratica non corrisponda precocità di pubblicazione. Gadda dà alle stampe il suo primo componimento solo nel 1932, dopo essere già uscito allo scoperto con vari scritti in prosa. Pochissime sono, nel seguito, le occasioni editoriali, e quasi sempre contingenti ed esterne: si tratti di inediti richiesti allo scrittore ormai affermato, partecipazioni a numeri in memoria di amici scomparsi, o primizie sollecitate in occasione di premi e riconoscimenti.

Mai approdate a una raccolta d’autore, le poesie già sparsamente edite e quelle mai stampate – in qualche caso, addirittura incompiute – si raccolgono ora per la prima volta in un volume che propone l’intero corpus. Non per il gusto dell’inedito, ma per rendere ragione di un aspetto dello scrittore rimasto in ombra. La censura dell’autore è stata, in effetti, così perentoria da coinvolgere nel suo silenzio anche i critici, poco attenti a questa zona oscura della produzione gaddiana, a parte le felici eccezioni di un lettore privilegiato come Gian Carlo Roscioni e di un esperto di lirica come Guglielmo Gorni.

Il desiderio di relegare le proprie poesie in una preistoria non definita, fissata in una rigidità da museo, si lascia riconoscere bene nell’articolo di Epoca, dove Gadda, per descrivere l’«impalcatura sintattica» del primo componimento, evoca gli «scheletri dei grandi vertebrati nei musei». Immagine emblematica per uno scrittore che aveva da poco licenziato un libro di favole in cui a uno scheletro di dinosauro era appunto affidato l’antico adagio «Oggi a me, domani a te», trasparente riscrittura di un memento mori: «Hodie mibi, cras tibi» («Il dinosauro, fuggito dal Museo, incontrò la lucertola che ancora non vi abitava. Disse: “Oggi a me, domani a te”», favola 20 – SGF II 17).

Ma chi volesse trovare un emblema più adatto a queste prove della scrittura di Gadda, evocherà piuttosto quello di «plasma germinativo». Nell’Adalgisa, l’immagine si riferisce alla continuità delle generazioni degli uomini: ma pare adatta altresì a indicare il carattere primo della poesia, che più di ogni altra scrittura gaddiana – Cahier d’études e Giornali compresi – si configura come stadio iniziale per eccellenza, primo grado di aggregazione biologica o fisica, germine di organismi più complessi.

All’indifferenziato come tratto distintivo di una raccolta in versi è sensibile lo stesso Gadda, che lo riconosce, con eccesso forse di proiezione autoesegetica, nel libro dell’amico Betti, Il re pensieroso, testo decisivo per la sua propria poesia e altri esiti di scrittura. In una lettera all’amico del 25 agosto 1922, a proposito del libro riletto nella sua recente veste editoriale, ma già frequentato con passione fin dai tempi della comune prigionia a Celle-Lager, Gadda confessa: «Il carattere unitario del tuo poema balza agli occhi: p.e. mia sorella, che non è una cima, ma non è neanche scema del tutto, a cui diedi il libro da guardare senza commenti, mi disse che le tue poesie “si rassomigliano un po’”. – Ciò significa in lingua povera che i richiami, i ritorni, gli allacciamenti dell’edificio si palesano, forse più intuitivamente che criticamente, anche a chi non è stato prima specialmente iniziato» (Gadda 1984a: 67).

E appunto richiami, ritorni e allacciamenti costituiscono il primo e più riconoscibile carattere della poesia di Gadda, costruita tutta attorno a pochi temi ossessivi (quelli del Gadda prosatore), con recuperi anche a distanza di frammenti e di versi. Il commento che si è allestito, senza alcuna pretesa di esaustività, ne rende conto largamente: basti dunque, qui, una rapida campionatura. Il livello più semplice è costituito dall’iterazione di stilemi minimi, come «Fa radunata» ([7], 10 e [13], 156), «rorida vita» («Soffio della rorida vita» [6], 76; «polla della rorida vita» [13], 122), «gole profonde» ([14], 20), «profonde gole» ([17], IVa, 3), e così via. Ma la ripresa si presenta anche in maniera più articolata, come graduale approssimazione a diverse possibilità espressive, fino a coinvolgere più versi: «Il mio passo vi cerca la strada» ([6], 16), «Il mio passo è vano» ([7], 25), «Il tuo filo cerca | Nel piano una via» ([8], 4-5); «Forse qualcosa ho scordato | Forse un pensiero per la felicità | Forse un antico mistero | De’ miei che non mi fu palesato» ([16], 20-23), «Ed animarci così vogliate del vostro mistero | Che ancora non ci fu palesato. | Dove si perde il vostro ritornante pensiero?» ([17], III, 4-6). Talora la ripresa lessicale comporta anche il calco di elementi strutturali e retorici: per esempio il modulo iterativo di «Qualcosa disparve; si sente. | Niente, niente» ([12], 50-51) e ripreso nella forma: «Ma qualcosa, qualcosa ho lasciato | Quando quando si ritroverà?» ([16], 41-42).

Il recupero, e la ridistribuzione, degli stessi elementi tematici e lessicali in pagine anche molto lontane, costituisce una pratica più volte segnalata dai critici, segnatamente da Contini e Roscioni. L’autore tentava di giustificarla fin dal 1924, adducendo una ragione di natura per così dire ontologica, quando annotava nel Cahier: «Ci duole ritornare sulle nostre righe, ma anche altri, la Vita, ritorna sulle sue» (Racconto, SVP 437). Qui importa però sottolineare l’antichità del procedimento, che si manifesta fin dalle origini della scrittura. O meglio presiede alla sua nascita e in qualche modo ne determina il seguito. A conferma di una necessità che per Gadda è vitale: in senso etimologico, si vorrebbe dire. Il corpus delle poesie consente di verificare, quasi in forma sperimentale, la nascita, la persistenza e l’amplificazione del procedimento, che partendo dal verso si estende progressivamente alla prosa.

L’opera che più attinge agli antichi componimenti è quella che ha carattere di mediazione tra la «fulgurazione» della poesia e le «brume o le nuvole ampie e rotonde del discorsivo», cioè il Cahier d’études, prima prova di lunga durata del prosatore. In queste pagine le riprese appaiono anzi così puntuali e fedeli, da indurre il sospetto che lo scrittore esordiente recuperi con intento sistematico i vecchi versi per il nuovo tessuto della prosa: che risulta, pertanto, farcita di moduli lirici e di frammenti desunti alla lettera da antichi scartafacci. Se talora si può parlare di riprese vagamente tematiche e di rielaborazioni più o meno fedeli di materiali anteriori, in altri casi si assiste a un vero e proprio innesto di frammenti trasferiti di peso. Per esempio, l’attacco di [14], «Poi che le nuvole sorgono, | Come sogni, dai monti | E dalle foreste» (vv. 1-3), è adibito a chiusura di una pagina del 5 settembre 1924: «Vi sono grandi monti: ed ecco le nuvole sorgono, come sogni o come paurosi pensieri, dai monti, dalle foreste» (Racconto, SVP 601) s’alcuni versi riferiti al «silente locomotore» di [16], «E traversi la pianura senza confini. | Sfiori come uno spettro le tacite case | Dove dormono presso la mamma i profumati bambini | Con la bocca semiaperta» (vv. 10-13), sono utilizzati per i treni evocati nel Cahier: «E i treni correvano nelle pianure, senza disturbare le case dove, durante la notte, quasi tutti sogliono ripararsi e riposarsi. Dormono quivi presso la mamma i caldi, profumati bambini, con bocche semi aperte» (Racconto, SVP 404). Persino lo «spettro» del v. 11 figura di nuovo in una lezione alternativa («O passavano come dolci spetri accanto ai casolari dove»). Ma il recupero più ampio, e certo non sarà un caso, è quello che Gadda opera dal poemetto incompiuto ‘Viaggiatori meravigliosi’, che presta intere sequenze a una pagina del 26 marzo 1924: «Quando le navi sono ferme nel porto e le guardie hanno tutto verificato, ne discendono i passeggeri dei paesi lontani. Corriamo! Nel riveder lor terra, avranno pianto. Gridiamo un saluto! Nel viso non è alcun segno di pianto. Il viso è immobile, muto. Meravigliosi viaggiatori, che avete respirato nei paesi paurosi. La fatica, la solitudine, vi hanno sole baciato, ecc. –» (Racconto, SVP 577), trascrizione quasi letterale dalle prime due strofe della poesia: «Poi che le navi sono ferme nel porto, | Scendono i passeggeri dei paesi lontani | Ai compagni che tornano vogliamo dare il conforto | Perché forse, nel rivedere la terra, hanno pianto. | [...] | Gridiamo il nostro saluto! | No, nel viso non è segno di pianto | Il viso è immobile e muto. || Viaggiatori meravigliosi | Nei paesi d’oltre paura, | Fatica e solitudine vi baciarono dunque». Quest’ultimo caso sollecita alcune considerazioni. Anzitutto l’ampiezza del recupero è proporzionale al grado di incompiutezza della poesia, i cui confini non ben definiti – anche materialmente labili nei manoscritti che ce la tramandano – sembrano incoraggiare a uno smembramento del testo e al travaso in altra scrittura. Il fatto stesso che la poesia presenti molteplici redazioni concorrenti della medesima strofa o di gruppi di versi consente persino di leggere la trascrizione in prosa come un’ulteriore variante espressiva, rielaborazione da aggiungere alla serie in versi. L’innesto di questo frammento nella prosa del Cahier ne faciliterà in seguito il recupero in una pagina di ‘Crociera mediterranea’: «Ferme, al porto, le navi: ne discendono i passeggeri, che han lasciato i paesi lontani» (Castello, RR I 183).

Quello che si è mostrato è un percorso esemplare – dal verso alla prosa del Cahier, alle pagine più organiche delle raccolte successive – che si delinea in molti altri casi. Tradurre in prosa gli antichi versi – la definizione è dell’autore, e giusto a proposito dell’esempio che si è appena citato («Difficile tradurre in prosa i miei vecchi versi», Racconto, SVP 577) – si rivela in effetti operazione costante nella carriera gaddiana. Basti dire che nella Madonna dei Filosofi si depositano schegge liriche quali ad esempio i versi: «Era un sepolcro di principi | Strangolati, che comandarono | Gli assalti nelle battaglie» di [13], vv. 130-32, riproposti in [17], VIII, 5-6, «Dove dormono i re, coronati di ferro. | Comandarono gli assalti, nelle battaglie», e poi recuperati per designare l’innamorato di Maria disperso in guerra: «aveva [...] comandato li assalti nella cenere delle battaglie» (Madonna, RR I 102).

Considerata la frequenza del procedimento, importava segnalarlo, pur senza fornirne l’integrale concordanza. Il commento alle poesie registra soprattutto le riprese più antiche, rinunciando a dar conto di recuperi più tardi, che si lasciano leggere piuttosto come ripresa mediata, anche se lungamente operante. La «qualità lirica del temperamento», additata in Gadda da Contini nel simpatetico Saggio introduttivo alla Cognizione (Torino: Einaudi, 1963), trova ora le prove anche materiali – prosa costruita con reliquie di poesie interrotte o ripudiate, ma conservate per anni – della sua folgorante necessità critica. A questa stregua la non pacifica inclusione di Autunno nel corpo della Cognizione, di cui sembra costituire – almeno per un certo tempo – il finale lirico, appare come una macroscopica, integrale applicazione dello stesso procedimento: l’innesto di una poesia già disseminata nella prosa e infine esibita. Quasi che lo svelamento al lettore del proprio processo di scrittura possa costituire un compenso per il mancato scioglimento narrativo.

Una volta riconosciuta questa osmosi tra prosa e verso come un carattere essenziale della pagina gaddiana, non stupirà reperire due endecasillabi, non altrimenti noti, in un brano del giornale di guerra: «verso i monti guardo quasi con rincrescimento e paura, come all’origine d’una tempesta insostenibile, mentre altra volta pensai di loro: “muro con torre per la mia semente foste, avverso orda che di là s’accampa”» (Giornale, SGF II 533). Quasi il segno, nel prosatore, di una necessaria e sempre operante memoria poetica.

 

Si è indicato come nel corpus delle poesie compaiano già, seppur in nuce e per assaggi minimi, i temi più cari allo scrittore. Ma si può affermare anche, con buona approssimazione, che per Gadda la poesia costituisce pure il primo stadio di elaborazione di procedimenti formali poi sviluppati nella prosa. Da questo punto di vista i testi poetici offrono, in effetti, un prezioso contributo a riconoscere la genesi della sua scrittura. In particolare un elemento, squisitamente legato al verso, quale la rima, consente di cogliere, in uno stadio germinale, l’insorgere di quello che, col senno di poi, si sarebbe chiamato “espressionismo gaddiano”.

Sia consentita allora una rapida descrizione dell’identità metrica di questi testi, alla quale l’autore stesso fa riferimento nella dichiarazione a Epoca che si è citata all’inizio, ricordando anche un metro, l’ottava, di cui resta menzione in pagine contemporanee ai fatti, ma di cui non si conosce attualmente alcun esemplare. Importa anzitutto notare che gli esordi di questa poesia sono nelle forme più tradizionali – ottava, sonetto, terza rima – in quegli anni tra il 1910 e il 1915, decisamente minoritarie e arcaizzanti, o sottoposte a recuperi archeologici. L’unica eccezione è costituita da un testo del 1915, O mio buon genio, divino ed umano, aereo Ariel, sorta di poème en prose composto sotto l’influenza della poesia di Whitman, frequentata nella traduzione di Luigi Gamberale. Lo spartiacque, per quanto attiene alla metrica, si colloca negli anni della guerra, o meglio della prigionia. Le poesie del dopoguerra appaiono formalmente nuove rispetto a quel primi esercizi di gusto scolastico. Alle forme metriche più tradizionali si sostituiscono polimetri di strofe diseguali, articolate in versi di scansione non canonica, organizzati intorno a una misura sillabica dominante. Il passaggio a forme più libere di versificazione, con il ricorso a schemi metrici non regolari e l’adozione di versi liberi, sembra maturare anche grazie alla quotidiana frequentazione di Betti, per singolare destino rinchiuso nella stessa baracca (la numero 15 del campo di Celle), e autore, in quei mesi, delle poesie pubblicate poi sotto il titolo di Re pensieroso.

La suggestione esercitata sull’esordiente Gadda, studente del Politecnico e quindi professionalmente non letterato, dalla «natura apollinea» di Betti, laureato in giurisprudenza e in quei mesi già sicuro adepto di poesia, è ancora operante nella rievocazione di quell’intimità affidata alle commosse pagine di ‘Compagni di prigionia’, dove si rende omaggio, tra l’altro, al valore consolatorio che quella poesia ebbe per il prigioniero Gadda: «e furono i suoi versi come un conforto, e una risorgente speranza» (Castello, RR I 163).

Una lettura avvertita del Re pensieroso mostra con ogni evidenza quanti e quali siano i debiti della poesia di Gadda nel confronti di questo libro di Betti, sia per i temi, sia nella lingua e lo stile. Nel poemetto La sala di basalte, ad esempio, l’abbraccio mortale delle «tetre regine» che spegne la «pallida faccia» del giovane, «Ed una forse ti allaccia | Fra cupi veleni | In una strana terribile danza. | Come serpi si snodano le braccia» (vv. 81-84), s’ispira a quello, altrettanto funesto, di una poesia del Re pensieroso, dove le amanti del principe sono «tutte vestite a lutto»: «è un serpe nero! | [...] E la guarda... e si snoda... | Etutta la stringe, muto, | [...] | E la bella si fa come neve... | [...] Bianca si fa tra quelle spire» (Teatro, vv. 45-54). L’immagine che segue, «Un alito viene dalla gola di sasso | E l’erba dondola sulla porta: | L’alito dei viscidi mostri della terra | Che bevono alle vene d’una morta» (vv. 93-96), riecheggia sia un frammento della stessa poesia di Betti, «Sarà che tutto il suo sangue | Se lo beve | Quel nero amante [un serpe]!» (Teatro, vv. 51-53), sia alcuni versi di un altro testo della raccolta: «Sarà che un mostro varca la porta | [...] | E curvo beve da un cuore ogni notte | Un po’ di sangue» (Le notti senza luna, vv. 55-59). Si aggiunga che la rima porta : morta dei vv. 94-96 compare, nella forma smorta : porta, in un’altra poesia di Betti, che pure menziona i «dondolanti fili d’erba» (Canzonetta, vv. 23-24, 32). Anche il riferimento al vento, «Sulla brughiera il vento s’attarda, | Poi si smarrisce sufolando nella foresta» (vv. 99-100), figura già in Betti, «Ed ecco il vento | Che viene dalle foreste» (Il castello nero, vv. 12-13). Così l’incontro inquietante della fanciulla («Ma una luce s’accende ecc.», vv. 102 sgg.) ricorda quello descritto in un’altra poesia del Re pensieroso: «S’accende un occhio verde, strano! | Qualche ragazza smemorata | Che intorno al pozzo ha fatto tardi, | Torna tremando alla fiammata, | Narra di certi occhi beffardi» (Le notti senza luna, vv. 30-34). Oltre all’affinità tematica e lessicale – «strano» in Gadda è al v. 133; «tremando» è variato nel «tremò» del v. 124 – si noti la prossimità della rima tardi : beffardi con la gaddiana s’attarda : beffarda (vv. 99-107). E il pozzo, come luogo d’incontri funebri e paurosi, è recuperato da Gadda poco più avanti, «E da un pozzo invano chiamarono | Gli amici, la madre invano» (vv. 135-36), in congiunzione con il motivo dell’inutile richiamo del revenant,pure ispirato da Betti: «Tutte le notti si sente chiamare» (Le notti senza luna, v. 1) e, nella stessa raccolta, «Chiama, chiama la voce sepolta! | Ma nessuno ascolta» (Le porte di ferro, vv. 19-20). Altre parentele tematiche tra i versi di Gadda, «La lampada dondola come per gioco | E sul folletto fa delle ombre: | Sottole labbra fa un’ombra beffarda: | “Prendete il mio rapido fuoco”» (vv. 105-08), e quelli di Betti, «Ma le ombre svegliate dal fuoco | Fanno suimuri uno strano gioco....» (Il castello nero, vv. 7-8), appaiono esaltate dall’uso delle parole-rima comuni fuoco : gioco.

Talora l’influenza di Betti è percepibile appena nella poesia, ma può essere riconosciuta negli esiti successivi a cui pervengono alcuni di questi versi. Si consideri, ad esempio, la descrizione del cielo notturno, che apre La sala di basalte, inaugurando un modulo descrittivo poi ricorrente in Gadda: «E nelle vette lontane | Gemmano i ghiaccisopra le valli, | Alte luci sopra le ombre. Certo dalle riviere sonanti | Gli amanti guardano il cielo | E la notte | Chiara di zaffiri e di cristalli» (vv. 3-9). Il modello più probabile sembra da indicare in alcune poesie del Re pensieroso: «E le città lontane,oscure, | Trapunte di qualche lume, | Ingemmate di qualche zaffiro | Come capigliature» (Canzonetta della biondina e del forestiero, vv. 21-24), e anche «La notte dai cupi forzieri | Ha levato i gioielli | più belli | E s’è ingemmata» (Le stelle, vv. 2-5), dove per la descrizione del cielo stellato sono menzionati zaffiro, rubini, cristallo, argento, corallo e diamante, come sarà appunto frequente in Gadda, a partire dal Cahier: «Luminose stelle erano zaffiri per tutti gli amanti od erano pungenti smeraldi nella cava fonda del cielo» (Racconto, SVP 447), con possibili variazioni e incrementi nel catalogo delle pietre preziose: «Dentro il cielo della Italia [...] luminose stelle erano zaffiri per tutti li amanti, nella cava fonda del cielo erano smeraldi o caldi topazi» (Madonna, RR I 81).

Ma tanto basti come saggio di una dipendenza documentata più oltre con dovizia di riscontri. Per il nostro discorso importa invece isolare il momento della scoperta, da parte dell’autore, dell’attività poetica che l’amico praticava in segreto. L’ineffabile racconto (Castello, RR I 161-64), degno di figurare in un’ideale antologia di primi incontri con un poeta, circoscrive l’attività versificatoria entro due elementi formali: l’uso dell’a capo («Dalla ineguale ricopertura delle righe vidi che eran dei versi») e la ricerca della rima («Forse inseguiva i suoi sogni, forse la rima, gallinella procace, o deludente in circolo»). Il far poesia si risolve in una «amorosa battagli» tra un «bel galletto», il poeta, e una «gallinella procace», la rima. In questa inattesa immagine del poeta – che si inquadra però in una serie di altre metamorfosi non meno eterodosse a cui Gadda sottopone lo scrittore – la poesia è un amoroso ludo in cui la posta in gioco, o meglio, l’oggetto del desiderio, capricciosamente sfuggente («deludente in circolo»), non è altro che la rima. Non stupirà dunque che, nella dichiarazione rilasciata a Epoca citata all’inizio, Gadda, a proposito del far poesia, alluda alla propria facilità nel trovar rime, chiamando a testimone il compagno di prigionia Ugo Betti.

Il ruolo decisivo attribuito alla rima trova conferma in una pagina della Madonna dei Filosofi, dedicata alle poesie di Emilio (il ragazzo amato dalla marchesina Maria e disperso in guerra). L’ampio spazio concesso alle indicazioni che la riguardano attesta dell’interesse primario dello scrittore per questo elemento della versificazione, privilegiato su tutti gli altri, compreso il ritmo, menzionato solo incidentalmente e in suo servizio («le rime, anche se il ritmo fosse libero, erano nòbili, agévoli, e ragionévoli: l’andamento metrico non privo d’originalità» – Madonna, RR I 77). Persino la coerenza e la compattezza dello «stile» appaiono in sostanza garantite da un opportuno sistema rimico («lo “stile” non riceveva a ogni passo un calcio di dietro, passando, come fanno, di colpo, dal pretestato allo sciatto [...]. Non c’era caso che giunchiglia fosse tirata a rimare con parapiglia, né con fidanza, vacanza o maestranza»).

In effetti, a chi consideri l’intero corpus delle poesie gaddiane – che nella sua esiguità comprende individui di così varia morfologia – sarà subito evidente come il punto focale del verso, l’elemento decisivo della composizione, sia appunto la rima, o almeno quella che, in una prosodia tradizionale, sarebbe la sede canonica della rima, in fine di verso. La rima, da ingrediente tradizionale, adottato secondo schemi prefissati, nelle mani di Gadda si trasforma in elemento forte di ricerca espressiva: luogo prediletto di sperimentazione fonica e aggregato minimo di quello che, per la prosa, si è soliti indicare coll’etichetta di “espressionismo gaddiano”.

Il movimento, com’era prevedibile, appare omogeneo alla presa di distanza dai metri della tradizione. Il sonetto che inaugura le poesie, Poi che sfuggendo ai tepidi tramonti – costruito su uno schema rimico arcaico, ma recuperato in anni poco lontani dal Pascoli – non segnala particolari tensioni in sede di rima. Un altro testo degli anni liceali, Vengon di Lecco nuvole pesanti, è costituito da due quartine di endecasillabi a rima alterna. A meno che non costituisca la prima parte di un sonetto di cui si sarebbero dileguate le terzine per difetto di memoria, sarà da ritenere un testo compiuto, che può contare di nuovo sull’autorizzazione del Pascoli, che lo utilizza per esempio nelle Myricae (Sogno, I ciechi, Nevicata, ecc.). Anche qui la rima non appare particolarmente sollecitata, se non fosse la rima identica ai vv. 2 e 6 (affannoso), dove fa la sua prima comparsa un fenomeno poi così ricorrente nei versi di Gadda, da divenire una vera e propria costante.

Più estroso l’incompiuto capitolo in terzine, ‘Non da le rive spiccasi il rupestro’,dove alcune rime (C, D e G) sono legate da assonanza e una di queste (D) è interamente costruita sulla paronomasia (forre : torre : corre),come pure due delle rime F (sera : nera, al vv. 14-16). Se il metro dantesco è adottato nella forma rigorosa della terzina incatenata, il modello formale più prossimo è però ancora pascoliano, da indicare, per esempio, nei ternari dei Poemi Conviviali. In particolare Tiberio, che presta forse alla poesia di Gadda anche qualche suggestione tematica, sembra fornire, oltre allo schema metrico, vari spunti per la scelta delle rime: non solo le parole-rima monte : fronte (vv. 7 e 9; in Pascoli ai vv. 1 e 3 della prima strofa), e forre : corre (vv. 8 e 12; in Pascoli, in ordine inverso, ai vv. 1 e 3 della terza strofa), ma anche l’assonanza che in Pascoli si distribuisce fittamente nelle prime tre strofe e in Gadda collega i vv. 7-10, 12 e 17. Anche l’allitterazione tra le parole-rima già assonanti forre, fronte (8-9), compare già in Pascoli, complicata da frotte (I, 3 e 5 e III, 3). Lo stesso testo pascoliano poteva autorizzare anche l’insistenza sui collegamenti per paronomasia tra le parole-rima, con esempi del tipo selve : belve (II, 1 e 3) e vento : lento (II, 5 e 7). Si aggiunga che anche la serie completa della rima F, sera : nera : bufera (14, 16 e 18), è di origine pascoliana e figura in una delle Myricae (Abbandonato, vv. 9, 13, 15). La dipendenza e tanto più forte in quanto l’ultima terzina, «Ma le pinete nella notte nera | Crosciano lungi per forre e per gole | Ululando si addentra la bufera», rivela, proprio in clausola, una forte memoria lessicale e ritmica dalla stessa raccolta: «mentre il cipresso nella notte nera | scagliasi al vento, piange alla bufera» (‘Fides’, vv. 7-8).

I prelievi che si sono forniti – circoscritti alle primissime poesie di Gadda – attestano la forte presenza, a livello formale, della lezione pascoliana, attiva anche su altri piani. Sembra decisiva, in particolare, la complessa sperimentazione fonica e retorica a cui il Pascoli sottopone il sistema rimico, costruendo elaborate partiture di rime tra loro assonanti e consonanti, legate da allitterazioni, bisticci, paranomasie e da altre complicazioni retoriche, ritmiche o foniche. All’autorità del Pascoli doveva però congiungersi, come si è detto, la suggestione di Betti: forte soprattutto per le circostanze in cui veniva ad essere operante, non antitetica ai modi pascoliani, ma piuttosto portata a esaltarne alcune tendenze.

Nelle citazioni precedenti si è spesso accostato il nome dell’amico alle osservazioni sulla rima. Questa ricorrente contiguità è un indizio da non trascurare: un’analisi sistematica dell’uso della rima in Gadda mostra infatti come, sulla lezione pascoliana, si innesti proprio, per le poesie del dopoguerra, l’esempio di Betti, di intensa efficacia nella pratica quotidiana della prigionia. Proprio nelle poesie del Re pensieroso, sembra di poter rinvenire il precedente più significativo dell’uso gaddiano della rima: è agevole mostrare come la tipologia di fenomeni che caratterizza la fine del verso nelle poesie di Gadda possa essere tutta quanta riconosciuta in campioni estratti dal primo libro di Betti.

Si consideri, per esempio, la poesia intitolata Il castello nero, rappresentativa dell’intera raccolta e carissima a Gadda, che ne fa menzione anche nella pagina che si è citata del Castello di Udine. Si è già mostrato come questo testo lasci vistose tracce tematiche nei versi gaddiani. Qui importa invece considerarne la testura rimica. Si tratta di un polimetro articolato in quattro strofe di diversa lunghezza, chiuse da un distico a rima baciata. Per il resto la distribuzione delle rime è irregolare, pur con tendenza prevalente alle baciate o almeno all’iterazione rimica. Le rime irrelate (14) sono compensate da varie assonanze e consonanze che collegano tutte le parole in fine di verso. Alcune rime sono legate da paronomasia, più raramente da allitterazione. Molte, e più volte iterate, le identiche. La sdrucciola del v. 72 (dormono) ha valore di sottolineatura ritmica, come appare con maggior evidenza in altre poesie di Betti.

Una tipologia assai simile si può appunto indicare per i versi di Gadda. Si prenda, come campione, la poesia intitolata Gli amici taciturni (ovvero «ritorno»), polimetro di versi oscillanti intorno a una base a prevalenza eptasillabica, articolato in quattro strofe di diversa ampiezza, due delle quali chiuse da un distico di rime baciate. Come nel Castello nero la distribuzione delle rime risulta irregolare e si accompagna a un certo numero di versi irrelati (21), due dei quali sono parole sdrucciole (anime, v. 2, sterile, v. 7), con valore di rima ritmica. Una rete di assonanze e di consonanze collega le parole irrelate tra loro e con le rime vere e proprie, creando una ricca testura di richiami fonici che fa ammenda delle lacune della rima.

Alcune rime sono collegate da paronomasia, altre da allitterazione, più raramente da rima ricca. Altro legame tra le parole in rima, utilizzato nella poesia, e il poliptoto, che già compariva timidamente in Betti, ma che Gadda moltiplica ad libitum fino a serie come passato - passati - passare - passato (1, 10, 44, 45). Variazione grammaticale di una parola data, il poliptoto è utilizzato come sperimentazione di varietà desinenziali, che è quanto dire come deformazione della parola iniziale entro un sistema grammaticale esistente. Si configura, così, come rovesciamento e insieme come complemento dell’omoteleuto, adibito da Gadda soprattutto nella forma della rima grammaticale (per esempio: passato : desolato : andato : passato : mutato, vv. 1, 5, 43, 45, 47). Particolarmente alta appare la frequenza di rime identiche, che in Gadda configura un’ossessione iterativa – quasi l’attualizzazione formale di una sorta di coazione a ripetere – piuttosto che un innocuo esercizio inteso a mimare un ritmo cantabile, di cantilena infantile, come in Betti.

Nella poesia di Gadda, come in tanta poesia novecentesca, non si dà un sistema metrico preciso a cui ricondurre la varia polimetria, e neppure si può indicare un uso sistematico e regolare della rima. Si enuclea però una serie di costanti, che rispondono sommariamente ai parametri seguenti: schema rimico irregolare, con alta occorrenza di identiche e irrelate; sdruccioli con funzione di rima ritmica; rime imperfette; rime allitteranti; rime desinenziali e, inversamente, variazione di desinenze grammaticali; paronomasia tra le rime; trama di assonanze e consonanze tra le parole in fine di verso, gusto per la rima baciata o comunque ripetuta a breve distanza. Tutti fattori che caratterizzano anche, con maggiore o minore insistenza, le poesie di Betti: la novità di Gadda consisterà semmai nella diversa dosatura di questi fenomeni, e nel gusto più spiccato per certe aggregazioni foniche. Che è quanto dire in un più sofisticato gioco combinatorio: in aggregati fonici minimi (variazioni desinenziali o sistemi di assonanze), o in intere parole.

La predilezione per la rima inclusiva, che caratterizza i versi gaddiani, risponde appunto a questa ricerca espressiva: variazione anch’essa di un nucleo fonico, che, per una delle componenti, coincide con l’intera parola. Il fenomeno si può segnalare in vari testi: nella poesia Gli amici taciturni (ancora : ora, 3, 12, 13, 52; anni : scranni, 46, 48), in Piani di sole e liste (aria : varia, 4, 10, 19); nel poemetto La sala di basalte (bocca : trabocca, 13, 15), e così via. Ruolo non diverso, di variazione, o si dirà, gaddianamente, di deformazione, svolgono le rime legate da bisticci di parole (per esempio: stessa, senso, sente, stesse, 16, 19, 50, 53; rossi, rotti 30, 39 negli Amici taciturni).

A questa stregua l’uso della rima consente un’ulteriore applicazione del gioco combinatorio e diviene essa stessa possibilità di variazione-deformazione, quando la si assuma come nucleo fisso di una parola, di cui può essere modificata, invece che la parte finale, la parte iniziale: dalla semplice rima, alla rima ricca, alla rima inclusiva, fino al caso limite della paronomasia (rossi : percossi; mantelli : castelli; anni : scranni; notti : rotti). In maniera non dissimile si può forse spiegare anche la presenza di una grande varietà di rime, utilizzate spesso in termini ridotti (due o tre volte) e in posizione ravvicinata: come se l’intero verso costituisse la possibile, amplificata variazione, del nucleo fonico iniziale rappresentato dalla rima. Un esito inatteso a cui giunge, nelle mani di Gadda, la vecchia, innocua rima baciata di Betti.

Più sopra si è cercato di mostrare come la rima, o meglio la fine del verso, con esasperata eco di suoni e di timbri, valga non tanto in quanto iterazione, ma soprattutto in quanto pretesto a deformazioni di una massa fonica originaria. La conseguenza ipotizzabile, e presto verificata, sarà allora la perdita di valore della rima semplice. L’incremento progressivo dei fenomeni che si sono descritti è infatti a scapito della sua esistenza come rima tradizionale: in Chiara serenità della terra l’autore non esita a far saltare il sistema rimico a favore di un più ricco intreccio di timbri e di suoni. In effetti questa elaborata ricerca delle possibilità espressive, a cui è sottoposta la rima fin dai versi del 1919, coincide con quello che, con sguardo retrospettivo, si può riconoscere come lo stadio germinale dell’espressionismo gaddiano. Al suo pieno manifestarsi non mancano che due incrementi.

Il primo consiste nell’estensione dell’esercizio dalla parte finale all’intero verso (eventualmente con rime al mezzo evidenziate da trattini, come nella prima versione di Autunno) e quindi alla prosa. Ne è conferma la possibilità di reperire nella prosa quei medesimi fenomeni di cui si è riconosciuta la prima applicazione sulla zona sensibile della rima.

L’altro, decisivo sviluppo consiste nell’allargamento qualitativo nella sua applicazione: il passaggio cioè da un sistema linguistico e grammaticale storicamente e geograficamente definito – ma appunto inadeguato a esprimere l’aggrovigliata combinatoria del reale – a una lingua anche non esistente, ma per ciò stesso non delimitata, aperta a una combinatoria infinita, a ogni potenziale deformazione di originari nuclei fonici e lessicali. Le esperienze estreme che marcano la fine del verso nelle poesie dell’apprendista scrittore sembrano in effetti contribuire in maniera efficace all’invenzione della sua prosa, dove talora è proprio la rima a generare nuovi composti lessicali («tra il frustume delle lire marce e la nichelaglia o ramaglia o acmonitaglia dei soldarelli, nichelini, decini gobbi e sbilenchi soldini», per citare un solo esempio tratto da una pagina dell’Adalgisa (RR I 366).

Alla luce di quanto si è fin qui mostrato, meglio si comprende un’altra dichiarazione a Epoca: «Scrivendo in prosa mi astengo dalla rima, salvo che per consapevole gioco; in questo, pratico il contrario dei prosatori italiani giovani che incoccano filze di rime a sette a sette». Nella indicazione della rima come decisa opzione stilistica e come esuberante gioco retorico andrà registrata anzitutto una presa di distanza da ogni fortuita e accidentale presenza di omoteleuti, utilizzati da Gadda solo in funzione espressiva, mai come inerte ausilio compositivo.

Ma la pagina è preziosa soprattutto perché consente di cogliere in atto – assistendo quasi materialmente al suo compiersi proprio dove se ne dichiara l’importanza – il processo che si è segnato: l’irradiazione della rima al di fuori del limite del verso in direzione della prosa, cioè, in altre parole, la funzione svolta dal «consapevole gioco» della rima nell’invenzione linguistica gaddiana. La «rima in acca», provocatoriamente sollecitata da Betti («ebbene, fammi una rima in acca»), è responsabile, infatti, non soltanto della immediata risposta del compagno di prigionia («Cecca bislacca fa la vacca stracca»), ma anche della modalità, retorica e fonica, con cui questa risposta è introdotta nella prosa di tanti anni dopo, «Ed io du tic au tac», con il gioco sulla vocale tonica e sulla consonante della rima. E l’irradiazione si allarga appunto alla frase che si è citata, «incoccano filze di rime a sette a sette», legata alla precedente dalla consonanza con la «rima in acca» e, per ironico ammicco a quella giovanile sfida, col nome stesso di Betti. Omaggio postumo, tardivo e ambiguo risarcimento di un lontano debito di poesia.

 

Se l’attività poetica di Gadda si estende su un arco cronologico di più di mezzo secolo, è però vero che le poesie appaiono concentrate nel 1919 (otto o addirittura dieci testi), e, per quelle datate, nei primi mesi dell’anno, dal gennaio all’aprile (cinque). Il fatto è abbastanza singolare da richiedere un supplemento d’indagine, o almeno una puntuale ricerca che consenta di aprire qualche spiraglio su questi prodotti. Particolarmente significativa al riguardo appare la prima poesia della serie, Sul San Michele (Gaddus, 4 luglio 1917). Il titolo è designazione topografica di immediata riconoscibilità nella memoria nazionale, per chiunque conosca, direttamente o indirettamente le vicende della prima guerra mondiale. Il San Michele è infatti l’altura del Carso, presso le foci dell’Isonzo, teatro di sanguinose e reiterate offensive («Sito grigio, sito sassoso. | Lo chiamano monte, così, | Perché fu tremendo il salire. | [...] Grigia terra, deserto salire | Al culmine | E riscendere della pietraia, | Grigio d’erbacce e di ghiaia», vv. 4-13),titolare in letteratura di altre più celebri menzioni, per esempio nella poesia di Ungaretti: «Come questa pietra | del S. Michele | così fredda | così dura, così prosciugata | così refrattaria | così totalmente | disanimata || Come questa pietra | è il mio pianto | che non si vede» (Sono una creatura, vv. 1-2). Nel titolo Gadda registra, curiosamente, anche la data e la firma «Gaddus, 4 luglio 1917», quasi configurando una pagina di diario che offra il resoconto di un momento preciso nella biografia dello scrivente: appunto la visita-pellegrinaggio compiuta sul San Michele il 4 luglio 1917 dal tenente Carlo Emilio Gadda. La somiglianza con una pagina di diario, di cui la poesia sembra mimare i caratteri (luogo, data, firma, temporalità prossima della narrazione, «Ho detto ai soldati: “Per oggi riposo, | Per oggi aspettatemi qui”», vv. 1-2), è così forte che molti anni dopo, in occasione di un «riordinamento» del 1933, l’autore sentirà il bisogno di ribadire l’anno di composizione – che non coincide con quello dell’azione descritta – e di precisarne le modalità (ricordo e non registrazione immediata dei fatti): «Questa lirica Sul San Michele, è stata scritta nel 1919, rievocando». Tanto scrupolo appare pleonastico se si considera che, per la prima parte della poesia il manoscritto registrava già la data di stesura («28 gennaio 1919»), ma diviene più comprensibile se si interpreta come volontà di distinguere fermamente, all’altezza del 1933, due tempi inconciliabili: quello dell’azione e quello del suo ricordo, quello del diario di guerra e quello della rievocazione successiva. In altre parole, nella biografia di Carlo Emilio, il prima e il dopo rispetto alla morte del fratello Enrico.

Le pagine del giornale di guerra per il luglio del 1917 non ci sono pervenute. Appartenevano al «prezioso diario, contenente le mie speranze e la mia passione a Torino e sul Carso» (Giornale, SGF II 701), abbandonato nell’imminenza del tragico 24 ottobre 1917, nella tenda sul Krasji nei pressi di Caporetto, di cui Gadda lamenta ossessivamente la perdita («ho perso sul Krasji il mio prezioso diario del 1917; perdere anche questo mi sarebbe un grave dolore»), caricandola, a posteriori, di implicazioni simboliche: «I giorni della sconfitta mi ritornano continuamente nell’anima con tutti gli orrori patiti, con la visione di tante cose perdute» (750). Dopo il rientro a Milano e la notizia della morte del fratello questo sentimento di perdita, di scomparsa, si specializza per divenire l’emblema irreparabile di ogni altra perdita: «Qualcosa disparve; si sente» ([12], 50), «E i miei fratelli dove sono? Non ci sono. | [...] |Ma qualcosa, qualcosa ho lasciato | Quando quando si ritroverà?» | [16] |, 37-42). Le premesse erano però tutte registrate nel diario, fin dal 29 ottobre 1917, a ridosso della disfatta, nelle prime ore della prigionia: «Desolazione, solitudine. Notizie gravissime, terribili, sull’avanzata tedesca; estrema mia desolazione. Penso a Enrico, ai miei. Quale orribile destino si approssima!» (664), e, con più disperato presentimento, due giorni dopo, il 31 di quel mese: «Il mal di cuore, la patria perduta, la famiglia perduta, quest’ultimo amico perduto; il pianto, la demenza. Sassella Stefano, di Grosio (Valtellina), cl. 1897; anima splendida e rara, devoto come gli eroi dell’Ariosto; piango come se avessi perduto mio fratello. […] Io sono ora finito: nella sventura, nell’orrore anche questo amico ho perduto!» (665). Parole non facili da rileggere quando la similitudine evocata era divenuta atroce, immedicabile realtà.

La prima poesia scritta dopo il rientro rappresenta il disperato tentativo di riparare a una perdita, almeno a quella materiale del giornale di guerra, sostituendo a quelle pagine smarrite nel luoghi della disfatta, la loro rievocazione lirica, concepita nei termini di una poesia, datata e firmata, il più possibile simile a una pagina di diario. Quelle che seguono immediatamente, le poesie di aprile, sono anch’esse minuziosamente firmate e datate nella loro fitta cronologia («CEG. 5 aprile 1919, Milano.»; «CEG. 6 aprile 1919, Milano.»; «9 aprile 1919.»; «Pasqua 1919.–Longone.-»). Sostitutive in tempo reale del diario (che per il mese di aprile si limita al giorno I) sembrano tentare, a loro volta, compensi di natura simbolica, più astratta, per una perdita non tollerabile. L’ultima della serie, ‘Chiara serenità della terra’[10], dove le campane chiamano i vivi – da cui è escluso ormai il fratello – «Ad andare | Nel sole | E nell’aria», è scritta nella casa di campagna, il giorno di Pasqua del 1919, appunto in occasione del «Iº. ritorno a Longone dopo la guerra e la morte di Enrico», come precisa una postilla molto più tarda. Sembrano, queste poesie, il primo tentativo di compensare la perdita, di esorcizzare la morte del fratello, poi destinato a ispirare pagine tra le più alte del Gadda prosatore. Ma restano un tentativo doloroso e inadeguato, che registra i segni del proprio fallimento iscrivendoli, letteralmente, nei versi: «Il mio passo è vano | […] Cade la mano» [7], 25-29), memoria del virgiliano cecidere manus, riferito a Dedalo impotente a scolpire nell’oro il tragico volo del figlio. Un volo dall’esito così simile a quello dell’ultimo volo di Enrico: «Orribile senso di miseria e di solitudine nella vita; e sempre Lui nella mente e negli occhi, raccolto disperatamente intorno alle manovre del suo aereoplano» (Giornale, SGF II 850).

La scansione diaristica di questo gruppo di poesie compensa, si è detto, l’assenza di note nel Giornale tra il Iº aprile e il 22 maggio 1919. Ed è proprio grazie a quest’ultima pagina che la precisione delle date delle poesie, per i giorni dell’aprile, si lascia riconoscere come dolorosa scansione del tempo, giorno dopo giorno, nel mese anniversario della morte del fratello: «Il giorno 23 aprile volevo andare a Sandrigo, a vedere la tomba d’Enrico. Non potendo allora (Politecnico), ci sono andato prima: ho viaggiato i giorni 11, 12, 13, 14 aprile» (858). Tra le date registrate si cela anche quella del pietoso e disperato omaggio fraterno («la squallida tomba e il dolore demenziale, istupidimento. […] Forse scriverò con maggiori dettagli. La gita terribile e la visita alla tomba d’Enrico mi fecero una tremenda impressione»), che però non è dichiarata esplicitamente, con forte reticenza, sottolineata dall’ossessiva, inutile, precisione cronologica degli altri spostamenti: «La partenza da Vicenza il giorno 11 sera (avevo viaggiato Milano-Vicenza la notte 10-11); Venezia-Treviso; notte sul 12 a Treviso. Il 12: Treviso-Udine-Cividale; colazione a Cividale». Notare le date si configura dunque, per il sopravvissuto, come scrupolo necessario e doloroso, vana scansione del tempo: «Noto soltanto alcune date, nell’orrore», così il 18 gennaio 1919 (849), nel resoconto dell’arrivo a Milano e della disperata scoperta.

La prima data del nuovo, intollerabile tempo, il 23 aprile 1918, giorno della morte di Enrico (poi celebrato per anni nella memoria familiare: «Vi ho mandato un cablogramma in Via S. Simpl., per domani 23 aprile: Unito pensiero Carlo. Spero l’avrete avuto in tempo», così alla sorella il 22 aprile 1923),non era stata registrata in tempo reale, perché la notizia era stata taciuta allo scrittore fino al giorno del suo rientro a Milano dopo la guerra e la prigionia, nel gennaio dell’anno successivo. Ma entro questo privato cerimoniale di atti riparatori e di compensi cronologici non poteva non essere «notata» anch’essa: di necessità in un tempo successivo, ma almeno nel luogo esatto che avrebbe occupato nel diario se la notizia fosse stata immediata. Proprio nello spazio compreso tra le note del 22 e quelle del 25 aprile 1918 compare infatti una parola, certamente inserita in un secondo momento, isolata con forte rilievo al centro della riga: «Orrore.-» (Giornale, SGF II 768). Una sola parola invece di una data intollerabile, che non si poteva più registrare sulla pagina, pena la falsificazione del documento. Ma la criptica indicazione, «orrore», nel diario sarebbe stata, da qui in avanti, specializzata, riservata a questo esclusivo dolore: «Vento freddo, desolazione. Orrore nelle ore di sera e di notte, nel sole, e sempre. Nessuna sosta al dolore. Nessuna emozione per l’Italia e le cose. – Nessun sogno per il futuro. Solo Lui, il suo aereoplano, i Suoi 21 anni» (22 gennaio 1919, 850-51); «Il ricordo di Stefano Castelli e per associazione di Enrico; il mondo vuoto; le pezze di sole triste sui muri; orrore anche qui» (I marzo 1919, 852); «imomenti in cui ricordo e ripenso, e i minimi dettagli li rivedo con minuzia spasmodica; non posso scriverne, ma è troppo; troppo il dolore, l’orrore della notte e la solitudine dell’anima» (25 marzo 1919, 856); «Povero Enrico! E che orribile, atroce vita» (I aprile 1919, 857), «Il dolore presente sempre d’Enrico, l’orrore della casa sola e deserta [...] Dolore di Enrico; orrore, aumentato dalla solitudine della casa» (7 luglio 1919, 859); «Stavo anche per incontrare il più orrendo dolore della mia vita» (31 dicembre 1919, 867). E nella pagina del 22 maggio che si è ricordata: «Vita infranta. Il dolore per Enrico cresce, portandomi all’orrore: [...] la squallida tomba e il dolore demenziale, istupidimento. Poi, per completare l’orrore, ho voluto andare fino a Caporetto e sul Krasji-Vhr. [...] vi salgo. […] Prendo alcuni colpi per ricordo; non trovo le mie cassette, né il diario» (858).

Scrittura come compenso della perdita, tentativo di esorcizzare l’orrore della morte del fratello e di tutte le altre che a quella ormai sempre rinviano. Così non stupisce che, nella poesia Sul San Michele, possano essere utilizzate per i compagni morti («Riposa la fronte | Sopra l’orbite vuote | Nel buio della terra | E tace il monte | Che vi rinserra», vv.82-86) frasi riferite al fratello nel diario: «Lui ha finito e riposa per sempre nel buio della terra» (7 luglio 1919, 859) e ancora «Egli è nel buio della terra, ai piedi delle montagne amate e sognate nella nostra giovinezza» (31 dicembre 1919, 867). Anche l’esercizio straziante del ricordo, «E inutilmente, o sepolti, | Ricordo e ripenso» (vv. 87-88), è lo stesso che si applica all’immagine di Enrico: «I momenti di solitudine nella casa e nella città deserta, poi, sono terribili; i momenti in cui ricordo e ripenso» (25 marzo 1919, 856). In queste molteplici identificazioni postume tra Enrico e i compagni scomparsi il movimento funziona naturalmente anche in senso inverso. Si dovrà allora intendere come riferito soprattutto al fratello il desiderio, disperato e impossibile, di compiere insieme nuove eroiche imprese, che nella poesia è esplicitamente affermato soltanto per i compagni «di giovinezza e d’orgoglio»: «Vorrei parlarvi ed andare | Compatti dietro il cannone | Veder le granate a smontare | Pezzo per pezzo le corone | Delle trincere | Sopra i colli bruciati. | Avervi compagni […] | E lungi dal soglio | Dell’opere prese | Altri monti vedere | Altre schiere | Avverse […] | Altro ridente paese. | Non vedo che un velo | Di nuvole perse | Tetre, nere, | Andare col vento nel cielo» (vv. 54-73).

Mutare i dati della realtà, ritrovare i compagni caduti, cancellare ogni perdita. Di questo doloroso delirio sarà data esplicita ammissione solo molti anni più tardi, nella prosa Compagni di prigionia, «in una forma di delirio sognavo, vedevo, volevo vedere!», proprio per introdurre le frasi che ricalcano alla lettera i versi della poesia: «Veder le granate a smontare pezzo per pezzo le corone delle trincere sopra le quote bruciate e i compagni andare, sapendo, sul monte! […] e volevo imitarli e seguirli, dal soglio dell’opere prese altri monti vedere, altre schiere avverse, altro fuggente paese. Fuggenti sopra la gabbia non erano che nuvole perse, tetre, nere» (Castello, RR I 165). Non consolato, ma osservato in una più tollerabile lontananza, questo dolore nutre ora il sublime del finale: «Camminavo e camminavo, fagotto di cenci, sulla strada buia dell’eternità». Aglientusiasmi ingenui del giovane ufficiale, registrati nelle pagine del diario («il desiderio di fare, di fare qualche cosa per questa porca patria, di elevarmi nell’azione, di nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me», 25 ottobre 1916 – Giornale, SGF II 645),sicongiunge ora, per chi aveva avuto esperienza diretta della morte dei compagni e solo poteva per lucida illusione disperatamente evocarli («sognavo, vedevo, volevo vedere […] volevo imitarli e seguirli»), la nuova, piùferma sapienza di quella ineludibile meta, espressa appunto nei versi del 1919 (Sul San Michele, vv. 20-25):«Non vedo che schiere | Nel cielo di nuvole perse | Tetre, nere, | Passare, col vento, di là, | Come una gente che vada | Verso l’eternità».

Universität Basel

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