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La costruzione della cognizione in Gadda
Romano Luperini
1. La cognizione del dolore è opera composita non solo perché plurilinguisticamente e pluristilisticamente mescidata ma anche perché raccoglie in sé, quasi a meglio corredare tale ricchezza, oltre al «racconto» (come lo chiama l’autore nell’epistolario), la prosa, evidentemente concepita come introduttiva, dal titolo L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore, la poesia Autunno e la nota Chiarimenti indispensabili, che sarebbe errato considerare delle semplici appendici e che invece fanno parte integrante a pieno titolo dell’opus. (1) Piuttosto che come romanzo o opera tradizionalmente narrativa, La cognizione del dolore si presenta dunque come un puzzle (anche di generi letterari) in cui una stessa situazione – la villa in campagna, il rapporto con la madre e con la società, il dolore e le sue cause – è considerata da vari punti di vista con un unico scopo: la sua conoscenza o cognizione. Il libro è dunque volutamente composto di pezzi assai diversi e cronologicamente distanti fra loro – una poesia del 1932, un racconto scritto fra il 1938 e il 1941, una introduzione risalente presumibilmente al 1963 – eppure chiamati a far parte di un disegno che è unitario e organico non per la linearità dello sviluppo narrativo (che anzi resta bloccato e incompiuto) ma per l’intenzione che il titolo dell’opera preliminarmente dichiara. E infatti i vari elementi non si dispongono in una successione cronologica, né la suggeriscono, ma si collocano nell’eterno presente della cognizione che li combina fra loro. Si tratta, dunque, di una costruzione, con quanto in questo termine implica di marcatamente intellettuale.
Alla prosa introduttiva è delegata la responsabilità politica – in senso assai lato – dell’opera. Presentandosi in stretta connessione col racconto, essa è deputata a segnare uno scarto fra autore e personaggio e soprattutto fra autore e narratore: mentre nel racconto la voce narrante alterna distacco critico (magari corredato dall’appello ad autorevoli psichiatri maggiormente capaci di descrivere e di capire il male oscuro di Gonzalo) e adesione pietosa e simpatetica al personaggio, nell’introduzione l’autore, esibendosi in prima persona, si schiera a difesa del suo protagonista, contro la «dissocialità altrui» e le «baggianate» dell’«universa realtà» in generale e della «ritualistica borghese» in particolare (RR I764).
Ovviamente questa difesa è resa possibile dalla distanza che la scelta stilistica della prosa introduttiva (arieggiante modelli classici, volutamente ottocenteschi) segna rispetto a quella del racconto. Proprio questa lontananza (che è anche geografica, dato che la narrazione e ambientata in America Latina, e cronologica, come il titolo, con l’accenno al recupero, sottolinea), mentre s’incarica di dissipare ulteriormente qualunque sospetto di identificazione fra autore e personaggio, consente una presa di posizione tanto risoluta e impegnativa sul versante etico-politico. Ne risulta un intreccio assai complesso, che permette di angolare la cognizione da vari punti di vista: quello dell’autore, che chiama in causa il barocco della storia e le convenzioni sociali, quello del narratore, spesso incline a considerarla in chiave psichiatrica, e infine quello di Gonzalo stesso (nonché degli altri personaggi). Più che di opera aperta, sarebbe forse il caso di parlare di un montaggio, di una sorta di meccano che aspirerebbe a risultato finito, a una perfetta chiusura, proprio per poter meglio circoscrivere e includere senza scappatoie l’oggetto della operazione conoscitiva.
2. Per Autunno (RR I 767-69) è il caso di richiamare subito il giudizio di Contini: «Autunno vale come chiave lirica della situazione: confermando fra l’altro la prevalenza di simpatia verso il paese delle vacanze» (Contini 1989: 19). Confesso che non userei né il sostantivo (chiave), né l’aggettivo (lirica): il primo confermerebbe l’aspetto sussidiario della poesia rispetto al racconto (laddove si tratta di elementi paralleli da combinarsi fra loro: nel senso che anche il racconto si pone come chiave di Autunno);il secondo, per quanto implichi una constatazione necessaria, mi pare riduttivo, oltre che coerente con un tentativo di interpretare l’opera come poème en prose, sulla scorta di esempi vociani e solariani che mi lascia fortemente perplesso. Direi piuttosto che la poesia esibisce un’altra ottica, non meno decisiva di quella della prosa introduttiva, mettendo a confronto presente e passato e insidiando, attraverso tale parallelo, la tenue possibilità d’idillio, e dunque d’abbandono lirico, che pure la situazione sembrerebbe offrire. Il confronto fra i due momenti investe non solo i contenuti espliciti ma le soluzioni formali, giacché al trapasso «dalla malinconia alla maccheronea» (Fatto personale… o quasi, SGF I 498) occorrerà riconoscere di nuovo un preciso valore conoscitivo.
L’incipit e l’explicit pertengono al tono lirico. E tuttavia, i versi iniziali non rinviano tanto a un «ultimo traguardo del simbolismo» da avvicinare a esiti dannunziani, come vorrebbe Contini (che infatti cita «ti loderò come si loda il volto | di colei che sul nostro cuor s’inclina | per aver pace di sua felicità lontana», e anche: «e ti dirò per qual segreto | le colline su i limpidi orizzonti | s’incurvino come labbra che un divieto | chiuda»). La «marmorea fronte» (forse eco lontana e comunque parodica di una situazione petrarchesca) (2) è solo un calco di voluta banalità iperletteraria che inaugura la serie ironica che segue, in cui il romantico maniero è ormai «rattoppato»; Dio (o forse, ma con analogo risultato ironico, il Marchese padre – Gorni 1973: 312) diventa il «vecchio Architetto» e il feudo non fruttifica che una «susina | bisestile» (per giunta, in umoristico enjambement).
Niente di simile ci sarebbe da attendersi, come è ovvio, da D’Annunzio. Resta anzi da osservare che qui, come anche nel racconto, quanto più è insistita e ostentata nel gioco allitterativo e paronomastico la funzione poetica della lingua, tanto più forte, poi, è lo stravolgimento ironico, il tonfo del sublime nel comico. Il pensiero desolato che accarezza la marmorea fronte fa rima con rattoppato attribuito al maniero provocandone l’immediata sconsacrazione; e più avanti un altro enjambement, sottolineato da un’assonanza (assale : audace) e per giunta da un’iperbole, risprofonda l’evocata audacia romantica del gesto nella mediocrità dell’idillio quotidiano: «Il pensieroso elettrotecnico assale | audace la scatola di sardine-anteguerra».
Il tema lirico è tutto nella tristezza della stagione che precipita (l’autunno del titolo) e in un sentimento di morte. Il motivo del transito, di qualcosa che è scomparso o sta scomparendo, di un passato che non è più, è subito ripreso dalla «nenia» del campanile che, per quanto suonata da giovani reduci per la festa del villaggio sul tema «congedo e ritrovamento della ragazza», è avvertita dal «congedato in arrivo» come «cantilena funeraria» o come «campana a morto». Il dubbio che la «morosa» sia già in «terra santa» toglie ogni allegria al ritorno, a causa anche dell’associazione fra il tema nevrotico delle campane cardinale nel racconto – è quello della donna che aspetta o dovrebbe aspettare e che forse è già morta (come si premura d’informare la nota Chiarimenti indispensabili, RR I 771-72); cosicché nel congedato che ritorna non è difficile riconoscere una nota autobiografica e magari il profilo stesso di Gonzalo.
D’altronde la maccheronea che segue non lascia dubbi. Il lirismo è subito contraddetto. Il mondo dei valori è tutto trascorso, e le sue immagini-chiave, ricorrenti nell’opera gaddiana, vale a dire il maniero e la torre, possono ricomparire al presente solo in forme grottesche e parodiche. Il ritmo di favola palazzeschiana, con cui sono evocate la cavalcata del marchese e la sua caccia ovviamente infruttuosa (al posto della volpe nella tana c’è un animale assai meno nobile, un ghiro), non lascia spazio ad alcuna illusione, neppure nostalgica. L’ironia si raddoppia: se la nobiltà passata non può essere rimpianta senza straniante distacco, l’accostamento alla normalità borghese che l’ha sostituita è ancor più sarcasticamente distanziante: «gusci d’ovo, carte gorgonzoloidi spande, | ha bell’e imbrattato – il demanio feudale!».
Il paesaggio di Autunno sembra porsi non tanto come situazione lirica legata all’evocazione del paese delle vacanze, quanto come luogo di una cognizione, cosicché verrebbe voglia di rovesciare l’assunto di Contini, quando questi crocianamente dichiara che «il lume da chiedergli [a Gadda] è di poesia, non d’intelletto», e di sottolineare il carattere proprio intellettuale dell’operazione.
3. Autunno uscì su Solaria nel marzo 1932. Di pochi mesi dopo, e precisamente del 9 agosto dello stesso anno, è la nota critica Poesia di Montale, comparsa su L’Ambrosiano (SGF I 765-71). È una recensione alla terza edizione degli Ossi di seppia (del 1931) e alla plaquette del 1932 La casa dei doganieri e altri versi. Vi troviamo affermazioni come queste: «La Liguria terrestre ed equorea è lo spunto da cui muove la poesia di Montale: e diviene simbolo nell’attuazione della conoscenza e nella consumazione del dolore» (766). O anche: «Questo “sopravvivere” montaliano, oltre che nel dominio degli affetti, cioè degli impulsi, si manifesta, e per tutt’altro modo, nell’organizzazione della conoscenza […]». E infine: «Il dramma si era espresso fin qui negli aspetti della natura: ora si esprime per l’intermedio de’ sottofondi logici in cui si organizza la nostra conoscenza». Il paesaggio dunque diventerebbe simbolo «nell’attuazione della conoscenza e nella consumazione del dolore» (ove sembra già anticipato il titolo del futuro romanzo), strumento dell’«organizzazione della conoscenza», esattamente come accade in Autunno. La casa di Monterosso diviene un doppio di quella della Brianza: la «possibilità commotiva» (come scrive Gadda) si trasforma in possibilità cognitiva e in scoperta delle radici del dolore, attraverso un processo che avviene per via razionale. Il luogo del dolore è anche quello della conoscenza. E infatti il simbolo montaliano, avverte Gadda, «Tolto dal paese o dall’animo, vive d’una intrinseca e profonda logicità» (768).
Questa rivendicazione della logicità – che rinvia all’ambito della costruzione allegorica piuttosto che del simbolo vero e proprio – forse attesta qualcosa di più dell’indubbia originalità di Gadda critico, così chiaramente estraneo, nel pieno degli anni Trenta, alla cultura idealistica allora largamente dominante. Il tema del paese delle vacanze e del ritorno alla casa paterna, che dai vociani ai solariani, da Ragazzo di Jahier e da Il Mio Carso di Slataper a La pietra lunare di Landolfi, attraverso Vittorini e Bilenchi, aveva avuto tanto corso nella narrativa italiana del Novecento, viene sottratto all’ipoteca del moralismo e del frammentismo lirico e a quella dell’aura poetica, per formare i segni essenziali di un alfabeto magico attraverso cui decifrare il presente. Il paese delle vacanze non è lo scenario di un Bildungsroman, il luogo della scoperta della natura o di un apprendistato borghese, la figura etica e/o lirica di una transizione. Ogni storicismo, anche psicologico, viene rifiutato. Veramente, come dice Contini, per Gadda esiste solo il presente (Contini 1989: 20). Ma non è il presente lirico del dolore e della sua contemplazione; è quello della sua conoscenza, di un bilancio del presente attraverso un confronto col passato. E siccome la frattura fra i due mondi è ormai irreparabile e il recupero del passato è possibile solo nel segno di una straniante ironia, la vicenda del personaggio è isolata in un presente che esclude qualsiasi possibilità di continuità e qualsiasi immaginazione di un futuro che non sia il nulla o la morte. La figura della linea o dello sviluppo progressivo è totalmente estranea a Gadda che invece tenta e ritenta quella del cerchio, la circolarità di una spiegazione al presenteche sia onnicomprensiva, chiusa, circoscritta (e che anche per questa ambizione finisce col risultare inconclusa, mostrando la propria impotenza).
L’immagine del ritorno del congedato non fa che enucleare un momento della vicenda circolare, di fuga continua e di continuo ritorno alla madre, su cui è costruito un romanzo tutto giocato – è stato detto giustamente – «su un ritmo di arrivi e di partenze del protagonista» (Rinaldi 1977: 15). è l’eterno presente della coazione a ripetere. Ma il cerchio della nevrosi è iscritto in quello della conoscenza, l’eterno presente del dolore in quello della cognizione. Motivi esistenziali e motivi intellettuali sono uniti in un nodo solo.
4. Anche la situazione lirica si fonda su un perenne presente. Infatti essa presuppone la centralità del soggetto, immobilizzato nell’atto della contemplazione: presuppone, cioè l’atemporalità. (3) Non è così, però, l’eterno presente di Gadda. La cognizione del presente è sempre in lui cognizione di un distacco dal passato, di una lacerazione. L’incanto contemplativo è subito sconvolto dalla rabbia polemica indotta dalla constatazione della sua impossibilità, o irriso nel Kitsch che lo fa risorgere in forme parodiche. Il presente di Gadda nasce dallo strazio di una coupure radicale che ha cancellato la dimensione dello scorrimento lineare del tempo, ma non la memoria del taglio.
Il salto della continuità è anche taglio della tradizione. In Autunno le frequentissime citazioni letterarie – da Petrarca, Parini, Foscolo, Carducci, probabilmente anche Leopardi – sono inesorabilmente parodiche. (4) Nei confronti del passato letterario e in particolare della tradizione lirica Gadda ha lo stesso atteggiamento che nei confronti della caccia del vecchio Marchese: allo straniamento dei contenuti corrisponde quello delle forme. Essendosi rotta la continuità della tradizione, il passato non può aver luogo nel presente se non nella deformazione o nel calco del Kitsch.
D’altronde, vale per l’io lirico quello che vale per la storia: come non si dà più storia, così non si dà più neppure soggettività. La martellante critica gaddiana dell’io, ricorrente anche nelle pagine del romanzo, suona come commiato non solo dall’ideologia dell’individualismo borghese, ma dalla possibilità stessa della liricità. Se è vero, come ha scritto Benveniste, che chi dice io presuppone sempre un tu e che ogni lirica si fonda su tale presunzione comunicativa, Gadda sembra impegnato a dissolvere proprio tale illusione.
Nel racconto la nota lirico-simbolica del paesaggio-stato d’animo, pur presente, viene perlopiù contraddetta al suo proprio interno o interrotta bruscamente sul più bello. In genere gli alberi sono alberi, le cicale sono cicale e il meccanismo della trasposizione simbolica, appena avviato, viene subito inceppato. La realtà si accampa in tutta la sua materialità, e lo scrittore può solo lavorare sui dati oggettivi e sui vocaboli che li esprimono, deformando gli uni e gli altri, senza subordinarli liricamente alla propria soggettività: beninteso, questa non è affatto assente, solo è incapace di imporre alle cose il proprio pathos.
Ecco qualche esempio. «La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava l’immensità chiara dell’estate» (RR I 606). Qui l’inserto assai prosastico e persino umoristico «friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno» abbassa, interrompendola, l’elevatezza tutta poetica dell’allitterazione iniziale («sull’olmo senz’ombre») e vanifica la successiva dilatazione lirica, pur così rilevata dalla sostituzione dell’astratto al concreto e dalla ricercata iterazione della a tonica (per di più esaltata dall’assonanza dilatava : chiara) e del gruppo fonico -ta- (dilatava - immensità - estate). E ancora: «Le cicale, risveglie, screziavano di fragore le inezie verdi sotto le dovizie di luce» (612): ove l’incontrastato dominio della paronomasia sembra obbedire a una sorta di autonomia del significante per lo meno inusitata nella narrativa. La conseguenza è l’assoluta arbitrarietà semantica, vale a dire la messa a nudo della gratuità dell’artificio. Il che equivale a dire che gli artifici sono così ostentati da implicare una autoirrisione. L’eccesso di letterarietà (fra l’altro le ricorrenti immagini delle cicale non celano il calco dannunziano) contiene una critica alla letterarietà, una sorta di permanente autocontestazione.
Un esempio d’intrusione apertamente lirico-patetica è questo: «Lo stridere delle bestie di luce venne sommerso in una propagazione di onde di bronzo: irraggiarono la campagna del sole, il disperato andare delle strade, le grandi foglie verdi, laboratori infiniti della clorofilla: cinquecento lire di onde, di onde! cinquecento, cinquecento!» (RR I 625). I rintocchi sono quelli della campana di Autunno, e lo struggimento di «tristezza» lo stesso, contrassegnato, per di più, da un perfetto endecasillabo – «il disperato andare delle strade» – ove ritorna la ripetizione della dentale associata alla a tonica o alla e. Ma, come nella poesia l’effetto lirico era subito interrotto dalle immagini del maniero rattoppato e della susina bisestile, così qui l’empito riecheggiante l’inno dannunziano («le bestie di luce») è rapidamente ricondotto nei limiti di un plurilinguismo enciclopedico e scientifico (la clorofilla) e abbassato dal riferimento alla ragione economica della nevrosi di Gonzalo (le cinquecento lire).
Talora, la parola lirica, pur mantenendo questa sua valenza, si contraddice da sola: viene smentita, cioè, non dalla sequenza del discorso, come negli esempi precedenti, ma dalla sua stessa plurisignificanza. A tale proposito un caso interessante (anche perché riguarda un episodio su cui sarà opportuno ritornare) va registrato alla fine della narrazione del «sogno spaventoso»: «Le cicale franàrono nella continuità eguale del tempo, dissero la persistenza, andàvano ai confini dell’estate» (RR I 633). Qui franarono assolve a varie funzioni: anzitutto una funzione che possiamo chiamare di primo grado, lirica, in quanto si allude alla frana o dissoluzione del tempo interiore di Gonzalo e al conseguente ritorno al tempo oggettivo della narrazione, vale a dire al momento in cui si svolge la vicenda (ai confini dell’estate, appunto); in secondo luogo, una funzione compositiva, in quanto, in un gioco di rimandi, la narrazione del sogno viene chiusa con lo stesso verbo che era stato usato al suo inizio (al passaggio dello «stupido folletto», il nipote del colonnello, «franavano i sassi della straduccia», facendo tornare alla mente di Gonzalo la madre e l’infanzia), cosicché il testo del sogno (come lo chiamerebbe Freud) è racchiuso fra due frane del tempo, la prima che immerge il personaggio nel ricordo del dolore passato e lo sospinge così alle origini lontane del suo impulso matricida, la seconda che lo riconduce al presente; e infine una funzione di secondo grado, antilirica e intrinsecamente sarcastica, per cui franarono è deformazione di frinirono (impiegato precedentemente, come si è visto), con immediato effetto distraente e desublimante.
5. Data la problematicità del rapporto di Gadda col genere lirico, appare del tutto normale il suo interesse per Montale, per l’appunto il maggiore lirico a lui contemporaneo, la cui poesia d’altronde gli si presenta anche come repertorio di situazioni, non solo linguistiche, da usare e talora pure da rovesciare con la consueta ironia. E a Montale infatti Gadda dedica un secondo articolo, questa volta nel 1943, non molti mesi dopo aver interrotto la pubblicazione della Cognizione su Letteratura. Né ci sarà da stupirsi se, all’inizio di questo scritto, una particolare insistenza è dedicata al paesaggio, anzi, ora, con cambiamento significativo, più specificamente alla «villa sul mare» o «villa paterna di Monterosso».
Un qualche stupore possono invece suscitare il modo con cui è affrontata la questione della liricità montaliana e il ritratto del poeta che ne segue. Montale, dice Gadda, è essenzialmente, come suona già il titolo dell’articolo (Montale, o l’uomo-mùsico, SGF I 881-85) un uomo-musico, che da sempre, per felice virtù naturale (ma, si potrebbe dire, persino, fisica), ha amato il canto. Ebbene, «la transizione dal canto alla lirica si manifesta in lui come un passaggio spontaneo: evoluzione fisiologica, felice ed ingenua metamorfosi della urgenza espressiva» (882). Trovato questo stupefacente lasciapassare fisiologico alla liricità, per di più felice e ingenua, di Montale, Gadda può tranquillamente passare oltre, vale a dire a negarla nel ritratto del poeta, tutto giocato su due temi che ne caratterizzerebbero la personalità: la volontà conoscitiva e la capacità d’irrisione. Ne esce fuori un insolito Montale motteggiatore e disinibito conoscitore e indagatore dei vizi altrui, cui segue questa rapida descrizione: «Deforma il dato reale e positivo in una favola semi-seria, semi-imbronciata, semi-ironica, semi-malinconica, semi non so che cosa, per cui d’un ratto in trappola d’amore è bell’e che nata un’Iliade, di che tutta Italia fa gargarismi. La donna ha in lui il poeta, uno stilnovista “sui generis”» (884). Che è una davvero paradossale interpretazione delle Occasioni: «un ratto in trappola d’amore», che sa di essere un ratto, eppure fa il poeta, anzi addirittura lo stilnovista, e tutta l’Italia che ci crede e «fa gargarismi»…
Il ratto e l’Iliade: irresistibilmente Occasioni sono ridotte a una specie di Batracomiomachia. Questo è l’unico modo con cui Gadda può leggere il tentativo stilnovistico di Montale: un modo che di nuovo lo avvicina alla propria cifra stilistica (sino al punto di attribuire al poeta una capacità di deformazione grottesca del reale che non pare proprio una sua peculiare qualità). Ha appena concesso al genere lirico un incerto lasciapassare per virtù fisiologiche e subito è trascinato a contraddirsi stravolgendolo nel genere eroicomico.
D’altronde è quanto egli stesso non manca di fare con citazioni e prestiti montaliani, a conferma di un interesse per le soluzioni linguistiche degli Ossi e delle Occasioni esplicitamente ammesso alla fine dell’articolo, ove si sottolinea la «specie idiomatica inusitata» della lingua poetica montaliana, «insieme colta e fraterna, fulgida e dolorosamente opaca, personale ed eucaristica» e si conclude poi con queste parole: «Sui momenti idiomatici e sulle scelte del vocabolo in Montale il lungo discorso è ancora al principio». Non mancano infatti nella Cognizione citazioni implicite e prestiti linguistici desunti dai primi due libri montaliani. Certo, non sempre si può avere la sicurezza della provenienza dei prestiti linguistici, data la nota voracità gaddiana in questo campo: ad esempio, rancura, frequente nel romanzo, può darsi che provenga da uno dei testi montaliani più amati da Gadda, Mediterraneo, ma la fonte potrebbe anche essere diversa; e così broli può essere stato attinto anche da Pascoli (più difficilmente da Corazzini); ma già minori dubbi avrei per flabello (che Montale usa in un mottetto) e per il suo derivato flabellanti, anche se il primo termine si trova pure in D’Annunzio e in Cecchi, e per l’espressione «libro d’ore» che compare in una nota della prosa introduttiva e che rinvia probabilmente ai «libri d’ore nei solai» di Notizie dall’Amiata. (5)
D’altra parte non ho notata alcuna coincidenza di vocaboli e di espressioni con La bufera e altro,se non per termini che compaiono anche nei primi due libri montaliani: il che può far pensare, e contrario, che le coincidenze con Ossi di seppia e Occasioni non siano affatto casuali. Si dà il caso, inoltre, che nel romanzo gaddiano ricorrano immagini o metafore del tutto montaliane; oppure che la sicurezza dell’attribuzione sia garantita da una situazione narrativa omologa a quella del testo assunto come fonte. Appartengono al primo tipo immagini come il «corimbo… dell’edera» (RR I 731), che è certamente un calco da Ripenso il tuo sorriso (poesia citata anche nell’articolo del 1943); o come le nubi «carovane» dell’aria, nella stessa pagina, che rinvia a Vasca (e precisamente alla prima redazione di questo testo, rimasta inalterata sino al 1942, quando sarà dimezzata); o come «sdipanando e addipanando un gomitolo» (587), che ci mostra bene come l’autore rielaborava i prestiti linguistici di origine lirica (ma in questo caso pare trattarsi di una vera e propria citazione implicita), consapevolmente stravolgendoli (qui, in senso eroicocomico, dato che l’espressione è usata per il fulmine che colpisce le tre ville vicine a quella di Gonzalo, non senza un raddoppio di ironia, dato che la banderuola della Casa dei doganieri qui è il meno nobile parafulmine, non «abbastanza insigne» per la folgore, annota infatti lo scrittore).
Ad analogo e più potente stravolgimento conduce un vocabolo montaliano impiegato, nel capitolo secondo della seconda parte, in una sequenza narrativa che sembra ricalcata su una omologa di Lindau, ancora nelle Occasioni. Il termine in questione è sarabanda: «La sarabanda famelica vorticava sotto i globi elettrici dondolanti dal pampero, tra miriadi di sifoni di seltz. La luce del mondo capovolto si beveva le sue folle uricemiche…» (RR I 693-94). C’è una luce apocalittica, qui, che rimanda alla situazione poetica montaliana: «Sotto le torce fumicose sbanda | sempre qualche ombra sulle prode vuote. | Nel cerchio della piazza una sarabanda | s’agita al mugghio dei battelli a ruote». E anche in Gadda, nella pagina immediatamente precedente al passo citato, incontriamo il «mugghiare» di una turba di gente «senza più Cristo né il diavolo» e il mare sciabordante che si abbatteva sulle «dementi riviere». Ma le «torce fumicose» sono diventate «globi elettrici dondolanti dal pampero tra miriadi di sifoni di seltz», ove l’iperbole comica e l’ambientazione in uno scenario di moderna quotidianità svolgono la stessa funzione irridente dell’aggettivo famelica qualificante la sarabanda e già introduttivo alla prossima descrizione delle baggianate borghesi nei ristoranti cittadini.
6. Spostiamo per un attimo l’indice della ricerca su un altro quadrante, quello tragico, ritornando a quel «sogno spaventoso», che recentemente è stato sottoposto ad esegesi assai sofisticate. In realtà non credo che il sogno possa sopportare complesse interpretazioni simboliche in chiave freudiana. Esso vuole introdurci nel tragico, non nell’ambito di una problematica psicoanalitica (anche se ovviamente la presuppone).
Il testo del sogno si presenta suddiviso in due sequenze successive, separate da una breve interruzione. Nella prima la casa è vuota per l’avvenuta morte della madre. Non vi si allude cioè, come vorrebbe Dombroski, a un momento del passato, alla casa vuota per la morte del padre e del fratello (Dombroski 1984b: 125-43), ma a uno futuro, successivo alla morte della madre, morte che il sogno mette in scena e, per così dire, progetta. Vi si accenna poi alle more ormai trascorse di una legge, con riferimento o alle norme legali della sepoltura o a quelle del passaggio di proprietà agli eredi. Questa seconda interpretazione appare forse più convincente. Segue infatti un accenno agli «atti» (probabilmente, di nuovo, atti legali) e alle «ricevute» che fanno pensare a pratiche burocratiche (l’ossessione delle quali torna d’altronde puntuale nell’epistolario di quei mesi e soprattutto in Lettere a una gentile signora). (6) Significativamente, poi, la prima sequenza del sogno si conclude con queste parole: «Delle ricevute… che tutto, tutto era mio! mio!… finalmente… come il rimorso» (RR I 633): ove si mescolano la soddisfazione di possedere la casa e di poterne finalmente disporre (si sa dagli appunti di Gadda resi noti da Roscioni che il sogno è autobiografico (Roscioni 1975: 170), mentre è noto che i litigi di Carlo Emilio con la madre riguardavano soprattutto il suo desiderio di vendere la casa, nonostante la opposizione di lei e il rimorso per la realizzazione del desiderio, resa possibile appunto dalla morte della madre.
Nella seconda sequenza, il rimorso s’incarna nell’epifania della madre morta, il cui spettro ritorna minaccioso proprio come quello del padre in Amleto (uno dei modelli tragici della Cognizione). La figura della madre incombe nera e altissima: ovviamente la ingigantisce l’ottica regressiva e infantile, come accade sempre nei sogni dominati dal senso di colpa. La separa dal figlio una «forza orribile e sopraumana», la stessa che ha reso impossibile la manifestazione dell’amore fra loro e che ne ha provocato la morte, quasi come emanazione fatale del desiderio matricida del figlio.
E di nuovo ritorna, a scandire la fine anche di questa sequenza (e dunque, ora, dell’intero sogno) l’immagine degli «atti» e delle «ricevute»: «E io rimanevo solo. Con gli atti… scritture d’ombra… le ricevute… nella casa vuotata delle anime… Ogni mora aveva raggiunto il tempo, il tempo dissolto». Nella frase «E io rimanevo solo» Dombroski vede la coscienza di Gonzalo che «to kill the mother is equivalent to the murdering of self» giacché il ritorno all’isolamento confermerebbe il personaggio nell’accettazione del non-essere e nella conservazione della dipendenza edipica attraverso il ricordo dell’angoscia, per cui gli atti, le scritture e le ricevute sarebbero «the signs of Oedipal dominance». Molto più semplicemente io direi che la frase «E io rimanevo solo» rielabora il lutto attraverso la coscienza della perdita, e gli atti, le scritture e le ricevute non sono che i segni del possesso, ormai divenuti insopportabili in seguito al senso di colpa (d’altronde in coerenza con quell’ambiguità nei confronti della proprietà e del possesso che Roscioni ha mostrato in Gadda in generale e nella Cognizione in particolare – Roscioni 1975: 127-35).
Con ciò mi guardo bene dal negare il dramma edipico che è così scopertamente al centro del sogno e del romanzo. Né tanto meno voglio escludere la possibilità di un’interpretazione simbolica della Cognizione. Il punto è un altro. Gadda ha tenuto indubbiamente presente la tematica psicoanalitica, ma soprattutto – io direi – il famoso rimando di Freud alle tragedie greche, come luogo di disvelamento di una verità inconscia. E infatti il tema di Oreste è percepibile nel romanzo non meno di quello di Amleto o di Coriolano. Insomma, il dramma di Edipo interessa a Gadda scrittore (che sarebbe sbagliato far coincidere del tutto con la sua figura biografica) come fonte del tragico, e non come chiave di lettura simbolica del «male oscuro» di Gonzalo. Ma il tragico non può più essere ripetuto: può essere solo citato (donde le frequenti citazioni da Svetonio o da Shakespeare): appartiene alla grande letteratura della tradizione ormai interrotta, non alla realtà di oggi. Il presente è quello degli atti, delle scritture legali, delle ricevute, della meschinità quotidiana. Il rimorso non può più iscriversi nella tragedia. Esiste in sé e per sé, cupo, immobile, non esorcizzabile, né risarcibile: neppure attraverso i simboli. È totalità deserta di valore, mera datità materiale e oggettiva.
La cognizione non introduce ad alcun viaggio terapeutico o liberatorio, come ha creduto qualche lettore di Gadda. (7) Il romanzo non intende registrare alcun progetto evolutivo. La guarigione o la normalità sono guardate con sospetto anche maggiore della nevrosi: sarebbe una resa all’imbecillaggine sociale. Il dolore non ha alternative. A Gadda non interessa interpretarlo simbolicamente, ma ergerlo ad allegoria del presente e così inserirlo nel cerchio della conoscenza. Un’interpretazione simbolica sarebbe una possibile mediazione, una qualche accettazione delle «sclerotiche figurazioni della dialettica» (RR I 632) o una concessione alla «forza sistematrice del carattere… questa gloriosa lampada a petrolio che ci fuma dentro» e che rimanda a quell’«immagine feticcio di un io che persiste» o di un «io giudicante» contro cui si polemizza in Come lavoro. (8) La circolarità del presente è un tutto chiuso che non consente evasioni e illusioni, né, tanto meno, punti di vista privilegiati da cui giudicare o interpretare. E il presente è Gonzalo, non Oreste: Gonzalo che sogna di uccidere e non uccide, mentre a compiere il delitto è un meschino agente del Nistitúos, assai probabilmente (stando agli appunti di Gadda per il capitolo finale mai scritto) il povero, miserabile Mahagones, alias Palumbo, eroicomico sordo di guerra. La tragedia è costretta a declinare nella cronaca bassa.
Gli spunti tragici conoscono la stessa sorte di quelli lirici, sottoposti – ha scritto Patrizi (9) – a un «volontario disinnescamento dell’élan affettivo». La convenzionalità iperletteraria lascia intravedere una tragedia, ma questa appare condannata a una rappresentazione di secondo grado e dunque a un’irriducibile lontananza. I momenti più tragici sono espressi sempre nel linguaggio più astratto e rituale. Quando Gadda scrive: «Il figlio pareva aver dimenticato al di là d’ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce di ogni guerra: e d’ogni spaventosa morte» (RR I 692), la cerimonialità della forma non obbedisce solo (come è stato scritto più volte) alle esigenze di un esorcismo psicologico volto a sublimare le verità inconsce dell’io; è anche presa d’atto di una distanza incommensurabile dal tempo della tragedia. Le parole tragiche ci sono, ma spogliate di ogni concretezza: ridotte a recitazione, a monologo astratto risuonante nel vuoto e appena trattenuto dal precipitare nel falsetto. I sostantivi sono strazio, rancore, guerra, morte e gli aggettivi incenerita, tetra, irreparabile, atroce, spaventosa; eppure non producono un climax drammatico. Il loro cumulo non fa che sottolineare l’astrattezza della ritualità letteraria, l’assenza della funzione conativa e dunque la mancanza di un concreto destinatario.
L’unico momento in cui la verità si palesa è nel sogno, quando il tempo è interrotto, e il presente eluso. Solo in sogno Gonzalo diventa Oreste. La doppia frana del tempo, che apre e chiude la narrazione del sogno, ne isola il momento tragico di verità: dopo di esso, ritorna la «continuità eguale del tempo», la persistenza, la circolarità della tautologia, delle parvenze e della coazione a ripetere, l’immobilità di un presente che ignora il cambiamento, il trapasso e dunque la tragicità.
7. L’immagine montaliana dei «cocci di bottiglia» sul muro ricorre ben tre volte nel romanzo, e sempre in contesti che abbassano ironicamente sì titolata espressione. Mentre però il soggetto di Montale ricerca un varco che lo conduca al di là della muraglia, Gonzalo è perseguitato dall’idea ossessiva del muro scavalcato verso l’interno, della proprietà violata o della casa profanata. Ma forse la differenza più significativa è ancora un’altra: per Montale il muro è un simbolo esistenziale e culturale, per Gadda è solo il segno concreto, anche se purtroppo precario, del confine di una proprietà. D’altronde in Gadda l’astrattezza del linguaggio si accompagna sempre a una concretezza persino realistica dei referenti materiali, colti in una loro magmatica corposità che esclude l’allusività del simbolo. I cocci di bottiglia non dividono da alcun eventuale miracolo, ma dovrebbero assolvere alla funzione effettiva per cui sono collocati sui muri: quella di difendere l’inviolabilità della casa.
Nel romanzo, e particolarmente (anche se non soltanto) nel penultimo capitolo, il tema della casa si lega strettamente a quello della riflessione di Gonzalo sul proprio destino di scrittore. Di nuovo motivi esistenziali, intellettuali e sociali si intrecciano profondamente. La casa non è solo simbolo regressivo della madre, come dice Roscioni, o sublimazione razionalizzante contro gli impulsi sadico-anali, come preferisce Gioanola (Gioanola 1987: 195): è per eccellenza il luogo di una possibile anche se mai raggiunta interiorità, di un raccoglimento ancora umanistico volto alla difesa dal mondo esterno, un’immagine della solariana cittadella delle lettere. Il silenzio e la solitudine dovrebbero tutelare dalle parvenze borghesi, in un sogno di totale autonomia dalle contingenze del tempo e di rapporto con l’assoluto: «Assediato dai clamori della radio, Gonzalo avrebbe voluto una investitura da Dio, non a gestire la Néa Keltiké per gli stipendi di Don Felipe el Rey Catòlico, bensì a scrivere una postilla al Timeo, nel silenzio, per gli stipendi di nessuno» (RR I 607). Quando, dopo il delitto, la folla degli intrusi penetra dentro lo studio del protagonista, s’imbatte qui in due immagini da lui poste quasi a tutela della propria identità culturale: la fotografia del fratello morto, che unisce in sé ogni valore possibile, e un libro aperto sul tavolo, in cui si possono leggere queste parole: «Ma le leggi della perfetta città devono…» (750). La morte e l’utopia, il passato e il sogno del futuro sono dunque la stessa cosa.
Qui il rapporto col Montale delle Occasioni (libro quasi contemporaneo alla Cognizione) potrebbe sembrare davvero stringente. A differenza degli Ossi, libro en plein air, nelle Occasioni la tensione non è collocata verso un fuori, ma verso un dentro. Una immagine d’interiorità domestica, affidata al simbolo della casa, apre e chiude il libro, da Vecchi versi a Notizie dall’Amiata,e un posto eminente è poi concesso a un testo dal titolo di per sé significativo: La casa dei doganieri. Anche in Montale, insomma, è cardinale l’opposizione interno-esterno (tanto che non è mancato chi ha tentato di scorgervi la struttura compositiva delle Occasioni).(10) La metafora gaddiana del pensiero che si erge contro le parvenze («Chiuse torri si levano contro il vento», RR I 703) ritorna anche in Montale, così come il contrasto mura-vento, casa-tempesta (su cui Gadda costruisce tutto il quinto capitolo, non senza l’eco shakespeariana di King Lear). Infine anche per Montale il cuore della interiorità domestica è il luogo in cui si scrive o in cui si compie un’attività intellettuale, sia esso il tavolo e la stanza-cellula di miele di Notizie dall’Amiata («e ti scrivo da qui, da questo | tavolo remoto […]»), o l’altro tavolo con sopra «pochi fogli» del componimento posto a chiusura dei Mottetti, o, in Nuove stanze,la camera del gioco degli scacchi (una metafora dell’intelligenza, del gioco intellettuale) e del sortilegio che, anche qui, libra nell’aria «torri» e «ponti» di una città ideale da opporre all’«altro stormo» che incombe da fuori.
Dietro la Cognizione, insomma, è possibile vedere un momento preciso della storia degli intellettuali negli anni Trenta. La casa-utopia, la casa del silenzio e della solitudine, e la «casa dei morti», come si legge verso la fine del romanzo (RR I 745). È la dimora in cui il figlio e la madre, protetti dall’esterno, dovrebbero «resistere» e «attendere»: resistere al mondo circostante e attendere il ritorno del fratello morto. Il contrasto di Gonzalo con la madre è opposizione alle parvenze che inducono a reintegrare l’io nelle forme stolte del narcisismo borghese: contro di lei, che tiene la casa aperta per legare a sé vicini e contadini attraverso il vincolo erotico della gratitudine e del decoro, il figlio invoca il Logos, che sbarra le porte alle convenzioni e vive in stretta contiguità con l’assoluto. Ma scegliere il Logos significa scegliere la morte, sia in termini psicologici (è la repressione del desiderio, la vittoria piena della sublimazione razionale), sia soprattutto in termini sociali: alla fine, negare le parvenze significa «negare se medesimo» (703). Solo accettando il presente e le sue ideologie, che negano allo scrittore una funzione e lo considerano «un ritardo dello sviluppo», l’intellettuale potrebbe «stabilire una relazione fra se e i suoi concittadini» (735). Ma Gonzalo rifiuta di considerarsi un «dissociato noètico», neppure per un attimo accetta il punto di vista della società. Respingere la propria immagine pubblica e le altre parvenze, rivendicare a sé «la facoltà santa del giudizio» equivale però a «lacerare la possibilità» (703). La prosa introduttiva del 1963 fornisce la prospettiva politica dell’opera: occorre sfidare la «dissocialità altrui», l’«imbecillaggine» del mondo (764) . Ma Gonzalo sa bene che ciò significa lacerare il foglio stesso della vita, approdare al nulla. L’utopia non è che un sogno di morte. L’eterno presente non ha alternative: può essere rovesciato solo in un delirio nichilistico.
E nel presente il muro sarà sempre scavalcato, la casa sempre violata, l’assedio delle circostanze storiche sempre vincente. Resistere non è possibile. Nella casa di Gadda-Gonzalo nessuna Clizia compare ad agitare miracolosi incensi, nessun valore è ipotizzato o tanto meno ipostatizzato alla sua salvaguardia. Per Gadda la letteratura è il regno del passato, non un’alternativa possibile come per Montale. Il colloquio con Shakespeare, con Svetonio, con Manzoni è un colloquio coi morti. Nessuna ideologia del dilettantismo intellettuale o di superiore dandismo umanistico soccorre Gadda, mentre in essa Montale poteva trovare ancora l’illusione di una funzione sociale. Rifiutando ogni mediazione, Gadda punta davvero a un «pessimismo eversivo» (Roscioni 1975: 140).
Come in Autunno, anche qui il passato non può tornare se non sconsacrato. Ma la parodia che ne distrugge l’attualità lascia deserta e indifesa la casa. A veder bene, la cittadella assediata è vuota: la riempiono solo il sogno, consapevolmente irrealizzabile, del passato e l’attesa della morte o del nulla. L’ideale è vuoto, il sublime ha lasciato deserte le scene, e ne resta solo la maschera paradossale. A differenza degli altri cittadini della solariana repubblica delle lettere, per Gadda la poesia non è un sopramondo ancora abitabile. Quando egli deve immaginare per sé una casa perfetta – e scrive allora, nello stesso periodo di Autunno, la novella intitolata appunto La casa – questa sarà costruita non in funzione dello studio o del tavolo da lavoro, ma del cesso. Le immagini del silenzio o della solitudine sono di nuovo invocate, ma il luogo del raccoglimento e della fantasia sarà un cesso ampio, dotato di un «trono superbo» e «provveduto di doppie porte»: «potrò fantasticare sul trono: in casa mia prende dimora il silenzio». Il sacro detronizzato può aspirare solo a questo tipo di trono. Evidentemente siamo più vicini alla casina di cristallo di Palazzeschi che non all’interno discretamente soffuso d’incensi di Nuove stanze.
8. Scrivendo su Amleto, indubbiamente referente fondamentale della idea gaddiana di tragico, nonché testo tutelare della Cognizione, egli dirà: «il teatro, e l’opera d’arte in generale, può essere e perciò deve essere l’indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità» («Amleto» al Teatro Valle, SGF I 541). La matrice ottocentesca di questa affermazione è confermata dall’imperativo categorico: deve essere. Il tema della madre «che ha paura del figlio» e di Amleto che vuole «cimentarsi con l’assoluto» ritorna nel rapporto fra Gonzalo e la madre e nel suo tentativo di rifiutare le parvenze e di ricevere, in quanto scrittore, la propria investitura solo da Dio.
Ma il dover essere non si traduce in essere, esattamente come il modello ottocentesco e persino manzoniano di narrazione romanzesca, così vistosamente perseguito nel capitolo iniziale della Cognizione, resta ben presto deluso: la struttura lineare ed evolutiva del romanzo tradizionale si attorciglia in una spirale che non consente conclusioni e che condanna all’incompiutezza. E tuttavia l’incompiutezza è ormai la stessa cosa della finitezza: il romanzo aperto è il romanzo del cerchio chiuso che si ripete. Lo scioglimento finale non è possibile, perché nel presente non si danno scioglimenti ma solo ripetizioni coatte. L’assenza di soluzione non è che l’estremo sigillo conoscitivo impresso al presente, la sua chiusura nel cerchio immobile della conoscenza. Come tutti i grandi scrittori, Gadda conosce la realtà scrivendo; e la forma del contenuto è un modo specifico di conoscenza di un mondo che esclude ormai qualsiasi possibilità di esito.
Ma nessun esito vuol dire nessuna verità. L’auspicata grandezza della letteratura, indefettibile strumento del vero, si rovescia nella realtà della sua miseria. Nel ritratto che Gadda gli ha dedicato, Montale può sì shakespearizzare, ma solo a tavola, o al caffè, «quando uno o una gli urta i nervi»: «La sua icastica abituale si alluzza allora in una epifania di trovate, a base di senape e di pepe di Cajenna. Il malumore lo shakespearizza» (Montale, o l’uomo-mùsico, SGF I 884). Di nuovo il modello tragico shakespeariano può riemergere solo sotto la maschera del grottesco: le epifanie del poeta delle Occasioni non inducono Gadda a pensare alla luce di verità di un visiting angel, ma alla senape e al pepe di Cajenna.
Il fatto è che, gettato giù dal piedistallo l’io giudicante, il soggetto portatore di verità appare ormai destituito di qualsiasi autorità. È vero, sì, che l’autore non rinuncia a esporre il proprio punto di vista e non delega a nessuno il proprio giudizio, neppure a Gonzalo; ma è vero anche che è pienamente cosciente della sua assoluta vanità.
Fa parte della cognizione del dolore – e anzi contribuisce in modo potente ad accrescerne l’amarezza – questa consapevolezza della fine di ogni mandato sociale e morale, questa dolorosissima e mai del tutto rassegnata rinuncia a fare dell’arte lo «strumento per la scoperta e la enunciazione della verità». La cognizione dell’inutilità della letteratura è per Gadda la soglia della vanitas vanitatum che egli è costretto a varcare. Così la stessa volontà etica, che pure dovrebbe essere posta a fondamento della letteratura, si converte paradossalmente in nichilismo.
La contaminazione degli stili e l’ininterrotto trascorrere dal genere lirico a quello parodico, dal tragico all’eroicomico, dall’elegiaco al satirico non nascono dalla esaltazione dei generi letterari, ma dalla loro dissoluzione. Il mescidato stilistico non è che un doppio rabbioso della perdita d’identità dei generi e del loro inquinamento, una conseguenza del deperimento stesso dello strumento letterario.
9. La Cognizione rivela un’ambizione tragica e simbolica ormai pienamente consapevole del proprio fallimento. Il tragico appartiene infatti allo stesso ordine ideale del simbolico, e la perdita dell’uno è perdita dell’altro. Lungi dallo sfiorare l’ultimo traguardo del simbolismo, la scrittura di Gadda ne sconta la crisi radicale: sconta cioè, e sino in fondo, l’inconciliabilità del valore con la vita. Come tutti gli autori – e sono talora grandissimi, ancorché, perlopiù, come è ovvio, reazionari – che contrappongono l’abisso presente del disvalore all’altezza passata del valore e non vedono conciliazione possibile fra i due termini ipostatizzati in immagini alternative, Gadda non crede alla mediazione dei simboli e punta, semmai, alla grandiosità dell’allegoria, che non cerca raccordi, ma rovescia un dato nell’altro. La scrittura di Gadda non è solo testimonianza di una perdita del Logos sopraffatto dal caos di una stortura oggettiva (l’imbecillaggine del mondo) e di una soggettiva (la nevrosi), ma allegoria – vale a dire tensione cognitiva, fissazione tutta intellettuale di tale perdita. Il rapporto orizzontale col reale stabilito dal simbolo è sostituito da uno verticale, che distingue e contrappone ordini diversi, e in ciascuno di questi ne blocca gli elementi costitutivi in una circolarità chiusa che li pone tutti in stretta interdipendenza reciproca. Ma fra un ordine e l’altro c’è una cesura, una distanza insanabile; e l’allegoria conosce il presente appunto a partire da tale scacco. Il simbolo conosce attraverso la confidenza e la sinuosa penetrazione del reale, l’allegoria attraverso il suo innalzamento o abbassamento, cioè attraverso la sua negazione. La Brianza, ambientata in America Latina, diventa a tutti gli effetti, come abbiamo letto, un mondo capovolto e La cognizione del dolore la sua allegoria.
Università di Siena
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Note
1. Nell’edizione del 1963 la prosa L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore e la poesia Autunno furono poste da Gadda rispettivamente in apertura e in chiusura. Successivamente, è stata modificata la loro collocazione, in un modo che non mi pare sufficientemente motivato. Nella edizione critica commentata a cura di Emilio Manzotti sono collocate in Appendice (Gadda 1987a: 477-506).
2. Si veda su questo punto Gorni 1973: 291-325. Giustamente anche Gorni critica l’interpretazione in chiave prevalentemente simbolica data da Contini.
3. Per queste considerazioni sulla struttura e sulla situazione della lirica in quanto genere, cfr. C. Muscetta, Saba, poeta della «grazia», in Poesia italiana del ’900. Una proposta didattica per la lettura del testo poetico, a cura di M. Mancini, M. Marchi e D. Marinari (Milano: Franco Angeli Editore, 1984), 141-42.
4. Si vedano in proposito le pagine molto pertinenti di Gorni 1973.
5. Sembra appartenere al repertorio montaliano anche l’immagine del ramarro-folgore (RR I 731), duplicata, in pagine della Cognizione non pubblicate dall’autore ma rese note in Roscioni 1975: 130, da quella del ramarro-lampo. Non mi sembra possibile invece attribuire a una fonte montaliana, e precisamente a Elegia di Pico Farnese, il «farneticoÆ (RR I 587) e il «lèmure», che deriva invece (stando al Grande Dizionario del Battaglia) da un passo di Cecchi, ove lèmure è associato, come qui, a larve (è probabile che Cecchi sia la fonte comune sia di Montale che di Gadda), dato che questi due vocaboli compaiono nel primo tratto della Cognizione, a stampa già nel 1938, mentre la poesia montaliana in questione risale al 1939.
6. Gadda 1983d: 53 («Al lutto sono seguite le solite, per quanto incredibili, ingiurie che la società civile riserba a chi ha perduto sua Madre. Solo da pochi giorni le miserie si sono appianate, ma non tutte, e qualcuna ancora rimane, a farmi perdere del tempo prezioso: le pratiche burocratiche richiedono la presenza della vittima», lettera del 31 maggio 1936); 59 (sempre in rapporto alla situazione successiva al lutto della madre: «a Milano mi attesero le ultime noie, il notaio, le tasse, ecc. […] Ho portato tutto a Longone: (in Brianza) […] io sempre in moto fra i materassi, il notaio, ecc.», lettera del 16 novembre 1936). Si noti che in queste lettere si può rinvenire anche la genesi di un importante spunto narrativo del romanzo, quando si legge (65-66): «Sembra che mi abbiano svaligiata la casa di campagna: nelle ore del giorno, sicché non posso prendermela con la Sorveglianza Notturna. Vorrei avessero rispettato le mie carte, i miei libri» (lettera del 16 marzo 1937). Accenni a noie e a ossessioni legate al possesso della casa si hanno anche nelle lettere a Bonaventura Tecchi (Gadda 1984b: 126; lettera del 3 luglio 1936, ove troviamo anche un riferimento alla necessità di vendere la casa; cfr. p. 133, lettera del 21 febbraio 1939).
7. Penso soprattutto a Rinaldi 1977.
8. C.E. Gadda, Come lavoro (SGF I 430). Le precedenti citazioni sono tratte invece dalla Cognizione (RR I 632).
9. Patrizi 1975b: 179 – ma non concordo con Patrizi là dove, pur contestando giustamente l’interpretazione del romanzo come «frammento lirico», egli tuttavia ammette che «la liricità della Cognizione è un codice dominante» (172).
10. Mi riferisco a A. Marchese, Visiting angel, Interpretazione semiologica della poesia di Montale (Torino: SEI, 1977), 110-25.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-01-9
© 2000-2025 Romano Luperini & EJGS. Issue no. 0, EJGS 0/2000. Previously published in L’allegoria del moderno (Rome: Editori Riuniti, 1990), 259-78.
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