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Arbasino, L’Ingegnere in blu
e l’esercizio della critica
Niva Lorenzini
Alberto Arbasino, L’Ingegnere in blu, Milano, Adelphi, 2008, 186pp., ISBN 978-88-459-2240-4
Per recensire questo prezioso, delizioso ritratto critico di Gadda, ci vorrebbero le doti di «limpidezza», «concisione», «erudizione», «humour», di cui il ritrattista Arbasino, erede diretto dell’Ingegnere esperto in «groppi», «nodi» e «grovigli», (1) suo nipotino per scelta ed elezione, lamentava la carenza nei critici italiani. Lo scriveva tra il 1959 e il 1960 in un saggio giustamente celebre, I nipotini dell’Ingegnere e il gatto di casa De Feo, posto ora a chiudere il volume Adelphi fresco di stampa. L’autore, in quegli anni di formazione che registravano già all’attivo la stesura delle Piccole vacanze e dell’Anonimo lombardo, vi stigmatizzava i limiti di quanti vedevano «l’esercizio della critica non come un affare tutto sommato piacevole, ma piuttosto come pena gravosa, o punizione divina», e voltavano le spalle «alla nostra vita nazionale di oggi», vivendo «nell’assoluto, oppure in casa», legati «alla povera piccola poetica in uso l’anno della loro tesi di laurea». Bersaglio polemico erano, si comprende bene, quei «nostri» critici insieme supponenti e disinformati, privi di acutezza e curiosità; quelli che esercitano il mestiere con risorse perimetrate, ignorando – denunciava Arbasino – sociologia e psicologia, politica e letterature straniere, ma soprattutto le «discipline scientifiche» che invece non avevano misteri per l’Ingegnere, e senza le quali – puntualizzava Arbasino – «la letteratura non è “come vita”, ma è morte e imbalsamazione» (Arbasino 2008: 180-81).
Se ci si attiene intanto alla limpidezza, consigliata dall’autore nel suo sintetico prontuario, bisognerebbe rilevare subito che quel breve saggio, divenuto negli anni punto di riferimento d’obbligo per chi si accosti a Arbasino pensando assieme a Gadda, è il solo testo provvisto di data tra i sei che scandiscono la struttura dell’avvincente reportage critico adelphiano (nell’ordine: Genius Loci, La formazione dell’Ingegnere, L’Ingegnere e i poeti, Una Lombardia fantasma, Cartelle memoriali, I nipotini dell’Ingegnere). Il montaggio esperto che li seleziona e li ordina nulla toglie all’agilità, al ritmo, alla godibilità del narrato: ci si trova così a seguirlo, l’itinerario testuale, senza condizionamenti vincolanti di apparati e note che definiscano e ricostruiscano tempi, luoghi, occasioni e trafile editoriali. Lo si percorre come una storia a flusso continuo, con una trama segmentata in plot che catturano l’attenzione, nel loro disseminato articolarsi rispondente a un preciso e organico disegno strutturale.
L’impressione, ad apertura di testo, è di trovarsi catapultati in un genere nuovo, che coniuga narrazione e saggismo, appunto aneddotico e raffinati riscontri culturali, cosmopoliti ed eclettici. Il lettore fedele di Arbasino non stenterà certo a riconoscervi la fisionomia inconfondibile dell’autore di Fratelli d’Italia, già precisamente tratteggiata nelle opere narrative che precedono quello «“smisurato” romanzo-conversazione», (2) e pienamente confermata da quelle che lo seguiranno. E tuttavia si impone subito una percezione aggiuntiva, che si fa più nitida di frammento in frammento, di quadro in quadro, di peregrinazione in peregrinazione all’interno di quella Roma anni Sessanta ritratta tra salotti bene e trattorie di borgata, in un’Italia in bilico tra boom economico e omologante Kitsch.
è la percezione che si abbia a che fare con una scrittura a quattro mani, proprio come se Gadda fosse – e lo è – in precisi momenti testuali, coautore, se non diretto estensore del testo, e Arbasino un riservato e discreto trascrittore, attento a punteggiare qua e là il racconto con sobrie didascalie (i tanti «dice», «diceva» Gadda, «scriveva» l’Ingegnere…). E c’è anche di più: nel caleidoscopico rifrangersi delle parti, nel gioco attributivo dei ruoli, il personaggio Gadda si insinua gradualmente tra gli stessi congegni retorici, stilistici, lessicali, del tessuto testuale, fino a sostanziarli di sé. Ne risulta un’operazione di transfert, che fa divenire l’Ingegnere in blu, ritratto nel suo completo d’ordinanza («Immancabilmente in abito blu ben stirato, camicia bianca e cravatte deplorevoli […]»: Arbasino 2008: 76), così inappuntabile e così ferito dalla vita, una presenza ineliminabile della stessa biografia e autobiografia di Arbasino, della sua vocazione alla scrittura. Al punto che di saggio in saggio, o di capitolo in capitolo, le fasi – quasi movimenti musicali – sui cui si sviluppa la raffinata orchestrazione del libro mnemonico e testimoniale, possono essere visualizzate e ascoltate proprio attraverso Gadda, la sua segreta complicità, il suo preciso punto di vista, la sua ferocia, il suo humour, il suo sarcasmo.
Di fatto l’eleganza, la godibilità del testo, convivono appieno, in ogni pagina dell’Ingegnere in blu, con la caratterizzazione spietata, l’affondo tranchant: vuoi che l’obiettivo del ritrattista inquadri un panorama critico – quello dell’Italia anni Trenta/Quaranta – arreso a conformismi di provincia, a un’autarchia culturale quasi connaturata, incapace di far posto ad atmosfere meno asfittiche; vuoi che l’appunto del chroniqueur si applichi alla registrazione di schematismi ideologici miopi, responsabili nel secondo dopoguerra del mancato rinnovamento di categorie critiche e modi interpretativi. Difficile per l’outsider Gadda rientrare nelle nozioni di realismo ed espressionismo intesi in termini riduttivamente formali, o in quelle di mimesi dialettale e di rispecchiamento: lui che sino dall’Adalgisa abbatte steccati e barriere tra letteratura e scienza, psicanalisi e filosofia, lingua e dialetto, aprendo il lessico a estensioni e deformazioni continue, con la violenza «derisoria» e la forza di una scrittura «esasperata ed esplicita», che non sfuggono al manipolo di giovani critici che all’avvio degli anni Sessanta, col Gruppo ’63 alle porte, ne comprendono la portata eversiva e le potenzialità.
Altro che accomunare il Pasticciaccio e Ragazzi di vita in un filone «dialettale romanesco» e dunque «per definizione, mimetico» e «minore»: Arbasino si indigna, stendendo le pagine di Una Lombardia fantasma, nei confronti di chi non vuole capire che ogni «giro di frase» del romanzo gaddiano è «un tour de force come un “mosaico minuto” ove il “parlato” – anzi i parlati – irrompono in ogni narrazione, combinandosi con materiali di qualunque genere, luogo, epoca» (Arbasino 2008: 137): e pare che parli anche di sé, lui a sua volta outsider e transfuga, non dall’ingegneria, come Gadda, ma da una carriera diplomatica mai attivata, e da sempre sperimentatore, in proprio, di prove narrative segnate da tecniche di dilatazione e digressione, aneddoti folgoranti e colate lessicali, registrazioni del parlato e assaporazione esperta delle più variegate nuances linguistiche e dialettali. Lui che il realismo aveva saputo definirlo con penetrante consapevolezza critica proprio in una pagina dei Nipotini dell’Ingegnere, quando accennava a una tecnica di scrittura sperimentata nell’Anonimo lombardo («dopo aver raccontato delle cose efferate – scriveva – in maniera che si senta “l’odore stesso della realtà”, aggiungerò che i fatti, veramente, nella vita, si erano svolti in maniera diversa, e li ri-racconterò infatti subito, secondo versioni cento volte più scatenate»: Arbasino 2008: 178; ed era come dire che la percezione, la registrazione del dato in presa diretta, va ogni volta ridefinita, per fare efficace realismo, e filtrata, rigenerata attraverso la mediazione linguistica, l’invenzione della scrittura).
Arbasino raccomandava al recensore «concisione». Ma qui resterebbe da riferire, ricollegandosi proprio al gusto della scrittura, la centralità, la forza travolgente delle pagine che allineano, in un crescendo incontenibile, elenchi di «lemmari conviviali» in uso presso la borghesia lombarda: e tra allitterazioni e omoteleuti, paronomasie, idiotismi, francesismi, «tormentoni» e «birignao», suoni e idiomi «non più uditi dall’infanzia» e assaporati dall’Ingegnere «pian piano fra sé», la pagina si fa vocale e orale, acquista la cadenza ritmica del rap, che Arbasino ha dato prova di sapere praticare mirabilmente. E quando il rumore raggiunge limiti estremi, lo scrittore di razza sa interrompere con stacchi improvvisi, attriti fonici, l’esecuzione testuale: e tutto si smorza e si prosciuga nel silenzio («Mentre Gadda si spegneva, nel ’73 […]»), o si sospende sulla soglia dell’enigma, dove è il dolore di vivere senza alcuna douceur a divenire protagonista della scena. Proprio come nella Cognizione, che una frase lapidaria restituisce nella sua inconclusa tragicità, là dove il testo pare mettere a rischio la fedeltà al carattere in progress, aperto, incompiuto, della stesura, arrestandosi appena in tempo «sull’orlo dell’orrore abbagliante, definitivo» (Arbasino 2008: 161).
Università di BolognaNote
1. Lo scrive, Gadda, in Come lavoro, SGF I 428.
2. Lo si legge nella quarta di copertina dell’edizione feltrinelliana ’67, che riproduce il testo del ’63 con l’avvertenza, data in forma di sottotitolo: «Pranzi, giardini, funesti affetti, ambizioni deluse, crisi vere e finte, prese di coscienza civili, vanità, rimorsi: una commedia sociale gorgheggiante e sinistra».
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
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