Anastomòsi

Al di là del vetro la Sanità bianca ed immune. Disteso da due minuti sul lettino operatorio, quel corpo inerte sarà oggetto della perizia dei soccorritori. Scevro di ogni sovrapposizione della civiltà. Inetto a rappresentare il grado e la condizione di ieri: spoglio degli indumenti distintivi, pelliccia o tabarro, di che lo stato sociale o i meriti o l’arte o l’ingegno o i risparmi o la tecnica dell’abbigliamento e dell’adulazione potevano averlo addobbato, nel giorno di sua totale facoltà. La sola cartella clinica enuncia, quasi incidentalmente, se il lettino a ruote ha introdotto nella sala un falegname o un senatore, un presidente di anonime a catena, o un facchino dello scalo merci.

Carpiani, con estrema cortesia, mi affida a uno dei signori chirurghi suoi collaboratori presso la clinica universitaria. Assisterò a un intervento del maestro, forse a più d’uno, da quella specie di teatro anatomico in soffitta che è un’aula buia (necessariamente) sopra e tutt’attorno il velario di cristallo della sala operatoria.

Il chirurgo mi potrà suggerire il nome delle cose e degli atti, il loro fine, le modalità più perspicue del processo.

Ma una sospensione, un breve tumulto del mio sentire attardano l’inizio dell’indagine. Quando lo sguardo discende nella camera della luce, bianchi esseri vi si muovono: con brevi percorsi, dentro un tempo silente. I moti, e i gesti preordinati, subito si spengono nel loro limite. Crederei di riconoscere in una cella o in un ipogeo strano dei defunti secoli egizi gli esecutori imperterriti di una imbalsamazione, che operano sulla salma del re Amenhotes gli atti inconsueti e indicibili, e tuttavia necessari, della consacrante pietà. No. Non Amenhotes né Rahotpe II è disteso nelle sue fasciature di bisso, dopo la prolungata salatura adattatosi a ricevere da freddo gli estremi serviziali di soda caustica, a lasciarsi laccare con balsami toluolici il volto purificato dal sale, affilato: poi con il tepido benzoino dell’eternità. Un corpo d’uomo steso, col capo celato come da un paravento, da un tettuccio bianco ed emisferico di culla ma rivolto al contrario, che gli vieti di guardare alla propria eviscerazione. Tutto il rimanente è coperto di tele e potrebbe credersi fasciato; salvo che la piana superficie dell’epigastro appare nuda, a principiare dall’umbilico e insino all’affossatura sotto lo sterno: tinta d’un color zafferano che al primo percepirlo avrei detto d’una lividura di peste o d’una intumescenza pervenuta a maturità chirurgica, o d’uno stravaso biliare dell’immoto e indifeso. Una mano di tintura di iodio, in realtà, dopo la depilazione e il lavaggio preventivo con alcole. Enormi aghi, ecco, vengono introdotti sotto la pelle così pitturata, ma tenuti, come è ovvio, in superficie di questa, o appena poco sotto il cutaneo: e allora lunghe grinze e pieghettature della pelle, ogni volta che l’aguglione temerario vi s’infila: onde e grinze normali alla direzione della punta. E l’ago avanza, avanza, perforando il cutaneo, fino a raggiungere, avrei pensato, il groppo cocleare dell’umbilico. Gli esseri del silenzio bianco, ora vedo, hanno tra mano siringhe di volume ben superiore alle solite: in toto 160 centimetri cubi di liquido vengono immessi tra pelle e muscolo, di un corpo già mezzo stupefatto nell’oppio. Sono iniezioni di percaina, l’anestetico d’uso, e di adrenalina, il vaso-costrittore che impedirà l’emorragia. Trattandosi di una resezione del duodeno e delle conseguenti suture, fra cui quella che allaccerà lo stomaco all’ansa del tenue, non è possibile ricorrere all’anestesia eterea: che procura notoriamente, al risveglio, conati di vomito e contrazioni varie del gastrico: tali da poter compromettere il nuovo e artificioso collegamento degli organi e l’ottenuto rappezzo dei tessuti circostanti.

Carpiani, ecco, entra nella sala. Alto, con un passo leggero ed elastico dovuto forse anche, in parte, a speciali calzature di gomma, quasi venisse appena da un bel campo di tennis: si spoglia della veste bianca, a zimarra, e appare in maglietta come chi ha caldo, in casa propria, di luglio, e può permettersi i propri comodi. Già si è lavate le mani, di là, mi avverte il mio suggeritore: a lungo, in acqua tepida, con del sapone, con degli spazzolini detersivi: ma ora se le lava e rilava e le tiene immerse nell’alcole per una diecina di minuti. È strano: il gesto della indifferenza morale vien compiuto con la sollecitudine serena di chi ha preso conoscenza dei fini e dei mezzi, con la pacata insistenza della ragione. Il gesto dell’antico procuratore di Roma perde l’antico senso e divien l’atto iniziale di una prammatica vigile e sicura del suo processo, il modo proprio di chi ben sa e benignamente provvede, ed escluderà il male dalla tenebra corporea e dopo gli esatti minuti vi ricomporrà le ragioni della vita.

Una infermiera porge il camice, la cuffia, la maschera: e poi i guanti di gomma. Egli li infila, certo con una lucida nozione della loro consistenza velare: la sua mano, per immunizzarsi e lasciare immune il paziente corpo, accetta di perdere un millesimo della sua sagacia, della sua implacata perizia. Eccolo diventato una bianca fantasima: dignità di un intelletto rivestita di un bianco camice, imbavagliata, incuffiata: da cui si spiccano le due braccia e le mani paurose, inguantate di guttaperca, ad osare ogni incredibile momento. Lunghi anni d’arte e di studio si radunano nei magistrali minuti, sotto l’esile scafandro di questo palombaro sterilizzato.

Una piccola suora bianca responsabile della sala: autoclavi e teche di cristallo, di nichelio: due crocerossine incuffiate, imbavagliate, a una estremità del lettuccio operatorio, da piedi dell’inerte: presso una sorta di vassoioponte, che sormonta le gambe: ivi l’avanguardia dei ferri. Poco più su, a metà circa della figura distesa, l’assistente ai ferri e l’aiuto: di faccia al professore che dall’altro lato è solo, e ha infilato a sua volta guanti bianchi di filo, sopra quelli di gomma. Un quarto medico è seduto come ad uno sgabello presso il capo del malato, al di là del breve paravento di tela che vieta a lui di poter scorgere gli atti dei risanatori e le rosse e secrete parvenze di se medesimo. Il medico sembra sostenere quel capo, quasi con la carezza magica e sacra di chi voglia infondere lo spirito di vita nella forma giacente: la quale rasenta, forse, buie probabilità. Con una mano (mi dico) sarà sul carpo del prostrato a guardia del polso.

Un altro col camice, quasi al limitare della stanza, legge a Carpiani una breve allocuzione di cui non odo parole: la cartella clinica. Sospeso alle strutture portanti del velario, il riflettore proietta sugli incamiciati la lucidità cosciente di un sistema preordinato di compiti, la nozione preventiva degli atti ardui, che si dovranno sicuramente perfezionare.

Discendo ora nella sala: a mia volta candido, secondo il giusto rigore delle prescrizioni. Alcune diapositive radiografiche sono sospese alla parete di vetro, patenti alla veduta di chi opera: le anse del duodeno vulnerato. Il maestro senza parole ha stretto la sua penna tagliente, lucidissima.

Una incisione diritta nel tavoliere color zafferano, dall’epigastro fino alla regione dell’umbilico. Piccole stille rosse a puntuare la percorrenza del bisturi, direi senza seguito: l’adrenalina! Si palesa uno strato bianco, il connettivo sottocutaneo poco prima anemizzato, che ulteriori incisioni dischiudono fino a lasciar dilatare la ferita in una apertura a doppia ogiva, con labbri di più colori sovrapposti, dal sanguigno al cereo. Ed ecco, al mezzo, il viscido rosa del peritoneo. I margini della spaventosa losanga trasudano la loro breve pena vermiglia, subito detersa con le garze dal chirurgo aiuto.

Ed ecco la precisa lucidezza delle forbici a penetrare e a dividere quel foglio roseo, sieroso, teso e quasi inturgidito dalla pienezza de’ visceri che tuttora cela e contiene. E il baleno d’un atto consueto all’operatore sopra una nudità increduta, interna alla nudità formale a noi nota. Permette al secondo di introdurre le sue dita guantate di filo nella cavità gastrica e di «esteriorizzare» lo stomaco; le cime bianche dei diti si raccolgono e paiono scivolare alla presa; prendono; traggono; estraggono; si fanno di porpora. Dopo il sàcculo biancoroseo altri visceri ancora, mi sembra; e ancora le forbici: forse la prima ansa del duodeno. Forse il bisturi e i primi allacciamenti.

Vedo ora sullo stanco sàcculo tutto avvolto dai mesi il violaceo dei vasi sanguigni, le loro suddivisioni e moltiplicazioni: come radici e barbe d’un’edera d’un color vinoso: che mi potrebbero atterrire se non sapessi. L’arteria epiploica destra, la sinistra, ancor turgide, contro mia fede. Gocce improvvise quando agisce il bisturi e prepara alla resezione la superficie, la esteriore. E le pinze di Kocher subito appuntate alle vene, alle arterie, come lunghe ed esili forbici, in apparenza, ma si chiudono in un battente piatto, dentato: una piccola morsa: a stringere i vasi recisi, a precludere ogni seguito di emorragia. Altri vasi vengono allacciati, con lo spago di porco. Una raggiera di pinze color dell’acciaio lucido in sembianza di forbici trattenute per la punta si costituisce a poco a poco tutt’attorno la grande ferita gastro-addominale e fuor d’essa, con i lor gambi e gli occhielli riversate indietro, sopra i telini e le garze che ormai celano, e ad un tempo proteggono, i margini della spaventosa effrazione. Solo qua o là, e d’un caso, quei lini si invermigliano: per una spessa goccia; o in uno struscio purpureo. Così, zavorrato da questo ricadente peso, e sopra un nuovo appoggio di garze, si beve la sua luce falsa d’una mezz’ora il molle e viscido segreto della costituzione: rosa pallido, rosso, bianchiccio, con qualche frustolo gialliccio, e la trama verdescura o violacea dei vasi sanguigni fuor dal laberinto dei mesi, d’attorno la inanità dello stomaco.

E il calmo chirurgo sembra indugiare in un cerimoniale. Ecco gli atti necessari, le escogitazioni d’una premeditante prammatica. Già una speciale pinza, il gastroenteròstato, i cui battenti sono mollificati da una doppiatura di gomma, ha stretto e però precluso la metà dello stomaco. Il malato è steso su di una lastra di piombo, non incapace alla conduttura dell’elettrico. E con un crepitio breve e alcune briciole violette alla punta, il resettore elettrico, quasi matita nuova dei tempi, incinerisce rapidamente il tessuto del duodeno: questo mi par di udirlo a friggere durante i pochi secondi dell’opera sul molle cumulo del rimanente cinabro, che s’affida ora ai telini e alle garze, come un intruglio molliccio, frammezzo a gli occhielli sventagliati di quel lucido.

Rapida e pressoché inavvertita la cucitura del duodeno: il quale, nel suo tratto inferiore, è legato inscindibilmente alle rivestiture, ai dotti, alle funzioni del fegato, del pancreas: e seguiterà così a dover accogliere gli indispensabili secreti delle due ghiandole; permarrà dentro i laboriosi confini e i giorni certi del corpo, tuttavia prestandosi alle fatiche obbligative del chimismo enterico; né in alcun modo potrebbe venirne estromesso.

Dopo la resecazione del percorso gastro-intestinale ha inizio la fase di ricomponimento, riallacciamento. Si vuol collegare lo stomaco, rimasto senz’esito ancora per un poco, all’ansa digiunale dell’intestino (tenue): il moncone del duodeno, tutto preso dai lacci del vicinato, si comporterà come una derivazione cieca, appendicolare, immettendo nel tenue quanto suol ricevere dal pancreas, dal fegato: per altro, senza esser più percorso dal chimo. Questo far «risalire a monte» il tenue per collegarlo direttamente allo stomaco ricostituisce la continuità della percorrenza gastro-intestinale e segna la fase ardua, e poi conclusiva, della operazione di raccorciamento. Il chirurgo la suol denominare «anastomòsi»: ed è linguaggio mirabile, questo che gli elleni dalla eterna parola hanno potuto concedere, dopo secoli, alla necessità evidenziatrice delle scienze.

Le forbici, ancora, aprono il giallo rosato (di un meso? di un foglio peritoneale?), ma più giù, come un’àsola nella viscidità sacra di ciò che è «io primo e pensiero in subordine». L’aiuto, sagacia pronta, co’ suoi bianchi guanti dai diti scarlatti, si dà a premere e ad esprimere un qualche cosa da quella scombinata mollezza, quasi offrendo al chirurgo la intimità preveduta e cercata e finalmente raggiunta di un segreto frutto. Il diritto chiudersi delle forbici ha aperto una finestretta in quel foglio rosato del peritoneo detto mesocòlon: e l’ammasso molle dell’intestino, o almeno d’un’ansa, ne viene pizzicato fuori da due o tre dita dell’operatore, protette adesso di sola guttaperca: viscida come la cosa che esse trattano: fuori, fuori, fuori! il pallore molliccio. E vedo ora le dita infaticabili smistare, smistare con una sicurezza paziente, le anse flaccide: e trascegliere da quel cumulo informe di entraglie quella ch’egli ben conosce, predestinata al soccorso: cioè l’ansa digiunale. Ripenso povere interiora d’altri esseri, altrove nella funebre luce coloràtesi. O mi parrebbe di considerare il ciarpame delle cose molli revocato a schema nelle fantasiose tavole notomiche dello Anthropologium hundtiano, nei gratuiti nodi di fettuccia del Philosophiae naturalis compendium peyligkiano, piuttosto che nei disegni veridici, mirabilmente patenti, del disegnatore e notomista Leonardo: che il groviglio dell’anse intestinali ha saputo ritrarre in bellezza e in rotondità evidenziante, e quasi nel vigore del travaglio, turgide di un ragionevole accantonamento, gonfie di loro adempiute prestazioni. Qui direi d’una natura decaduta, d’un budello dalla sua sanità tronfia ringaglioffito a miseranda vecchiezza, se non ricordassi che il digiuno preventivo e la purgazione e l’adrenalina e l’oppio lo hanno di tanto afflosciato, sminuito: da ridurlo a meno ancora che il sufolato pneumatico d’una bicicletta, quando di sotto ruota o coperta lo cavano a vedervi il guasto, dopo la bulletta e lo sparo.

I visceri venivano presi ed estratti come una sequenza informe di molli enigmi (per me), che i colori rosati, e rossi, e biancastri, e giallicci, mi dicevano appartenere all’attività prima e centrale della natura vivente. E questa non geometrica espressione dell’io vivo, già plasma, e negli anni organato da una «idea» differenziatrice (tale sembrò nella immagine), l’operatore lo solleva d’una sua mano sopra le garze e la raggiera delle pinze, lo «esteriorizza» nella chiarità dell’elettrico, frugandovi, frugandovi, come a volervi scoprire una qualche ostinata reticenza, una simulazione pervicace, antica. Rigattiere dal bavaglio che cerca una moneta dimenticata in una vecchia veste frusta. Le dita ironiche sembravano palpare la frode. Ma non una goccia ne ricadeva, della calda porpora. Palese, a lui ed ai suoi, nella celere veggenza degli atti in una lunga scuola ammaestrati, l’intimo e insostituibile dispositivo della organicità; che si rivela invece così sconvolto, informe, superfluità rossa ed inane, o anzi miseria d’un pupazzo sbuzzato senza battesimo, alla mia cognitiva d’ignaro d’ogni antropologio e groviglio, smemorata di lontani studi, scarsa, incerta.

L’ansa digiunale deve esser congiunta allo stomaco. L’emostasi mediante allacciamento viene ripetuta ovunque occorre: attimi di poco sangue in una operazione incruenta.

Il gastroenteròstato che aveva chiuso la metà dello stomaco è sostituito da un altro: più proprio, mutata la fase del processo; un altro ancora, assai piccolo, stringe il tenue. E di nuovo la matita dalla strana anima frigge con brevi briciole violette delle sue scintille sul tessuto vivente, a reciderlo, a cauterizzarlo. Opera sullo stomaco (e poi agirà sull’ansa del tenue, ricavandone come una finestretta longitudinale). Il tratto del gastrico che già era stato resecato dal duodeno, si libera ora, dopo quest’altro taglio, dall’appartenere al sistema esofagèo: se ne stacca: con la pinza, vien buttato alla bacinella: come potrebbe farsi d’un rifiuto di cucina; e la suora dai rapidi passi asporta la bacinella verso i laboratorii e la indagine.

Il chirurgo indi abbocca (termine tecnico) le aperture così ottenute dallo stomaco e dal digiuno: giustappone i loro labbri, dapprima i due labbri posteriori; indi, cuciti questi, i due anteriori. Eseguisce sui primi e sui secondi le pazienti suture della ricostituzione, tra le più ardue della chirurgia, denominate suture di Lembert. Ecco, per ciascuna volta: la sutura siero-sierosa od esterna, tra i due strati peritoneali: la muscolare-mucosa, tra i tessuti interni e proprii dello stomaco e del digiuno. Sui labbri anteriori in successione inversa, ovviamente.

I due condotti, il gastrico e l’intestinale, sono stati tagliati e poi appaiati avendo riguardo a che le lunghezze delle due aperture resultassero a un incirca le medesime: chi ha notizia di sezioni coniche potrà subito intenderne il modo.

A poco a poco, sotto le volute dei curvi aghi e delle agugliate di spago d’animale, ecco scompaiono dalla nostra angoscia due leni ellissi di ombra: si rappezzano l’uno all’altro i due tubi come in un raccorciato indumento, quasicché il misero Arlecchino che se ne appropria sia qui pervenuto, tra i vetri, coi lamenti della disperazione, a mendicare questo estremo rattoppo della sua intimidita povertà.

Sui labbri esangui delle due bocche l’alta figura bianca dell’uomo dal camice e dal bavaglio ha ora impreso a cucire: bracciate lente, distese: allacciamenti pazienti.

Tratto tratto si curva, direi a meglio riconoscere il punto. Oh! il tempo di sua lucidità e padronanza non è ancora consumato, l’ora dei ferri, delle garze scarlatte, delle pinze, degli aghi. Nel nefando pasticcio della vita «esteriorizzata», stanata fuori dalla sua caverna come preda nell’orrore, l’uomo bianco, adesso, insinua gli aghi. Insinua la punta del suo conoscere imperterrito, in quell’ammucchio di trippe flaccide: che solo il rostro o l’artiglio potrebbero aver dilacerato fuori dall’orbe del ventre, dall’otre giallo e repentinamente purpureo d’un ventre di pecora. Quello spago è budello di porco rintorcigliato, com’erano budelli di gatto i cantini delle viole favolose. Gli aghi, incurvi o addirittura semicircolari: quasi filiformi unghie, ma puntute, lucide, d’una fabbrica d’unghie d’altro continente che non fosse questo nostro apostolico: e dietro l’ago uno spago, breve o ricco, secondo opportunità. E l’uomo cuce: cuce lento: ed allaccia. Piccole infermiere immuni, con pinze immuni, gli porgono l’una dopo l’altra le agugliate temerarie, attentissime, per quel rattoppo demoniaco.

Direi che uno sgomento mi sazia: la stanchezza ha intorpidito il mio conoscere, lo ha bendato di desideri lontani e spersi, che aggallano fatui sulla contingenza: vorrei camminare la spiaggia e ribevere l’indaco della marina: e riconoscere i corpi incolumi dei viventi a smemorarsi nel sole. Ma non vi è stanchezza per il soldato, né per il meticoloso chirurgo. L’ora del dovere persiste, nel suo gesto attento. Ricacciate di tra i ferri le genìe invisibili, gli infinitesimali agenti della putredine: respinto, al di là di ogni suo pensiero, l’orrore: che a me stanco sembrerebbe spettro in agguato.

Le dita inguantate di guttaperca ripigliano e trapungono e depongono, come di veste in lavoro o panno, la rosea turpitudine, la mollezza segreta della vita: poi questo operaio bianco, alto, incuffiato e imbavagliato del suo bianco silenzio, cuce e ricuce la vita entro le ampolle molli ed i visceri senza più brama che aveva saputo rinvenire ed estrarre, inani amuleti, fuor dal guasto del loro involucro gemebondo.

Dietro il piccolo telaio che per lei funge da misericorde sipario, una testa di falegname consolata dagli oppiacei ha, d’un minuto in altro, la carezza differitrice del medico seduto allo sgabello.

E il ricucitore, sopra i lamenti stanchi, persevera contro ogni minuto, infilandovi e poi ritraendone le sue curve agugliate: forse ricucirà, forse allaccerà in eterno. La sua dialettica si manifesta nei silenti atti; è un rifacimento biologico, un ripensare coi ferri e con le agugliate la costruzione di natura, un rivolere, un ripristinare la forma. Dalla oscura profondità dei millenni elaboratori del modello, Iddio clemente sembra considerare il travaglio di quella mano instancabile, nella militante disciplina della carità e del soccorso, oltre le vetrate e la guttaperca e il bisturi dei cadaverosi teatri, ferma oggi ad un ricupero senza bassezza: autorizzata da Lui a schiudere l’addome di questo tardo esemplare della specie, a estruderne interna miseria. Il chirurgo si vale, per la ricostituzione, d’una sua pratica inattuata dall’essere, non presagita da natura. Egli opera con la complicità di natura, al disopra di lei.

Profanando il buio segreto e l’intrinseco della persona, ecco il risanatore ne ha evidenziato lo schema fisico: ha letto l’idea di natura nel mucchio delle viscide parvenze. Sul corpo teso, disumanato, insiste con gli atti taciti della sua bianchezza: che mi appare quasi alta e muta madre o matrice della resurrezione. Ripenso, delle nostre antiche pitture, sant’Anna, sopra la Figlia, e Lei sopra il corpo illividito del Figliolo.

Il groppo purpureo delle cose viscide e molli, che suol essere la preda strascicata e dilaniata degli avvoltoi, qui nella sterile calura della sala di vetro gli è tra mano, ed è sotto forbici e ago, come lo sdrucito indumento del misero al sartore paziente. Ecco le suture a strati delle pareti del gastrico e dell’intestino, le suture dei fogli peritoneali del peritoneo, i mesi, dal greco meson, cioè cosa interna. Dal greco! Un sacco roseo si sta ricucendo, chiudendo. Aghi semicircolari, piccoli, ampii, d’ogni dimensione: con lucidi rimandi nel gesto: col baffo, via dalla cruna, d’una lor setola ardimentosa, che entrerà nel pensiero di natura. Le immagini orribili, a poco a poco si ricompongono: entro la certezza dell’adempiuto.

Solo allora, come in un repentino allentamento della facoltà interventrice, con un sùbito spogliarsi da sua responsabilità l’operatore si stacca dal compito. Senza parole, ma per aver buttato l’ultimo ago, Carpiani affida agli aiuti il rimanente dell’opera: la ricucitura della fascia, del sottocutaneo, della pelle.

Sono gli atti lenti e un po’ disagevoli di chi rinzeppa del necessario la strettura d’una valigia troppo piena. Ricacciano, i loro diti, e premono, dentro la capienza ch’era stata dischiusa dal bisturi, l’ultimo e strascicato attardarsi d’una rossa paccottiglia: le rosee bolle e il pallone bisbetico del peritoneo.

Poi lestezza e tiro: l’urgenza riassuntiva d’una pratica ordinaria, non più scrutata dalle pupille ammonitrici del Sapere.

Vengono ritirati i ferri. I punti esterni li appongono col sussidio d’una pinza speciale, che infigge e poi stringe dentro la pelle color zafferano delle piccole grappe, dei fermagli di metallo. E questi allora mi figurano come i ganci cromati d’un corsetto che, dopo trazione e appiglio, sia finalmente pervenuto a poter contenere le carni esondanti. La fisicità molle e indifesa di tutto ciò che suol dimandare un involucro, un tegumento, è chiusa nel suo riabilitato volume.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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