Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Gatti

Riccardo Stracuzzi

Dolce e incantevole, misterioso, serafico, strano, angelico; sottile e armonioso ma anche rognoso, il gatto in Baudelaire – sia nelle Fleurs du mal, sia nei Petits poèmes en prose – è una sorta di genius loci. Esso presiede all’ordine domestico, da un lato: «C’est l’esprit familier du lieu; | il juge, il préside, il inspire | toute choses dans son empire; | peut-être est-il fée, est-il dieu»; mentre, d’altro lato, è messaggero sensuale del silenzio e dell’ombra: «Amis de la science et de la volupté, | ils [les chats] cherchent le silence et l’horreur des ténèbres; | l’érèbe les eût pour ses coursiers funèbres, | s’ils pouvaient au servage incliner leur fierté». (1)

Simili spettanze, grossomodo, corrispondono anche alla figura felina in Gadda: l’incarnazione, dal vero o in artefatto che sia, di una certa istanza larica; (2) e, in secondo luogo, l’evocazione di un principio di bellezza quasi incorporea, innocente e non erotica, poiché non si rintraccia qui nessuna adibizione tropica del pur comune accostamento tra gatto e donna. (3) Tuttavia, pur effettuata questa sommaria discriminazione, si dovrà notare che la funzione del gatto larico è, in Gadda, senz’altro preminente. A quasi ovvia illuminazione della sua eziologia, soccorre un punto della Meditazione milanese, nel cap. xxv:

Il sistema che ha un metodo non è lo stesso di quello che non l’ha: è un sistema diverso, più ricco, dotato di infinite relazioni concernenti una selezione critica. Dotato di fagociti logici. I fagociti dell’organismo e i gatti che divorano la topaglia nell’organismo casa non sono che relazioni critiche nel sistema che li alberga. La casa che ha i gatti è un «elegantius» rispetto alla stessa casa ove imperano i topi. (SVP 836)

Ora, se l’eziologia è lampante, benché poi testimoni di un êthos gaddiano villereccio o quasi prenovecentesco, degne di riguardo risultano le sue implicazioni e i suoi molteplici svolgimenti. Sicché – fatti salvi i numerosi ma inevitabili usi dell’imago felina a fini più o meno referenziali, ossia antropomorfici, metaforico-catacretici, o idiomatici (gatti o gatte da pelare, essere come cani e gatti, il già menzionato donne come gatte in amore, essere umano dalla vista prodigiosa ecc.) – il gatto gaddiano come genius loci, ovvero come relazione critica in rapporto al sistema casa che lo alberga, diviene uno dei dispositivi figurali che l’autore convoca spesso nella pagina per catalizzare, e anzitutto per qualificare paradigmaticamente, quegli interni che sono da descrivere. Il gatto, così fruito, risulta uno dei dettagli interpretativi su cui si ripercuote la qualità dei luoghi: oggetto anfibologico, dunque, e qualificato solo per rimando alla scena di cui, esso, è chiave.

Restiamo ai due romanzi maggiori, Cognizione e Pasticciaccio, e già v’incontriamo alcune eccellenti esemplificazioni: si pensi alle bettole frequentate da Gonzalo, secondo le dicerie sparse a Lukones, e specificamente allo «stambugio tenebrosissimo del Riachuelo, dove frequentavano cingani e altre genti di strapazzo e guitarra, e gatti e gatte d’amor libero tra le scarpe de’ pasturanti, in contenzione continova sopra gli ossi di pollo e le resche per quanto iscarnite, che quei superni vanno gittando loro, dopo ogni loro ciminale perpetrato spolpamento, nel suolo gattesco» (RR I 603). (4) O si pensi, ancora nella Cognizione, alla fenomenale vista, umana e animale («popolo e pulci»), che Gonzalo si trova dinanzi, abbandonate le letture platoniche, mentre apre la porta della sala:

Vi vide la mamma, con gli occhî arrossati dalle lacrime, tener crocchio: all’impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell’affossamorti, nera come una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del pesce: ma fissavano il cagnolino del Poronga, lercio che ora tremava e dava segni, il vile, d’aver paura dei due gatti, dopo aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la tavola. Ma il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il camino. E sul piatto il pesce morto, fetente. […] E nel cestello i funghi dall’odor di piedi; per aria mosche e anzi alcuni mosconi, due calabroni, una o forse due vespe, un farfallone impazzito contro la specchiera: e, computò subito, stringendo i denti, un adeguato contingente di pulci. (RR I 727)

Simile, per modo elencatorio e per teratologici effetti, il luogo del Pasticciaccio, cui si accennava prima, nel quale è dipinto l’interno di casa Crocchiapani. L’immagine felina vi lavora per doppia traslazione: come oggetto artefatto o totem, (5) cioè, e come voce comparante di un dispositivo similitudinario, non però facilmente traducibile in qualificazione semplice del comparato. Ne risulta l’impressione che qui il gatto, lare infero, sorvegli una specie di no man’s land tra vita e morte:

Un lezzo, ivi, di panni sudici o di persone poco lavabili e poco lavate nel male, o sudate all’opere che la campagna, senza remissione, col novo tempo domanda: o anzi, in più, di feci male accantonate presso la degenza, così bisognosa di riparo. Due lunghi ceri pitturati nei colori vivi, blu rossi, oro, d’una tradizione coloristica non intermessa negli anni, pendevano a muro da due chiodi ai due lati del letto: l’olivo secco: un’oleografia, la Madonna blu con la corona d’oro, in una cornice nera di legno. Alcune seggiole di paglia. Un gatto di gesso, con un nastrino al collo, scarlatto, sul comò, fra bottiglie, scodelle. […] Nel letto, ampio, sotto coperte lise e verdastre tegumentate in parte da una buona (e tepida, e chiara: dono di Liliana, argomentò Ingravallo) un corpiciattolo disteso, come un gatto secco in un sacco adagiato a terra: una faccia ossuta e cachettica posava nel cuscino, immota, d’un giallo-bruno da museo egizio. (RR II 272-73)

Ma non è che il gatto, per forza, debba rappresentare in Gadda un supplemento di sporcizia, di bruttezza, di deformazione ecc. La sua pertinenza è, per così dire, vuota di segno semantico, e tende ad identificarsi con il registro del discorso che lo utilizza quale indizio di località. (6) Ecco allora le «vellutate presenze» che fissano la madre di Gonzalo, nella Cognizione, «con occhi nella oscurità come topazî, ma fenduti d’un taglio, lineate pupille della lor fame», in attesa che «l’ordine e la carità domestica» richiamino l’anziana donna al dovere di nutrirli (RR I 678); ecco, nell’Adalgisa, Empedocle e Aristibulo, i due timorosi gatti («spiriti vellutati dell’Equinozio») che abitano il Circolo Filologico Milanese, messi in fuga dal fischio di un uccello che essi ritengono («i due zampa-di-felpa») richiamo soprannaturale del morto Flòk: «cane lupo del marchese Clerici» e loro antico «persecutore, loro Artaserse» (RR I 418-19); ecco il gatto che discende «le scale a rompicollo, saettando traverso il vestibolo, e dispare», nel racconto Un inchino rispettoso, presenza domestica messa in fuga dalla violenta e spaventosa effrazione dell’ordine cui egli dovrebbe presiedere (l’omicidio della signora Esther, che il protagonista del racconto, cavalier Barbetti, trova cadavere nella casa deserta: cfr. RR II 820); ecco i gatti milanesi che «salutano il giorno accoccolandosi presso la macchina dell’espresso, nelle più mattutine tabaccherie», in Una mattinata ai macelli (SGF I 20); ed ecco, giusto per fare punto qui, il rimprovero che la Marchesa di Gonnella buffone rivolge per l’appunto a Gonnella, tra sé e sé, mentre pregusta il successo di una macchinazione con cui gabbarlo: «Ah Gonnella, Gonnella, non andavi tu dunque cicalando che le donne non son buone se non per l’ago e per l’arcolaio e di star in cucina a favoleggiare con le gatte?» (SVP 1018). (7)

In seconda istanza, il gatto gaddiano costituisce anche, in più rare occasioni, un puro materiale lirico implicante sinuosa e silente bellezza, e vita innocente, con il quale l’autore impreziosisce certe sue pause narrative. Ecco, in sintesi, una semplice lista di luoghi: «In realtà non era presbite, ma strabica: sicché un occhio era al gatto, così morbido e pigro, l’altro le volava di là dai vetri, al di là dai passeri, di là dai comignoli e lo fermava soltanto, tra un garbuglio di fili telefonici, la vetta stillante del Filarete» (Cinema, RR I 52); «Gatti, frattanto, s’erano dileguati per le finestrette di cantina, vellutate ombre» (Quando il Girolamo ha smesso, RR I 328); (8) «Il peone zoccolò di nuovo entro la breve scena del giardino-triangolo […]. Un gatto lo seguì e poi divanzò trotterellando. […] Il gatto s’era insinuato in casa con lestezza, ombricola vellutata tra i piedi dell’uomo» (Cognizione, RR I 652); «La primavera profondeva margherite e narcisi là dove i poeti sogliono così opportunamente metterli a dimora: […] nel mentre Momo, il gatto metafisico che la Luigia si era dimenticata di far castrare, era scappato dal balcone lungo il cornicione, acrobata della buona ventura, a lenire nell’ambiguità del probabile il suo male pieno di speranza» (San Giorgio in casa Brocchi, RR II 691); «Ma tra la stanchezza della lunga marcia e quella specie di coscienza che non manca neppure al gatto “quando ha mangiato il cotechino proibito” e, contrito, compunto e malinconico, si lecca i baffi, s’eran decisi a ubbidire» (Notte di luna, RR II 1094).

Propriamente all’incrocio di queste due funzioni feline – quella diciamo ambientale, e quella lirica – è da collocare il gatto più noto nell’opera di Gadda; e cioè quello che Gonzalo, nella Cognizione, fa volare dall’alto per testare una nozione fisica:

Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo, dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso, egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera bestiola, atterrando, gli diè infatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni volta! come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì, con occhi velati d’una irrevocabile tristezza, immalinconito da quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte. (RR I 598)

L’episodio, assai noto, è stato giustamente restituito alla sua fonte, da Roscioni e da Manzotti, (9) ossia a un passo dei Fratelli Karamazov di Dostoevskji; passo che lo stesso Gadda cita nel saggio Psicanalisi e letteratura (SGF I 463); e che, nello specifico, è estratto dal capitolo VI del III libro della parte I. Vi si racconta di Smerdjakov: «Fanciullo, provava gran piacere ad impiccare i gatti e poi a sotterrarli in pompa magna. Per far ciò si buttava addosso un lenzuolo, che faceva da pianeta, e cantava, agitando sul gatto morto qualcosa a mo’ di turibolo». (10) Ineccepibile il rinvio, del resto autorizzato dal fatto che l’autore menziona Smerdjakov quale caso di «crudeltà ragazzesca» (SGF I 463); e infatti Gonzalo, nell’opinione del popolo lukonese, è «crudele: questo già fin da ragazzo» (RR I 598). Non è un caso, allora, se il narratore lo descrive, nella sua prima non mediata apparizione, nei termini seguenti: «Un lieve prognatismo facciale, quasi un desiderio di bimbo che si fosse poi tramutato nel muso d’una malinconica bestia, veniva conferendo al suo dire, ma non sempre, quel tono sgradevole di perplessità e d’incertezza […]. In qualche momento, qualche tratto del volto riusciva addirittura bamboccesco» (RR I 618).

Resta da intendere, tuttavia, i motivi del leggero discordare di Gadda, nella pagina della Cognizione, dalla sua fonte dostoevskjiana; la quale discordanza non sarà tanto da identificare nel fatto che il personaggio di Dostoevskji dedichi le sue attenzioni ai soli gatti, mentre Gonzalo incrudelisce anche su lucertole e polli; né tantomeno che quest’ultimo getti l’animale dall’alto, quando il primo ama impiccarlo e seppellirlo. Il divario, semmai, consisterà nello sguardo compassionevole che il narratore porta sul gatto, di cui vediamo gli occhi «velati d’una irrevocabile tristezza»: è per via di questa specie di zoom discorsivo che il gatto, promosso a simbolo di una incolpevole passione, merita che il narratore gli dedichi una delle sentenze più eloquenti del romanzo: «poco dopo morì […] immalinconito da quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte».

Molti echi intellettuali, e specialmente filosofici, possono essere all’origine di questa gaddiana compassione dell’animale, peraltro assente in Dostoevskji. Potremmo pensare a uno studio intitolato Della legge fondamentale dell’intelligenza nel mondo animale (Milano, 1877) di Tito Vignoli, antropologo milanese, che Gadda sostiene di aver letto con applicazione (cfr. I miti del somaro, SVP 912); potremmo forse richiamarci a certi proteste rousseauiane contro l’educazione, quali si leggono, per esempio, nelle prime righe del libro I dell’émile («Tout est bien sortant des mains de l’Auteur des choses, tout dégénère entre les mains de l’homme. Il force une terre à nourrir les productions d’une autre, un arbre à porter les fruits d’un autre; […] il mutile son chien, son cheval, son esclave»): spunti ovviamente intonati al dolore di Gonzalo e alle violenze familiari da lui subite, e che Gadda, del resto, menziona nell’Adalgisa, con un’ironia non però rivolta a Rousseau: «Il vecchio sangue lombardo [del nobiluomo Gian Maria Caviggioni], a quella veduta [di rapanelli sfrondati e decaudati], era “insorto” con inusitata “energia”. L’evirazione del gatto non avrebbe suscitato uno sdegno simile in Jean Jacques» (Al parco, in una sera di maggio, RR I 494; vd. anche n. 12 a p. 507); o, finalmente, potremmo andare a certe pagine di Martinetti, relatore della tesi di laurea gaddiana sulla Teoria della conoscenza nei «Nuovi saggi» di G. W. Leibniz, dedicate per l’appunto alla Psiche degli animali. (11)

Ma è ancora Gadda a fornirci un indizio per spiegare, più intimamente, la compassione animale di cui, nel passo citato, il narratore della Cognizione si fa voce: nel saggio su Psicanalisi e letteratura, domandandosi implicitamente per quale ragione Dostoevskji abbia scelto proprio i felini quali oggetto della crudeltà di Smerdjakov, l’Ingegnere osserva: «E l’efferatezza di Smerdjakov si esercita sull’animale che più la suggerisce, in quanto a sua volta ce ne porge un campionario indicibile a spese delle sue proprie vittime: i topi» (SGF I 463).

Si delinea così un nesso speculare tra il gatto, crudele uccisore dei topi – ma proprio per questo genius loci domestico (giusta il chiarimento della Meditazione) – e colui che a sua volta lo uccide, ossia Gonzalo, l’uomo dal «viso triste […] con occhi velati e piedi di tristezza» (RR I 629), la «malinconica bestia». Ma non solo: nell’episodio, pur digressivo, andrà letta una prolessi della spaventosa conclusione verso cui s’indirizza il racconto. Il gatto – crudele seviziatore di topi e però simbolo del focolare – per il fatto di morire con un oltraggiato dolore riflesso negli occhi, annuncia la prossima morte della madre di Gonzalo: e ciò per via di quella ideazione magica del rapporto tra soggetto e oggetto che Manzotti, trattando del romanzo, ha definito «ineluttabile legge di solidarietà del mondo psicologico col mondo reale […] – la legge che Montagne negli Essais (I, xxi) riporta in veste latina: “fortis imaginatio generat casum”». (12)

Insomma, l’episodio del gatto gettato dal balcone dà segretamente inizio, nel romanzo, all’argomento portante della ferocia e dell’ingiuria domestiche. Ferocia e ingiuria che Gonzalo ha patito e che ora agisce (continuando così a patirle nella coazione); che la madre ha agito e che ora patisce. Il gatto risulta carpito, specularmente, quale mediatore simbolico tra le due istanze (Gonzalo vs madre). Per necessità, entro uno schema narrativo di patente matrice edipica, lo sviluppo tragico di tali premesse conduce irreparabilmente all’assassinio della Signora Elisabetta François.

Università di Bologna

Note

1. I due brani provengono, rispettivamente, dalla li (Le chat, vv. 5-8) e dalla lxvi (Les chats, vv. 5-8) delle Fleurs (seguo la numerazione dell’ed. 1861); ma si veda anche la xix (La géante, v. 4), ove è schizzata quella analogia tra figura felina e figura femminile che agisce variamente in Baudelaire: e p. es. nella xxxiv (ancora Le chat, vv. 5-9: «Lorsque mes doigts caressent à loisir | ta tête et ton dos élastique, […] || je vois ma femme en esprit […]»; mie le sottolineature, e così nel séguito ove non diversamente indicato). Meritano menzione anche due dei poèmes en prose: L’horloge, per il tratto larico che connota il gatto baudelairiano, qui addirittura allegorizzato attraverso una cineseria fantastica: «Les chinois voient l’heure dans l’oeil du chat» ecc.; e Les bienfaits de la Lune, invece, per il tratto diremmo erotico e spirituale: «Cependant, dans l’expansion de sa joie, la Lune remplissait toute la chambre comme une atmosphère phosphorique, comme un poison lumineux; et toute cette lumière vivante pensait et disait: “Tu subiras éternellement l’influence de mon baiser. Tu seras belle à ma manière. Tu aimeras ce que je aime et ce qui m’aime: […] les chats qui se pâment sur les pianos et qui gémissent comme les femmes, d’un voix rauque et douce!». Che il gatto costituisca il primo della serie, quantomeno per spessore simbolico, di un possibile bestiario baudelairiano, è ciò che sostengono C. Pichois e J.-P. Avice nel loro Dictionnaire Baudelaire (Tousson: Du Lérot, 2002), 117-18; e tuttavia annotano: «Une étude sérieuse manque sur le caractère félin de B.[audelaire]». Tale non è giudicato dai due studiosi il noto lavoro di Jakobson e Lévi-Strauss su «Les chats» de Charles Baudelaire – ora in R. Jakobson, Questions de poétique (Paris: Seuil, 1973), 401-19, il quale, giudizi di merito a parte, argomenta per l’appunto circa l’aspetto femminile o androgino dei gatti baudelairiani.

2. Così i due gatti in figura che adornano il focolare del maresciallo Santarella, nel Pasticciaccio: «Dicevano i maligni, e, più, le maligne, che nonostante le nove donne e le diciotto scarpettine coi diciotto tacchi da donna che gli ticchettavano intorno alle ore di loisir… domestico, fra le pareti… domestiche, in presenza dei domestici lari, ch’erano due bei gatti di gesso sul caminetto spento, partoriti, poveri micioni, da un maschio lucchese, dicevano […]» ecc. (RR II 155); e così nella descrizione della sconcia casa di Assunta Crocchiapani, che Ingravallo visita al termine del romanzo: ma su ciò infra.

3. Nessuna adibizione, almeno, che traguardi la mera soglia idiomatica: vd. p. es., ancora dal Pasticciaccio, cap. III, il luogo ove un funzionario della Standard Oil spiega a Ingravallo che Valdarena è valente agente commerciale perché agisce come «un gatto in amore», con certi clienti che sono come «donne», ovvero come «gatte a febbraio» (RR II 83).

4. Il brano si legge anche nel racconto Strane dicerie contristano i Bertoloni (L’Adalgisa, RR I 399-400), poiché quest’ultimo, com’è noto, costituisce un excerptum della Cognizione, allora (1943) inedita in volume. Una nota d’autore, non poi conservata nel romanzo, getta lumi sull’impervia qualificazione del suolo, punto ove ha termine il trasferimento verticale degli avanzi di cibo dai superni sino ai gatti: «“Suolo gattesco”: perché appunto vi sogliono circolar gatti, tra i piedi degli attavolati» (RR I 405).

5. L’oggetto soprammobile di gesso a raffigurazione felina, due volte chiamato in scena nel Pasticciaccio, è forse infiltrato da un’istanza metaforica impalpabile: la locuzione gatt de gèss (in lombardo) sta a significare persona fredda e inespressiva; ne esiste una variante nobile (gatt de marmor), registrata dal Vocabolario milanese-italiano di Cherubini (Milano: dall’Imp. Regia Stamperia, 1839, s.v. «gatt»), però con parafrasi incompleta (pesantezza, lentezza); e dal recente Quartu, Dizionario dei modi di dire della lingua italiana (Milano: Rizzoli, 2000, s.v. «gatto di marmo»). La locuzione, in entrambe le varianti, figura in Gadda: SGF I 1011 e SGF II 810 (Giornale, 21 agosto 1918: «Il sottotenente [tedesco] prese il comando del drappello; ordini brevi, secchi; alto; figura impassibile; gatto di marmo; è il mio ideale, quello che cercavo di raggiungere nel mio stile di parata: ma adesso sono qui»).

6. Ciò si rivede anche nella scarsa escursione dei suffissi derivativi con cui Gadda, in generale, tratta il gatto: micino; micione/i; gattino (in tutto 4 occ.); e poi gattone e gattaccio (6 e 3 occ.), questi ultimi però da richiamare a pura necessità traduttiva – li si legge nel solo Viaggio di saggezza, da Barbadillo. Da parte del traduttore espressionista è totale aderenza all’originale: cfr., per gattaccio (SVP 213-14), l’originale «dos gatazos corpulentos y hermosos» ecc., in Gadda 1977a: 106.

7. Qui l’immagine del gatto/a è quasi al confine dell’idiomatica identificazione all’essere umano. Ciò che si chiama in causa, tuttavia, è proprio la riduzione della donna a puro corredo domestico, ad angelo del focolare: come il gatto/a. Lo spunto, comunque, è da ascrivere al solo Gadda, e non agli ipografi bandelliani da lui trasposti in pièce: lo si induce seguendo Isella (Nota al testo di Gonnella buffone, SVP 1427-428) e riscontrando su M. Bandello, Tutte le opere, a cura di F. Flora (Milano: Mondadori, 1935) – l’edizione che Gadda verosimilmente leggeva – al vol. II, pp. 627-33, 761-62, 795-801, e 1298-304. Altri, però, i gatti gaddiani messi speculativamente a corredo dei luoghi: vd., p. es.: RR II 260, 528, 1076, 1094; SGF I 93, 1125, 1142; SVP 442, 931.

8. In questi gatti che, spaventati da un frastuono, si dileguano per le cantine, potrebbe risentirsi un’eco portiana: «Scappan tucc i tegnoeur, scappan i ratt, | corren i gatt a scondes in cantina». Cfr. C. Porta, Ona vegghiana esosa… vv. 68-69, in Poesie, a cura di D. Isella (Milano: Mondadori, 20002), 292.

9. Nell’Intervista a più voci, è senz’altro Roscioni a suggerire la iunctura tra la menzione gaddiana di Smerdjakov e la scena della Cognizione ora citata – cfr. Gadda 1993c: 176; cfr. poi Manzotti, più analitico, in Gadda 1987a: xlvii e 77, n. 1202-209.

10. F. Dostoevskji, I fratelli Karamàzov. Romanzo in quattro parti e un epilogo, trad. di A. Polledro (Torino: Slavia, 1926, vol. I), 214 – è questa l’ed. che Gadda possedeva (cfr. Cortellessa & Patrizi 2001: II, 99).

11. Nel saggio – originariamente il testo di una conferenza tenuta da Martinetti, nel 1920, presso la Società Milanese di studi filosofici e religiosi, poi incluso nel volume Saggi e discorsi (Torino: Paravia, 1926, 211-54) – si sostiene, in ultima analisi, che «gli animali partecipano dunque dell’intelligenza e della ragione ossia della natura umana: sono esseri affini a noi e il presentimento pietoso non ci inganna quando nei loro occhi leggiamo l’unità profonda che ad essi ci lega» (p. 247). Simili argomenti Martinetti sviluppa anche nel Breviario spirituale (1923) (Torino: Brescia, 19722), 226-34, e in vari altri luoghi – vd. p. es. gli appunti per lezioni del 1912-14 c.a., dedicati a Una visione idealistica del mondo, ora in Scritti di metafisica e di filosofia della religione (Milano: Edizioni di Comunità, 1976, vol. II), 315-402. I due primi volumi non figurano tra quelli che Gadda possedeva alla fine della vita, e in più si dovrà ammettere che il sintagma sottolineato in Martinetti non è abbastanza individuato da costituire una traccia intertestuale significativa. Tutto ciò non vieta che Gadda abbia incontrato l’argomento nelle sue sparse letture martinettiane, o durante le lezioni di filosofia teoretica che ascoltava all’Accademia Scientifico-letteraria. Chi s’interroghi sulla relazione tra Gadda e la filosofia di Martinetti, non può fare a meno di apprezzare l’intelligenza di un appunto di Lucchini: «Il rapporto fra Gadda e Martinetti è purtroppo una delle molte e non facilmente colmabili lacune d’informazione sulla cultura filosofica dello scrittore. Sebbene non sia mai stato citato, Martinetti è con tutta probabilità il principale tramite fra la filosofia ex cathedra e il narratore» (Lucchini 1988a: 16). È curioso annotare, in margine, l’amore fervente che Martinetti nutriva per i gatti. Certi suoi appunti diaristici, che Gadda per forza ignorava – e invece recentemente editi in appendice a una ristampa della Psiche degli animali – sono eloquenti: «Oggi domenica 23 gen. 32 alle 14.30 è morta la povera micina bionda e nera alla quale mi ero tanto affezionato. Ricorderai sempre il suo musino innocente, i suoi occhi semplici e buoni che mi guardavano con meraviglia ingenua quando io la guardavo con tenerezza» – P. Martinetti, Pietà verso gli animali, a cura di A. Di Chiara (Genova: Il Melangolo, 1999), 139.

12. Su questa materia, necessario il rinvio a Manzotti 1996: per l’episodio del gatto, vd. 258-60; per la «ineluttabile legge di solidarietà» vd. 238-39. Vd. anche Pasolini 1963, 19992: 2399, il quale s’interroga giustamente sulla natura della comparazione: la «povera bestiola» (il gatto) e «un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno».

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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0

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