Per Robert Dombroski

Romano Luperini

Parlava ma non articolava più la voce. Vedeva ma non guardava: gli occhi sbarrati non focalizzavano più l’immagine. Lo streptococco lo aveva aggredito a un ginocchio in modo subdolo, non facilmente decifrabile, poi aveva devastato il cuore e il cervello. Ho accennato al suo libro su Gadda appena uscito. Ma ormai gli interessavano di più i figli, la moglie, il succo di frutta sul comodino dell’American Hospital di Parigi dove era stato ricoverato a metà aprile. Cercava ancora di parlare, alternando l’inglese, il francese, l’italiano, ma solo a tratti riuscivo a intendere qualche parola. Ma quando, rivolto a Lucy, la moglie, ha chiesto se aveva ancora «any chance», ho capito.

è morto, all’età di poco più di sessanta anni, Robert Dombroski. Parlava un italiano perfetto con una pronuncia incredibilmente fiorentina. Alto, leggermente claudicante, aveva un fare pacato, un volto sereno. Quando ci incontrammo la prima volta, vent’anni fa, scoprimmo subito di avere un amico comune, Sebastiano Timpanaro, una comune militanza marxista, un comune interesse per la psicoanalisi. Io già conoscevo il suo libro del 1978 su Pirandello, pochi mesi dopo sarebbe uscito il suo lavoro sui letterati italiani sotto il fascismo. Studioso di Gramsci, si occupava dell’ideologia degli autori (è stato fra i primi a documentare quella fascista di Gadda negli anni Trenta), ma la considerava senza schematismi, e sempre insieme alle strutture formali e a quelle dell’inconscio.

A determinare la nostra amicizia, le ragioni culturali, pure importanti, non sono state però decisive. Bob era buono, sincero, leale, generoso. Non praticava il pettegolezzo, non conosceva piccinerie, né livori personali; era privo di risentimenti, lontano da ogni narcisismo accademico. Quando giungeva a una riunione o a un convegno, con la sua andatura un po’ incerta e con il suo viso signorile e tranquillo, era naturale predisporsi al ragionamento, al dialogo, al confronto delle idee. E, se restava a conversare con un amico, subito si apriva, si confessava.

Quando fui ospite a casa sua, a Storrs, nel Connecticut, dove lui insegnava letteratura italiana, passeggiammo a lungo nel campus. Mi parlò del dramma della prima moglie, di cui non era riuscito a evitare il suicidio. Poi con assoluta naturalezza mi accennò alla sua simpatia per una collega di francese, Lucy, che avevo conosciuto la sera prima.

Da Storrs era passato a New York, dove dirigeva un programma di Graduate School alla City University. Era preoccupato per l’elezione di Bush e per l’11 settembre, e felice di poter lasciare per qualche mese gli Stati Uniti: aveva acquistato un appartamento a Parigi e da lì poteva scendere facilmente in Italia. Sperava quest’anno di goderselo a lungo con la moglie. Ma a Palermo, dove lo aspettavo i primi d’aprile per un convegno, non è venuto: non poteva camminare per l’improvviso gonfiore di un ginocchio. Lui, al telefono, era tranquillo: pensava che fosse il menisco o un’artrosi.

Università di Siena

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-03-5

© 2002-2025 Romano Luperini & EJGS. Previously published in Il manifesto (1.06.02), 19.

Artwork © 2002-2025 G. & F. Pedriali. Framed image: photograph of Robert Dombroski. By kind permission of Lucy McNeece.

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