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La città che dispare dell’Adalgisa
Giuseppe Stellardi
Paris change! mais rien dans ma mélancolie
N’a bougé! palais neufs, échafaudages, blocs,
Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,
Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.
(Charles Baudelaire, Le Cygne)
A fine 1943-inizio 1944, nonostante i tempi a dir poco infausti, Le Monnier fa uscire la prima edizione dell’Adalgisa: «I milanesi vorranno comprendere. Il mio dolore per la mia città, e per tutto, è infinito», scrive l’autore – ora fiorentino d’adozione — al cugino Piero Gadda Conti (Gadda 1974c: 60). L’affettuoso riferimento alla sua città e patetico appello ai concittadini, oggetto invece – nell’Adalgisa stessa e altrove – di feroce satira, si spiega per le tragiche circostanze, certo, ma non va scartato come semplice sfogo emotivo, o tanto meno come espressione superficiale o insincera di una partecipazione forzata. Al contrario, si vedrà – nel contesto di quanto verrò dicendo sotto – come il sentimento di Gadda corrisponda a una valenza primaria del suo immaginario, e a una inclinazione strutturale della sua scrittura nel libro di Disegni milanesi.
Tutti i volumi pubblicati da Gadda fino all’edizione Garzanti di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), e cioè La Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine, Le meraviglie d’Italia, Gli anni, L’Adalgisa e Novelle dal Ducato in fiamme (più Il primo libro delle Favole, che ha però uno statuto particolare)si presentano al lettore come raccolte più o meno disparate di testi più o meno brevi, spesso già precedentemente apparsi in giornali o riviste, provenienti da diversi cantieri (narrativi) o orizzonti di scrittura (anche non letterari, per esempio giornalistici e divulgativi), a loro volta collegati da quello che Dante Isella (nella sua Presentazione dell’edizione Garzanti delle Opere, RR I xx) accuratamente descrisse come un «sistema a vasi comunicanti», che permette agli stessi brani o gruppi di testi di affiorare, nel corso degli anni, in contesti editoriali diversi.
L’Adalgisa ha una sua particolare importanza in merito alla comprensione delle modalità di questo complicato sistema, in quanto sembra esercitare una funzione di cerniera e spartiacque all’interno dell’evoluzione della scrittura gaddiana, o almeno dell’aspetto pubblico di quella. In questo volume, infatti, più chiaramente che altrove e forse per l’ultima volta, coesistono palesemente due direttrici antitetiche, due forze generatrici e organizzatrici di senso, diciamo pure le due motivazioni profonde (compresenti, seppure idealmente inconciliabili) dello sforzo espressivo e comunicativo dell’Ingegnere.
Ma prima di proseguire nell’elucidazione esplicita di questo tema, vorrei proporre un quadro di riferimento per un approccio critico all’Adalgisa, comprendente un punto focale e quattro punti cardinali, dal quale spero risulterà più plausibile l’abbozzo di interpretazione dell’opera che mi accingo a suggerire.
Il punto focale è costituito naturalmente da un testo gaddiano, e precisamente da una citazione presa dal volume in questione. Si tratta di un passaggio apparentemente secondario, una piega del tutto insignificante nello sviluppo della trama e a prima vista ben poco importante nell’economia del testo.
Verso la fine del secondo tratto dell’Adalgisa («Quando il Girolamo ha smesso….») un breve inciso avente per argomento un orinatoio pubblico (RR I 325-326) diverte il lettore, distogliendone momentaneamente l’attenzione da quella che a sua volta è una digressione, avente come oggetto le disavventure dello sfortunato macellaio Testori Felice; le peripezie del quale (vittima innocente del nuovo piano regolatore della città di Milano) hanno un senso narrativo solo in quanto servono da antefatto alla storia del suo garzone Bruno, per altro poi lasciata largamente in sospeso dall’autore. L’inciso, però, a un più attento esame, si rivela tutt’altro che trascurabile; mi spingerei a dire che, al contrario, esso ha la funzione testuale e simbolica di un emblema, se non di una chiave di volta, seppur discretamente nascosto nei meandri del testo.
Per cominciare, l’inciso raccoglie le due note dominanti della vena di Gadda, quali regolarmente si sentono rintoccare nelle «tele di fondo» delle sue opere: quella comico-realistica («la mitezza stentòrea di quel così parsimonioso “picchiettato”, d’un così laborioso pipì») e quella elegiaca («Anni, figli degli anni!»). È regolarmente contro questo doppio fondale (alla cui ricchezza però contribuiscono, sapientemente mescolandosi o talvolta semplicemente accavallandosi l’una sull’altra, anche altre modalità narrative, per esempio quella storico-descrittiva e quella scientifico-divulgativa o didascalica), che si stagliano le figure tragiche dei grandi romanzi (Gonzalo e sua madre, Ingravallo e Liliana, e – nel modo suo particolare di eroina popolare, o in formato ridotto – la stessa Adalgisa Borella, vedova Biandronni, protagonista eponima del volume in esame).
Il passaggio si conclude poi su quella che potremmo definire la dichiarazione d’intenti, o addirittura la professione di fede, non dell’intero volume, ma di una sua metà abbondante: «È il relitto degli anni. Anni, figli degli anni! […] È la Milano che dispare: e quale la lasceremo non era, e qual’era [sic] neppur più la ricordo: la forme d’une ville – change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel» (RR I 326).
«La Milano che dispare», nel doppio senso del tessuto fisico (architettonico e urbanistico) della città, e della tribù che lo abitava, è qui fatta oggetto esplicito di un sentimento indubitabilmente nostalgico, di uno sguardo compassionevole e partecipe. Ed è la stessa gente e la stessa città che il medesimo narratore, a distanza di poche pagine, irride o fustiga impietosamente, e talvolta pesantemente. È importante, come si vedrà, che un tale atto di testimonianza, innestato sulla descrizione di un oggetto vile (la latrina), si accompagni a una citazione letteraria colta, poetica, addirittura in lingua straniera, e quindi a un momento «alto», nobile e serio, altrettanto fortemente caratterizzante (ma in senso opposto) rispetto alla base comico-realistica, della scrittura di Gadda.
Veniamo ora ai punti cardinali di una possibile costellazione di riferimenti apparentemente disparati, ma utili per un approccio critico a quello che non mi periterei di definire il senso profondo dell’Adalgisa. Si tratta di quattro nomi propri e di un mannello di concetti ad essi collegati.
Prima stella – Blaise Pascal
Nell’atto di rileggere e ripensare L’Adalgisa viene spontaneo tornare a compulsare i repertori iconografici disponibili su Gadda e la vecchia Milano (ormai tutto ciò che resta di quell’universo veramente, completamente scomparso). Fra questi, due sono particolarmente utili, oltre che ben noti ad ogni gaddista.
In primo luogo bisognerà ricordare La Milano disparsa di C.E. Gadda. Antologia gaddiana di pagine milanesi, a cura di Andrea Comotti (Comotti 1983). In questo ampio e bel volume garzantiano, composto di estratti dalle opere di Gadda (fra cui L’Adalgisa è ampiamente rappresentata) e foto d’epoca ad essi corrispondenti, troviamo la proiezione visiva esatta del mondo dipinto per la nostra immaginazione nei testi gaddiani di ambientazione milanese (possiamo così far correre lo sguardo dalla Casa di mendicità del Restocco al Circolo Filologico Milanese, dal Teatro Fossati ai giardini pubblici del Castello, dai navigli, al mercato, al Politecnico, al cimitero di Musocco).
Noterò en passant che il titolo dell’opera in questione è altamente significativo nell’ottica della mia analisi; quell’inconsueto disparsa, in effetti (in luogo del ben più comune scomparsa) , è chiaramente ricalcato sul «dispare» del passaggio di «Quando il Gerolamo ha smesso….» citato sopra; e che non si tratti di una coincidenza è dimostrato dalla presenza di una parte della stessa citazione («È la Milano che dispare: e quale la lasceremo non era, e qual’era neppur più la ricordo») in esergo al volume di Comotti (p. 1); citazione a sua volta preceduta da una breve introduzione di Giampaolo Dossena, che ne esplicita il senso e il contesto, nonché la derivazione letteraria (di cui sotto).
Del resto una rapida consultazione delle concordanze elettroniche mostra quanto sia caro a Gadda il verbo disparire: nelle sua varie occorrenze lo troviamo infatti oltre sessanta volte all’interno delle Opere nell’edizione Garzanti (circa una decina di volte in più rispetto alle varie forme del pedissequo scomparire). Curiosamente, però, Gadda al participio passato disparso preferisce in maniera sistematica l’inconsueto disparito: forma più raffinata, ripetutamente attestata fra l’altro in d’Annunzio, nonché più vicina al francese disparu, anch’esso presente una volta nel corpus, in una citazione poetica (in I viaggi la morte, SGF I 617). Ritornerò fra poco su questo disparire della città amata e odiata, e sul significato che ad esso credo di poter assegnare.
È tuttavia un altro il libro di immagini in cui ho trovato uno spunto per l’assemblaggio del mio reticolo interpretativo. Si tratta di C.E. Gadda. Bibliografia per immagini, di Fabio Pierangeli (Pierangeli 1995a). Un libro ricchissimo (così da risultare quasi un pochino caotico), tanto di materiale iconografico quanto di estratti dalle opere, testi originali d’autore e testimonianze di amici, corrispondenti e critici. Anche in questo caso, è in epigrafe al volume che leggiamo una citazione curiosamente stimolante, benché apparentemente incongrua: «Un pensiero umano vale più di tutta la realtà del mondo messa insieme; un solo pensiero umano è di un valore infinitamente superiore. Ma tutto il pensiero umano non vale il più piccolo atto di carità. L’atto di carità è di un ordine infinitamente superiore» (Comotti 1983: 7).
La citazione è attribuita a Blaise Pascal, senza ulteriori riferimenti bibliografici. Ma non c’è bisogno di dettagliate verifiche per sentirvi scorrere i grandi temi pascaliani (a loro volta debitori della tradizione paolina, e in questo caso mutuati dal pensiero di San Giovanni della Croce), quale quello della distinzione dei tre livelli (fra loro incommensurabili) del mondo fisico, del pensiero e della carità.
Ma in che modo tutto ciò si applica a Gadda? Il Nostro, in effetti, è generalmente sentito come autore poco cristiano (in senso sia letterale che metaforico), benché a dire il vero non sia mancato chi ha sostenuto il contrario: si vedano gli sforzi di Guido Sommavilla, per esempio in Com’è cristiano quel «Pasticciaccio» (Sommavilla 1995b). Ma prima di rispondere a questa domanda facendo ritorno al rapporto fra pensiero e carità, converrà completare la costellazione interpretativa precedentemente annunciata.
Seconda stella – Michail Bakhtin
Il secondo punto cardinale non ha nulla da spartire col primo, e ci costringerà a ricominciare in una prospettiva completamente diversa. Il nome di riferimento è ora quello di Michail Bakhtin, e il secondo concetto da presentare quello di cronotopo, com’è noto introdotto dallo studioso russo in un famoso saggio del 1937-1938, tradotto in inglese col titolo Forms of Time and of the Chronotope in the Novel, ora disponibile in M. M. Bakhtin, The Dialogic Imagination: Four Essays, translated by Caryl Emerson & Michael Holquist, University of Texas Press, 1981. Bakhtin così definisce il concetto:
We will give the name chronotope (literally, «time space») to the intrinsic connectedness of temporal and spatial relationships that are artistically expressed in literature. This term [space-time] is employed in mathematics, and was introduced as part of Einstein’s Theory of Relativity. […] What counts for us is the fact that it expresses the inseparability of space and time (84). (1)
Da Aristotele (le unità di spazio, tempo e azione) a Kant (spazio e tempo come categorie a priori della percezione) e oltre, non è difficile immaginare l’immenso retroterra di pensiero che bisognerebbe ripercorrere per un’accurata ricognizione delle coordinate concettuali messe in campo da Bakhtin; ma tale non è il mio scopo in questa sede, né mi sembra possibile stabilire una linea di influenza diretta fra l’autore russo e Gadda (anche se vedremo fra poco quanto importante il nesso spazio-tempo sia anche quest’ultimo). L’idea di cronotopo mi serve qui semplicemente per portare alla ribalta il ruolo cruciale del nodo spazio-temporale nella costituzione del testo letterario e poetico in generale, e in particolare di quello narrativo. In sostanza, ogni narrazione si struttura inevitabilmente in una matrice di elementi spaziali e temporali che ne garantisce la tenuta e simultaneamente ne definisce la singolarità.
Un aspetto fondamentale della matrice è l’interdipendenza degli assi di riferimento: spazio e tempo non sono semplicemente compresenti nella stessa struttura, vigenti fianco a fianco ma fondamentalmente separati in quanto orizzonti diversi di senso. Essi invece si intersecano e insieme, nei loro rapporti dinamici, sigillano la mappatura cronotopica dell’ideazione, e della sua traduzione in discorso. In altri termini, potremmo dire, semplificando, che il racconto è la distensione (modificazione, aberrazione) dello spazio nel tempo, e l’organizzazione del tempo in uno spazio. Tempo e spazio, però, non sono coordinate puramente astratte o meramente geometrico-meccaniche, da sottomettere a analisi esclusivamente quantitative: essi costituiscono, invece, l’ossatura stessa della vita umana, e nel loro rapporto si concretizza il valore e il senso tanto di quella, quanto dell’atto creativo che ne costituisce l’equivalente (o il supplemento) scritto. Il rapporto spazio-tempo è dunque il garante dell’articolazione fra il testo letterario e la realtà. Risulterà chiaro fra poco come questi problemi teorici trovino un riscontro esatto nella riflessione gaddiana.
Vorrei per ora semplicemente ritenere questo punto, la cui banalità non dovrebbe giustificarne la messa in disparte: L’Adalgisa (come qualunque narrazione, ma ciascuna con una sua formula speciale) è un complesso spazio-temporale. È un sistema spaziale, e in questo caso primariamente focalizzato su spazi interni, privati (le case borghesi), semi-pubblici (il Circolo Filologico) o pubblici (il teatro), e esterni (il parco). Ma è simultaneamente un sistema temporale, questo ben più complesso, perché in esso i diversi piani di temporalità sono non solo giustapposti, ma anche sovrapposti e intrecciati: così la storia sociale e politica, per esempio, o quella naturale, intersecano la memoria privata del narratore. Come suggerito, i due sistemi (spazio e tempo) non sono separati, né separatamente percepiti: nella prospettiva della narrazione (e quindi dal punto di vista del lettore), lo spazio risulta infuso di tempo, mobilizzato e destabilizzato dalle tante e diverse valenze temporali che il narratore mette in gioco, e in fin dei conti eroso nella sua apparente fissità e esposto nella sua intrinseca fragilità. Il tempo, a sua volta, è sottratto alla prospettiva meramente meccanica della successione unidirezionale e diffratto in mille sfaccettature (fra cui domina – ma non esclusivamente – l’orizzonte analettico), (2) tutte ricondotte a dimensioni spaziali precise, senza però essere in quelle risolte e pacificate.
Ecco quindi, fra parentesi, la rilevanza del tema architettura-ingegneria-urbanesimo (tanto caro a Gadda, e prevalentemente come oggetto di sarcasmo), che ci rivela spazi privati e pubblici in preda, nell’inarrestabile marcia del tempo, al non sempre razionale entusiasmo di razionalissimi amministratori (il «piano regolatore») o architetti e capomastri (le «migliorìe», le «ville»). Ma ecco anche un possibile significato delle digressioni di storia naturale: (3) le raccolte di minerali e coleotteri del «povero Carlo» (ingombranti le stanze della coppia e poi, dopo la morte di lui, dolorosamente estromesse dallo spazio privato e sottratte alla pietas familiare) riconducono la vita umana e urbana a ben più ampi e lunghi orizzonti temporali, in quelli stemperandone il senso e l’apparente privilegio, e significando che, sotto sotto, esfoliato il tenue velo delle apparenze, vige sempre la materia bruta: «la storia degli uomini è tutta natura», scrive lo stesso Gadda in Meditazione milanese (SVP 876-877); e «il sistema dolce e alto della vita» è sempre in procinto di ricadere nell’«orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero. Abbandono» (Cognizione, RR I 754).
Ciò vale anche per la significativa interferenza fra orizzonte ontogenetico e filogenetico: si pensi tanto alle riflessioni di Gonzalo sul «cammino delle generazioni» (RR I 401) quanto ai turbamenti sessuali di Elsa («A Bruno chi gli aveva disegnato la faccia? […] Di che gente o costume, di che travaglio o tempo, era venuta quella fronte?» – L’Adalgisa, RR I 520), e in generale all’immagine, ossedente in Gadda, del sangue, così in senso fisico (la comparsa del sangue segnala sempre la prossimità effettiva o simbolica della morte, e l’effrazione dell’apparente compostezza e finalità etica della persona: la Madre nella Cognizione, Liliana nel Pasticciaccio) come in senso metaforico («Quale sangue, nuovo o remoto […]?», RR I 520).
Si aprono qui prospettive che non è possibile affrontare ora compiutamente. Fra l’altro, anche nel caso di Gadda, una discussione esauriente dei numerosi e cruciali aspetti della temporalità dovrebbe da un lato tener conto dei più significativi contributi classici (Aristotele, Sant’Agostino, Kant, etc.) e moderni (Heidegger, Ricoeur, Genette, Weinrich) alla riflessione sul tema del tempo, e dall’altro valersi analiticamente degli studi recenti sullo stesso tema nell’ambito specifico della critica gaddiana (sia quelli già citati di Lucio Lugnani e Carla Benedetti, sia quelli di Romano Luperini, Cristina Savettieri, e altri). (4) Ma per ora dovrà bastare quanto accennato sopra.
Terza stella – Charles Baudelaire
Spostiamoci ora verso la zona di influenza di un terzo astro nella mia costellazione interpretativa, e simultaneamente torniamo di nuovo al punto focale da cui abbiamo preso le mosse.
L’autore del testo poetico incluso nel passaggio dell’Adalgisa citato inizialmente è Charles Baudelaire; la citazione stessa («la forme d’une ville – change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel») è presa fedelmente dalla poesia Le Cygne, appartenente alla raccolta Les fleurs du mal. Un testo ben noto e che ha fatto oggetto di intensa attività esegetica, in prospettive critico-teoriche diverse. In relazione specificamente all’Adalgisa, un primo dato utile ci proviene semplicemente dalla collocazione del componimento nel suo immediato contesto all’interno della celeberrima raccolta; Le Cygne, infatti, è uno (il quarto per essere esatti) dei diciotto poemi della sezione intitolata Tableaux Parisiens, la seconda dopo la ben più ampia Spleen et Idéal.
È evidente la prossimità, se non certo di genere e stile, almeno d’ispirazione, al concetto espresso nel sottotitolo dell’Adalgisa, Disegni milanesi; sicché, volendo cercare precedenti ai disegni gaddiani, sembrerebbe logico e (come si vedrà) necessario affiancare a quello portiano, e a quelli di origine post-romantico/scapigliata, anche questi poetici, parigini e malinconici Tableaux baudelairiani.
Si aggiunga che il cigno di Baudelaire («Un cygne qui s’était évadé de sa cage») fa pensare (anche se con valenze in certo modo invertite) all’autobiografico «soggetto strano, come giraffa o canguro del vostro bel giardino» di Gadda (lettera a Bonaventura Tecchi del 6 marzo 1926 – Gadda 1984b: 43-44). Si pensi anche all’immagine dell’«animale di fuorivia […] tra il canguro e il tapiro» (Cognizione, RR I 629), con cui viene descritto Gonzalo: sia il cigno (come pure l’albatros di un’ancor più famosa poesia delle Fleurs du Mal) che il canguro/giraffa/tapiro sono chiaramente simboli del senso di goffa ma orgogliosa estraneità patito e esibito dai rispettivi autori.
Ma il significato della citazione baudelairiana nell’Adalgisa, e il suo peso specifico nell’immaginario gaddiano, sono altri. Se le possibili valenze simboliche, ideologiche e politiche di Le Cygne (che è dedicato, si noti, a Victor Hugo, come del resto anche diverse altre poesie nella stessa sezione) sono indubbiamente complesse, l’oggetto e la tonalità dominante sono invece presto detti: lo spaesamento, il senso di non appartenenza e di impotenza, il contrasto fra realtà e memoria, la coscienza improvvisa e dolorosa del passare irrimediabile del tempo, la visione della città che cambia, che si trasforma, in un alone decadente di decomposizione e morte. Tale è evidentemente il senso primario del verso di Baudelaire nell’uso che ne fa Gadda nell’Adalgisa, e in questa prospettiva il ruolo del tempo – e del suo effetto sullo spazio, e precisamente sullo spazio urbano – ha una funzione cruciale.
Ma Baudelaire non è una presenza casuale e estemporanea nel giardino letterario gaddiano, un semplice ricordo di lettura; al contrario, il poeta francese è autore caro a Gadda, che ne parla ampiamente per esempio in un testo critico di fondamentale importanza, il saggio eponimo de I viaggi la morte (SGF I 561-586), la cui versione originale, lo ricordiamo, compare in Solaria nell’aprile del 1927.
Una rapida rilettura del saggio si rivela di sorprendente pertinenza per quanto riguarda l’interpretazione dell’Adalgisa nella prospettiva qui delineata; aspetti di particolare importanza nel presente contesto sono: un’interessante analisi del nesso spazio-temporale; la discussione del ruolo rispettivo della «realtà morale» e della «fantasia pura» in poesia e in letteratura; e un breve ma cruciale accenno all’Amleto shakespeariano.
L’esplicita presenza sotto la penna di Gadda delle nozioni di spazio e tempo e delle loro relazioni attira l’attenzione fin dall’incipit del testo: «Il rapporto che avvince gli eccipienti primi della nostra attività estetica, spazio tempo, sembra graduarne la dignità […]» (SGF I 561). Il nesso spazio-temporale è quindi immediatamente posto al centro dell’attenzione in un saggio che si propone di accompagnarci in una lettura parallela di due testi chiave della poesia simbolista francese («da Le voyage di Charles Baudelaire a Bateau ivre di Arthur Rimbaud», recita il sottotitolo), ma che poi amplia la prospettiva, includendovi altri nomi di poeti in un vasto orizzonte temporale e transnazionale (Orazio, Goethe, Shakespeare e Carducci), e soprattutto aprendola nella direzione di interrogativi essenziali: cos’è la letteratura, e in che modo si articola alla vita?
Riassumiamo a grandi linee il percorso del saggio gaddiano. La congiunzione spazio-tempo viene risolta nelle sue componenti e analizzata alla luce del tema del viaggio, che è poi l’oggetto delle due poesie analizzate. Il viaggio coniuga spazio e tempo, ma la fantasia pura (Ariosto, Salgari, e in modo diverso il simbolismo) separa in maniera essenziale lo spazio dal tempo (SGF I 562): in altri termini (potremmo dire, illuminando il testo gaddiano di una luce bakhtiniana), dissolve artificialmente il cronotopo, e stacca la letteratura dalla vita, facendone materia di mero sogno («nel non essere del sogno ci è consentito dimenticare i vincoli onde la realtà grava ogni singolo fatto», SGF I 561). Ne risulta un’abolizione dell’«inesorabile imperio del tempo», e simultaneamente una caduta del tenore etico: «Gli scrittori che traggono il loro avviamento da un forte spunto fantastico più difficilmente possono farsi efficaci rappresentatori di una totalità morale» (SGF I 562). Bisogna però sempre tener presente che nella visione di Gadda il mondo morale non è separato (in quanto pura idealità) dal mondo reale: al contrario, l’azione etica si predica sulla consapevolezza dei vincoli dettati dalla realtà, che può solo esistere nel tempo; mentre il sogno abolisce il tempo e si libera tanto dai ceppi del reale, quanto da quelli del dovere.
Il simbolismo (meno però in Baudelaire) tende alla inane proliferazione delle immagini del sogno e alla fuga dalla realtà etica. In Baudelaire (ed è questo che particolarmente attrae Gadda) «il rimpianto di un motivo etico che intessa la trama della vita è tuttavia manifesto» (SGF I 567) e il dilemma («faut-il partir? rester?») viene tematizzato e drammatizzato: e assume l’aspetto di quella che Gadda formalizza come la distinzione fra «viaggiatori» e «sedenti» («nous voulons voyager sans vapeur et sans voile!»). I primi (rappresentati in questo caso dal Rimbaud del Bateau ivre) ambiscono a una sorta di «immortalità spaziale», ma nell’ansia perpetua di movimento «sognano vivendo e così non vivono» (SGF I 564); negli altri persiste e prevale «la meditazione dei problemi etici, una cura prammatica» (ibidem) che li trattiene dall’evadere nell’irreale.
Ma c’è chi né sa rifugiarsi nel sogno, né può interamente adeguarsi al compito. A questi tocca la sorte più infelice: perché i «paradisi artificiali» della fantasia non possono appagarli, e «deserto orrendo è la terra a chi non possieda il segreto interiore dell’essere: un “fine morale”» (SFI 564-565). A questa categoria Gadda assegna Baudelaire, ma anche se stesso, sotto la figura dell’«eslege» (che ci riporta alle riflessioni e ai progetti letterari confluiti qualche anno prima nei quaderni del Racconto italiano di ignoto del novecento) o – allusione ancor più trasparente – a quella del «reduce» («Ma una delusione li attende: i reduci hanno sperimentato la desolata vanità del mondo spaziale» (SGF I 564). L’eslege/reduce non trova pace né nella fantasia, né nella realtà.
Segue (e dura fino alla fine del testo) il panegirico degli scrittori che per Gadda rappresentano esempi luminosi di tempra morale e di riuscito adeguamento dell’ispirazione artistica alla finalità etica: Manzoni, Orazio, Goethe, Carducci, Shakespeare. Ognuno meriterebbe un’attenta discussione, ma di particolare interesse per me è il riferimento a quest’ultimo, e in particolare alla figura di Amleto (cfr. Stellardi 2008a), che sappiamo avere un’importanza fondamentale nello schema ideativo della Cognizione del dolore, e in generale nel retroterra intertestuale di Gadda.
Il principe di Danimarca è qui (come anche altrove, a prova di una ininterrotta continuità di pensiero: si veda «Amleto al Teatro Valle» (SGF I 539), un testo anch’esso raccolto in I viaggi la morte, ma del 1952) interpretato come un martire della finalità etica, colui che a prezzo della propria vita e di tutti gli affetti, della propria famiglia e perfino del futuro della propria stirpe reale, porta a compimento il dovere morale – che la realtà (e non il sogno o l’arbitrio) gli ha assegnato – di liberare il suo regno dall’impostura e dal male. Dal che si deduce che Gonzalo, invece, sarà un Amleto mutilato e incompiuto, un sognatore di giustizia più che un giustiziere, pari al principe per ambizione di purezza e motivazione etica, ma non per fattiva determinazione.
C’è però da dire che, al contrario di Amleto, a Gonzalo il destino non ha la cortesia di offrire un compito preciso e eroico, o meglio, quando - con lo scoppiare della guerra – gliene porge uno a misura delle sue ambizioni, si premura presto di sottrarglielo piuttosto crudelmente; non ci si stupirà troppo, quindi, di vedere il nostro eroe, alla lunga, impantanarsi nella palude del sogno, non per insufficienza costitutiva ma per difetto ambientale (un altro tema ricorrente in Gadda, dal Cahier d’études in poi): e non è forse per caso che il marchese Pirobutirro sia quasi costantemente in viaggio fra la villa e la città, per ragioni di lavoro certo, ma anche a segnalarne simbolicamente l’ormai vana irrequietudine, dunque la qualità di viaggiatore e sognatore; mentre Amleto si sposta da Elsinore solo dietro ordine del re usurpatore, ma poi, una volta accettato il proprio duro compito, vi ritorna e resta (diventa dunque sedente, accettando un superiore imperativo etico), fino a che il terribile dovere non sia stato adempiuto, col sacrificio totale di sé.
Prima di vedere in che modo tutto ciò possa essere ricollegato all’Adalgisa, bisognerà ripartire per una quarta e ultima volta da un altro lontano astro della nostra costellazione, che un sottile ma sicuro filo intertestuale collega al precedente.
Quarta stella – Walter Benjamin
Charles Baudelaire è di gran lunga l’autore più citato, ripetutamente e quasi ossessivamente citato, in un’opera fra le più mostruosamente strane, ma al tempo stesso significative e sintomatiche, del ventesimo secolo. Das Passagen-Werk è un’enorme schedario costituito da una massa di oltre mille pagine di annotazioni preliminari e citazioni (filosofiche, storiche e letterarie) per un’opera che Walter Benjamin, nato l’anno prima di Gadda, lasciò incompiuta e inedita togliendosi la vita all’avvicinarsi delle truppe naziste nel 1940. Si sarebbe dovuto trattare di nulla meno che una Urgeschichte del diciannovesimo secolo, vista attraverso il prisma a mille facce della città di Parigi.
In parte proprio per la sua incompiutezza e resistenza alla classificazione canonica, Passagen, pubblicato postumo, assunse una funzione iconica e quasi canonica nell’immaginario filosofico e letterario dell’epoca cosiddetta moderna e post-moderna. Il titolo dell’opera si riferisce, com’è noto, a un elemento caratteristico della struttura urbana parigina, il passage, ovvero il corridoio pedonale coperto e dotato di negozi o bancarelle che, penetrando all’interno di un isolato, collega strade diverse; questo curioso dettaglio dell’arredo urbanistico viene da Bejiamin elevato a modello e simbolo di un intero periodo.
Non è possibile però dimenticare un’altra valenza del titolo, e cioè un implicito riferimento alla struttura fisica dell’opera stessa, costituita com’è in gran parte di un’infinità di passaggi, cioè di citazioni, di brani testuali estratti da un enorme bacino intertestuale. È interessante notare fra parentesi come sia la traduzione italiana del titolo (I “passages” di Parigi) che quella inglese (The Arcades Project) (5) perdano per strada l’ambiguità dell’originale tedesco, in entrambi i casi annullando il significato non-urbanistico di Passagen, che pure sia l’italiano passaggio che l’inglese passage conservano.
Si vede comunque facilmente come la rilevanza delle caratteristiche di citazionalità, intertestualità, interdisciplinarietà e frammentarietà dell’opera, a loro volta ulteriormente evidenziate e potenziate dal suo statuto postumo, benissimo si prestino a farne oggetto di accentuato interesse e quasi di culto; ma non di queste caratteristiche mi occuperò in questa sede. Mi interessa invece mettere l’accento su due possibili collegamenti segreti fra due autori che quasi certamente non seppero mai nulla l’uno dell’altro (a meno che Gadda non abbia letto qualcosa di Benjamin: ma, in tal caso, solo in epoca ben più tarda).
Da un lato colpisce la somiglianza fra il Passagen-Werk e il gaddiano Racconto italiano – Cahier d’études; pur con vaste differenze quantitative ma anche d’intenzione (certo non, per Benjamin, quella di scrivere un romanzo), ci troviamo di fronte a due esemplari di scrittura della stessa specie, direi riflessiva, preparatoria e transitoria, ma poi trasformata in monumentale rudere e bronzeo testamento dal mancato completamento del progetto iniziale, oltre che dalla morte dei rispettivi autori. Questa casuale somiglianza non è forse del tutto irrilevante; essa segnala, in Gadda, il collegamento vitale, ed anzi la coesistenza, di pensiero e creazione artistica, dunque il valore gnoseologico, euristico e etico che per lui ha la letteratura: pascalianamente, tale riconosciuto nesso segnala una gerarchia di valori, e un rifiuto di fare della letteratura un fine a se stessa.
Questa dipendenza morale è esplicitamente dichiarata, ad esempio, all’inizio della Meditazione breve circa il dire e il fare, del 1937, ora inclusa in I viaggi la morte (SGF I 444): «Quando scriverò la Poetica, dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più che un capitolo dell’Etica: e questa deriverà dalla Metafisica». La scrittura deve dire il reale, ma anche corrispondere a una finalità; deve cioè concretamente dialogare nel tempo con la vita e con il pensiero, e non vivere di puro sogno. Al tempo stesso – paradossalmente e anti-pascalianamente – il medesimo imperativo etico costantemente impone alla scrittura il rifiuto delle apparenze menzognere, onde il ripetuto ricadere nella brutale materialità del sostrato biologico e storico, che finisce per negare ogni anelito verso una superiore, idealizzante, ma in fin dei conti falsificante significazione. In questo dilemma è racchiusa buona parte del meraviglioso e (soggettivamente) fallimentare destino della scrittura di Gadda.
Ma altrettanto affascinante è la possibilità di collegare, metaforicamente, l’intera opera di Gadda alla visione dei Passagen. Per arrivare a quello, tuttavia, bisogna tornare per un momento al significato del simbolo principe dell’opera di Benjamin. Che cos’è, in effetti, il passage? È un budello dentro il corpo compatto di quell’elemento discreto all’interno del continuum urbano che, per ciò appunto, si chiama isolato in italiano e block in inglese. È perciò un’effrazione dello spazio privato, una ferita che fisicamente interrompe la faccia pubblica dell’abitato e penetra nell’invisibile della vita protetta degli appartamenti, senza tuttavia rivelarla. È un collegamento fra pubblico e privato, un’apertura semisegreta nella compattezza delle facciate, un corridoio coperto che congiunge internamente e quasi segretamente parti diverse della città.
È anche il segno di un altro tempo, di un mondo che scompare, di una vita che muore; a proposito del Thérèse Raquin (1867) di Émile Zola, la cui azione per l’appunto si svolge in gran parte in un appartamento e un negozio che danno su un passage vicino alla Senna, Benjamin scrive: «If this book really expounds something scientifically, then it’s the death of the Paris arcades, the decay of a type of architecture. The book’s atmosphere is saturated with the poisons of this process, and its people are destroyed by them» (Benjamin 1999: 875). Zola è però anche colui che descrive l’altro lato della medaglia, ossia per esempio lo sventramento della città, da parte del nuovo capitalismo rampante (grandi commercianti e banche) per far posto ai grandi magazzini; si veda Au Bonheur des Dames (1883). La città si trasforma, in parte cresce, ma in parte si necrotizza.
Ora, mi pare che anche l’Adalgisa sia parzialmente pervasa da uno sguardo su un mondo, su una città che si trasforma e inevitabilmente muore, per rinnovarsi, certo, ma lasciandosi alle spalle forme di vita destinate all’oblio – se non le preserva la scrittura. Queste forme di vita sono intrinsecamente legate a spazi architettonici e urbani che sono fatti oggetto di intensa attenzione in Gadda, specialmente nell’Adalgisa (Milano) e nel Pasticciaccio (Roma), opere entrambe in cui la città è sentita nella sua evoluzione filogenetica e storica, nella sua stratificazione, che finisce per schiacciare e per sempre obliterare il passato che solo pochi decenni (o secoli) prima era la gente viva nel suo quotidiano esistere. Gli spazi urbani sono quindi in quelle opere messi a fuoco; si tratta però sempre di un’attenzione allo spazio nel suo divenire umano, e cioè all’interno di un cronotopo dove il tempo tuttavia prevale, ha maggiore dignità dello spazio (come afferma il Gadda dei Viaggi la morte), con ciò sigillando il gradiente fondamentalmente etico della scrittura che abbiamo di fronte.
Mi sembra poi che l’intera opera di Gadda possa essere vista come un enorme Passagen-Werk, un corpo (metaforicamente) urbano percorso da passaggi semisegreti, alimentato internamente da un sistema di vasi comunicanti che distribuisce ai vari e apparentemente diversissimi quartieri la stessa linfa e lo stesso sangue, e esternamente da un ampio e variegato retroterra intertestuale e ideale; ma anche un universo di cantieri in attività o abbandonati, una città testuale in perenne trasformazione o comunque sempre incompiuta, solo temporaneamente e apparentemente immobilizzata in una delle sue varie facce in virtù di una decisone editoriale provvisoria (o del decreto inappellabile della morte), ma in verità e in linea di principio mai totalmente sottratta allo stato di costruzione e di evoluzione. Anche in questo senso il corpo degli scritti di Gadda mi pare, metaforicamente, un’opera dei passaggi.
Esaurita (ma solo provvisoriamente e superficialmente) la ricognizione della costellazione interpretativa, torniamo finalmente all’oggetto specifico della nostra analisi. Si presti ora attenzione alla struttura e composizione interna dell’Adalgisa. Il volume, nella sua forma originale (prima edizione, Le Monnier), si presenta suddiviso in dieci parti che, osservate non solo in relazione le une alle altre, ma anche nel contesto generale delle opere di Gadda, rivelano intrattenere complessi rapporti di parentela, interni e esterni. In sostanza, i dieci testi possono essere suddivisi in tre gruppi, nel seguente modo (mi valgo d’ora in poi della dettagliata e utilissima analisi offerta da Guido Lucchini nella Nota al testo dell’edizione Garzanti delle opere, RR I 839-850):
- Residuo isolato del Racconto italiano di ignoto del novecento:
1 – Notte di luna - Cantiere della Cognizione del dolore:
5 – Strane dicerie contristano i Bertoloni
7 – Navi approdano al Parapagal - Cantiere dell’Adalgisa (e dintorni):
2 – Quando il Girolamo ha smesso…
3 – Claudio disimpara a vivere
4 – Quattro figlie ebbe e ciascuna regina
6 – I ritagli di tempo
8 – Un «concerto» di centoventi professori
9 – Al parco, in una sera di maggio
10 – L’Adalgisa
L’attribuzione a diversi cantieri è facilmente giustificata dalla lettura in parallelo dell’Adalgisa e della Cognizione, dalla quale risulta la parziale sovrapponibilità dei capitoli cinque e sette dell’Adalgisa ai tratti primo e sesto della Cognizione; ma non va dimenticato che quest’ultima, già apparsa in rivista, a quel momento non era però ancora stata pubblicata in volume, né lo sarebbe stata per un bel po’.
Che cosa ne deduciamo? Da un lato – a conferma della constatazione iselliana dell’idrografia a vasi comunicanti dell’opera gaddiana – che, nella mente di Gadda, i vari cantieri degli anni venti e trenta (Racconto, Fulmine, Meccanica, Novella seconda, Cognizione, Adalgisa) sono, ad anni quaranta già inoltrati, e perfino dopo la pubblicazione in Letteratura dei primi tratti della Cognizione, ancora non rigidamente e definitivamente distinti, e restano anzi fluidamente collegati, tanto da permettere, ancora, scambi e prestiti in regime di libera circolazione.
D’altra parte, la selezione dei testi (dell’Adalgisa in questo caso, ma forse il ragionamento è generalmente applicabile anche ad altri volumi) potrebbe essere liquidata come abbastanza accidentale, se non addirittura arbitraria. Gadda avrebbe, insomma, messo insieme testi disparati, la cui caratteristica comune, in fin dei conti, è che si tratta di brani narrativi vagamente legati fra loro (una volta scontati i perspicui camuffamenti sudamericani) dall’ambientazione milanese-brianzola e – soprattutto – non ancora apparsi in volume, dunque più facilmente cedibili a un editore.
Questa deve essere stata l’impressione di una parte dei primi lettori, tanto che – lo segnala lo stesso Gadda in un’intervista del ’46 («Gadda, come va la vita?», in Pesci rossi, xv, n. 10, ottobre 1946, 10) – la seconda edizione dell’Adalgisa uscì (nel ’45) decurtata «di alcuni racconti che i critici giudicarono “poco milanesi”»; e i racconti espunti sono, precisamente, Notte di luna, Strane dicerie contristano i Bertoloni, e Navi approdano al Parapagàl, cioè quelli ovviamente estranei all’ambiente milanese del corpo centrale del volume. Il fatto che a Gadda questa decurtazione non fosse piaciuta, come suggerisce Lucchini, è provato dalla ricostituzione della selezione originale in occasione della riedizione all’interno dei Sogni e la folgore (1955). Il che, mi sembra, ancora una volta conferma la perdurante coesistenza e consanguineità di quei testi e dei loro bacini di provenienza (e di quelli ad essi collegati), nella prospettiva dell’autore; ma non vanifica la reazione critica dei primi lettori che, confesso, è anche la mia.
C’è indubbiamente, nell’Adalgisa, qualcosa di profondamente discordante, che non si può spiegare solo con argomenti di fatto relativi all’appartenenza a questo o quel cantiere, né etichettare semplicemente come «diversità d’ambientazione», o incompatibilità rispetto al titolo e sottotitolo della raccolta. C’è qualcosa di ben più importante che rende L’Adalgisa – così com’è, nella sua versione originale e inespurgata, e con le sue caratteristiche di disomogeneità – una testimonianza fondamentale per la comprensione di Gadda.
Se mettiamo da parte il residuo tratto dal Racconto italiano (Notte di luna), restano due gruppi di testi, quello proprio (e quantitativamente dominante) dell’Adalgisa e quello (minoritario e visibilmente intrusivo) della Cognizione. Che cosa li separa, oltre l’ambientazione non strettamente milanese del secondo? In primo luogo la più insistita, più dichiarata tonalità lirica e tragica di passaggi cruciali (giustapposti ad altri comici) dei due pezzi della Cognizione, quelli focalizzati sul personaggio di Gonzalo, ovviamente assente dall’Adalgisa. Ma, più in profondità, c’è dell’altro: il mondo della Cognizione (o, più precisamente, quello di Gonzalo) è totalmente privo di carità, e totalmente pervaso (o invaso) da un gesto di pensiero e di giudizio, e quindi da una valenza etica penale e distruttiva, che non conoscono sollievo.
Il mondo dell’Adalgisa, invece, è bagnato a tratti in una luce di nostalgia e di pietà, che vi è proiettata attraverso il punto di vista dell’anonimo narratore: questa voce senza nome non solo ricorda con affetto il mondo scomparso, ma affettuosamente e nostalgicamente ricorda se stesso come parte di quello: «Oh! Adesso scherzo, per farmi passare la tristezza delle cose lontane: ricordi e sogni: ed anni mutatisi in cenere» (RR I 536). Il narratore faceva parte di un gruppo d’amici («Con noi della combriccola», RRI 537) e il mondo che ricorda è bagnato in un’atmosfera dorata («Lassù, in mezzo ai ritratti e alle dolciere, che calda luce!», RRI 537), in una certezza di vita che si estende ben al di là del cerchio immediato della compagnia («Nelle contrade, la nostra gente viveva», RR I 537). La voce commossa ricorda il proprio incanto dinanzi alla persona dell’Adalgisa («Ero davvero incantato, non osavo guardarla troppo a lungo», RR I 537; «Rideva, rideva, mi porgeva quell’altro piatto, dei fondants, parlando con cinque o sei alla volta», RR I 538), ma anche di fronte a una città indubbiamente, visceralmente amata: «Perché avevo gli occhi di fuori, alla sera: sui tegoli e sui colmigni della mia svirgolata Milano; tra i camini e i fili e i pali sbirolenti dei tetti arrossati dal tramonto caldo del luglio, o, poi, del settembre […]» (RR I 537).
Mentre Gonzalo si erige in tragica solitudine a giustiziere (fallito) della società contemplata e odiata, l’anonimo dell’Adalgisa dipinge un mondo trascorso al quale valeva la pena di appartenere, e ne piange la perdita. Certo, nell’ultimo capitolo del volume, la prospettiva soggettiva dell’ormai vedova Adalgisa prende il sopravvento, con le sue amare accuse contro la società che ha voluto escluderla; ma anche allora la critica non è generalizzata, ne resta esente per esempio il confidenziale rapporto con Elsa, o il violento amore per i figli, nonché l’inalterabile dolcezza del ricordo del marito defunto.
Anche se non manca affatto all’interno del nucleo proprio dell’Adalgisa una critica anche aspra (ma per lo più ironica o comica) della borghesia milanese, questa non si trasforma mai nell’attacco sistematico, generalizzato e in fin dei conti autodistruttivo che la Cognizione mette in scena.
Si noterà, per tornare alla questione della relativa specificità cronotopica dei due orizzonti di scrittura, che in entrambi (come in ogni prosa narrativa) spazi e tempi si articolano sapientemente, e tuttavia entrambi sono dominati dal tempo e dalla memoria. Ma nel nucleo proprio dell’Adalgisa la memoria ha valore positivo, per quanto non privo di sofferenza: vige un dolore soffuso di nostalgia per quel mondo scomparso, per gli anni inghiottiti dal tempo. Nella Cognizione, invece, la memoria è portatrice di infinito e non redento lutto, non perché il passato non torna, ma perché nel passato il narratore (in nome del protagonista) conduce l’impietosa indagine delle cause del male: e il passato è irredimibilmente e uniformemente marcato da un segno negativo, che si tratti dell’esperienza della guerra e del dopo guerra (sconfitta, prigionia, morte del fratello, conflitti sociali), o di quella degli errori degli educatori, o di cause ancor più remote nascoste negli abissi della storia filogenetica.
Non si può dire, tuttavia, che ciò che distingue i due modi sia una diversa quantità etica, si invece un diverso orientamento etico. In entrambi si sente che la scrittura obbedisce a un comando, ma in un caso si tratta di uno spontaneo comando del cuore, nell’altro di un duro comando della mente. Mentre nell’Adalgisa persiste (mescolato all’altro) un atteggiamento pietoso e caritatevole, nella Cognizione prevale l’etica amletica della giustizia coûte qui coûte.
Sarei dunque tentato di dire che il progetto dell’Adalgisa è essenzialmente mnestico/monumentale, così come lo è per esempio quello del ciclo ferrarese di Bassani, o del Lessico famigliare della Ginzburg. La scrittura si impiega a tenere in esistenza, irrorandolo di memoria, un mondo che ha cessato di esistere, ma che – pur ampiamente criticabile e criticato – non merita di scomparire, perché rappresenta qualcosa di reale e di vero: un tessuto di affetti, una luce di vita, una micro-storia che qualcosa ha significato, almeno per chi nel fuggire degli anni a quelli si attacca. Al tempo stesso questo gesto di carità e di pietà trasfigura il mero ricordo, lo sottrae alla banalità dell’insignificante e lo innalza al livello dell’universale umano.
Il progetto della Cognizione, invece, è mnestico/inquisitoriale, ossia fondamentalmente amletico, e certo non per questo meno etico. Anzi, la dimensione etica risulta qui fortemente intensificata, da un lato dalla tagliente purezza dell’imperativo, e dall’altro dall’impossibilità di realizzarlo. Quello di Amleto, infatti, è il dramma non del dubbio, ma dell’assoluta lucidità e urgenza di giustizia, che esige la sospensione di ogni naturale carità umana. Con la differenza suaccennata, che la ferocia di Amleto perviene con la propria morte alla catarsi e alla realizzazione di una finalità etica, mentre la rabbia impotente di Gonzalo non trova esito né pace nella morte vivente che è la sua vita.
Lo stesso atteggiamento di fondo, eticamente motivato ma impietoso, presiede al Pasticciaccio e a Eros e Priapo, componendo un trittico di opere diversissime, ma unificate dall’assenza di carità.
L’Adalgisa nel suo complesso è dunque opera perlomeno bifronte, e alle sue due pendenze costitutive corrisponde una rete di influenze diverse che sembrano insieme partecipare alla sua composizione: da un lato, come sopra accennato, la satira portiana e il Dossi de La desinenza in A (con la sua Sezione di una casa civile a due piani, di cui certi interni borghesi dell’Adalgisa sembrano parzialmente debitori), e dall’altro il Baudelaire dei Tableaux Parisiens (con il suo sentimento intenso e saturo di valenze simboliche dello scorrere del tempo), ma anche il Dossi dell’Altrieri (con i suoi «amati ricordi» di un tempo perduto). Satira sociale, dunque, ma anche sguardo sconfortato sui danni del tempo, sulla perdita inevitabile di tutto quanto sia stato amato, inclusi gli spazi, i modi e i volti a cui si è stati legati. È questo un aspetto essenziale (e più essenziale di quello politico) del conservatorismo del conservatore Gadda.
La città dell’Adalgisa è un luogo che scompare, e che anzi è già stato inghiottito dal tempo. Ma qualcuno ricorda, e scrive. Nella scrittura una torsione del passato magicamente si realizza, lo scomparire si trasforma in un disparire. La letteratura filtra, traduce, solleva, nobilita, colora, o – se anche aggredisce – nondimeno intensifica e rivitalizza il proprio oggetto, e qualcosa si salva; i morti continuano a vivere, nelle loro stanze e nei loro teatri; il vecchio dialetto continua a risuonare; per sempre (o finché qualcuno leggerà) ci ricorderemo dell’Adalgisa, degli scarabei, dei Caviggioni, del Circolo Filologico.
È venuto ora il momento di tirare le fila di questo poco consueto approccio all’Adalgisa. La peculiarità dell’opera è la forte compresenza in essa dei due atteggiamenti (pietas e scherno) che stanno alla base dell’impresa di scrittura gaddiana, e anche in questo senso il libro rappresenta un’importante testimonianza, nonché cerniera nello sviluppo dell’opera di Gadda. Qui è particolarmente visibile la valenza multipla dell’etica gaddiana, che oscilla con ampia escursione tra le ragioni del cuore e quelle della mente, fra la fredda lucidità germanica e la calda praticità lombarda, fra il compito di preservare e nutrire ciò che, essendo vivo, merita le nostre cure, e quello – non meno valido – di spazzare il campo dalla bugia e dalla frode.
La letteratura per Gadda non può mai essere sconnessa dalla vita; ma se da un lato essa può sforzarsi di salvare il vivente (con tutte le sue impurità e i suoi difetti), dall’altro può benissimo finire per volerlo annientare tutto, in una sete di purezza e di rinnovamento che nulla deve risparmiare. E in effetti, nel seguito dell’avventura di questo scrittore, il tenue filo della carità andrà quasi completamente sommerso dall’onda dello sfogo e della ritorsione, che però a loro volta restano fondamentalmente giustificate da un intento etico e gnoseologico di pensiero e di giustizia. In questo senso l’opera di Gadda è sempre agitata da moventi etici; ma questi possono essere caritatevoli o distruttivi, come del resto è insito nella struttura stessa della movenza etica: che sarà di segno positivo (associativo) o negativo (dissociativo), a seconda di quale sia il bene da perseguire, e di come vada perseguito.
La moralità esiste solo nel tempo, e non può prescindere dalla memoria. Il valore della memoria agisce qui come una cartina di tornasole: la carità è possibile solo quando c’è qualcosa di buono da ricordare, sia questo l’amore di un dio creatore, o il caldo abbraccio di una combriccola d’amici, o il profilo dei tetti di una città amata. Quando invece la memoria rigurgita solo i capi d’accusa di una vita infelice, è difficile che resti spazio per un atto di carità. Eppure, anche quando non rimanga più nulla da salvare, se non il pensiero della futilità del tutto («un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni, dopo le scempiaggini di cui s’erano infarciti i suoi maggiori…», RR I 732), anche allora, se si scrive, è perché non tutto merita di sparire. Un anelito di vita e di verità ha percorso per un breve tratto lo spazio, poi è stato inghiottito dal buio, ma non prima di aver lasciato una traccia, di aver invocato una seconda vita. Anche quando è sostenuta da un empito di giustizia e non di carità, la scrittura è il monumento di ciò che dispare. Ciò che dispare non è semplicemente ciò che non è più, ma invece ciò che (essendo scomparso o in procinto di scomparire) tuttavia non sopporta di sparire completamente, per sempre, e anzi vuole durare. O perché pervaso da dolci affetti, o perché carico di irrisolte tensioni, oscure minacce, irrimediabili perdite.
La letteratura può attaccare a secchiate di vetriolo le menzogne della vita, ma in fin dei conti essa «non vuole che la vita passi», (6) e questa è la sua missione fondamentale. Questo è ciò che dichiara l’inciso dell’Adalgisa che ho assunto come punto focale, e la direzione che la scrittura gaddiana esplicitamente prende in buona parte del volume; mentre altrove nello stesso libro, e in altri, il desiderio di rivalsa e il bisogno di giustizia arrivano quasi a obliterare ogni diverso e più umano sentimento. Eppure, anche allora, scrivere significa combattere la morte, affermare la vita. La letteratura è vita.
Oxford UniversityNote
1. Anche se il concetto spazio-tempo appartiene alla fisica einsteiniana, la parola cronotopo deriva più propriamente dalla biologia, come Bakhtin stesso dichiara in nota.
2. Si veda, in proposito, l’interessante analisi di Lucio Lugnani (Lugnani 2001), e tutto il libro in cui essa è successivamente confluita (Lugnani 2003).
3. Per questo si veda anche l’utile saggio di Carla Benedetti (Benedetti 1995), con le cui conclusioni tuttavia non concordo interamente.
4. Su questi temi offro qualche elemento in più in Stellardi 2010: 229-246.
5. Quella inglese è la traduzione che ho consultato: The Arcades Project, trad. di H. Eiland & K. McLaughlin (Cambridge MA: Belknap Harvard University Press, 1999).
6. Da un verso dalle Occasioni montaliane (Lindau).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-21-3
© 2015-2023 Giuseppe Stellardi & EJGS. First published in EJGS. Supplement no. 8, EJGS 7/2011-2017.
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