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Il Castello di Udine
Giuseppe De Robertis
Carlo Emilio Gadda, tra le sue prose ricche, troppo ricche (il suo «barocco riccioluto, ricchissimo e fragile»), tra le complicate trascrizioni di motivi tolti quasi a pretesto per il suo lavoro di artista «tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti»), ha pur raccolto in questo stesso volume un libretto di guerra asciutto quant’era possibile alle sue esuberanti e irregolari qualità di scrittore, e sottilmente venato di canto, tra grigio e violetto, se vogliamo esprimerci con i mezzi della pittura, che ai libri di guerra finora apparsi aggiunge certo qualcosa, qualcosa di nuovo e, direi, d’inaspettato.
Libri avventurosi, diari nudi e distaccati, paragrafi di saporitissima scrittura, rappresentazioni frescamente epiche, confessioni coraggiose e crudeli non c’erano mancati che sopravanzassero il livello mediocre delle false cronache, o della letteratura male spesa, o della rettorica eroica: bei nomi tutti, Mussolini, Soffici, Baldini, Comisso, Stuparich, Stanghellini…: ma questi cinque capitoli di Gadda? Mettiamogli subito in conto il tono antinarrativo e antidescrittivo, e che la guerra, la sua guerra, se è il fomite ancora di cupi pensieri che si traducono poi in ricordi vestiti di immagini, anzi trasfigurati dalle immagini, non resta però mai puro argomento né, tanto meno, ozioso argomento. Questo, a dir vero, altro non è che un «rapporto» sui vizi e le virtù degli uomini in guerra, o di nostri uomini nella nostra guerra, alla cui novità e rilievo conferisce la parola di Gadda alquanto alta dal comune, ingrandita di antichi modi, che quanto s’adorna e s’abbellisce in sé, tanto a grado a grado scava nell’animo nostro o vi lascia una traccia; segno che quegli adornamenti, quegli abbellimenti, non sono meri artifici stilistici, ma un arricchimento vivo, per esaltare ciò che è bello, con parole solenni, mortificare ciò che è brutto, col classico pariniano gioco delle sproporzioni.
«Non iscrivo per me, scrivo perché salti fuori qualche cosa che possa valere a farci più forti e più avveduti in ogni futura congiuntura, nelle distrette del male». Così, in forma dimessa, per un estremo di chiarezza, riassume il senso e il carattere del suo libro. Lascia a posta al fondo del quadro il grigio e il triste, l’esame degli errori sulla guerra, certe nostre bassezze e miserie, l’intelligenza poca e il poco ardire e la poca costanza, perché meglio risalti ciò che più ha amato di quella sanguinosa storia, e che fu la forza di ieri, ed è la sua gloria d’oggi. Ancora dopo tant’anni, tutto rivedendo e soppesando con una sua crudele chiaroveggenza («il mio diario contiene dei giudizi»), non può a meno di confessare che «certe ore di guerra» non dirò le benedice, – sarebbe bestemmia, – ma le visse «con orgoglio e con gioia, o almeno con la sicurezza allucinata del sonnambulo»).
Pure bisogna riconoscere che le due parti in cui il libro è diviso o, per andar più vicini al vero, le due zone di cui la rappresentazione risulta, non sarebbero nulla, e tra sé non legherebbero, se trovassero il loro nesso solo nell’animo dello scrittore, nella sua partecipazione alla guerra, nel sentimento suo della guerra; lo trovano invece per una ragione tutta estrinsecata, e proprio fanno vedere dalla miserabilità più trista levarsi la grandezza.
Quando grida, e allinea le prove, contro la viltà, e che «voltolarsi ciechi nella propria bassezza tira il castigo, forse anche più che delinquere»; contro la debole umiltà, e che il soldato vero deve avere «l’occhio e il ghigno d’una creatura d’inferno», dev’essere un «grumo di volontà» non un «fagotto di rassegnazione» o, se mai, un «cencio tra le spire della fatica»; contro il mito della furberia, e che «la frode non salverà i frodatori»; contro la musoneria, e che non solo essa «non porta fortuna», ma è «la valorizzazione della debolezza, e della servitù»; contro l’ignoranza dei capi, e che «Cesare sapeva leggere, scrivere e far di conto», «governava sé col suo scire»; quando loda ed esalta la volontà di ferire, «più nobile della bassa stanchezza, che conduce a tenersi gli sputi nella faccia»; il dovere militare, l’orgoglio militare, «istinto» e «idea» che nei giorni «di sangue e di folgori» permisero a lui Gadda di restar padrone di sé più che le prediche e i giornali e le speranze di combattere «l’ultima guerra»; infine, nella miseria della prigionia, il «delirio della mente» reluttante «alla rassegnata saggezza e alla cosiddetta pace del cuore»; sul punto proprio che le parole potrebbero parere contente troppo di sé, e un poco aride, ecco improvvisamente scoprirvisi dinnanzi qualcosa di nuovo, la drammaticità della guerra espressa per puri e grandi simboli.
è il tenente Calvi, quello, morente da disperato, uomo ancora di sangue e di crucci. «Coraggio!» gli dice il cappellano; e lui in bergamasco rispondergli: «Cosa devo farmi coraggio, che non posso neanche respirare». E questo è il tenente Chitò, studente di matematica, che a Celle nell’Hannover, prigioniero disfatto, trapassato il polmone da una pallottola, già segnato dal destino, pur con mano esatta, con supremo disinteresse, ma con devozione somma alla scienza che ha servito, agli studi che più ha amato, spiega al compagno stupito la «risoluzione di Cardano». E ricordi altri suoi, della sua fatica, della sua costanza; e, da ogni parte, voci, cenni, volti, un coro di genti vive, vive anche presso alla morte. Da un giudizio sul bene e sul male, è nato un quadro di crudi contrasti.
Rispondenti al quadro sono le parole e i colori, o cenere, o luce splendente; e così la qualità e l’essenza della sua prosa, o prosa-prosa, o poesia di delicatissimo fiore; e abbiamo visto essere così i suoi soldati, o vili, o bravi; e anche la sua vita ha lo stesso dissidente sapore. Per questa alta coerenza, in pochi scrittori come in Gadda, una pagina sola, un semplice rapporto di toni, il nesso di due immagini che da lontano si chiamano, portano con sé un peso e una ragione, danno suggerimenti da valere come illuminazioni. «… E sull’immenso bacile fra l’Adamello e la Presanella, ch’era stato cenere all’alba e poi manifesto adamante, rifolgorò l’aurora: la fiamma accese, l’una dopo l’altra, le vette». Più d’una volta la forza e il suono delle parole classiche ricordano ciò che di Carducci fu più suo, il suo piglio, il suo scatto, l’aria sua grande; e nulla manca della sua caparbietà inventiva («il lontano corruccio di Monte Nero» «sulla viscida perfidia del ghiaccio» «e verdi baratri, come catarro verde» « il grigiore vetrato dell’Alpe»), delle sue movenze leggiadre «il sole ancor tepido nel rimando dei dolci colli»), o della sua arditezza «la grandine delle scheggie e dei sassi era la farina del nostro mezzogiorno»: una novità scoppiata, dal peso della fatica, finché questa fatica dura e agisce.
Ma fuori dei cinque capitoli di guerra essa d’un tratto s’allenta; entra in gioco un umor lieto, ma facile; e immagini e pitture tanto guadagnano in finezza quanto perdono di lirico valore. Durezza e gentilezza insieme prima commiste si scompaginano; quel tendere dell’animo diritto a uno scopo, quel rigore chiuso cede. Il suo secentismo, prima come scaldato da una fiamma, e che lievitava tutto, respirava, era una cosa vivente, ora si fissa e raggela in particolari tersissimi ma fragili. Il lettore non ha che da scegliere («la luce del Mediterraneo cavava, tra loggia e portico, tra muro e scalea, i colori splendidi del mattino recandoli in sul taglio grigio ed aurato della pietra, e nel fiore del geranio scarlatto»); ma a esempi come questi, d’una vitrea bellezza, noi preferiamo quelli dove il nudo cuore quasi canta, canta e si duole («la pioggia autunnale scrosciava contro la tenda, nelle brevi ore del riposo: e la stanca foglia del castano o del faggio, turbinata dall’autunno, sostava labile sulla mia tenda, come un pensiero: come un cuore umano che chieda di dire il suo commiato prima di disparir nella notte»). È sempre la fermentante forza della guerra, qui, che trae accenti sì mesti, è la vera musa di Gadda, la salvatrice. Solo la guerra, e la mortale fatica, sanno sprigionarlo da sé; altrimenti egli non sa guardarsi dall’indulgere ai mille richiami e, così indulgendo, un poco perdersi.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371- 18-3
© 2007-2025 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. Previously published: G. De Robertis, Il Castello di Udine, in Pan 2, no. 9 (1934): 142-44; then in Scrittori del Novecento (Florence: Le Monnier, 1940), 325-29. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
The archival research carried out on behalf of EJGS was part of a project funded by the Edinburgh Development Trust, University of Edinburgh. The digitisation and editing of EJGS Supplement no. 7 were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.
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