La metafora del mare e il Pasticciaccio

Jimmy McMenamin

Nei più lontani approdi della memoria sono alcuni sereni risvegli dell’infanzia: uno in Liguria, nel sole splendido, nel letto della mamma, con una bianca barca di legno.

(dalla Grama felicità in Meditazione milanese)

Gadda ricorre spessissimo alle figure retoriche, in particolar modo alla metafora. Sin dalle prime parole de La disarmonia prestabilita Gian Carlo Roscioni dichiara: «Piuttosto che nominare gli oggetti e le cose, Gadda li sorprende nel loro farsi e testimonia della loro provvisoria esistenza. Si direbbe che un’invincibile diffidenza verso la lingua dell’uso, di qualsiasi uso, sia alla radice dell’esasperato metaforismo delle sue pagine» (Roscioni 1995a: 3). E poco più avanti specifica:

Ogni pietra, ogni oggetto, ogni fatto è dunque suscettibile di innumerevoli significati. Gli oggetti sono punti da cui partono (o, piuttosto, in cui convergono) raggi infiniti, e non hanno, non possono avere «contorni». Nominarli significa perciò descriverli e, più ancora, collegarli e riferirli ad altri oggetti. Il ricorso frequentissimo di Gadda alla metonimia non è il frutto di una ricerca espressiva sorta nell’ambito di un’esasperata letterarietà, ma obbedisce a un’esigenza di approfondimento conoscitivo. Un oggetto esiste solo in quanto ha una certa struttura e una certa funzione; il suo colore e il suo odore non sono accidentali, ma costitutivi del suo essere; la sua ubicazione nello spazio e nel tempo ne condizionano la forma e l’apparenza. Nominare un oggetto vuol dire quindi evocare una o più delle sue modalità, al di fuori delle quali esso non ha nessuna realtà. (Roscioni 1995a: 7-8)

Data la presenza di «innumerevoli significati», il critico nega giustamente l’unitarietà della descrizione gaddiana. Ciò però non significa che Gadda scriva per frammenti slegati. Come Roscioni spiega, «queste apparenti divagazioni, iniziate e poi abbandonate per essere riprese poche righe o pagine più avanti, sono la sostanza stessa della narrazione».

In questa relazione non intendo analizzare il significato della descrizione gaddiana né tanto meno la sua struttura. Vorrei invece esaminare l’uso della retorica (e della metafora, nella fattispecie) come elemento organizzativo, per poi mostrare come dietro all’apparente molteplicità descrittiva le scelte linguistiche gaddiane siano legate ad alcune metafore dominanti: nel caso del Pasticciaccio, la metafora del mare.

Prima di entrare nel merito dell’opera gaddiana è però il caso di tornare a chiedersi perché privilegiare la metafora nell’analisi di un testo letterario. Non ho ancora una risposta definitiva a questa domanda, ma sono convinto che le qualità organizzatrici della figura non siano state ancora studiate sino in fondo.

A partire dagli anni Settanta, con l’approfondimento delle teorie strutturaliste si è registrato un aumento dell’interesse per la versatilità del tropo (la metafora produce semanticamente un «cambiamento di direzione», da un senso letterale ad uno figurato, all’interno di una frase, di un verso o di una poesia intera). Bice Mortara Garavelli, nel suo manuale di retorica, definisce la metafora come «figura di parola» e quindi pertinente alla elocutio. Io vorrei partire invece dall’idea che la metafora sia «una figura di pensiero», simile all’analogia, un’altra figura con proprietà organizzative. Anche se l’allegoria viene spesso definita come una «metafora estesa», le due figure vengono distinte proprio per il fatto che l’allegoria contiene una componente narratologica che mancherebbe completamente alla metafora.

Seguendo questo ragionamento, vorrei innanzitutto distinguere tre tipi di metafore. La prima è quella semplice, e comporta sostituzione di parola, con funzione metaforica, alla fine del verso o della frase. La seconda è quella organizzativa, la «metafora-sintesi» di Albert Henry – organizzativa, cioè, del testo letterario, e in quanto a sua volta sostenuta da metafore subordinate dello stesso campo semico. (1) La terza è quella preludiale: ideata e costruita prima della scrittura del testo, e dunque parte del magma poetico che dà vita all’opera stessa – se rimane allo stadio di metafora implicita, può essere estremamente difficile da verificare. (2) Esempi di metafora preludiale esplicitata sono la metafora goldoniana dei due Libri (quello del Mondo e del Teatro); per Pasolini, la società divisa in due Razze in un’epoca definita come la Nuova Preistoria; e nel caso di Gadda, la realtà concepita come tessuto o come fluidità (l’acqua marina). (3)

Ma non è sufficiente definire i parametri interpretativi della metafora. Scorrendo il Pasticciaccio ci si accorge subito dell’uso frequentissimo della similitudine. Si veda ad esempio:

Per lei, dal Tevere in giù, là, là, dietro i diroccati castelli e dopo le bionde vigne, c’era, sui colli e sui monti e nelle brevi piane d’Italia, come un grande ventre fecondo, due salpingi grasse, zigrinate d’una dovizia di granuli, il granuloso e untuoso, il felice caviale della gente. Di quando in quando dal grande Ovario follicoli maturati si aprivano, come ciche d’una melagrana: e rossi chicchi, pazzi d’un’amorosa certezza, ne discendevano ad urbe, a incontrare l’afflato maschile, l’impulso vitalizzante, quell’aura spermatica di cui favoleggiavano gli ovaristi del Settecento. E a via Merulana 219, scala A, piano terzo, ci fioriva la nipote, nel meglio grumolo, propio, del palazzo dell’Oro. (Gadda 1997: 12 – miei corsivi)

Lo spazio geografico viene descritto dal narratore con la similitudine di un ventre fecondo. Da notare, innanzitutto, la lunghezza della frase: una concatenazione d’immagini che inizia con come, parola d’uso frequentissimo in Gadda ma che quasi si perde nel periodo. Per la lunghezza della frase il valore comparativo della similitudine risulta cioè diminuito, prevale il significato metaforico (x è y, e non x è come y). Spesso le metafore sono prodotte dalle similitudini, e vice versa. Non è sufficiente definire i parametri interpretativi della metafora, si diceva: è necessario infatti considerare anche l’applicazione delle figure retoriche.

Sempre nello stesso brano notiamo poi che lo spazio geografico è descritto come un corpo. Lo spazio è «come un ventre fecondo» (similitudine), ma «di quando in quando dal grande Ovario follicoli maturati si aprivano» (metafora), «si aprivano come ciche d’una melagrana» (similitudine), «e i chicchi, pazzi d’un’amorosa certezza, ne discendevano ad urbe, a incontrare l’afflato maschile, l’impulso vitalizzante, quell’aura spermatica di cui favoleggiavano gli ovaristi del Settecento» (metafora).

Va detto a questo punto che Gadda tende ad usare una molteplicità di metafore per descrivere lo stesso oggetto. Quale metafora va privilegiata? Il palazzo dei Balducci è chiamato simultaneamente palazzo dell’oro e palazzo dei pescicani. La presenza simultanea di due figure che appartengono a due campi semici diversi parrebbe segnalare precarietà conoscitiva. Il narratore non riesce, o così sembra, a descrivere un oggetto in modo definitivo. In alcuni casi però è Gadda a scegliere: sviluppando o rafforzando un’immagine in riprese ed ulteriori descrizioni. È questo il caso della metafora del palazzo dei pescicani – che si ricollega alla metafora dominante, oggetto del nostro studio.

Il linguaggio metaforico del mare è frequentissimo già in Meditazione milanese. All’interno della filosofia gaddiana non è affatto arbitraria la scelta della metafora marina. Per lo scrittore conoscere è infatti deformare. Il processo è continuo e mutabile come un flusso d’acqua. L’autore scrive: «La nostra conoscenza è un sistema immerso in un più vasto sistema» (Gadda 1974: 232 – mio corsivo). Per Gadda la vita è un flusso continuo, il nostro spazio è visto come un oceano. (4) L’immagine marittima ritorna in tutto il trattato specialmente quando Gadda parla del suo ruolo di filosofo:

Il terreno del filosofo è la mobile duna o la savana deglutitrice: o meglio la tolda di una nave trascinata dalla tempesta: è il «bateau ivre» delle dissonanze umane, sul cui ponte, e non che osservare e riferire, è difficile reggersi. Questa nave viaggia mari strani e diversi: ed ora la stella è termine di riferimento, ed ora, nella buia notte, il «metodo» non potrà riferirsi alla stella.
Mobile è il riferimento conoscitivo iniziale; diverso, continuamente diverso, il processo. (Gadda 1974:54)

In queste pagine, Gadda paragona spesso il suo lavoro (di filosofo) a quello del navigante. All’inizio del capitolo sul dato, il suo alter ego critico osserva: «Voi accumulate delle sciocche bestialità l’una sull’altra e credete di dir cose di qualche interesse». E Gadda risponde:

Una doverosa modestia mi vieta l’uso della toga accademica e la coscienza delle mie deboli forze fa che io mi tenga vicino a terra, come un nuotatore debole ed inesperto. La piccioletta barca della mia scienza sarebbe presto sommersa dal truculento Scuoti-la-terra, se io mi avventurassi nei dominî tempestosi. (Gadda 1974: 156)

E, riprendendo la metafora della navigazione, afferma:

Non voglio rivolgermi qui all’indagine oceanica se questa attività o elaborazione o differenziazione sia necessaria o finale (Spinoza e Antispinoza) o si autoponga (Fichte) o [sia] posta a noi dal di fuori, ecc. Simile Oceano è troppo vasto per una disarmata caravella. (5)

Da queste metafore, possiamo capire cosa Gadda intenda per lavoro di filosofo. L’autore non pensa di poter fare un viaggio di esplorazione, diciamo, alla Cristoforo Colombo – immagina difatti un «giro di cabotaggio», quasi con la paura di distanziarsi troppo dalla terraferma. (6) Così l’autore riconosce i limiti (della conoscenza umana) di fronte all’apparente infinità dell’oceano. Parlando ancora della deformazione del procedimento conoscitivo, Gadda scrive:

Un atto deformante non è un individuo ma una sinfonia di relazioni intervenenti: abbiamo visto che uno spostamento in un sistema è spostamento, alloiosis, di tutti gli elementi di un sistema: perché nel mondo delle relazioni non esistono monete tesaurizzate nell’arca e dimenticate dalla pulsazione vitale, ma tutte si muovono e rappresentano rapporti. […] Aliter: gettiamo un boccon di pane nel lago e tutti i pesci si precipitano (non un solo pesce) come frecce centripete verso il boccone, raggi d’un cerchio. Aliter: si deprime il barometro qui a Milano (zona ciclonica) e tutte le masse d’aria che percepiscono ciò si precipitano qui: (cioè dagli otto canti della rosa dei venti e non da un canto solo, p.e. Grecale). (Gadda 1974: 77-78)

L’immagine del vortice – sia quello d’acqua, che quello d’aria – torna più volte in Meditazione, e riappare soprattutto nel Pasticciaccio. Sempre in linea con la caratteristica della fluidità, il vortice comunica il movimento a spirali che porta tutto al centro: e che è poi il centro del nodo, del groviglio o dello gnommero.

In Meditazione, nel capitolo sul dato, Gadda coniuga la metafora marina alla prospettiva dell’ingegnere/progettista:

L’ingegnere progettista e costruttore di una moderna dreadnought progettando per sintesi la nave raduna in essa una somma di motivi tecnici (summa rationum) (montacarichi elettrici, turbine a vapore, caldaie, comandi idraulici ed elettrici, cannoni, torri blindate, telegrafia, illuminazione ventilazione, ecc. ecc.). Egli può paragonarsi allo Spirito determinante, creante l’organismo nave. (Questo organismo nave, bisogna incidentalmente farlo ben risaltare, non è compiuto, non è un organismo senza il concorso del personale – dal comandante all’ultimo mozzo. Filosoficamente il concetto di nave meccanicamente realizzata è un ghirigoro senza senso, se mancano gli 800 o 1000 uomini di equipaggio. Non potrebbe navigare, combattere, ecc.). (Gadda 1974: 166)

In questo passo, la metafora del mare viene utilizzata per comunicare una concezione (anche tecnica) della realtà. Inoltre, l’esempio torna utile per affermare l’impossibilità di dominare la realtà attraverso la descrizione. La descrizione è un modo (o un tentativo) di isolare la realtà attraverso idee e parole, ma Gadda capisce perfettamente l’impossibilità dell’isolamento attraverso la nominazione. E difatti, nel capitolo I modi del divenire Gadda ribadisce l’intreccio di relazioni nella realtà, quando scrive:

La forza + antiforza sviluppata dall’elica deve pensarsi come esterna al sistema nave preso a sé, nel senso strettamente meccanico del teorema della costanza dell’impulso, essendo invece interna al più vasto sistema nave + masse d’acqua colpite da impulso.

Ma precisamente da un punto di vista logico, la relazione instituita dall’elica fa parte del sistema nave, come del sistema stesso fan parte le masse d’acqua colpite da impulso. Cioè la nave non deve pensarsi in sé come oggetto chiuso e definito dalla navata, prora e poppa, babordo e tribordo, carena e coffa, sé come nucleo o nodo di relazioni comprendente e l’antinomia forza-antiforza, e le masse d’acqua, ecc. E dicendo nave, si dice questo sistema più complesso di relazioni reali e non quella grottesca e apparentemente definita barchetta che l’occhio puerile ammira. (Gadda 1974: 260-61)

E sull’ultima pagina del quaderno ricorre ancora una volta ad un’immagine marittima:

Il critico: «La realtà sembrerebbe dunque possedere nel suo infinito deformarsi dei vortici o urti, come i quanti d’acqua in un ruscello, colà dove si annientano dei sistemi contradditorî, o dove almeno, per parlar meglio, essi sistemi si contengono e frenano reciprocamente, (come due parti d’acqua che nel ruscello tendevano a devolversi l’una contro l’altra) dando luogo a nuove formazioni d’equilibrio.
Rispondo: «Ciò è probabile. Accetto la vostra idea che [la] realtà si presenti come una coinvoluzione di sistemi significativi. La realtà sembra una città e la città è fatta di case; e la casa è fatta di muri: e il muro è fatto di mattoni; e il mattone è fatto di granuli. E il granulo è in sé, e nel mattone, è nel muro, è nella casa, è nella città. (Gadda 1974: 192)

L’immagine del vortice, associato al palazzo, si trova all’inizio del Pasticciaccio. Con un tono filosofico, Gadda riflette sul concetto delle cause quando scrive (a proposito del commissario Ingravallo): «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti» (Gadda 1997: 4). E ancora: «La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata ragione del mondo» (Gadda 1997: 5).

Qui l’autore parte da una similitudine, ma fidandosi del paragone iniziale, ricorre poi alla metafora del vortice per descrivere le forze intrinseche del delitto. Inoltre, il palazzo dove abitano i Balducci («palazzo dei pescicani» e «palazzo dell’Oro») viene descritto come un «porto di mare» («Il ducentodiciannove, cinque piani a strada più l’attico e le due scale A e B, con alcuni uffici sulla B, al mezzanino, era un porto di mare»). (7) Non solo il narratore lo descrive in questo modo, ma anche i vari personaggi contribuiscono a chiarire/confermare l’immagine. La Petacchioni dice: «E come no? co’ sto porto de mare der Palazzo?… Qua ce stanno fior de signori, gente de commercio, che se crede, sor commissario?» (Gadda 1997: 28). Il porto, analogo al vortice, comunica l’idea di centralità: nel caso del vortice, un centro naturale ma violento, e nel caso del porto, un centro sintetico, fatto dagli uomini, ma rassicurante.

Oltre allo spazio architettonico, anche i nomi dei personaggi appartengono al campo semico della nostra metafora. Innanzitutto, non mi sembra casuale che il cognome di Giuliano sia Valdarena (Valle d’arena, con la sua futura sposa Renata). Inoltre, Giuliano lascia Roma per andare a Genova, una delle città portuarie principali d’Italia. L’altro personaggio, la Menegazzi, lascia Venezia, altra città di mare, per vivere a Roma. Nella seconda metà del libro, l’investigazione si sposta dal Palazzo dei pescicani e dal commissariato urbano, alla provincia albana facente capo alla cittadina di Marino.

Liliana è definita figlia di un pescecane. Virginia viene raffigurata come squalo («con quei denti bianchi a triangolo […] come dovesse laniare er core a quarcuno», Gadda 1997: 124) – a rafforzare il concetto della violenza fagica della nipote-squalo (di «sensazioni fagiche» vivono del resto già tutti i «pescecanucoli» del duecentodiciannove), così la ragazza risponde alla padrona: «“Sora mia bella Liliana, voi site ’a Madonna pe mme!” poi, basso basso, in un tono di ardore anche più soffocato: “Ve vojo bene: bene, te vojo: ma una vorta o l’antra me te magno”» (p. 125).

Non manca al repertorio nemmeno l’immagine della remora, la parassitaria remora remora che attaccandosi a navi e pesci li rallenta: «Amorosa lo affisava (e alcuna saliva trangugiava) con lo sguardo socorrevole e ghiotto di una crocerossina o di una infermiera un po’ necròfila: occupata a detergergli d’una carezza lieve la fronte con la più remorante sua mano» (Gadda 1997: 262).

Insomma, quasi tutti i personaggi o i luoghi si collegano in un modo o nell’altro, più o meno scopertamente/indirettamente alla metafora marina. Anche il nome di Liliana ha forse un legame col mondo acquatico. Liliana significa etimologicamente «giglio», un nome generico per i fiori delle Liliacee. Ci sono due tipi di gigli che ci potrebbero interessare. Nel contesto della metafora marina è curioso sottolineare queste possibilità tenendo presente anche il grande piacere che provava Gadda nell’uso tecnico (oltre che inusuale) dei vocaboli. Il primo è il giglio d’acqua, ma ai nostri fini è più interessante è il secondo: il giglio di mare.

Questo è il nome volgare di molti echinodermi marini che appartengono alla classe dei Crinoidi, così nominati per il loro corpo a forma di piccolo calice. Anche se questo animaletto non appartiene alla famiglia delle Liliacee (anzi, non è affatto una pianta!), è curioso notare che il giglio di mare rimane immobile per tutta la sua vita, attaccato all’arena (cioè nella valle d’arena?) nelle acque più profonde. Usando un dizionario digitale (Picchi 1999), mi sono accorto sono pochi gli organismi marini i cui nomi derivano dalla flora. Anzi, sembra proprio che ce ne siano solo due: uno è il giglio di mare, l’altro il garofano di mare.

Il garofano di mare ha inoltre una vita molto simile a quella del giglio (s’attacca alle rocce ed ai coralli nei fondi marini…). Non va dimenticato poi che al funerale di Lilliana sono due i fiori che vengono gettati nella sua fossa: gigli e garofani. Forse è solo un caso, chissà. Di certo, il motivo dell’arena è apertamente connesso, nell’immaginazione dei poliziotti, al corpo di Liliana assassinata: «La solcatura del sesso… pareva d’esse a Ostia d’estate, o ar Forte de marmi de Viareggio, quanno so’ sdraiate su la rena a cocese, che te fanno vede tutto quello che vonno. Co quele maje tirate tirate d’oggiggiorno» (Gadda 1997: 48).

Non dimentichiamoci poi le modalità della morte della donna. Liliana ha subito una lacerazione profonda al collo, ma il narratore sembra suggerire che sia annegata, letteralmente, in «un lago di sangue» (liquido che arriva, in gocce e diluito, sino allo «sciacquatore de cucina»): (8)

Una cerea mano si allentava, ricadeva… quando Liliana aveva già il cortello dentro il respiro, che le lacerava, le straziava la trachea: e il sangue, a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse, in quello strazio, da paré tante bolle de sapone rosse: e la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo, lùf, lùf, a mezzo metro di distanza. Il fiato, l’ultimo, de traverso, a bolle, in quella porpora atroce della sua vita: e si sentiva il sangue, nella bocca, e vedeva quegli occhi, non più d’uomo, sulla piaga: ch’era ancora da lavorare: un colpo ancora: gli occhi! della belva infinita. La insospettata ferocia delle cose… le si rivelava d’un subito… brevi anni! Ma lo spasimo le toglieva il senso, annichiliva la memoria, la vita. Una dolciastra, una tepida sapidità della notte. (Gadda 1997: 56)

L’acqua è il denominatore comune del Pasticciaccio. Al momento del delitto della Menegazzi, Liliana era appena uscita dal bagno: «“Gesummaria! Prima aveva sonato alla sora Liliana” “Chi?” “Ma l’assassino…” “Ma qua’ assassine si nun ce sta ’o muorto?” La sora Liliana (Ingravallo trepidò), sola a casa, non aveva aperto» (Gadda 1997: 17). E su questo fatto, Gadda insiste: «La signora Liliana apparve infine a sua volta, molto bella: escluse di poter fare delle congetture: ebbe delle buone parole per la Menegazzi, le offrì d’ospitarla: confermò, dietro domanda, che un po’ prima dei due colpi di pistola il suo campanello aveva sonato pure lui, alquanto timidamente, per altro. Era nel bagno» (p. 25).

Siginficativamente, i colpi di pistola del primo crimine sono descritti come dei tonfi, quasi che il ladro avesse sparato direttamente nell’acqua: «Poco prima, sì, sì, questo sì, aveva udito pure lei i due colpi: due tonfi, che venivano fuori dal portone» (Gadda 1997: 24). E poi, «Gridi non ne avevano uditi, né rumori, né tonfi: neppure la Menegazzi, che se stava a pettinà, neppure i due Bottafavi marito e moje» (Gadda 1997: 70).

E pure i gioielli vengono incorporati nel campo semico della metafora dominante. A un certo punto si parla di corallo a proposito di un diaspro: «Un diaspro sanguigno verde lustro, scuro scuro come la pimpinella, con due vene de corallo… rosse! che pareno du vene der core, una pe te, una pe me» (Gadda 1997: 96). E poche pagine dopo: «è questo, nun c’è dubbio: un brillante de dodici grani dodici emmezzo a dì poco. Un’acqua magnifica». (9) Nel gergo dell’oreficeria, una pietra di prima acqua significa di altissima qualità. Gadda avrebbe potuto esprimere questo concetto in mille altri modi – sceglie invece restringere il campo semico, allo stesso tempo arricchendo la metafora organizzativa. L’autore, consapevolmente o meno, privilegia cioè un campo semico su un altro, strutturando anche in questo modo la sua opera.

Nel Pasticciaccio le idee approdano, o vengono a galla (Gadda 1997: 115):«Ore e giorni preziosi: idee, congetture, ipotesi: che non approdavano a nulla». E così pure le immagini: «L’immagine di quella campagna così desolata nel marzo, che con il ristare di scirocco e delle raminghe sue piove, dal lido, ora, approdava in una chiarìa tersa ai Castelli, a le case degli umani, lo fascinò ad un tratto come apparita di magìa: i cubi e i diedri delle case la coronavano al sommo, i cenobi, le torri» (Gadda 1997: 235).

Parlando della morte di Liliana, sempre nel campo semico dell’acqua, Gadda scrive: «Pure quell’idea di voler morire, se non le arrivava il bambino: un po’ se l’era “immaginata”, don Ciccio, o credeva? pe la conoscenza de la signora Liliana: un po’ era venuta a galla dalle immissioni del cugino e, ora, dal parlare del marito: fatto loquace dalla disgrazia, e dal sentirsi al centro dell’attenzione e della compassione generale…» (Gadda 1997: 114 – miei corsivi).

Le persone non vengono trovate o conosciute, ma ripescate: «Ha pescato sta Gina, povera Ginetta! Ma prima della Ginetta la storia aveva tutto un altro indirizzo, tutto un sapore» (Gadda 1997: 11). E ancora: «O per abbadare dietro a le belle, o per involarsi a le belle: a certe belle, così almeno parve a Ingravallo di poter intendere, smaniose di lui, di ritrovarlo, di ripescarlo, con lunghe guardate scrutatrici di là dal fluire delle macchine, da un marciapiede all’altro, o lungo il marciapiede gremito di tavolini e di scranne, di signori e signore in bibita o nell’atto di suggere, in caute, disinteressate riprese, la pallide fistule» (Gadda 1997: 153). Tutte metafore d’uso comune, persino banali, e che hanno perso il loro significato metaforico. Ma la metafora dominante resuscita il valore metaforico di queste metafore «morte». e ne risulta a sua volta rafforzata.

Le figure marine ovviamente non si limitano a questa breve rassegna né al Pasticciaccio. Qui ho tentato innanzitutto di tracciare un primo profilo della coerenza metaforica dell’opera gaddiana. Oltre ad essere organizzatrice del testo, la metafora del mare in Gadda è sicuramente conoscitiva. Non comunica una struttura orizzontale, non rimanda a una trama simbolica da interpretare. Non offre né simboli, né componenti di un’allegoria più ampia. È un movimento verticale e con valore allusivo ad una precisa concezione del mondo.

Notes

1. A. Henry, Metonimia e metafora, Einaudi, Torino, 1975. Henry fornisce vari esempi, uno dei quali, preso dalla poesia intitolata Dieu di Hugo, vorrei riportare in nota: «Ecco un esempio chiarissimo, in cui la metafora-sintesi è espressa all’inizio:

Peut-être étais-tu là quand Dieu fit l’univers?
Et sans doute, en ce cas, ta peine fut cruelle
De voir que ce maçon n’avait pas de truelle
Et qu’il bâtissait l’ombre et l’azur et le ciel,
Et l’être collectif et l’être partiel
Et l’étendue où fuit le pâle météore,
Qu’il bâtissait le temps, qu’il bâtissait l’aurore,
Qu’il bâtissait le jour que l’aube épanouit,
Les vastes firmaments bleus jusque dans la nuit,
Et les dômes profonds où vole la tempête,
Sans monter à l’échelle, un auge sur la tête!*

La metafora-sintesi, maçon, è specificata in modo dettagliato entro l’unità descrittiva: truelle, bâtir, monter à l’échelle, auge sur la tête evocano semi costitutivi del concetto maçon, ed una volta espressi linguisticamente divengono termini del campo associativo di muratore».

*[Eri forse presente quando Dio fece l’universo? E certo, in tal caso, la tua pena fu crudele nel vedere che questo muratore non aveva cazzuola e ch’egli costruiva l’ombra e l’azzurro ed il cielo, e l’essere collettivo e l’essere parziale, e l’estensione in cui fuggì la pallida meteora, ch’egli costruiva il tempo, costruiva l’aurora, costruiva il giorno che l’alba dischiude, i vasti firmamenti blu fino dentro alla notte, e i duomi profondi in cui vola la tempesta, senza montare la scala con una conca sulla testa.]

2. Una metafora esplicita può essere rappresentata dall’equazione: x è y. (i.e. Giovanni è un diavolo). Una metafora implicita è una metafora in cui il senso dell’equazione viene capito senza essere esplicitamente presente nel testo: [Il Diavolo verrà alla festa (cioè Giovanni)].

3. In questo studio del Pasticciaccio ho cercato di isolare le metafore esplicite del mare, tralasciando quelle implicite, per ovvie ragioni. Il rischio interpretativo che si corre con Gadda è davvero troppo grosso.

4. «Se esistesse un mero essere, senza il suo necessario divenire, non esisterebbe il sentimento. Il sentimento di proprietà che spinge certuni alla cieca ed onnina fede in un mio assoluto e statico (alludo proprio a un sentimento che pertiene a una degenerazione fantastica; non intendo alludere all’avarizia o durezza di cuore; ma proprio a questa ingenua e fantasiosa e disperata ed unghiuta febbre del mio assoluto) sembra mostrare a un troppo facile giudice, che il sentimento si aggrappa, si avvince anche al supposto mero essere. Ma no. Nasce quel sentimento come reazione al flusso deformatore della vita, che porta via (aufert) le parvenze e le cose; come anelito del persistere contro l’inesorabile legge della deformazione; e come coronamento o laurea della fatica fatta a raggiungere la proprietà» (Gadda 1974: 272).

5. Gadda 1974: 87. Inoltre scrive: «Il filosofo, indagatore ed escogitatore, è e deve essere la ragione pacatamente ed eroicamente integrantesi: non vanità, non grido cieco di dolore o di fame o di libidine, non piaggeria del pensiero comune e nemmeno preconcetta repulsa di esso, non ornatezza di atteggiamenti, ma quasi intrinseca concatenazione e flusso di posizioni reali, che interpreta e lega, che vede e ricerca, che constata e costruisce, che accumula e perfeziona. Egli, immerso nella buia notte, cava dall’ombra le cose con il getto luminoso della potente analisi: ivi sono le porte paurose delli andati neri, e sono immobili e chiuse. Strane bestie vi dormono nello strame della pigrizia e della sensualità loro e sono li umani. Ma neri cubi di ombra si sfaldano, come blocchi enormi da una rovinosa frana: e appaiano e si creano forme nuove e distinte e concatenazioni infinite nel flusso e nella deformazione infiniti» (p. 296).

6. «Le mie considerazioni sono un giro di cabotaggio di fronte a questi viaggi oceanici. Ma io dico: il dato o realtà è una pausa della deformazione in atto, operantesi come correzione (sic) o introduzione di relazioni sempre diverse. Il dato è per gli altri uno stacco sicuro dalla terra ferma, una predella ferma per spiccare un bel salto. Per me è lo stacco da una tolda traballante (bateau ivre): o una predella già essa moventisi» (Gadda 1974: 99). L’idea del cabotaggio viene ripetuta: «L’opera dei grandi non può essere confusa con quella degli umili. Io faccio un piccolo giro di cabotaggio e il mio periplo non mi consente di conoscere l’al di là oceanico. Lasciatemi raggranellare quel poco che posso dalla mia magra pesca: se pescherò delle alghe, le restituiremo al mare. Ciò non avrà danneggiato nessuno, e avrà procurato un modesto profitto al cartolaio, che mi vende carta ed inchiostro» (p. 247). Verso la fine del quaderno scrive ancora: «Lieto d’aver conchiuso il mio lieve cabotaggio, riconduco la mia caravella nel porto, con l’intenzione di ristopparne le coste di quell’arzanà dove la tecnica de’ provetti maestri o Vinigiani potrà consentirmi di trovar tacconi alle falle o busi» (p. 280).

7. Gadda1997: 22. Si veda anche: «Già in quer gran palazzo der ducentodicinove non ce staveno che signori grosso: quarche famija der generone: ma soprattutto signori novi de commercio, de quelli che un po’ d’anni avanti li chiamveno ancora pescicani. E il palazzo, poi, la gente der popolo lo chiamaveno er palazzo dell’oro» (p. 7).

8. «In tutta la camera da pranzo, no, nessun indizio… all’infuori der sangue. In giro pe l’altre camere nemmeno. Salvoché ancora sangue: delle tracce palesi ne lo sciacquatore de cucina: diluito, da parer quello d’una rana: e molte gocce scarlatte, o già nere, sur pavimento, rotonde e radiate come ne fa il sangue a lassallo gocciolà per terra: come sezioni d’asteriodi» (Gadda1997: 56-57).

9. Gaddda 1997: 110 (miei corsivi). L’immagine del corallo viene riproposta in varie costruzioni diverse: «Aveva sogguardato al Balducci: “Mo te crescheno in testa!” pensò. “Un atollo de coralli, te cresce”. E invece: “Chisse femmene!” aveva sospirato: con un viso più che mai torvo sotto al parruccone d’Astrakàn. Giuliano, ora, nel salotto bono. Due agenti a tenergli compagnia» (p. 54); «Tu sei giovane, diceva, sei sano… (come un corno de corallo, dottó, questo lo dico io)… come un Valdarena» (p. 102); «La sua procace bellezza, la sua salute, da diavola de corallo dentro de quela pelle d’avorio, i suoi occhi!…» (p. 123).

Bibliografia

Gadda, C.E., Meditazione milanese, a cura di G.C. Roscioni. Einaudi: Torino, 1974.

Gadda, C.E., Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, 1997.

Henry, Albert, Metonimia e metafora.Torino: Einaudi, 1975.

Picchi, F., Grande dizionario inglese: Dizionari Hoepli su CD-ROM. Milano: Hoepli Editore, 1999.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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Framed image (with distortion): Gadda with his colleagues and students at the Liceo «Parini» in 1925.

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