La Bibbia illustrata dell’ingegnere

Federica G. Pedriali

Remember that I am thy creature.
Everywhere I see bliss, from which I alone am irrevocably excluded.

Mary Shelley, Frankenstein

«La storia degli uomini è tutta natura», scrive l’anima industriale di Gadda in Meditazione milanese (SVP 876-77). Il pensiero è industre, produce industria, richiede competenze tecniche. Eppure non c’è soluzione o ritrovato che non sia natura. La polemica antirousseauiana di Gadda è nota. «L’uomo, che Rousseau incolpava di falsare e coartare l’opera felice della natura», sostiene in un saggio di divulgazione scientifica, Azoto, del ’32, «è in realtà un inguaribile falsificatore, un ingegnere inguaribile». E di seguito:

Vien voglia di chiedere all’autore del fantasmagorico paradosso che cosa egli pensi del cemento armato, delle centrali elettriche e dell’ammoniaca sintetica: svolgendo il suo tema prediletto, potentemente martellato nell’ouverture dell’Emile («Tout est bien, sortant des mains de l’Auteur des choses, tout dégénère entre les mains de l’homme»), egli ci risponderebbe che le costruzioni in cemento armato sono una falsificazione della caverna […]; che le centrali elettriche sono una falsificazione della gravità, o meglio una fabbrica di gravità degenerata in lavoro; che l’ammoniaca sintetica è l’ultimo e più sfrontato falso perpetrato dall’uomo, il quale ha sorpreso una pausa tipica del ciclo naturale dell’azoto, e «ne deorum quidem satis metuens», l’ha rifatta sostituendosi alla natura, crumiro diabolico della natura; cui ha condotto a degenerare nell’opera delle macchine. (SVP 68)

Come Rousseau anche Gadda potentemente martella il suo tema. Che è poi la traduzione dell’imperativo etico che gli martella dentro per educazione e cultura lombarda. Ne è prova e segno il trattato milanese. La mente è industre sempre, ma le sue invenzioni – questo è il messaggio più difficile di Meditazione, il suo aspetto meno appetibile – devono fondarsi sul dato, pena la sopravvivenza della specie. Il rispetto del dato, che è tutto natura, non esclude la deformazione. «Conoscere significa deformare», significa (ed è probabilmente il sintagma gaddiano più citato) «inserire alcunché nel reale» (SVP 668, 863).

Gadda inserisce, eccome, degli alcunché nel mondo. Sta proprio lì il suo fascino. Lo fa perché, crumiro diabolico della natura, come tutti, ha in più, rispetto ai suoi simili, un quanto di malvagità che è direttamente proporzionale al «quanto di erotia» negato e represso dalla sua particolarissima gens (Pasticciaccio, RR II 17). Malvagio animale si dichiara del resto in più punti dell’opera, Meditazione inclusa. Non inganni l’umoralità provocatoria dell’ammissione. Si tratta di una captatio benevolentiae nel registro composito di macheronea e malinconia. Il rispetto del dato comporta cioè per Gadda la denuncia sofferente-irosa delle storture del mondo, l’aver di che ridire del buon Dio in quanto responsabile ultimo dell’imbroglio di cui si è vittima:

L’autore incontrò il Padreterno: e inchinatolo e infinitamente reveritolo, si gratulò ad Esso della perfezione delle cose create.

Favola 161, dal Primo libro delle Favole (SGF II 51). E la successiva:

L’autore incontrò a Milano la su’ socera, con l’antre milanesi perfezioni dall’Eterno Padre creata: e a sé strettala, e basciatoli di tutta sua saliva le gote, gni disse: «Mamma cara!»

Il rispetto del dato – rispetto tradito, svilito, schiacciato da stupide circostanze – comporta, dunque, la dissacrazione comico-blasfema, grottesco-delirante degli aspetti del reale, cui pure si continua a guardare con animo religioso oltre che tecnico. «La Bibbia stessa non ignora la tecnica», scrive Gadda nel saggio Tecnica e poesia del ’40, «nessuna storia, nessuna tradizione può ignorare l’ambiente» (SGF I 243). Di lì a qualche riga, e passandoci lo spunto che serve a chiudere il cappello di questo intervento:

gli illustratori della Bibbia, nel disegnar le fiancate o le costole dell’Arca, (le ordinate, come oggi si chiamano), sorrette ancora dai puntoni sopra il piano inclinato dello scalo, hanno avuto ricorso, necessariamente, alla contemplazione dei cantieri navali. Tutt’attorno uno sfruconare d’insetti, di farfalloni, di calabroni, di colombi, un belar di pecore e pecoroni; un parco di tartarughe, di bisonti-campione, e di polli, e d’elefanti in attesa dell’imbarco: da non averne un’idea. (1)

«Animale di fuorivia […] tra il canguro e il tapiro» (Cognizione, RR I 629), Gadda sarebbe cioè disposto, disposto sempre a far da modesto ingegnere, da illustratore anonimo, da milite ignoto nella storia del pensiero dell’uomo. Qualcosa però nel suo incarico non ha funzionato. E non è una questione di complessità eccessiva, un non riuscire a tenere dietro al numero delle significazioni che si rovesciano fuori dalla cornucopia delle forme, dalla bibbia spiraloide o arca senza fondo della nominazione con cui l’uomo si mette in salvo chiamando due di tutto come Noè con i suoi animali, ossia enucleando quelle categorie bipolari (spazio-tempo, centro-periferia, bene-male) che delimitano la ragione umana garantendone il funzionamento.

Il problema è un altro. C’è una Bibbia da illustrare: a Gadda nell’adempiere al compito, l’amore per una storia che è tutta natura (ma natura gestita male da un creatore insipiente che non rispetta né fa rispettare i principi che peraltro ha fondato) si rivolta, letteralmente rovesciandosi nel suo opposto, in indignazione. Indignazione euforica quanto si vuole, come giustamente sostiene Carla Benedetti nel suo saggio Storia naturale di Gadda – missione però negativa anche nell’euforia, incarico amletico nel segno della retribuzione cui è sotteso non il dubbio (Gadda, come Amleto, non è creatura del dubbio) ma la certezza, la domanda che più non chiede, sebbene ritorni ossessiva tanto nei bipedi che nei quadrupedi. (2) La madre di Cognizione (bipede) o il cavallo morente del Primo libro delle Favole (il quadrupede con cui Gadda ha condiviso una guerra mondiale sul Carso) chiedono ripetutamente perché perché rimuovendo, col raddoppio, la valenza interrogativa al loro domandare. Da Cognizione:

La folla imbarbarita degli evi persi, la tenebra delle cose e delle anime erano un torbido enigma, davanti a cui si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita bimba) – perché, perché. (RR I 674-75)

E dal Primo libro delle Favole:

Il cavallo, mandato nel Carso, traeva una carretta bene leggera al ritorno, tutto affidatosi al giurare della Notte. Ma la perjura Notte gli mancò la parola: e la fascia del mattino che guarda era già sul Veliki. Nati dal cielo del mattino fiori atroci, i latrati delle folgori.
Agonizzava tra infinite budella, chiedendo perché, perché. (SGF II 17)

Due parole, due accenti, l’equivalente, si direbbe, della misura giambica della voce del silenzio, quelle due note del chiù o del cuculo che in Cognizione vengono «dallo spazio e dal tempo astratti» (RR I 732) facendosi paragonare e facendo pronunciare il titolo del romanzo al suo interno. Gadda, si vuol dire, ha ben poche domande a sua disposizione, sempre le stesse, e costruisce impavido le sue risposte nella pagina di Bibbia che gli è toccato illustrare:

un problema estetico, ed etico, mi ha sempre scavato l’anima: a me, sì, che venni imputato di calligrafismo, di barocchismo. Qual è il grado di adesione interna, di accensione intima nei confronti del tema, che induce ad opera l’artista, che gli guida la mano sulla tela? Sì: la mano e il pennello? Crede e spera, nella Madonna, il fabbricante di madonne? (Il pasticciaccio, SGF I 509)

Parole, queste, del ’57 con cui lo scrittore si appresta a chiudere, saggisticamente, l’esperienza del Pasticciaccio e un’intera carriera. La domanda è retorica, la risposta implicita. Massimo è, perlomeno in lui, il grado di accensione nei confronti del tema. A sua volta fabbricante di simulacri, crede e spera, come no, nella Madonna. Tuttavia il reale, il collegio sacro del reale di cui la Madonna è simbolo, non accoglie, rifiuta il soggetto: che è il Gadda storico, si badi, arrivato con la sua personale storia e genetica a far da giudice, «terribile e ingiusto giudice dell’universo», come ha scritto Citati in una prima versione del Male invisibile. (3) è in questo senso che i simboli diventano pericolosi, si ribellano nelle mani dell’artigiano che pure tecnicamente li domina, li possiede. Perché i materiali del lavoro artistico – simboli appunto, come Gadda afferma in una recensione del ’32 – sommuovono, urtano, suscitano, e dunque aprono «varchi inattesi ai pensieri di Dio e del diavolo» (L’ultimo libro di Gianna Manzini, SGF I 774).

Il pensiero cioè si sdoppia, si fa temibile. Alla sua potente bipolare chiamata rispondono tutti gli aspetti del fenomenico, i motivi della terra vestita delle opere e dei giorni dell’uomo, delle funzioni e dei simboli del vivere civile: i motivi della produzione e della solitudine, della bipedìa e della quadrupedìa. Insofferente del racconto sacro scaduto, la vita, e ciononostante rispettoso del dato, Gadda produce la sua Bibbia illustrata in doppia copia, Cognizione e Pasticciaccio, le sue narrative più compiute. Non a caso, tanto nei testi maggiori che in quelli minori la fantasia, il fantastico, l’immaginazione pura sono praticamente assenti. Al massimo, alla creazione in versione diurna si sovrappone il trascorrere della stessa ribaltata in chiave notturna, il flumen inferi del proemio di Meccanica:

Ma per piani aridi e illuni o nell’aggrovigliata paura delle giungle immense udrà forse taluno di là da ogni voce de’ viventi come segui il torbido fiume delle generazioni a devolversi e penserà che sciabordi contro sue prode le rame e li steli dalle selve divelti; e verdastre, con i quattro piffari all’aria, le carogne pallonate de’ più fetidi e malvagi animali, quali furono in vita e saran pecore, jene, sanguinolenti sciacalli, saltabeccanti scimie, asini con crine de’ lioni e gran baffi: e il branco lurido e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte. (4)

Ed eccoci, dopo le premesse, al punto di questo studio, abbozzo e traccia per indagini da farsi in futuro. Gadda, come s’è visto, porta tanto al buon Dio che alla Madonna il suo blasfemo rispetto. Il che vuol dire, ed è un fatto in sé già straordinario, che la sua storia naturale è un tripudio delle esatte forme del mondo nel momento stesso in cui se ne denuncia l’illusorietà, l’inganno, la deformabilità. Non diversamente, la sua tavola è celebrazione dell’esatta curva dei cibi e dei bicchieri pur materiandosi da una fame insaziabile e violenta (vi accenna, tra gli altri, Biasin nei Sapori della modernità sulla scia delle analisi della fame di Piero Camporesi). (5) Limitatamente al nostro argomento e per preparare quell’incontro di storia naturale ed alimentare che è in programma, si osserva innanzitutto che nell’intera opera di Gadda, escluse le favole (cito da Benedetti, la quale sua volta cita da un Bestiario gaddiano di una sua allieva, mai pubblicato), si computano 177 tipi di animali, cane in testa (192 volte), seguito a poche cifre di distanza dal cavallo (182 volte) e dal maiale (77 volte), fedeli ed utili quadrupedi, questi ultimi, separati nelle statistiche dall’insidia maculata del serpente (139 volte) (Benedetti 1995: 73).

Per il momento mi fermo a questi dati, arrotondandoli con idee e suggerimenti tratti dagli studi di Raimondi e ancor più di Lipparini sui cavalli dell’ingegnere. (6) I quali cavalli, senza nessun sottointeso swiftiano, fanno qui da portavoce dei quadrupedi tutti, regno o porzione di regno animale chiaramente prediletto dallo scrittore per la facilità anche numerica dello scambio con l’uomo, a sua volta animale da lavoro, da guardia, domestico, da compagnia, e da tavola, come si vedrà, nei riti violenti con cui la psiche incorpora il nemico-modello. (7) Sulla logica numerica che permette di dare all’uomo dell’asino, del cane, del maiale o del cavallo, gioca ad esempio il Primo libro delle Favole sfruttando e non chiarendo i molti sottointesi familiari (la geometria degli affetti, il rettangolo formato dalle funzioni parentali-filiali della famiglia ideale su cui dovrebbe costituirsi la città ideale):

Il vecchio asino paterfamilias improverava al figliolo scapestrato i disdicevoli diportamenti e proponevagli in esempio la tavola di cucina: «Un quadrupede a modo: e veramente fedele al nostro santo numero, ch’è il quattro: o tristanzuolo!» (SGF II 19)

Come l’uomo, il cavallo per Gadda è innanzitutto Motore, non solo nella proto-industria (penso a quella splendida summa della spazialià del lavoro lombardo che è il racconto del ’41 Dalle specchiere dei laghi), ma anche in piena e motorizzata meccanica del Novecento (a certe forre della guerra in montagna ancora oggi solo gli uomini-mulo potrebbero arrivare) – Motore certamente scandaloso, ossia sistema dei sistemi di funzioni corporali, che in questo caso, il caso un po’ speciale del cavallo, escono dalla penna gaddiana con tocco tanto più nobile e poetico quanto più sono concrete, fisiche:

ecco ecco adergeva la sua coda-frusta piena di maestà e di vigore, terror dei tafàni. Ecco, ecco: il rosone d’una cattedrale gotica estrudeva dovizie fumiganti. (8)

Animale che non parla se non per battere il tempo del dolore, come già s’è detto, il cavallo è corpo, materia, storia naturale a tal punto da invadere il campo figurativo delle vicende dello spirito. E difatti, domina la conversione caravaggesca di San Paolo a Santa Maria del Popolo – Gadda, che legge il quadro in odor di popolo negli anni ’50, non manca di notarlo e farlo notare:

Paolo atterrato dalla folgore: raccorciato, nanificato a terra dalle leggi inesorabili della prospettiva. Tutto il quadro occupato dalla Bestia. (Il pasticciaccio, SGF I 510)

Perché alla bestia, lui che così spesso s’è definito tale in termini generici ( imbestiato, animalato, dalla rabbia, da una «turpitudine pazza» per il male che si vede crescere nella mente, Gadda si fa filosofo arrivando quindi ad osservare, in Meditazione, nel finale, ma non solo lì, la bestia umana che dorme «nelli anditi neri», dinanzi alle «porte paurose» per le quali dovrebbe passare la ragione) – alla bestia davvero particolare che è il cavallo Gadda si sente vicino tanto nell’aneddotico (la forma breve, il racconto in due colonne, lo vede «cavallo» insoddisfatto, anzi incapacitato, di fronte al «bicchierino da liquore» in cui dovrebbe «far pipì») che nell’araldica degli archetipi, caso, quest’ultimo, magistralmente esemplificato dal San Giorgio di Cosmè Tura in una nota longhiana dell’Adalgisa. (9)

Di quella nota, ben commentata dai critici, qui basterà ricordare che San Giorgio (altrove impegnato, dal vantaggio dell’armatura, in una lotta simbolica con i santi ascetici e vestiti di sacco, San Luigi Gonzaga e San Francesco d’Assisi) in questa occasione difende non solo la donzella ma anche il cavallo: il quale, per quanto corpo e materia, imbizzisce di fronte al corpo e materia del Drago, organizzazione avvertita forse come troppo orizzontale, oltre che impudica, dalla conquistata verticalità – lo stacco da terra – di cui gode la natura equina:

Annitrendo con la rabbia d’un inferocito gatto s’impenna, ed acùmina più che corni gli orecchi, il cavallo: raspando l’aere, con zoccoli, sopra al reluttare del dragone resupino: il qual mostro ha spalancate le fauci: di che lingueggia, come lista di fiamma, la sua lingua ontosamente impudica. Ma il Cavaliere glie l’ha drizzato per entro caverna, il buon colpo, e trafitto della su’ lancia il palato, e dritto dritto quegli indimoniati bulbi, e cervella. (10)

Questo, dunque, il cavallo di Gadda in breve, classico e dechirichiano ad un tempo, cinematografico eppure fisso, immortalato nel torneo delle forze del bene e del male che s’agitano e s’acquetano nella prosa debordante ma anche classica e rotonda dello scrittore. Grazie ai servigi del cavallo possiamo considerare per il momento sistemata quella parte di regno animale che parla più direttamente ed estesamente dell’uomo. Altri organismi, e li si cita in elenco ragionato ma non esaustivo, fanno da figure testuali puntiformi, da motivi astratti, melodici, ritornanti, variazioni espressive su un tema definito, invariato.

è il caso delle cicale (nel basso continuo della materia di parte prima di Cognizione), delle formiche («minime briciole del moto e dell’essere», «prurito interminabile» per le piastrelle della terrazza del romanzo), del tarlo (correlativo oggettivo della segretezza dell’anima, l’insetto scava e forse unico raggiungerà il cuore del «secrétaire di noce» che nemmeno la madre riesce più a disserrare per quanto contenga gli ultimi ricordi, «i gemelli di madreperla.... forse, anche le due lettere.... le ultime!» del figlio, quello dei due che le è tragicamente mancato), delle mosche (queste volano e precipitano, quanto significativamente visto l’incidente aereo del figlio, tra i temi della Cognizione, tracciando orbite perfettamente ellittiche se lillipuziane, disegnando nel chiuso della casa, della villa, il modello dei sistemi solari del dolore), dello scorpione («arma senza prodezza», annuncio di una violenza che si prepara a colpire e in cui non è dato leggere o comprendere, o che invece è sin troppo comprensibile e quindi deve chiudersi in se stessa, nella lorica di un motivo-comparsa che figura solo nel capitolo dell’uragano, il quinto tratto di Cognizione). (11)

Salto, a malincuore, altri simboli-segni (la libellula, il gatto, le galline, il merlo e le merule, la rana e il mondo gracidante, il pesce – motivi confermati e stabili del cast del fenomenico) per tornare ad osservare che «il bello della bestia» in Gadda sta non nelle «esitazioni del fantastico» ma nella viva e vivente, per quanto emblematica, forma delle forme di animali tutti veri e reali. Il bestiario di uno scrittore poco immaginifico quale è Gadda finisce cioè col risparmiare all’animale fantastico che non nasce, non si dà, quella morte da fantasia che è l’esistenza riservata dall’immaginario alle sue più ardite creazioni. Dicendo questo, penso in particolare alla definizione di «animale da loculo» che Stefano Lanuzza ha dato della zoologia borgesiana. «Poco importa», scrive Lanuzza nel Bestiario del nihilismo, «che questi animali siano definiti fantastici: anche l’orrore, nella sua miseria, si circonda di lussuose fantasie. L’animale fantastico è, in Borges, l’animale morto o imbalsamato, arreso alle manipolazioni dello scriba-demiurgo che di volta in volta, al fine di annichilirlo come individuo, lo attrezzerà per mutarlo in bizzarria o improbabilità animalistica, in idra, unicorno, eclettico mostro: come fa l’imbalsamatore ciarlatano che fabbrica basilischi con pelle essicata e ossa di razze». (12)

Gadda, paradossalmente, è negazione della parvenza, negazione della vita che gli si è negata: messaggio pure questo pochissimo appetibile, e il cui climax, in Cognizione, viene toccato tra il capitolo sesto, la cena in villa di Gonzalo (col suo ribattuto tutti tutti), e il successivo attacco «Nessuno conobbe il pallore lento della negazione» (viene cioè raggiunto nel contrasto tra i tutti, gli «attavolati» inclusi, e l’escluso, colui che è stato negato). Ciononostante, dal suo catulliano «Et quod vides perisse, perditum putes» Gadda non fa che celebrare l’immagine degli aspetti del mondo – immagine ben conosciuta e riconoscibile pur nell’impermanenza e ripetitibilità (se per caso lascia fuggire una forma estinta dal suo personale museo di storia naturale, lo fa per sillabare il memento mori da cui le forme e le significazioni della selezione darwiniana rinascono uguali):

Il dinosauro, fuggito dal Museo, incontrò la lucertola che ancora non vi abitava. Disse: «Oggi a me, domani a te». (13)

Detto questo e per concludere. In Gadda la negazione del fenomenico in quanto parvenza è anche e soprattutto autofagocitante – argomento grosso, questo, e di cui qui mi limiterò a dire, prendendo in prestito e come rovesciando l’idea (di Lanuzza, il quale a sua volta si ispira a Lévi-Strauss) che l’animale è, sì, per lo più buono da mangiare, simbolo tangibile della viva edibilità del mondo, ma poi a volte, proprio perché mangiato, è cattivo, anzi pessimo da pensare. (14) Ho in mente il pasto orroroso, e forse anche fiero pasto sui congiunti, favoleggiato dalla comunità all’indirizzo di Gonzalo, il protagonista ipocondriaco ed avido di cibo, di animali, di aspetti del reale, di Cognizione:

Nel 1928 si era detto dalla gente, e i signori di Pastrufazio per primi, che egli fosse stato per morire, a Babylon, in seguito all’ingestione d’un riccio, altri sostenevano un granchio, una specie di scorpione marino ma di colore, anziché nero, scarlatto, e con quattro baffi, scarlatti pure essi, e lunghissimi, come quattro spilloni da signora, due per parte, oltre alle mandibole, in forma di zanche, e assai pericolose loro pure; qualcuno favoleggiava addirittura di un pesce-spada o pesce spilla; eh, già! piccolo, appena nato; ch’egli avrebbe deglutito intero (bollitolo appena quanto quanto, ma altri dicevano crudo), dalla parte della testa, ossia della spada: o spilla. Che la cosa poi gli scodinzolò a lungo fuor dalla bocca, come una seconda lingua che non riuscisse più a ritirare, che quasi quasi lo soffocava. (RR I 600-01)

A nessun commentatore è sfuggita la valenza antropofagica del passo, che così continua: (15)

Le persone colte si rifiutarono di prestar fede a simili barocche fandonie: escluso senz’altro sia l’ittide che l’echinoderma, ritennero di dover identificare l’orroroso crostaceo in una aragosta del Fuerte del Rey, stazione atlantica assai nota in tutto il paese per l’allevamento appunto delle aragoste. Por suerte qualche notizia della sistematica d’Aristotele era loro arrivata ad orecchio. La quasi ferale aragosta raggiungeva le dimensioni di un neonato umano: ed egli, con lo schiaccianoci, ed appoggiando forte, più forte!, i due gomiti sulla tavola, ne aveva ferocemente stritolato le branche, color corallo com’erano, e toltone fuora il meglio, con occhi straslucidi dalla concupiscenza, e poi di più in più sempre più strabici in dentro, inquantoché puntati sulla preda, a cui accostava, papillando bramosamente dalle narici, la ventosa oscena di quella bocca!, viscere immondo che aveva anticipatamente estroflesso a properare incontro l’agognata voluttà. Un animale compagno, a Babylon, stando alla leggenda, non lo avevano ancora veduto.

L’animale, in effetti, non ha compagno nell’opera di Gadda. Il gesto di Gonzalo, favoleggiato, ingigantito, entrato nel mito e nell’epos locale e quindi anche svuotato, ridotto a discorsività, pasto di parole per inflazione della parola, assomma e chiama a sé assai poco evangelicamente i registri ed i simboli con cui la psiche, dalla sua cucina, fa violenza alle creature per vendicarsi del Creatore. Quello che qui importa notare che è nel rito dell’incorporazione (argomento pseudo-saggistico in Eros e Priapo) chi finisce di fare da pasto non è l’animale anziano del branco, il padre di cui l’orda primitiva dei figli va infine a caccia per ottenerne, nell’assunzione del corpo e del sangue, la virtù guerriera – ma il neonato-spilla, la creatura innocente e però munita di spada, che la lorica prima nera poi scarlatta e infine spezzata non riesce a velare, a dissimulare al dolore più inconfessabile e profondo e tuttavia ampiamente confessato di Cognizione: la fallita assunzione di un modello di soggettività che funziona, che funzionava perfettamente, dal fratello minore (e dunque visto neonato?) – Enrico Gadda, scomparso tragicamente il 23 aprile del ’18, il giorno di San Giorgio. (16)

University of Edinburgh

Note

1. SGF I 243. Il passo ha suggerito a Roscioni l’incipit del capitolo Singula enumerare (Roscioni 1995a: 24-25): il punto di partenza in Gadda è «descrittivo e naturalistico (nell’accezione positivistica come nell’ordine del naturale seicentesco: lo stesso Gadda si richiama a Caravaggio e ai “Fiamminghi della descrizione, del catalogo”), quello d’arrivo, grottesco e anfibologico». Sul Gadda favolista e/o scrittore di animali, molto diversi e variamente motivati gli interventi – si vedano, tra gli altri, Bajoni 1999a: 87-104; Altano 1989: 85-92; Vela 1987: 157-68; Grossvogel 1980: 142-45; Pasolini 1963: 61-67.

2. «In [Amleto] non si contorce il dubbio, chi mai ha inventato questa scemenza? […] Il dubbio, semmai, non è altro che lo scrupolo procedurale […]. Amleto, prima di agire, angosciato di dover agire, vuole ottenere la prova di ciò che ha oscuramente intuito dai fatti» («Amleto» al Teatro Valle, SGF I 539-40). Non diversamente, in un’intervista del ’69: «Amleto non è in preda al dubbio. Amleto è una creatura di una logicità superiore e di una moralità superiore» (Gadda 1993c: 166).

3. P. Citati, Non si perdona nulla, in Il Giorno, 3 aprile 1963 (cit. in Roscioni 1995a: 139). La qualifica di ingiusto è caduta nel Male invisibile (Citati 1972: 297).

4. RR II 469. Sulla «sinistra arca di Noè» trasportata dal fiume delle generazioni nel proemio di Meccanica si veda Di Meo 1995: 23-56 (24-25).

5. Biasin 1991: 133-34. L’immagine dell’esattezza delle curve è stata suggerita dall’Apologia manzoniana («Solo un occhio lungamente esercitato può ridisegnare la curva dei ricchi vassoi, o dei boccali d’argento liscio», SGF I 591).

6. Raimondi 1995: 87-109; Lipparini 1994: 127-40.

7. Per un mini-bestiario gaddiano, che include, tra gli altri, l’animale da guerra che è l’uomo-mulo, si veda Pedullà 1997a: 44-49.

8. SGF I 298. Sul cavallo come il «Signor Motore» dell’industria serica si veda la pagina conclusiva di Dalle specchiere (SGF I 302): «Ignoravo l’enunciato fondamentale della meccanica moderna: ma già allora capivo di mia riflessione che quelle fumanti polpette erano “l’equivalente del Lavoro”».

9. Citazioni rispettivamente da Cognizione (RR I 686), Meditazione (SVP 849) e Gadda 1988b: 49.

10. Adalgisa, RR I 504. Sulla lotta simbolica tra santi si vedano il racconto del ’31 San Giorgio in casa Brocchi (RR II 653-55), il commento a Tecchi in una lettera dello stesso anno («vi è una lotta simbolica fra S. Giorgio, il Santo cavalleresco e… femminista, contro S. Luigi Gonzaga, il Santo ascetico e rinunciatario», Gadda 1984b: 92) e Pedriali 1997: 143-47. Sui corpi, orizzontali e verticali, di Gadda si tenga presente la lettura deleuziana di Dombroski 1999: 43-73.

11. Citazioni da Cognizione – RR I 648 («briciole»), 731 («prurito», «carovane pazienti»; «carovane eroiche» a p. 735), 683 (tarlo e il secrétaire; il tarlo fa la sua entrata a p. 620), 675 (scorpione). Sull’unisono assordante delle cicale si vedano: RR I 612-13, 621 («infinita crepidine»), 622 («popolo dell’immenso di fuori»), 625 («stridere delle bestie di luce»); Luperini 1990: 259-78; Bologna 1998: 400-05. Sulle orbite tracciate dalle mosche, RR I 684, 724 – per l’orbita planetaria come «ellisse del nostro disperato dolore», v. p. 674. Per un interessante collegamento con le mosche di Sartre nella riscrittura delle Coefere di Eschilo, si veda Leucadi 2000: 148-50.

12. S. Lanuzza, Bestiario del nihilismo. Scrittura e animali (Bologna: Book Editore, 1993), 16-17. Sul mancato fantastico del Gadda favolista e scrittore di animali si veda Bajoni 1999a: 87-104 (100). Le espressioni «il bello della bestia» e «esitazioni del fantastico» vengono dal titolo della raccolta di saggi di S. Tomasi, Il bello della bestia. Saggi sulle esitazioni del Fantastico (Ancona: Transeuropa, 1998).

13. Citazioni da Cognizione, RR I 703 – cfr. «tutti, tutti!», 695, 700, 692 (forse in contrasto anche al poco, alla misera cena che è «tutto quello che la madre concedeva», mio corsivo); Gadda 1987a: 520 (il verso di Catullo VIII, 2, è stato espunto insieme ai paragrafi Il senso feroce ed esclusivo della proprietà); SGF II 17.

14. «L’uomo pensa i propri animali»: «buono da mangiare», «buono da pensare» è l’equazione che Lanuzza prende da Lévi-Strauss (Lanuzza 1993: 12).

15. Sul fiero pasto gonzaliano si vedano, tra gli interventi più recenti, Dombroski 1999: 88-89; Sbragia 1996a: 113-17, 181; Lorenzini 1995: 324. Ne registra le dimensioni («aragoste grandi come un neonato umano»), rendendo plurale quello che persino nel mito è stato un pasto unico, Bertoni 2001: 5.

16. Sui riti dell’incorporazione si veda Eros e Priapo, SGF II 330-34, in particolare 334: «L’Io in formazione, l’Io in fase evolutiva, l’Io potentemente centripeto dei 14 anni incorpora in sé il modello, consustanzia il modello: se ne innamora perché lo introita, perché lo sente già Io. Così come nella ritualistica delle religioni positive si può mangiare e inghiottire il Dio adorato, poniamo l’agnello pasquale. Più che di innamoramento, si deve parlare di appropriazione o ingestione o incorporazione del modello: così la serpe sente come Io lo stritolato conìgliolo. Così come l’antropofago divora il vinto arrostito, beve il sangue del vinto per incorporarsene la virtù guerriera, l’aggressione vitale della preda». Sull’altro santo della scrittura gaddiana si vedano Pedriali 1997: 132-58, Pedriali 1999a: 77-86 e Pedriali 2000b.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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framed image: after detail from Piranesi's Piramide di C. Cestio (Vedute di Roma).

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