Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Alberi
Federico Bertoni
Un ciliegio, ci racconta Roscioni, segnava la capitale del Ducato di Sant’Aquila, il feudo fantastico e immaginario che Carlo Emilio Gadda, nei suoi giochi infantili, aveva disegnato tra il giardino e il frutteto della casa di Longone, in Brianza, e di cui si era proclamato signore (Roscioni 1997: 75).
Pensava a quell’albero, forse, in una favoletta in cui ha narrato di un «ciriegio» ormai vecchio, sradicato e ridotto ad assi piallate di una libreria, che «se il destino gli riconducesse una sola delle trasvolate ore del tempo, ei si rifarebbe al suo colle, a far zuffa con i venti dell’aprile» (SGF II 18). E comunque, gli alberi rimarranno soprattutto questo, per lui: presenze di un mondo infantile e remoto, «visioni di felicità perduta» (SGF II 471), relitti di una gioia forse mai posseduta che affioreranno ancora e sempre, tra le trincee della guerra, le vie di Milano, le stanze in affitto, le mille stazioni precarie di una vita sistematicamente provvisoria e fuori posto.
«Il mio sogno segreto – confessa in un’intervista del 1960 – è possedere un giardino con tanti alberi. Ma non lo realizzerò mai, si capisce» (Gadda 1993b: 73). Perché gli alberi, come si legge in un passo del Giornale di guerra, sono detonatori di emozioni, strumenti con cui ritrovare (o solo rimpiangere) il tempo perduto: «Sempre gli alberi mi commuovono, risvegliando le immagini del passato con grande potenza: hanno forza di suscitare idee e ricordi e stati d’animo per me quasi vicina a quella della musica. Da bambino li veneravo, li guardavo con amore; sempre fui loro amico» (SGF II 689-90). Il suo è un amore pieno, completo, misto di rispetto e simpatia e venerazione. L’unica volta in cui si è lasciato convincere a firmare una pubblica sottoscrizione, a suo dire, è stato per salvare un platano in Versilia, minacciato da «platanocida scure»: «Ho sempre amato i platani, insino dall’infanzia, e nello stagnare della calure e nelle burrasche d’autunno, o quando nella nevicata sono scheletri chiari, sereni» (Verso la Certosa, SGF I 363).
Di fatto, «il rispetto per gli alti alberi e lo stormire delle lor fronde» (SGF I 277) fa da contraltare a un persistente, ossessivo disgusto per il chiasso, la frenesia, gli odori, l’umanità becera e caotica del vivere associato. Sulle montagne i pini, «quei nobili e stupendi esseri, da me così amati, si sublimavano, si acuminavano nella luce, nel vento, di cui erano i sussurranti discepoli». In quella luce si nutrono di carbonio, «come noi ci nutriamo di maccheroni», ma «dopo il loro pasto di carbonio e di luce stanno zitti, e non conciònano le folle» (Palombari sull’alpe, SGF I 955).
Nobiltà, saggezza, rispetto, silenzio: gli alberi, nell’immaginario di Gadda, rappresentano un incorrotto modello di vita, e anche di società: sono un popolo, come ha notato Roscioni, ma un popolo immune dai guasti delle collettività umane, un utopico e irripetibile esempio di «società senza frode» (Le meraviglie d’Italia, SGF I 53). Su questa immagine di ispirazione classica, Gadda ha infatti ricamato innumerevoli variazioni, come se avesse voluto «sperimentare combinatoriamente tutte le possibili forme e modalità di una figura» (Roscioni 1969a: 57): ha usato termini sinonimici («gente», «moltitudine», «falange»); ha declinato caratteristiche e attitudini delle diverse specie («il folto e sano popolo delli abeti», RR II 965, il «popolo alto dei pini», SGF I 439, «il popolo canuto degli ulivi», RR II 766); ha intessuto variabili aggettivali sulla specie (popolus) che più si presta all’assonanza fonica: «il popolo dei pioppi», ora «stupefatto», ora «infinito», o ancora «meditabondo» o «folto e fedele» (SGF I 211, 213, 406; RR I 308, 55).
Prende forma, in questo modo, una sorta di mito delle origini, il rimpianto di una favolosa e perduta età dell’oro contrapposta alla perversione e al disagio attuale della civiltà. Gli alberi, scrive ancora Roscioni, sono «il simbolo di un pagano, incorrotto e religioso passato, dal quale gli uomini si sono allontanati, progressivamente degradandosi» (Roscioni 1969a: 56; cfr. Ferrero 1987: 154). Bambino ancora, ci racconta in Come lavoro, fu rinchiuso «nel duro carcere d’un educatoio borromeiano-tridentino», e fu subito «inetto a vivere, nonché a comprendere, la piattitudine del rituale cotidiano: a fronteggiare “la millenaria malizia”». Solo gli alberi gli offrivano un porto di quiete, un miraggio di speranza e di significato:
Dallo spettacolo d’una edilità pacchiana, cùrule o plebea, rifuggivo con le mie speranze alle querci, ai pini. Le querci responsali dell’antica gente druidica: i pini! il di cui sussurro lento, nel vento del monte, mi regalava il batticuore. Batticuore d’amore. Il mio spirito, il groppo di rapporti di cui ero il nodo, pio nodo, pio non ostante tutto, sentiva che del popolo alto dei pini era la mia genitura e la mia gente, l’antica […]. Ma gli alberi sacri erano spenti: erano stati recisi: perché desse albergo, la terra, alla nanificata prole degli umani. (SGF I 439)
Nessuno spettacolo susciterà in lui maggiore amarezza, e anche travolgenti sfuriate, di quello dell’odiosa e amata Brianza, il paesaggio dell’infanzia in cui il popolo degli alberi ha dovuto subire come non mai l’ostinata, spesso cieca volontà trasformatrice del popolo degli uomini. Così, i gelsi adibiti all’allevamento dei bachi da seta, minuziosamente censiti nei registri del catasto, vengono poi lasciati a rabbrividire «alla ruggine e al male degli anni, con croste di licheni strani nell’abbandono» (Gli anni, SGF I 226).
Peggio ancora: il «fantasioso e nobile popolo» d’alberi d’ogni specie, che rivestiva i colli di «questa terra felice», «tra le più ridenti e verdi della provincia nostra», è stato in gran parte abbattuto «per cavarne legno d’opera e sul terreno edificarvi le scuole di chi non impara», e si è tanto diradato «da parer pochi e verdi cespi fra le distrette d’un fumoso cantiere; dove comandano i capimastri e i bozzolieri» (Viaggi di Gulliver, RR II 955). Ciò che è rimasto, di quell’antico e nobile popolo, ha dovuto subire l’invasione di una terribile concorrente, la robinia, l’unica specie arborea, non a caso, investita di connotazioni negative. La «pungentissima» robinia, non meno delle dilaganti e pacchianissime ville, è infatti una delle maledizioni della Brianza: è pianta non autoctona, plebea e prolifica, capace di soppiantare in breve tempo «il folto e sano popolo delli abeti» (RR II 965). Il paesaggio arboreo della Cognizione, ormai privo di carpini o olmi o faggi, è interamente invaso dalle robinie: la casa di Gonzalo ne è stretta, assediata; e tale è la violenza espansiva della pianta che «tutto fu robinia […]. Quel parallelepipedo bianco, spalancato ai venti e al zoccolare delle Peppe, la robinia lo stringeva del suo verzicante assedio. Lungo la siesta georgica dei Pirobutirro, d’ogni immagine trionfò la robinia» (RR I 609).
Eppure, nonostante le perversioni della storia, o della natura adulterata dall’uomo, gli alberi restano comunque un emblema di resistenza: sono il modello di chi lotta, sfida, persiste, abbarbicato con forza alla terra, come «certi pinastri attorti, dolorosi nel vento, al margine della pinaia: aggrappati con disperate radici ai fastigi della roccia, in riva all’abisso» (I tre imperi, SGF I 935). Spesso la solidità degli alberi viene contrapposta alla cieca furia del vento, immagine negativa quant’altre mai, che ha rapito il fratello di Gonzalo (e di Gadda) «verso smemoranti cipressi», (1) e che in un intenso, shakespeariano episodio della Cognizione assedia e minaccia la madre durante un uragano. Sono soprattutto i faggi, con le loro «radici aggrovigliate», (2) «popolo dorato dell’autunno» (SGF I 152), a prospettare un’immagine di resistenza contro la violenza e il mutevole disordine del mondo. Perché il faggio «si radica profondo nel monte» (SGF I 854): si aggrappa con forza, caparbietà, lentezza alla buia solidità della terra, proprio come dovrebbe fare ogni vero atto conoscitivo:
L’atto di conoscenza […] ha da radicarsi nel vero, cioè in quel quid ch’è stato vivuto, e non sognato, da le genti: ha da radicarsi in quel ch’è suto l’enunciato della storia, e con potenti ed onnipermeanti radìche: sì come di faggio, d’antico faggio, in ne’ cui rami superni fragorosamente, ma vanamente, lo stolto vento prorompe. (Eros e Priapo, SGF II 240)
Se è vero insomma che la gnoseologia gaddiana annovera immagini di movimento (l’alpinista, le nuvole, la frana, il bateau ivre), è altrettanto vero che la lucida coscienza del divenire, per il «convoluto Eraclito di via San Simpliciano», non può occultare l’aspirazione frustrata a una posizione certa, fissa, stabile, come un grande faggio che sfida il tempo sul pendio di un monte.
Università di BolognaNote
1. Cognizione, RR I 675. Il fratello di Gadda, Enrico, era precipitato con il suo aereo in circostanze non del tutto chiare, ma la famiglia tendeva ad attribuire la responsabilità dell’incidente a un improvviso colpo di vento (cfr. Roscioni 1997: 163).
2. Il motivo del faggio dalle «radici aggrovigliate» torna in diversi passi (Meditazione milanese, SVP 732; Racconto italiano, SVP 420; L’Adalgisa, RR I 292). È appena il caso di notare la contiguità metaforica di questa immagine con l’ossessione centrale dell’epistemologia gaddiana, il groviglio.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
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