Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Spinaci

Ferdinando Amigoni

Proviamo ad accostare quattro frammenti narrativi dell’ultimo Gadda.

Anche la domestica era una faccia nuova […]. La chiamavano Tina. Durante il servizio un batuffolo di spinaci strizzati le esorbitò dal piatto ovale sul candore della tovaglia immacolata: «Assunta!» fece la signora. (RR II 18-19)

Siamo di fronte alla scena d’apertura del Pasticciaccio. Ingravallo pranza a casa Balducci: tra le molteplici, divaganti elucubrazioni che s’annodano sotto la sua «parrucca» nera e riccioluta «come d’agnello d’Astrakan», il commissario non manca di registrare e archiviare questo microscopico evento. In un romanzo in cui «non datur casus, non datur saltus», tutto può rivelarsi utile all’occorrenza.

Saltiamo circa trecento pagine (e dieci anni di «sussulti applicativi», revisioni, tagli, disperazione, per arrivare a chiudere il recalcitrante capolavoro). Mentre ormai l’intreccio approda al risolutivo, faticatissimo riconoscimento, Ingravallo ricorda:

[Assunta] avea lasciato rotolare sul candore tra gli argenti e i cristalli, d’un calice, o no, d’un bicchiere, il batuffolo di spinaci: avendone, dalla signora Liliana, quel richiamo accorato d’uno sguardo, d’un nome: «Assunta!». (RR II 271)

Spostiamoci ora su un racconto che Gadda pubblica in anni pienamente merulaneschi. Gadda decide di mettere in scena in una pensione di Roma un pranzo più affollato e molto meno carico di ambivalenti pulsioni sul punto di abbattere le barriere della censura:

Un tintinnio di posate veniva dalla sala: «Elettra!» chiamò una gentile voce: eruppe chiara da un oscuro dibattito la parola «spinaci…». (Socer generque, RR II 793)

Un identico richiamo, in cui il tono padronale (e materno) è affidato all’esclamativo, accompagna in casa Balducci e nella pensione Walpole l’apparizione di un piatto di «spinaci». Ma non è tutto: anche nel breve spazio del racconto, l’episodio trascurabilissimo viene ripetuto.

La Elettra lo chiamava, con molto garbo, «signor capitano»: una lieta inflessione della voce: una luce degli occhi, della gola: e gli presentava, con benignità particolare, il piattone del flan: flan di spinaci. […] «Elettra!…» «Comandi, signorina!…» «Forse il capitano… desidera ancora degli spinaci…» Oh! quale altro bis poteva sperare l’ex-capitano? dall’Elettra?… Un bis di spinaci. (RR II 800)

Quattro scene pressoché identiche, dunque; è davvero il caso di chiederci cosa abbiamo tra le mani: un piccolo enigma, un lapsus o nulla più che l’arbitrario montaggio di quattro segmenti narrativi, delimitati a casaccio? Dopotutto, come sa chiunque abbia letto il magnifico saggio di Freud su Leonardo, al fondatore della psicoanalisi bastava un’inutile ripetizione per costruire un castello di ipotesi piuttosto complicato: qui possiamo produrre addirittura una quadruplicazione che dovrebbe mettere in sospetto anche l’esegeta meno propenso al rischio.

Se ammettiamo di trovarci di fronte a qualcosa di molto simile a un lapsus, l’interpretazione non presenta certo ostacoli insormontabili. Caratteristica del lapsus è infatti la sua immediata e imbarazzante comprensibilità. Nel Pasticciaccio la domestica che serve un piatto di spinaci è Assunta, l’autrice dell’efferato delitto, la «figlioccia», «gelosa della madrina» e padrona. Nel racconto la «serva» si chiama Elettra come l’eroina della tragedia di Sofocle, colei che incita il fratello Oreste («Colpisci ancora! Colpisci!») a vendicare l’assassinio del padre Agamennone, punendo con la morte la colpevole madre Clitennestra. Siamo di fronte al notissimo mito personale di Gadda: l’ambivalenza, fortemente segnata dalle pulsioni sadiche, nei confronti dell’imago materna. Il divieto che colpisce il nome di Elettra è, per l’autore del giallo di via Merulana, rafforzato da una necessità tecnica: tacere fino alla fine il nome dell’assassina, non fornire troppi aiuti ermeneutici al lettore.

In possesso di informazioni psicoanalitiche di prima mano, nonché ammirato lettore di Freud, Gadda sapeva che Carl Gustav Jung aveva proposto, contro il parere di Freud, di chiamare «complesso d’Elettra», il complesso edipico femminile? Probabilmente sì, visto che Gadda possedeva dello psicoanalista eretico almeno un importante libro, tuttora conservato nella sua biblioteca.

Sempre sul punto di essere pronunciato, il nome «Elettra» non deve sfiorare l’intreccio del Pasticciaccio, romanzo poliziesco sui generis, ma pur sempre romanzo poliziesco. Condannato a omettere, a tesaurizzare il non-detto (o meglio: il quasi-non-detto), l’autore di romanzi gialli si trova in una situazione favorevole ai lapsus. In un racconto pubblicato in rivista, lontano dalla tensione costruttiva del romanzo, Gadda può viceversa lasciarsi andare.

Nel suo nome stesso Assunta reca evidenti tracce della sua caratteristica principale: l’assenza. Dopo avere servito in tavola, lasciando cadere un batuffolo di spinaci, Assunta scompare dal romanzo, per riapparire in prima persona solo nel lontano epilogo. Nel suo nome è rilevabile anche l’ironico sigillo dell’ambivalente rapporto serva-padrona: se si vuole risalire al significato liturgico del nome, Liliana, colei che l’ha ambiguamente adottata e assunta (al cielo del ricco e tetro cemento di via Merulana), risulterebbe segnata da un’onnipotenza addirittura divina.

Il divieto sembra poi estendersi da Assunta-Elettra alla contigua parola spinaci (e una catena metonimica è potenzialmente infinita). Nell’assai meno impegnativo racconto (non ci sono assassini da scoprire, e soprattutto la complessità etico-estetica del racconto è di gran lunga minore, rispetto a quella del romanzo), riesce a «erompere», probabilmente non senza un certo sollievo per Gadda, «chiara da un oscuro dibattito la parola “spinaci”».

Si rimane così piuttosto sorpresi quando ci si accorge che la madre dell’ultima «nipote» di Liliana si chiama Irene Spinaci. Splendido esempio di condensazione: in assoluta economia, l’inconscio riesce a fondere e a nominare contemporaneamente le parole spinaci e madre. Con leggerezza e inflessibile logica, viene elusa la censura linguistica, mentre si dichiara il movente della censura.

Non stupirà a questo punto che in una lettera a Garzanti del 1957 Gadda proponga L’Assunta come titolo del suo capolavoro (RR II 1152). Se Assunta non fosse l’assassina, sarebbe del tutto privo di senso affidare il peso del titolo di un lungo romanzo a un personaggio affatto secondario che si segnala quasi solo per la sua goffaggine nel maneggiare gli spinaci. L’Assunta sarebbe stata la sua tragedia con un nome femminile come titolo (mentre L’Adalgisa avrebbe formato il complementare dramma satiresco)? Forse sì: ma nessuno è più lontano dalla grandezza epica di questa Assunta-Elettra, domiciliata alla Pavona, frazione di Tor di Gheppio, «serva a mezzo servizzio». Mi sembra in linea con la macaronica euresi dell’ingegnere-scrittore, che si sia giunti a una parentela tra la disastrata famiglia dei Crocchiapani e quella di stirpe divina degli Atridi, attraverso un sugoso, informe, batuffolo di spinaci, destinato alle poco nobili ma a modo loro certamente barocche vicende della digestione.

Università di Bologna

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0

© 2002-2025 by Ferdinando Amigoni & EJGS. First published in EJGS (EJGS 2/2002). EJGS Supplement no. 1, first edition (2002).

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