L’ultimo lavoro di Robert
Nota e Testo
Lino Pertile
Nota al testo
L’ultima volta che parlai con Robert fu verso la metà di aprile dell’anno scorso. Fu lui a chiamarmi al telefono dall’ospedale americano di Parigi, dov’era, mi diceva, ormai di casa. Mi chiamava per dirmi che l’intervento chirurgico al ginocchio, in programma per il 23 maggio a Hartford, CT, era stato rimandato indefinitamente, e quindi non sarebbe rientrato ad Ashford alla fine del mese, come ormai ci si aspettava. I medici a Parigi avevano finalmente scoperto che il problema al ginocchio era soltanto un sintomo, mentre la causa del male era un’infezione al cuore che sarebbe stata curata con la somministrazione di antibiotici e alcuni giorni d’ospedale, massimo una settimana. Io rimasi sconcertato da questa rivelazione, ma Bob minimizzava parlandomi con voce piuttosto allegra. Si diceva sollevato all’idea che i medici fossero finalmente giunti a snidare il suo male alla radice, e sembrava convinto che in pochi giorni si sarebbe rimesso. Nel frattempo era saltata la sua partecipazione al convegno dell’AAIS nel Missouri, ma l’importante per ora era star meglio. La politica estera americana continuava a metterlo in grande agitazione. A proposito, aveva letto un nuovo libro italiano, un saggio importante di Luciano Canfora a cui aveva accennato anche durante la nostra telefonata precedente. Me ne avrebbe parlato più a lungo quando ci saremmo rivisti a Parigi verso i primi di giugno, come d’accordo: saremmo stati con lui e Lucy nel loro appartamento, avevano un sacco di novità da raccontarci, varie cose da fare insieme, ci saremmo divertiti. Purtroppo, come seppi da Lucy qualche giorno piú tardi, il male di Robert era molto più grave e insidioso di quanto lui non pensasse o facesse credere.
Quando andammo a trovarla a Parigi ai primi di giugno, Lucy mi consegnò una cartellina che conteneva le carte relative al discorso che Robert andava preparando, prima che il male glielo impedisse, per il convegno dell’AAIS a Columbia, Missouri, e precisamente:
1) un abbozzo in inglese di 11 pagine, battute a doppio spazio e con larghi spazi tra un paragrafo e l’altro; in testa alla prima pagina: «AAIS/ April 18-21»; varie cancellature e aggiunte, inserite a matita e con due penne diverse, nel testo, ai margini e, in un caso, sul verso di una pagina. Si tratta ovviamente dell’abbozzo originale a cui Robert lavorò in vari momenti nel marzo dell’anno scorso, ma senza mai arrivare a completarlo.
2) una versione dello stesso testo su 7 pagine, con spaziatura ridotta a 1_, le prime quattro pagine già tradotte in italiano e le seguenti (pp. 5-7) del tutto identiche all’originale sopra descritto (pp. 8-11); nessun segno a matita o penna. È la versione italiana che Robert andava approntando, paragrafo per paragrafo, sull’originale inglese, incorporandovi via via cambiamenti indicati su quel testo a penna o matita. È questa versione in italiano che Robert si proponeva di leggere al convegno dell’AAIS.
3) due foglietti strappati da un bloc-notes a quadretti, e contenenti, di mano di Robert, la traduzione italiana della pag. 8 e dell’inizio della pag. 9 dell’originale inglese; scrittura a penna con qualche riga a matita; qualche cancellatura e ritocco.
Il testo qui pubblicato è in sostanza quello descritto qui sopra al n. 2, ma vi ho aggiunto a p. 5 una buona parte del lacerto italiano che Robert non aveva ancora trascritto dai due foglietti al n. 3. Trattandosi di un testo scritto a caldo e non mai riveduto, l’italiano dell’originale presenta qua e là qualche frattura sintattica, ambiguità o incertezza. Le ho risolte ricorrendo alla versione inglese (n. 1) e alle note manoscritte che la corredano. Dove sono intervenuto, non l’ho fatto in veste di editore ma come se proprio Robert mi avesse chiesto di rivedere il suo testo prima di pubblicarlo. Sono certo che avrebbe accolto i miei pochi ritocchi con uno di quei suoi sorrisi divertiti e indicibilmente sornioni.
Harvard UniversityTesto
è uscito da poco in Italia un piccolo libro dal titolo Critica della retorica democratica. II suo autore, Luciano Canfora, non è né un filosofo di professione né un politico né un critico sociale, ma un eminente classicista, i cui scritti più recenti sono Prima lezione di storia greca, Giulio Cesare, il dittatore democratico, e Storia della letteratura greca. Il volumetto sta in rapporto diretto coll’11 settembre, sebbene Canfora dedichi poco spazio all’attacco terroristico in se stesso. Egli preferisce discorrere intorno all’attacco, cercando di creare un clima o contesto. Comincia col resoconto che Platone ci dà del processo a Socrate e finisce con la seguente provocante analogia:
La distruzione del cuore finanzario mondiale, a New York, e di una parte del Pentagono a Washington può apparire come qualcosa di analogo all’arrivo, fino ad allora considerato impensabile, di un capo «barbaro» nel cuore dell’impero romano: l’incursione fin dentro Roma (14 agosto 410) di Alarico, capo dei Visigoti. Un genio, oltre che un grandissimo scrittore, come Agostino, vescovo di Ippona, capì allora che crollava l’ordine preesistente. E scrisse il De Civitate Dei. Libro che si apriva sul futuro nell’unico modo costruttivo: ripercorrendo il passato, cioè la terribile marcia trionfale della Roma imperiale. Un esercizio analogo sarebbe utile oggi. (p. 101)
II saggio di Canfora parla soprattutto di «fondamentalismo democratico», espressione con la quale Garcia Marquez voleva sottolineare il corrente uso arrogante della parola «democrazia», ma con riferimento a qualcosa del tutto opposto a ciò che originalmente voleva significare, cioè a una certa intolleranza per tutto quello che non sia il governo liberale-parlamentare, la compravendita dei voti e, in generale, il mercato politico. Un corollario di tale fondamentalismo è che tutto ciò che si oppone alla democrazia è totalitario e male – un atteggiamento che ha ostacolato, specialmente negli USA, la comprensione di come il mondo è diventato complesso dopo la Seconda Guerra mondiale. Fu per prima l’Unione sovietica a venire definita «l'impero del male», poi fu la Cina, e ora abbiamo «l’asse del male». È chiaro che questi sono tutti slogans escogitati dai media a scopo politico, ma a forza di ripeterli diventano parte del bagaglio intellettuale dei cittadini.
Si è detto e ripetuto che dopo l’11 settembre il mondo non sarà mai più lo stesso, che l’America ha perso la sua innocenza o, come vorrebbe Stanley Hoffman, la sua naiveté. Io non so, per dire la verità, che cosa abbia perso realmente l’America in quella mattina di settembre, oltre a molti cittadini, residenti e ospiti, e a una grande quantità di ricchezza materiale e potere simbolico – questi ultimi già in gran parte rimpiazzati. Ma un vuoto enorme continua a esistere nel nostro paesaggio urbano e, forse, anche nella nostra psiche collettiva, che esige di essere riempito. Per il momento lo si sta riempiendo di patriottismo, un pasto quotidiano che è diventato ormai un vero banchetto. La nostra casa è stata invasa e dissacrata – ci vien detto. Siamo in guerra, ma non contro un popolo, una nazione, un governo; non contro un’ideologia, ma contro una forma di combattimento, certamente la più insidiosa e la più imprevedibile. Abbiamo visto, come Chomsky ha ben detto, che un altro, senza nome una volta, si è mostrato capace di entrare nel nostro spazio e distruggere un potente simbolo del capitalismo occidentale, e con esso la vita di più di tremila innocenti: ebbene, non c’è modo che una tale azione possa essere dimenticata, nessuna vendetta la farà scomparire.
Senza dubbio, prima degli attacchi terroristici a New York e Washington, il piccolo mondo degli studi umanistici era già da tempo in crisi. I mass-media hanno cambiato il nostro modo di percepire il mondo, convincendoci ad accettare come verità le immagini che essi producono e generando una mentalità collettiva concentrata quasi esclusivamente sul visuale. Così rischiamo d’essere accecati dalla presenzialità delle cose, in modo che non vediamo ciò che ha preceduto la forza del presente e ciò che potrebbe seguirla. Chi può dimenticare le sequenze delle immagini, dall’urto degli aerei contro le torri, ai corpi cadenti nello spazio, al crollo delle torri stesse? Chi potrebbe dimenticare la paura sulla faccia di coloro che scappavano in cerca di evitare il disastro? Ma le migliaia di innocenti massacrati dai bombardamenti americani in Iraq e coloro che continuano a morire a causa delle nostre sanzioni contro il popolo iracheno saranno assai facilmente dimenticati perché di loro non abbiamo nessuna immagine mentale, bensì solo qualche secca statistica compilata dall’ONU – statistiche cui non dobbiamo prestare fiducia, perché tanto l’ONU e le altre organizzazioni internazionali sono composte di nazioni che ci odiano! Così è facilissimo ricordarsi dei kamikaze che terrorizzano Israele, ma difficilissimo ricordarsi del sangue palestinese, del razzismo e dei progetti di pulizia etnica israeliani. Quel che ci vien fatto ricordare è che gli israeliani combattono per la loro vita, anziché per le loro colonie e basi militari nelle terre occupate della Palestina.
Certamente – la storia ci è stata raccontata così tante volte, come se si trattasse di un fatto naturale – il mondo, a noi sempre presente, si misura secondo il tempo del consumo, un tempo determinato dagli sponsor che hanno prodotti da vendere a una vasta popolazione di consumatori. E in questo processo perdiamo il senso della storia, di un passato significativo che ci lega al presente e al futuro. Ciò che non vediamo alla televisione, noi non lo conosciamo. Conosciamo il disastro dell’11 settembre perché abbiamo visto ripetutamente quelle immagini di terrore. Lo conosciamo ma non lo capiamo ancora, e forse non lo capiremo mai. Non lo capiamo perché non siamo capaci di considerare il terrore secondo una giusta prospettiva. Ciò di cui l’America e l’occidente in generale hanno fatto esperienza l’11 settembre, è qualcosa che una grande parte del mondo sperimenta ogni giorno. Queste vittime del terrore raramente riescono a diventare news, a meno che non ci servano politicamente. II terrore come a way of life esiste, ma noi non lo vediamo come terrore. Quindi non possiamo lottare contro il terrorismo, e i generali e i politici che in base a successi iniziali credono che questa guerra si può vincere, si sbagliano. Finché ci saranno le condizioni per il terrorismo – condizioni delle quali l’America e l’Europa sono responsabili – ci sarà sempre il terrorismo.
Nietzsche ha scritto da qualche parte che lo scopo dell’insegnamento umanistico è di tenere vivo il passato e di renderlo parte della coscienza del presente. Se ci chiediamo perché ciò sia desiderabile, una delle tante risposte possibili è che non vogliamo essere prigionieri del presente. In quanto prigionieri del presente, non abbiamo in mente nessuna alternativa al nostro modo di vivere, o altri possibili modi di pensare e di sentire. Prima dell’11 settembre eravamo sul punto di perdere ogni senso delle realtà obiettive e materiali nelle quali viviamo la nostra vita di consumatori. L’attacco terroristico ci ha fatto capire che il World Trade Center e il Pentagono non erano dei testi, ma strutture reali che potevano essere distrutte. Le torri gemelle rase al suolo e la gente che vi era dentro per la maggior parte distrutta, non virtualmente ma in tutta la sua materialità umana. Distrutta da altri esseri umani, provenienti in buona parte da famiglie ricche e vissuti per lunghi periodi in occidente, motivati da una rabbia che si fonda non su qualche concezione trascendente del male, o nichilismo, ma sulla storia, sul passato reale e sulla vita attuale di altri esseri umani. L’11 settembre ci ha insegnato, per usare le parole di Stanley Hoffman, che, much to our horror and disbelief, the world is full of people who dislike or distrust us. We are the hegemon, and «we are not sufficiently marinated in history to know that, through the ages, nobody – or almost nobody – has ever loved a hegemon». Ma l’11 settembre ci ha insegnato qualcosa di ancor più importante: che come intellettuali e insegnanti la nostra responsabilità è di intervenire nel dibattito e di assumere un ruolo pubblico di guida, anche se sappiamo che le nostre voci potrebbero essere, se non censurate, scartate nel grande bidone del controversial, dove sono andate a finire le voci, fra le altre, di Chomsky e Said.
Sarebbe bello pensare che un certo postmodemismo è stato gravemente ferito, se non del tutto eliminato, quel martedì di settembre, e che ora, per capire il perché e il percome, dobbiamo abbandonare sia la concezione della storia come accumulazione di dati scamificati, sia quella tipicamente postmodema della storia come spettacolo. II ritorno ora dovrebbe essere ad una ricostruzione del passato su cui si fonda il presente. Dobbiamo avvicinarci a quel passato armati di responsabilità etica e politica, e con la consapevolezza dello statuto relativo e provvisorio di quelle responsabilità. Così saremo meno disposti a cadere nella trappola dello storicismo o abbracciare qualche visione teleologica della marcia progressiva della cultura occidentale.
L’11 settembre ha ribadito qualcosa di cui in parte eravamo già convinti: l’importanza di capire la lingua e la cultura dell’altro, almeno nella misura in cui l’altro capisce noi e, nel caso degli attachi a New York, sfrutta le nostre debolezze e la nostra ignoranza. Ma la vera questione non è semplicemente quella della conoscenza di altre lingue e altre culture. L’insegnamento dell’arabo su vasta scala sarebbe stato di poco aiuto nell’evitare il disastro. La vera questione è come capire, come conoscere la nostra cultura, come le nostre idee e le nostre azioni hanno influenzato e continuano a influenzare gli altri in modi diversi dalle nostre intenzioni, e se questa comprensione sia tale da renderci politicamente attivi.
Come studiosi di letteratura, che lavorano in un angolo assai remoto del mondo accademico, senza un pubblico che non siamo noi stessi, che cosa possiamo fare noi per combattere una cultura che, sebbene non abbia causato l’orrore dell’11 settembre, ha in qualche modo creato le condizioni perché accadesse? In altre parole, quali sono le nostre responsabilità di intellettuali, se non di universitari liberali, se questo è ciò che siamo? Nel suo volumetto, Luciano Canfora dichiara che la sinistra politica italiana (ma l’argomento vale per tutto il cosiddetto primo mondo) è diventata succube della cultura dei suoi avversari, cioè della destra. Ciò che si tende a dimenticare è che la società è sempre stata governata da minoranze, e si dimentica perché è una realtà celata sotto la retorica del «fondamentalismo democratico».
Canfora sostiene, e io concordo, che siamo governati da potenti élites economiche e tecnocratiche, capaci di manipolare l’opinione pubblica con mezzi di enorme efficacia – in primo luogo, la televisione. Paranoia intellettuale? Non credo. Chi ha avuto modo di seguire la politica occidentale dopo la seconda guerra mondiale avrà notato che, al di là dello schieramento strategico delle superpotenze, il mondo fin d’allora era diviso tra l’occidente democratico e l’altro, tra noi e loro, e che la grande maggioranza della popolazione dell’occidente capitalista era convinta fin d’allora, come forse siamo tutti noi, di vivere nel migliore dei mondi possibili. Perché dunque non imporre i nostri valori, visto che sono quelli giusti, sulla crescente porzione di umanità per la quale tali valori non sono possibili? Che cos’altro dovrebbe fare un egemone?
Well, for a start, as agents in the hegemonic process, we could engage in some introspection, personal and collective, at once. We could ask ourselves the simple questions for which no simple answers can be given: Why have we devoted our minds and hearts to the study of Italian language, literature and culture? Why is it important to know what we write about? Most of all, are we in good faith in the answers we give to these questions? It makes little difference whether our consciousness is so fine-tuned, with regard to our development and objectives, that we can produce believable answers, or whether we are happy to say that we do what we do because it gives us pleasure, that our books, articles, and lectures are our toys, the things with which we play and that give us our identity as academics. What we know for sure is that we hold positions of responsibility as teachers (both in the classroom and in our research), and that we can make a difference: to influence the way a person thinks and the paths he or she will take as an adult, in a world of adults, a world looking for just solutions to difficult problems.
It is for these reasons that we must go to class with an awareness of the historical moment in which we live. Whether we are teaching Elementary Language or a highly specialized seminar, we cannot extract ourselves from the context of our lives as citizens and teachers. Our greatest poet Dante understood the importance of being a citizen in a troubled world and the responsibilities it entailed. Machiavelli too, from the standpoint of an ideal citizen of a virtual state, reflected on the pain of truth and the dire responsibilities of leadership. And Leopardi, three centuries later, would bemoan the facile reasoning of the ideologues in the face of an other-ness of which he and the multitude were part. He too was a citizen, but in a human community that was beginning to lose its cohesion. And today, in this very present, citizens of a just and democratic Italy are taking a stand against a new form of fascism, headed by one who believes, perhaps correctly, that in our postmodern, global age whoever has economic and media power will acquire almost automatically political power.
But what are we to do with the simple-mindedness of a Bush and the crafty demagoguery of a Berlusconi? How do we combat to change the conditions in which such figures are spawned and grow, with the hope of also changing the conditions that make terrorism, and the dissolution of Italian democracy, not only possible, but also probable? There is certainly no easy answer. I would like to think, however, that a move in the right direction is to become informed. To be informed, in my view, means to know why things have come to be as they are, and what are the mechanisms that fuel their existence. It is clear that most of us, myself included, do not have the specific knowledge needed to penetrate into the major political and social problems of our time. But what we do have is the capacity of reflecting on our own pedagogical agenda.
We have today in the academic supermarket several popular, relatively new, products: cultural studies, ethnic studies, post-colonial studies, feminist studies, queer studies, etc., all of which have the backing of learned and serious advocates and all of which have produced fine, illuminating examples of worthwhile approaches to literature and culture. One has also the sense that the people engaged in fields such as these are, at least to some degree, politically committed. These areas have gained currency as part of a larger reaction against the pressures of the institution and of the social order within which it resides and which it represents. This is the same institution that sets certain standards for learning, and, in the field of literature, abides by a canon of great works. In the field of Italian, the institution is solidly rooted in a tradition of authors and works deemed proper for literary studies. A strong alternative to tradition is indeed the new areas of interest I have just mentioned. Many of you, also, have fought against institutional pressure by looking for, and finding, in canonical works various messages of revolt or emancipation or, conversely, signs of collaboration with the forces that oppress women, gays and minorities in general. The problem with such approaches is, as John Guillory has remarked in his book on the English canon, that they «mistake the social effects of the canonical form for the effects of individual works». The reading of great works of literature, like the turn to new subjects of study, is not in itself liberating. Literary works convey a large variety of attitudes on different social issues, and it is not very useful to simply characterize them as progressive or regressive. Rather, what is most important is to understand why they have come to say what they say.
But one also must understand that the local struggles furthered in these areas do not exist in a vacuum, independent of each other, nor are they divorced from the politics of late capitalism and globalization as a whole. Does it do us any good to recognize the importance of once suppressed voices, if we ignore the needs and the human rights of people, whose prime interest is their own well being, not that of the United States and its Western allies? Does one’s place in the discourses of freedom have to depend on whether he or she is a real or potential consumer?
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-03-5
© 2002-2024 Robert Dombroski, Lino Pertile & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 2, EJGS 2/2002.
Artwork © 2002-2024 G. & F. Pedriali. Framed image: photograph of Robert Dombroski. Text and photograph by kind permission of Lucy McNeece.
All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.
EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.
Dynamically-generated word count for this file is 3678 words, the equivalent of 11 pages in print.