Gadda narratologo: la teoria del punto di vista nel Racconto italiano

Guido Baldi

Tra le riflessioni sugli strumenti tecnici e stilistici da impiegare, che, nei due Cahiers d’études stesi fra il ’24 e il ’25, accompagnano il Racconto italiano, la prima prova romanzesca di Gadda, particolarmente notevoli, per la loro portata teorica generale, non solo legata alla contingenza dell’opera da comporre, appaiono quelle che si possono definire di taglio narratologico. Siamo al 7 settembre 1924 (Gadda è maniacale nel fornire le indicazioni cronologiche di stesura delle varie annotazioni, e questo ci fornisce dati preziosi per la ricostruzione del suo percorso) – nota compositiva numero 33, a sette mesi dall’avvio dei lavori. La riflessione prende avvio dal livello che noi diremmo della storia, e insiste sull’esigenza di fondare il racconto su un intreccio organico e unitario, in modo che i vari personaggi risultino legati fra di loro:

Bisogna vedere un po’ di avviare e legare la materia del romanzo. – Legare i personaggi […]. Un romanzo non può isolare i suoi personaggi. È questa spesso un’astrazione esiziale alla espressione. (RI SVP 460-465)

Gadda si rende conto che questa esigenza rimanda a un modello narrativo arcaico, ottocentesco, che il romanzo più recente ha superato («“l’intreccio” dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano», SVP 460); d’altronde l’intento di dare «una rappresentazione un po’ compiuta della società», enunciato sin dalle prime pagine del progetto affidato al Cahier, richiama parimenti i romanzi realistici ottocenteschi, e non a caso i modelli citati sono Manzoni, Balzac, Stendhal, così come la dicitura Cahier d’études è di chiaro sapore zoliano. (1) Ma Gadda obietta alla possibile accusa di essere attardato osservando che è la vita stessa a essere «un “intreccio” e quale ingarbugliato intreccio!» (SVP 460). Quindi dal piano eminentemente sociale dei vecchi romanzi lo scrittore si sposta subito su un terreno a lui più congeniale, che apre più ampie prospettive, quello speculativo e metafisico: la complicazione dell’intreccio, lungi dall’essere un artificio superato, per lui non è che la riproduzione della «trama complessa della realtà» (SVP 460). Si delinea così un motivo che sarà poi centrale in tutta la sua opera successiva, quello del garbuglio, del pasticcio, su cui insisterà con agguerriti strumenti teoretici, di lì a pochi anni, nel 1928, con la Meditazione milanese – le cui posizioni sono qui in qualche misura anticipate, rivelando come la riflessione su quei temi fosse già in germe all’altezza del progetto romanzesco:

Che l’intreccio non sia di casi stiracchiati, ma risponda all’«istinto delle combinazioni» cioè al profondo ed oscuro dissociarsi della realtà in elementi, che talora (etica) perdono di vista il nesso unitario. […] La «dissoluzione» anche morale e anche teoretica è una perdita di vista del nesso di organicità. (SVP 460)

Subito dopo Gadda passa a trattare il piano del discorso e su di esso si fissa per molte delle pagine a seguire, fornendo le osservazioni forse più interessanti. Il problema centrale che lo impegna e che gli crea difficoltà sia teoriche sia di pratica realizzazione è «quale deve essere il punto di vista “organizzatore” della rappresentazione complessa» (SVP 461), cioè il modo di tradurre concretamente in discorso narrativo quell’intreccio su cui si è soffermato in precedenza, la scelta del punto di vista, dell’angolo visuale da cui devono essere osservate le azioni che lo compongono: data per scontata la sua complessità, omologa e rispondente a quella della realtà da rappresentare, l’esigenza primaria è sempre organizzare, offrire il garbuglio da un punto di vista che ne garantisca una rappresentazione unitaria e organica, disciplinata da un ordine immanente. Allo scrittore si presenta allora una difficile alternativa: «se il romanzo deve essere condotto “ab interiore” o “ab exteriore”» (SVP 461). La narrazione ab interiore è evidentemente quella che, con Genette, noi oggi definiremmo a focalizzazione interna, in cui tutto è presentato dalla prospettiva di uno o più personaggi. Su questo Gadda dimostra di avere le idee chiarissime:

Se la rappresentazione viene fatta «ab interiore» cioè vedendo attraverso la visione del personaggio (intendo «interior» l’animo del personaggio), come per es. il «Piacere» del D’Annunzio, è evidente che i momenti rappresentativi del romanzo devono seguire fedelmente i momenti conoscitivi, (sia lirico-estetici, sia etici, sia teoretici) o i pratici, del personaggio. (SVP 462)

La narrazione ab exteriore corrisponde invece alla genettiana focalizzazione zero (2) (che noi preferiremmo sostituire con la formula focalizzazione sul narratore, come abbiamo argomentato in un altro nostro lavoro, (3) perché la voce narrativa opera pur sempre una focalizzazione, una restrizione di campo dell’informazione, presentando i fatti narrati da una prospettiva particolare, non dal cosiddetto punto di vista di Dio, all’infinito). Come si vede, Gadda dimostra acuta sensibilità e chiara consapevolezza di un problema di impostazione narrativa, quello del punto di vista, che è veramente centrale nel romanzo fra Otto e Novecento, naturalista e post-naturalista; problema che era stato posto e variamente risolto dalla narrativa italiana, da Verga e De Roberto a d’Annunzio, a Svevo, a Pirandello, ma sul piano eminentemente pratico, direttamente operativo, mentre non si può dire che nella cultura italiana avesse ricevuto un’adeguata riflessione teorica.

D’altronde l’attenzione critica alle tecniche della costruzione narrativa era e rimarrà a lungo un argomento poco sentito dalla cultura italiana, a differenza della cultura anglosassone, in cui tali problemi erano, proprio ai primi del Novecento, largamente dibattuti. Basti pensare all’assidua riflessione di Henry James, alla sua idea di un racconto interamente e rigorosamente filtrato attraverso la coscienza di un personaggio, al fine di eliminare il narratore invadente del romanzo proto-ottocentesco e al fine di una drammatizzazione integrale della narrazione, in cui lo showing avesse la prevalenza sul telling; (4) tesi poi riprese e sistemate da Percy Lubbock in The Craft of Fiction (1921), libro di poco precedente al primo tentativo romanzesco gaddiano, e che godette di salda fortuna, fissando praticamente un canone di romanzo nella letteratura anglosassone, quello del well-made novel (sia pur con le autorevoli riserve ed obiezioni di un grande romanziere, postosi anch’egli a riflettere sul mestiere della narrativa, il Forster di Aspects of Novel, del 1927), e ancora ribadito, negli anni Trenta, da James Warren Beach con The Twentieth Century’s Novel. A Study in Technique (1932).

È quindi un’affascinante sorpresa trovare tra le carte postume di Gadda esordiente romanziere, alle prese per la prima volta con un complesso organismo romanzesco, una così puntuale, lucida riflessione sul punto di vista e sulla focalizzazione – un problema che doveva peraltro imporsi con immediata urgenza ad ogni scrittore di quegli anni nell’accingersi alla scrittura narrativa. In effetti, il romanzo post-flaubertiano aveva messo definitivamente in crisi il romanzo classico, proto-ottocentesco, balzachiano e manzoniano per intendersi, in cui la diegesi era interamente condotta da un narratore onnisciente, personalizzato, palese e largamente intrusivo, che vedeva personaggi, azioni e psicologie dall’esterno e dall’alto e interveniva continuamente nel narrato con commenti, giudizi, ragguagli informativi, divagazioni.

Il romanzo del secondo Ottocento e del primo Novecento, sino alla deflagrazione prodotta nelle forme narrative da un Proust, da un Joyce o da uno Svevo (ma vanno tenuti presenti da noi anche il frammentismo lirico vociano e il romanzo futurista, con gli annessi di Palazzeschi e Bontempelli, e la personalissima configurazione narrativa dei romanzi di Tozzi) aveva abbandonato questo modulo, per adottare appunto largamente quello a focalizzazione interna, in cui tutta o quasi tutta la storia era filtrata dall’ottica parziale, limitata e soggettiva di uno o più personaggi (per restare alla narrativa italiana, si pensi al Piacere o al Trionfo della morte, non a caso citati da Gadda nelle sue note, a Senilità di Svevo, all’Esclusa o a Suo Marito di Pirandello; ma un impianto analogo, di prevalente focalizzazione sull’io-personaggio anziché sull’io-narratore, si registra anche nel romanzo autodiegetico, ad esempio nel Fu Mattia Pascal).

Il problema del punto di vista, come Gadda coglie immediatamente, è legato a quello delle scelte stilistiche che devono commisurarsi ad esso; problema da lui già affrontato nelle pagine iniziali del Cahier, nella seconda «Nota critica» (SVP 396), nella quale elencava cinque sue maniere caratteristiche: la «logico-razionalistica, paretiana, seria, cerebrale», la «umoristico-ironica, apparentemente seria, dickens-panzini», la «umoristico seria manzoniana», quella «enfatica, tragica, “meravigliosa 600”», quella «cretina, che è fresca, puerile, mitica, omerica». Ma si presenta inevitabilmente al livello dell’espressione stilistica la difficoltà già prospettata a livello di intreccio, il rischio della mancanza di unità: «Se io scrivessi ogni intuizione col suo stile, sarei accusato di variabilità, eterogeneità, mancanza di fusione, mancanza di armonia, et similia» (SVP 461).

Nel Gadda di queste note è ossessiva la preoccupazione dell’organicità, della fusione armonica di tutti gli elementi – come si vede alla nota 2, appena citata: «Mi rincresce, mi è sempre rincresciuto rinunciare a qualcosa che mi fosse possibile. È questo il mio male. Bisognerà o fondere, (difficilissimo) o eleggere» (SVP 396). Ma se ogni punto di vista deve avere uno stile commisurato, sia fondere sia eleggere è impossibile, e la molteplicità eterogenea si impone necessariamente: e questo provoca in Gadda, così proteso verso l’unità, forte disagio (tradito da quell’ammissione, intrisa di senso di colpa: «È questo il mio male»). Difatti teme che le accuse previste di variabilità ed eterogeneità «possano essere giuste» (SVP 461), e guarda con tanta più ammirazione al suo modello privilegiato: «Il Manzoni è tra i più omogenei. I P.S. si direbbero un’intuizione unica, continuata, fatta con un solo metallo anche formalmente». Lo soccorrono, peraltro, grandi esempi di pluristilismo: Dante, che è «più variabile», Shakespeare.

La variabilità shakespeariana gli appare, però, più legittima, perché il poeta «drammatizza» (SVP 461): per Gadda, cioè, nella scritura drammatica i personaggi godono di maggiore autonomia e non devono essere vincolati, nella loro espressione, a una voce narrativa unificante e armonizzante dell’autore, a differenza del romanzo. Egli si propone di fare altrettanto «finché si tratta di singole personalità»: ovvero si propone, almeno a questo punto della riflessione, una narrazione drammatizzata, che è proprio ciò che è consentito al romanziere dalla focalizzazione interna, il quale eliminando o mettendo in sordina la presenza del narratore e affidando tutto lo svolgimento narrativo alla voce e alla prospettiva dei singoli personaggi compie un’operazione più vicina alla forma drammatica, come appunto sostenevano i teorici jamesiani del well-made novel.

È qui in germe un’intuizione che Gadda svilupperà qualche pagina più avanti, come vedremo. Ma la soluzione è subito inficiata da una preoccupazione che si insinua nel discorso dello scrittore: «Quello che più mi preoccupa è: “la discontinuità mia propria, soggettiva, inerente al mio proprio lirismo”» (SVP 461). A questo dubbio, accennato come en passant, sulla propria capacità di rispondere in qualità di autore a una funzione unificatrice, occorrerà tornare con attenzione, al momento di valutare l’effettiva attuazione, nel romanzo concreto, delle aspirazioni unitarie qui enunciate.

La problematicità insita nella pluralità degli stili non manca di riverberarsi, nella riflessione gaddiana, sulla pluralità dei punti di vista. Lo scrittore infatti si chiede, essendo il suo «un romanzo della pluralità» (SVP 462), fondato su una molteplicità di punti di vista diversi di numerosissimi personaggi, inseriti in un intreccio complesso: «Come viene il gioco “ab interiore” trattandosi di più personaggi? trattandosi anzi di moltissimi personaggi? Quali sono le possibilità di sviluppo rappresentativo e drammatico?» (SVP 462). Si scorge di nuovo il profilarsi del timore di una perdita di unità e di organicità, del disperdersi del racconto in una pluralità insidiosa di punti di vista di personaggi che restano isolati, non legati in un sistema unitario.

Nella distinzione tra gioco ab interiore e ab exteriore occorre ancora fissare l’attenzione su un particolare uso lessicale dello scrittore. Nel primo caso, egli osserva, «vi è un lirismo della rappresentazione attraverso i personaggi. Nel secondo caso vi può essere un lirismo attraverso “l’autore”» (SVP 461). Non è facile stabilire esattamente la valenza che assume il termine lirismo in questa annotazione gaddiana. Ci sembra da escludere che valga esclusivamente come effusione soggettiva del sentimento, o magari, in termini crociani, come intuizione del sentimento, in quanto dalle pagine successive risulterà chiaramente che al punto di vista del personaggio e dell’autore Gadda assegna funzioni squisitamente conoscitive, di presa di coscienza razionale del dramma vissuto e di un suo collegamento con significati universali, come si vedrà fra poco.

Ma l’uso del termine lirismo appare egualmente significativo. Anche se si propone di scrivere un romanzo molto romanzesco, perfettamente inserito nella tradizione realistica ottocentesca da Manzoni e Balzac a Zola, con intenti di rappresentazione fedele della società e dei suoi conflitti in un preciso momento storico, il primo dopoguerra, Gadda appare indubbiamente ancora legato all’orizzonte lirico della poesia. E non c’è da meravigliarsi, tenendo conto che la sua produzione letteraria era stata fino allora quasi esclusivamente lirica (se si eccettuano il Giornale  e il racconto La passeggiata autunnale, scritto nel campo di prigionia). D’altronde Gadda stesso nelle sue note definisce poema il suo romanzo e chiama poeta l’autore, intitola Sinfonie i suoi capitoli e confessa: «Difficoltà a tradurre in prosa miei vecchi versi» (SVP 577), rivelando come matrice di certe pagine dell’opera in costruzione siano sue poesie. Così pure osserva che quando l’autore si deferisce ex professo la parte di personaggio «si ha una lirica» (SVP 475); quando non fa dichiarazioni «si ha altro nome letterario, ma in definitiva si ha pur sempre della lirica»; e conclude: «Da tutte queste chiacchiere si può forse vedere che grosso-modo ciò che io chiamo “gioco ab exteriore” è la lirica (lirica dell’autore) delle vecchie terminologie». A queste dichiarazioni si può aggiungere a conferma una precisazione contenuta nell’Intervista al microfono del 1950:

I primi impulsi verso la scrittura, in me, ebbero un movente lirico e descrittivo, e insieme narrativo […]. La descrizione, il desiderio di conoscere e di approfondire, si estese per gradi, specie con la guerra (1915-1918), all’indole e ai tipi e al destino degli umani, ai rapporti fra le creature […]. Il forte senso della mia personalità […] mi traeva a riuscire un lirico, piuttosto, o un satirico: la volontà di comprendere i miei simili e me stesso mi sospingeva all’indagine e a quella «registrazione di eventi» che forma, in definitiva, il racconto. (SGF I 502 sgg)

In Gadda una vocazione narrativa stenta a districarsi da una formazione culturale e da una forma mentis lirica; e questa è fortemente condizionata dalla cultura italiana dell’anteguerra e dell’immediato dopoguerra, che in clima di frammentismo e lirismo in senso lato vociani assiste a una crisi dell’organismo romanzesco. Come controspinta a queste tendenze, però, va registrata nello scrittore anche l’ammirazione fervente per I promessi sposi, insieme con vaste letture della narrativa francese e russa dell’Ottocento, senza contare gli interessi filosofici e speculativi, che nel loro razionalismo (argomento della tesi in filosofia era Leibniz) vanno anch’essi in direzione contraria rispetto al lirismo: il risultato di queste spinte opposte è appunto questo singolare abbozzo di romanzo.

Tornando al problema del punto di vista, Gadda si chiede se sia praticabile «una pura rappresentazione “ab interiore” nella pluralità» (SVP 462), cioè se sia possibile effettivamente costruire un romanzo fondato interamente sulla focalizzazione interna, nel caso di una molteplicità di personaggi. E qui nel suo discorso avviene uno slittamento: dal livello dell’analisi delle strutture narrative, immanente al testo, si passa al livello della ricezione, facendo entrare in scena il momento della fruizione, con la figura e il ruolo del lettore, e mettendo in gioco non solo questioni di tecnica letteraria ma strumenti di natura psicologica (altro interesse che sarà poi sempre centrale in Gadda).

Il problema che lo scrittore si pone è come il lettore, in una narrazione a punti di vista plurimi, possa passare «dall’interno della personalità N.° 1, all’interno della personalità N.° 2. In un duetto d’amore dall’interno di lui all’interno di lei. Ma il lettore, e anche l’autore, sono di un unico sesso» (SVP 462). Un problema quindi di immedesimazione e di comprensione del diverso: che coinvolge il lettore oltre all’autore che crea i personaggi, perché entrano in gioco fattori psicologici legati al genere. La risposta di Gadda è che «forse a noi appare di essere solamente maschi, ma in realtà, nei misteriosi fondi della natura, siamo semplicemente dei “polarizzati” e “potenzialmente” possiamo essere l’uno e l’altro»; potenzialità dimenticata, che però «latet in imo» (SVP 463). Lo stesso problema si pone quando il lettore debba comprendere un personaggio criminale: così, dalle astrazioni teoriche, si rientra nel campo reale dell’intreccio progettato, in quanto al centro di esso si colloca un delitto, l’uccisione della donna amata da parte dell’eroe, Grifonetto Lampugnani, e quindi viene proposto l’abnorme, ciò che è «ex lege» (SVP 407). La risposta di Gadda è la stessa, «noi siamo degli “onnipotenziali” che si sono sviluppati polarizzandosi in una direzione, p.e. la direzione giuridico-sociale media, con leggi delle XII tavole. Però avremmo potuto da altre circostanze polarizzarci verso il crimine» (SVP 463). Di qui deriva la possibilità della comprensione ab interiore anche del personaggio criminale.

Gadda torna poi a esaminare i problemi tecnici del punto di vista, ed esprime i suoi dubbi intorno all’impostazione del racconto su una pluralità di focalizzazioni interne ai personaggi. In primo luogo appare contrario a un integrale relativismo prospettico, come quello praticato da molto romanzo contemporaneo (si pensi solo a Pirandello), determinato dall’assunzione di varie soggettività limitate come centri focali del racconto, quindi propone l’esigenza di una sintesi che riduca a unità la pluralità e ne tragga il significato essenziale: «La sintesi à [sic] in fine bisogno di portarsi poi fuori per il matema principe» (SVP 464): dove è già accennata l’alternativa alla focalizzazione interna plurima che sarà sviluppata in seguito, «portarsi fuori», che non può avere altro significato se non dare una funzione preminente alla figura autoriale del narratore onnisciente, che vede la materia dall’esterno e dall’alto e quindi è in grado di estrarne e chiarirne i significati più profondi: in termini gaddiani, equivale a puntare sul gioco ab exteriore.

Ma per ora si tratta solo di un cenno. La necessità di questo sguardo dall’esterno, che superi la visione soggettiva dei singoli agenti nell’intreccio, è motivata dal fatto che non tutti i personaggi possono essere al tempo stesso «gestori del dramma», «conoscitori del dramma gestito» e «riallacciatori con l’universale» (SVP 395): cioè non tutti possono essere al tempo stesso attori di un’azione e portatori della coscienza del suo significato, come è ad esempio l’Amleto shakespeariano. Inoltre il gioco ab interiore è «più difficile da comprendersi da parte del lettore, che tende sempre a prendere in senso assoluto e unico ciò che vede scritto, ed ad “incolparne” l’autore» (SVP 464). Si tratta di un’osservazione di notevole acutezza: come è facile constatare, è un errore ricorrente non solo da parte dei lettori comuni, ma anche dei critici di mestiere, scambiare il punto di vista soggettivo e parziale del personaggio con la prospettiva del narratore attendibile, che secondo il patto narrativo vigente in tanta letteratura è il portatore della verità, e attribuire certe valutazioni all’autore stesso; (5) specie quando la focalizzazione interna è creata mediante lo strumento del discorso indiretto libero, che è spesso altamente ambiguo, perché in esso risuonano due voci: per cui a volte è davvero problematico attribuire con sicurezza un’affermazione al personaggio o al narratore.

Il terzo motivo di perplessità nei confronti del romanzo a integrale focalizzazione interna plurima è che «il gioco “ab interiore” affatica» (SVP 464); non solo, ma «oltre la fatica dei continui trapassi, esso stanca esteticamente», perché la vita «non è solo una rappresentazione “ab interiore” (= nostra intuizione, lirismo), ma anche una “intuizione nostra di intuizioni altrui, o di realtà altrui”» (SVP 465): cioè, se intendiamo bene, la chiusura esclusiva del racconto all’interno di una soggettività rompe quel legame relazionale tra soggettività che è proprio della vita reale e che può essere colto solo portandosi fuori dal singolo punto di vista. Ne deriva una conclusione importante: «E così essendo la vita, è bene che il romanzo dipinga forse anche “ab exteriore”, almeno in parte». Come si vede, Gadda risolve i dubbi sin qui enunciati intorno alla narrazione a focalizzazione interna affermando l’importanza del gioco ab exteriore, cioè la funzione essenziale della presenza nel narrato della voce autoriale del narratore eterodiegetico onnisciente, che garantisca una visione superiore e più completa della materia. È un passo decisivo, contro le tendenze dominanti al well-made novel, verso la scelta di una forma di romanzo più tradizionale, focalizzato prevalentemente sul narratore: scelta che lo scrittore ribadirà con forza poco dopo.

La riflessione sul gioco ab interiore è ripresa da Gadda alcuni giorni più tardi, l’11 settembre 1924, nelle prime pagine di un secondo Cahier (SVP 471-483). Al problema della molteplicità dei punti di vista si affianca quello della loro variabilità interna nel tempo: «Il momento conoscitivo e in particolare il lirico possono subire e subiscono di fatto dei veri mutamenti, delle alterazioni, delle α?λλοι?σεις, per cui anche la persona N si muta e si trasforma conoscitivamente» (SVP 471): un personaggio cioè può nel tempo mutare il modo in cui vede e giudica se stesso e le proprie azioni. A volte ciò è frutto di un vero e proprio mutamento o di un’alterazione della personalità, sia per «ragioni interiori» sia per ragioni «esterne alla personalità stessa». Questo momento in cui il «personaggio N» «vede e giudica» un «momento n» riferendolo a un «nuovo momento n1» è un acquisto di autocoscienza, perché «N si è trasformato in N1» (SVP 472). Ad esempio:

Il fanatico in politica, per successive meditazioni o studî od esperienze o per guarigione fisio-mentale, si accorge dell’erroneo punto di vista n, col suo presente punto di vista n1. – E deride od accusa o altrimenti giudica il se stesso di prima, il già n. (SVP 472)

Gadda si preoccupa di mettere in evidenza la possibilità di un errore di interpretazione, che consiste nell’attribuire questo momento di autocoscienza e di giudizio del personaggio su se stesso al narratore autoriale, nel credere cioè che «il “gioco ab interiore” si trasformi in gioco “ab exteriore” o commento o altro pasticcio, per asineria dello scrittore». È una messa in guardia affine a quella già sottolineata, riguardante l’attribuzione al narratore di ciò che pertiene al personaggio, e conferma l’acuta percezione degli aspetti tecnici della scrittura narrativa da parte di Gadda, la sua acribia di narratologo. L’esempio prima addotto contempla un incremento di autocoscienza da parte di un personaggio, ma Gadda tiene presente anche il caso inverso, di una perdita di consapevolezza nel tempo: «Il momento n1 […] può essere più barocco e sconclusionato e miserabile di n. La serie può essere involutiva anzi che involutiva» (SVP 472). Comunque la preoccupazione che assilla lo scrittore è sempre quella di essere accusato di incoerenza: il mutare nel tempo del giudizio del personaggio su se stesso «non è commento né contraddizione, ma è la vita: e il romanzo che la rispecchia. Pare una verità lapalissiana, questa, eppure prevedo: “contraddizione!, incoerenza!, incertezza!, ecc.”, così i critici»: accusa che va a ferire un suo punto nevralgico, l’aspirazione all’unità e all’organicità. La conclusione che Gadda trae dalle notazioni sulla variabilità dei punti di vista dei personaggi (ma che è riferibile anche alla loro pluralità) è «relatività dei momenti, polarità della conoscenza, nessun momento è assoluto, ciascuno è un sistema di coordinate da riferirsi ad altro sistema» (SVP 473).

Ma Gadda, si è visto, è contrario a ogni relativismo prospettico: per cui la notazione serve di passaggio per un approdo teorico determinante, l’affermazione definitiva ed esplicita della necessità del narratore autoriale come termine di riferimento della pluralità e della variabilità dei punti di vista, cioè, nel linguaggio gaddiano, della necessità del gioco ab exteriore: (6)

Il sistema di coordinate conoscitive, che funziona da sistema fisso, è in questo caso il momento conoscitivo, teoretico (in particolare lirico) dell’autore. […] Quello che è certo è che non si può prescindere dal ricettore-eiettore costituito dal poeta. (SVP 473)

E ancora su questo punto essenziale insiste nella pagina seguente: «Insomma il ricettore-eiettore autore non si può dimenticare» (SVP 474) (evidentemente, diremmo noi alla luce degli sviluppi attuali della teoria narratologica, l’autore in quanto si manifesta entro la struttura del testo, come narratore autoriale attendibile: Gadda non conosce ancora, né potrebbe conoscere, la distinzione tra autore reale, autore implicito e narratore, e usa una terminologia indifferenziata, che fa coincidere  nel termine autore le diverse istanze).

Come si vede, lo scrittore torna ostinatamente ad esprimere l’esigenza di una visione unificatrice, che componga in un ordine superiore la pluralità di prospettive creata dalla varietà dei punti di vista dei personaggi. Se l’intreccio complicato e la molteplicità di modi di vedere il reale che ne è il riflesso sono deputati a mimare l’ingarbugliato intreccio della realtà, al di là di esso si deve pur sempre, all’interno dell’universo del testo, affermare un ordine; e a garantire quest’ordine, per Gadda, non può essere che la presenza del narratore autoriale. (7) Osserva infatti che «è istintivo nell’autore il sovrapporre le sue proprie rappresentazioni e commenti a quelli dei personaggi, specie quando si tratta di collegare, organizzare la rappresentazione generale, tirare il matema principe» (SVP 462).

È la conferma più recisa, teoricamente chiara e convinta, di come Gadda, pur accogliendo nel progetto la tecnica della focalizzazione interna alla coscienza dei personaggi, largamente invalsa nel romanzo europeo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, rifiuti la sua applicazione integrale e totalizzante, utilizzata da tanti narratori novecenteschi, e per contro affermi sia teoricamente sia nella pratica concreta della scrittura la validità di un modello più tradizionale, incentrato sulla presenza del narratore eterodiegetico onnisciente, portavoce dell’autore reale, che introduce sistematicamente nel narrato la sua voce e la sua prospettiva mediante i suoi commenti e i suoi giudizi, affermando così una visione superiore della materia, che faccia emergere i suoi significati essenziali: (8) il modello del tanto ammirato Manzoni. E sin dalla prima nota compositiva, che apre il Cahier in data 24 marzo 1924, si preoccupa di precisare, parlando dei personaggi a cui saranno affidati la coscienza del dramma e il suo commento filosofico, «potrò forse riserbarmi io questo commento-coscienza: (autore, coro)» (SVP 395), di nuovo con un riferimento manzoniano, questa volta alla prefazione al Carmagnola. (9)

Nonostante l’evidente influsso del romanzo naturalista zoliano (visibile, oltre che nella dizione Cahier d’études, nell’idea del romanzo come rappresentazione della società e nella convinzione dell’influenza esercitata dall’ambiente sull’individuo; ma non si dimentichi che Gadda si definirà ancora più avanti «minimissimo Zoluzzo di Lombardia» – Tecnica e poesia, SGF I 243), lo scrittore esclude l’impersonalità naturalistica, che, sull’esempio di Flaubert, tende a eliminare l’invadenza della voce narratoriale. La conferma è immediatamente rinvenibile: in effetti i pochi passi narrativi che del progetto Gadda è giunto a redigere sono appunto narrati secondo questa tecnica e rivelano la presenza costante del narratore eterodiegetico e dei suoi commenti, talora in forme scopertamente arcaiche e manzoniane («Siamo usciti dal seminato: cosa che sarà per capitarci altre volte. Finché, dai critici, ne sentiremo delle belle. Ma il mestiere del raccontare è difficile; tenere in sesto le idee, che si sbandano come un branco di pecore! E noi in quanto cani da pastore siamo proprio dei poveri cani», SVP 532: dove è evidente il ricalco del passo del capitolo XI dei Promessi sposi in cui il narratore evoca il «caro fanciullo» che a sera cerca di radunare i porcellini d’India lasciati correr liberi durante il giorno – il rimando è suggerito opportunatamente da Donnarumma 2001a: 53). Oppure la presenza massiccia della voce narrante autoriale è avvertibile nell’enfasi lirica portata all’estremo, come nell’inizio e nella chiusa della prima Sinfonia.

In queste note conclusive della riflessione sul punto di vista Gadda tende a riportare il gioco ab interiore e ab exteriore alle categorie tradizionali dei generi letterari – l’affinità della narrazione a focalizzazione interna con la forma drammatica, già accennata in precedenza (v. di nuovo: «Da tutte queste chiacchiere si può forse vedere che grosso-modo ciò che io chiamo “gioco ab exteriore” è la lirica (lirica dell’autore) delle vecchie terminologie. Ciò che io chiamo gioco “ab interiore” o lirismo puro dei personaggi è in fondo la drammatica», SVP 475), è qui affermata in modo esplicito e netto, rivelando nuovamente una certa consonanza con le teorie dei jamesiani intorno al well-made novel; (10) anche se poi lo scrittore punta decisamente sul modello in cui domina la focalizzazione sul narratore.

La centralità ineludibile della funzione della prospettiva autoriale è difatti subito da lui ribadita, osservando che, anche nel racconto a rigorosa focalizzazione interna, l’eclisse completa della figura autoriale è difficile da praticare, perché «basta una parola, un tocco, un cenno per far subito entrare l’autore» (SVP 475). È una notazione molto acuta, che testimonia ancora una volta una naturale disposizione dello scrittore a cogliere i minimi dettagli tecnici della narrazione e ne fa davvero un narratologo ante litteram. Quanto egli rileva è confermato da infiniti esempi rinvenibili nei romanzi a focalizzazione interna tra secondo Ottocento e Novecento, anche in quelli fondati sulla più rigorosa impersonalità naturalistica, che dovrebbe escludere ogni presenza autoriale. Si prenda ad esempio, all'inizio di Germinal, la descrizione della cucina della famiglia Maheu: «Malgré la propreté, une odeur d'oignon cuit, enfermé depuis la veille, empoisonnait l’airchaud»: basta il semplice uso di un verbo, empoisonnait, per inserire nella descrizione il punto di vista del narratore, portavoce senza dubbio dell’autore reale, del borghese agiato, magari socialista umanitario, per il quale però l’odore delle cipolle di cui si nutrono i minatori risulta sgradevole come veleno.

Per un diverso tipo di racconto, riconducibile al roman d’analyse, si può citare un passo di Senilità, dove si parla del rapporto fra il protagonista Emilio Brentani e Angiolina: «Gli venne la magnifica idea di educare lui quella fanciulla». Qui l’aggettivo magnifica è ambiguo, ha come due facce: da un lato riproduce il giudizio che il personaggio stesso dà del suo proposito, quindi si presenta come un frammento di oratio obliqua, ma, in quanto è riecheggiato, citato dalla voce narrante, si carica di corrosiva ironia verso gli autoinganni di Emilio, che vuole presentarsi nei confronti di Angiolina come uomo superiore, esperto della vita; basta così un aggettivo a tradire il giudizio del narratore (e dell’autore reale), che, con estrema economia di mezzi e straordinaria efficacia, denuncia nel personaggio la debolezza e impotenza di uomo immaturo, incapace ormai – per ragioni storiche oltre che individuali – di coincidere con una sicura e autorevole figura paterna. Gadda osserva che si può sfuggire a questa presenza dell’autore nel narrato, ma soltanto «se si mantiene il puro dialogato popolare» (SVP 475), cioè se si fonda la narrazione sul solo dialogo, appunto come nella forma drammatica. Si tratta di un modello effettivamente teorizzato e praticato in area verista, dal De Roberto dei Processi verbali. (11) Gadda però, a differenza dei veristi, è convinto che «il dialogato puro e vero» implichi «l’uso del dialetto, della parlata comune», altrimenti si cade «nello sbiadito o nel resoconto» (SVP 475-476). Si profila già, da lontano, l’esito dell’Adalgisa, della Cognizione, del Pasticciaccio.

Nonostante tutte le recise affermazioni sulla presenza necessaria dell’autore, col compito di assicurare l’unità del testo, al di là della molteplicità dei punti di vista e delle differenze stilistiche, e di trarre il matema principe, si insinua tuttavia in queste pagine un dubbio, un timore, che affiora un momento, en passant, nella trattazione sullo stile (è un passo che abbiamo già sottolineato: «Ma quello che più mi preoccupa è: “la discontinuità mia propria, soggettiva, inerente al mio proprio lirismo”», SVP 461), ma che in realtà è il sottofondo costante di tutto il discorso, come si può presumere e contrario proprio dall’insistenza sulla necessità della figura dell’autore, che assume così uno scoperto valore esorcistico. Gadda teme, nel dar corpo al suo progetto narrativo, di non essere in grado di garantire l’unità, la coerenza, l’organicità vagheggiate nelle sue teorizzazioni, a causa dei prepotenti impulsi centrifughi che sa essere presenti in lui. E difatti queste spinte disgregatrici agiscono puntualmente nell’organismo che va con fatica mettendo insieme.

L’aspirazione costruttiva, ordinatrice, l’ambizione alla struttura narrativa solida ed equilibrata, fondata sulla presenza unificatrice della personalità dell’autore, va incontro al più totale scacco: non solo perché il progetto si arena in una fase ben lontana dal compimento, ma anche perché, all’interno stesso del poco che è stato realizzato, domina la discontinuità più assoluta, con l’allinearsi di materiali eterogenei come contenuti e come tecniche rappresentative, di frammenti che non lasciano intravedere una collocazione precisa entro le linee di un intreccio, con continui salti di toni e di registri stilistici, ad onta di ogni volontà di fondere, equilibrare, unificare, ordinare in precise simmetrie; tanto meno dai frammenti si può veder emergere una personalità di narratore autoriale che assuma una funzione organizzatrice e unificante, come teorizzato nelle annotazioni. Si prefigura sin dalla prima prova romanzesca di Gadda quanto avverrà sistematicamente in quelle successive.

Ma se il discontinuo nel Racconto italiano può essere ancora ascritto in buona misura a un’incapacità soggettiva di costruire ed organizzare (a proposito della quale v. almeno Isella 1983: xxvii, e Mileschi 2007a: 98-100), più avanti avrà dietro di sé anche una precisa visione del mondo e una teoria meditatamente elaborata, che prenderà corpo pochi anni dopo il Racconto nella Meditazione milanese, come la critica ha messo in rilievo sin dalla pionieristica monografia di Giancarlo Roscioni. Comunque il caos romanzesco non sarà mai il puro prodotto di una consapevolezza teoretica della complessità non dominabile del reale. Un’interpretazione del genere, che è diffusa nell’esegesi gaddiana, rischia di peccare di eccessiva razionalizzazione, e quindi di dare un’immagine parziale dell’opera di Gadda, mortificando la forza feconda della sue contraddizioni. L’aspirazione alla sintesi ordinatrice, che in Gadda resta sempre un’esigenza ineliminabile, anche se eternamente sconfitta e irrealizzata, urta contro potenti forze di segno contrario che non si possono ridurre solo a una lucida consapevolezza teoretica della complessità del reale, ma affondano le loro radici nel male oscuro.

Non bisogna dimenticare che, insieme alla tensione conoscitiva, la nevrosi è la musa di Gadda. Lo aveva già colto perfettamente il giovane Contini sin dal 1934, recensendo il Castello di Udine, nel sottolineare «quanto di risentimento, di passione e di nevrastenia covi dietro al fatto del pastiche» (Contini 1989: 3).

Università di Torino

Note

1. Sulla fisionomia ottocentesca del progetto gaddiano ha insistito la critica. Si vedano almeno Isella 1983: ix; Guglielmi 1998, in Andreini & Guglielminetti 1996: 19; Manganaro 1994a: 61; Mileschi 2007a: 97, 102.

2. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. (Torino: Einaudi, 1976).

3. Rimando a G. Baldi, «Narratologia della storia» e «narratologia del discorso»: appunti per una rassegna e una discussione, in Lettere italiane (1988), 1: 113-139 – rivisto e ampliato, ora anche in Baldi 2003: 3-35.

4. H. James, Le prefazioni, trad. it. (Venezia: Neri Pozza, 1956).

5. Per un esempio, rimando alla mia analisi dell’immagine di Angiolina, in Senilità, come simbolo di salute, che è una costruzione mentale di Emilio Brentani, mentre spesso la mitizzazione è attribuita all’autore – cfr. G. Baldi, Le maschere dell’inetto. Lettura di «Senilità» (Torino: Paravia Scriptorium, 1998), 32; ora anche in Menzogna e verità nella narrativa di Svevo (Napoli: Liguori, 2010).

6. Osserva Marcello Carlino che, poiché fondere è impossibile così come eleggere, «l’unica via d’uscita […] può essere rappresentata da una ipostasi dell’io percettore», per cui l’autore «ritorna sulla pagina con la sua percezione e il suo linguaggio in posizione di forza»: il narratore è il solo che possa «coordinare il disordine dei fenomeni». Però questo implica «un tradimento della complessità diveniente del reale» – v. M. Carlino, Il «Racconto italiano di ignoto del novecento» ovvero le peripezie dell’intreccio, in Carlino, Mastropasqua & Muzzioli 1987: 91.

7. Non diremmo perciò, con Manganaro, che «après avoir déclaré son opposition à une pratique unifiante et prôné la multiplication des points de vue et de polarisation, Gadda abandonne assez tôt l’idée de résoudre les problèmes d’unification du récit» (Manganaro 1994a: 68).

8. Gadda anticipa così la rivalutazione, in opposizione al well-made novel dei jamesiani, del romanzo focalizzato sul narratore onnisciente operata da un teorico di fondamentale importanza come W. Booth, The Rhetoric of Fiction (Chicago: Chicago University Press, 1961).

9. Lo ha notato Donnarumma 2001a: 47.

10. Lo osserva anche Savettieri 2008a: 43.

11. «L’impersonalità assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obbiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro» – F. De Roberto, Prefazione a Processi verbali (Palermo: Sellerio, 1976), 4.

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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1

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