La Madonna dei filosofi

Giuseppe De Robertis

Gadda non è uno scrittore facile, ma uno scrittore nuovo certo è. Facili non si è mai quando si comincia, e si porta una forte promessa; meno si è da artisti complicati, dalla pagina irta e da un più irto riso. Gadda è di questi, arrivato poi tardi alle lettere, e umorista, sebbene nostro, e umano, sano. Osserva nella comune realtà cose che a un occhio quieto sfuggirebbero e non si contenta di dirle in una forma spiccia: le complica dicendo, con un linguaggio ruvido, acuminato, pieno di stridori. Gli amanti delle delizie (o supplizi) del parlar toscano, chiamati a giudicarlo, gli volterebbero senz’altro la faccia. E avrebbero la loro parte di ragione. Ma anche Gadda ha la sua parte, a scrivere così. E noi gli troveremo un vicino, Jahier. In Gino Bianchi, chi ricorda, certi pesanti effetti stilistici tolti al gergo delle pratiche d’ufficio, e ai «protocolli», fecero, tutt’uno, piacere e dispiacere, ci sorpresero un tempo a ridere di buona voglia, e ci stancarono. Gadda ha più libero e, direi, lieto campo. Da ingegnere ha girato il mondo e ci tiene a mostrarlo, e stordisce il povero lettore con termini che richiederebbero a piè di pagina un commento allegro e altra mormorazione di riso. (è una proposta questa che noi facciamo a Gadda, per quando si farà, e certo si farà, una seconda edizione del suo libro). Ora come ora, certe battute fanno più intravedere che avvertir chiaramente la punta. Ma insomma Jahier qui fa scuola; solo che non è così fitta la satira, o di satira non ce n’è affatto; e, sopra tutto, c’è maggior libertà fantastica, guarda dove gli piace, divaga col suo scrivere sempre svagato, ed è ricco ricchissimo d’imprevisti.

Ma com’è che uno scrittore così pur riesce faticoso?

è che non ha leggerezza di movimenti: non sa fondere bene le parti: non sempre sa rendere evidente la ragione del «particolare», e la più intima ragione del racconto. O succede che l’interesse, diremo così, marginale, se richiama il lettore, nel tempo stesso lo fuorvia. S’ha bisogno d’una rilettura perché il segreto motivo risalti e faccia centro. E allora avvertiamo che pareva un raccontare sperso, ed era forse troppo stretto; pareva ridere per ridere, e c’era sotto una commozione rattenuta; la penna pareva solo avventurosa, e invece incideva, era conseguente, era obbediente a un’idea.

Solo nel primo racconto, Teatro (se proprio s’ha da chiamarlo racconto), la forza dello scrittore sembra quanto mai fuori fuoco. Qualcuno ha ricordato Barilli, e certo vien fatto di pensarci quasi senza pensarci. Diremo allora che è un Barilli a cui manca tutto quello che è di Barilli, l’amore alla musica, e che fa amoroso il suo riso, per non dire liricamente alto, e gli riscatta quel che è di composito e irreale in una forma d’arte che i difficoltosi ingegni rigettano, ma i cuori innamorati esaltano. Al teatro d’opera Gadda ci sta con freddo animo, ride, e può ridere, di tutto, perché la musica per nulla lo tocca. Non vede le varie arti fondersi in una, le vede disgregarsi; e, quanto a sé, pare abbia fatto a posta, per ridere, a scompaginare una realtà vivente, e di che vita!

Ma dopo, in tutto il libro, è proprio un crescere d’interessi, e d’interessi umani. Manovre di artiglieria da campagna non sarà tutto bello, ma basterebbero le ultime cinque pagine a farne una cosa piena di commossa e intensa verità; e Gadda pare abbia voluto anche stilisticamente farne avvertire lo stacco… «… I grandi e nobili cavalli….». Poi ci sono i due pezzi forti del libro, Cinema e La Madonna dei filosofi. Cinema è la descrizione d’una giornata di festa d’un povero ragazzo, tutta allietata da un bel disordine, frutto acerbo d’un’età acerba riemersa dalla memoria con quella stessa agrezza torbida delle impressioni prime, ed è forse per questo il racconto più unito, perché da riferire quasi per intero a un sentimento solo o a sensazioni che insieme fanno corpo; La Madonna dei filosofi, apparentemente divisa in due, il ritratto e la vita d’una nobile Maria Ripamonti e la storia amara dell’ingegner Baronfo, forse patisce di quest’essere diviso, ma a lettura finita le parti distanti si toccano, si fondono, e non si può neppur dire che sarebbe stato meglio, raccontando, mescolarle: si pretenderebbe che Gadda fosse diverso da quello che è, e invece, così com’è, piace, anche se obbliga il lettore tante volte a tornare indietro di pagine e pagine, per veder chiaro nell’aggrovigliata tessitura. Gadda, stringatissimo nei particolari, e più nei punti vivi dei suoi racconti, è poi divagato nel tono generale e nel piglio della sua prosa. Bisogna farci il gusto. Si rischierebbe, se no, di non avvertire i pregi più ricchi di questo scrittore ricco, che nulla hanno a che fare con gli studiati effetti verbali di riso che pur tornano insistenti, ma cadono così spesso inutili e senz’accento. A volergli indovinar la faccia dietro questi divertimenti, si pensa un momento a Buster Keaton, con quella sua presenza idiota e assente; ma è un momento. Un che di corrusco, un lampo, il corrugarsi della fronte dicono altra forza e altra vita e, sopra tutto, altra passione: lo dicono descrittore lirico tra i più perentorii, e interprete umano che va in profondo. Di Buster Keaton, o dell’altro Gadda, conserva l’aria distratta, per dire più senza parere: quando descrive, con più rapidità; quando interpreta, con celata dissimulazione. «I cassettoni del monte si chiudono, rabbiose porte»: sono i tiri d’artiglieria: e di immagini così nette e imprevedute il libro è pieno. Ma non fermiamoci qui. Ricordate, in Manovre, Gorgo che con l’altro cavallo, Tubone, fatica a trainare un pezzo da 75 su per una strada rotta, e uno scheggione gli si para di traverso. Un soldato è sul carro e guida, o così dovrebbe... «A una legnata più ladra Gorgo si rivolse di scatto, con uno sguardo da far piangere: ‘Ragiona!’, disse con il suo sguardo all’uomo che lo legnava...». Ma ricordate, con effetto tanto più umanamente intenso, nella Madonna dei filosofi, la povera grama Maria Ripamonti. Aveva amato quasi fanciulla un giovane, Emilio, partito poi per la guerra e disperso. In altra età, e in altra vita, pare s’innamori, ma non è neppur detto, tanto è poco amore, dell’ingegner Baronfo. Baronfo una notte è ucciso dalla sua antica amante. Nel reggergli il capo sanguinante, Maria sente doppio lo strazio, dell’amore d’una volta, e dell’amore d’ora, che ora le si è rivelato, in faccia alla morte. «‘Papà, Mamma!’, urlava piangendo Maria, ‘... Salvateci, scendete!…’: e voleva scendere a terra come per affrontar quella, e non voleva lasciar di reggere con la sinistra il capo del compagno, che le pareva pesante, pesante, come deve essere la testa dei soldati morti». Compagno, dice, umanamente; e poi dice pesante, quasi senza volerlo, e senza volerlo ricorda, e ripete pesante.

Vorremmo che il lettore, a questi segni, avesse avvertito, nel giro dello stesso libro, il crescere in ricchezza dell’arte di Gadda, il castigarsi dei mezzi espressivi, la rinuncia ai facili effetti. A un tratto la complicatezza dimostrata sulla pagina s’è fatta somma di sentimenti da cui nasce uno e diverso un sentimento solo, musicalmente ineffabile.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371- 18-3

© 2007-2025 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. First published: G. De Robertis, La Madonna dei filosofi, in Pègaso 3, no. 6 (1931): 753-55. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
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