La cognizione del dolore

Parte seconda   V

Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? di una vita. Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso, col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! che così dolcemente, passionatamente, l’aveva carezzata, baciata. Dopo un anno, a Pastrufazio, un sottufficiale d’arma (1) le si era presentato con un diploma, le aveva consegnato un libercolo, pregandola di voler apporre la sua firma su di un altro brogliaccio: e in così dire le aveva porto una matita copiativa. Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta François?». Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello strazio, aveva risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rincrudire d’una condanna. A cui, dopo il primo grido orribile, la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare.

Avanti che se ne andasse, quando con un tintinnare della catenella raccolse a sé, dopo il registro, anche la spada luccicante, ella gli aveva detto come a trattenerlo: «posso offrirle un bicchiere di Nevado?»: stringendo l’una nell’altra le mani scarne. Ma quello non volle accettare. Le era parso che somigliasse stranamente a chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo. I battiti del cuore glie lo dicevano: e sentì di dover riamare, con un tremito dei labbri, la riapparita presenza: ma sapeva bene che nessuno, nessuno mai, ritorna.

Vagava nella casa: e talora dischiudeva le gelosie d’una finestra, che il sole entrasse, nella grande stanza. La luce allora incontrava le sue vesti dimesse, quasi povere: i piccoli ripieghi di cui aveva potuto medicare, resistendo al pianto, l’abito umiliato della vecchiezza. Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio. Ella ne conosceva le dimensioni e l’intrinseco, la distanza dalla terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere; molte cose aveva imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero che perseguono nella vacuità degli spazî senza senso (2) l’ellisse del nostro disperato dolore.

Vagava, nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l’avrebbe condotta ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d’ogni pietà e d’ogni imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole.

Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talora delle sue cupe nuvole; che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente. Ciò accadde anche nello scorcio di quella estate, in un pomeriggio dei primi di settembre, dopo la lunga calura che tutti dicevano sarebbe durata senza fine: trascorsi una diecina di giorni da quando aveva fatto chiamare la custode, con le chiavi: e, da lei accompagnata, era voluta discendere al Cimitero. Quella minaccia la feriva nel profondo. Era l’urto, era lo scherno di forze o di esseri non conosciuti, e tuttavia inesorabili alla persecuzione: il male che risorge ancora, ancora e sempre, dopo i chiari mattini della speranza. Ciò che più la soleva sgomentare fu sempre il malanimo impreveduto di chi non avesse cagione alcuna da odiarla, o da offenderla: di quelli a cui la sua fiducia così pura si era così trasportatamente rivolta, come ad eguali e a fratelli in una superiore società delle anime. Allora ogni soccorrevole esperienza e memoria, valore e lavoro, e soccorso della città e della gente, si scancellava a un tratto dalla desolazione dell’istinto mortificato, l’intimo vigore della consapevolezza si smarriva: come di bimba urtata dalla folla, travolta. La folla imbarbarita degli evi persi, la tenebra delle cose e delle anime erano un torbido enigma, davanti a cui si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita bimba) – perché, perché.

L’uragano, e anche quel giorno, soleva percorrere con lunghi ululati le gole paurose delle montagne, e sfociava poi nell’aperto contro le case e gli opifici degli uomini. Dopo ogni tetro accumulo di sua rancura, per tutto il cielo si disfrenava alle folgori, come nel guasto e nelle rapine un capitanaccio dei lanzi a gozzovigliare tra sinistre luci e spari. Il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi, ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa. Dalla finestretta delle scale, una raffica, irrompendo, l’aveva ghermita per i capegli: scricchiolavano da parer istiantare i pianciti e le loro intravature di legno: come fasciame, come di nave in fortuna: e gli infissi chiusi, barrati, gonfiati da quel furore del di fuori. Ed ella, simile ad animale di già ferito, se avverta sopra di sé ancora ed ancora le trombe efferate della caccia, si raccolse come poteva nella sua stremata condizione a ritrovare un rifugio, da basso, nel sottoscala: scendendo, scendendo: in un canto. Vincendo paurosamente quel vuoto d’ogni gradino, tentandoli uno dopo l’altro, col piede, aggrappandosi alla ringhiera con le mani che non sapevano più prendere, scendendo, scendendo, giù, giù, verso il buio e l’ umidore del fondo. Ivi, una piccola mensola.

E la oscurità le permise tuttavia di ritrovarvi al tatto una candela, ammollata, un piattello con degli zolfini, predisposti per l’ore della notte, a chi rincasasse nelle tarde ore. Nessuno rincasava. Sollecitò a più tratti uno zolfanello, un altro, sulla carta di vetro: ed ecco, nel giallore alfine di quella tremula cognizione dell’ammattonato, ecco ulteriormente fuggitiva una scheggia di tenebra, orrenda: ma poi subito riprendersi nella immobilità d’una insidia: il nero dello scorpione. Si raccolse allora, chiusi gli occhî, nella sua solitudine ultima: levando il capo, come chi conosce vana ogni implorazione di bontà. E si sminuiva in sé, prossima a incenerire, una favilla dolorosa del tempo: e nel tempo ella era stata donna, sposa, e madre. Ristava ora, atterrita, davanti l’arma senza prodezza di cui a respingerla s’avvaleva essa pure, la tenebra. E la inseguivano fin là, dov’era discesa, discesa, nel fondo buio d’ogni memoria, l’accaneggiàvano gli scoppî, ferocemente, e la gloria vandalica dell’uragano. La insidia repugnante della oscurità: nata, più nera macchia, dall’umidore e dal male.

Il suo pensiero non conosceva più perché, perché! dimentico, nella offesa estrema, che una implorazione è possibile, o l’amore, dalla carità delle genti: (3) non ricordava più nulla: ogni antico soccorso della sua gente era perduto, lontano. Invano aveva partorito le creature, aveva dato loro il suo latte: nessuno lo riconoscerebbe dentro la gloria sulfurea delle tempeste, e del caos, nessuno più ci pensava: sugli anni lontani delle viscere, sullo strazio e sulla dolcezza cancellata, erano discesi altri fatti: e poi il clangore della vittoria, e le orazioni e le pompe della vittoria: e, per lei, la vecchiezza: questa solitudine postrema a chiudere gli ultimi cieli dello spirito.

Il gocciare della smoccolatura le cadde, scottandola, sulla tremante mano, l’alito gelato della tempesta, dalla finestretta delle scale infletteva e laminava la fiammella smagandola sopra il guazzo e sopra il crassume della cera, attenuava, quel baluginare del lucignolo, a commiato di morte.

Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio. Il tuono incombeva sulle cose e le fulgurazioni dell’elettrico si precipitavano all’ira, grigliate in rinnovati attimi dalle stecche delle gelosie chiuse, nell’alto. Ed ecco lo scorpione, risveglio, aveva proceduto, come di lato, come a raggirarla, ed ella, tremando, aveva retroceduto dentro il suo solo essere, distendendo una mano diaccia e stanca, come a volerlo arrestare. I capegli le spiovevano sulla fronte, non osava dir nulla, con labbri secchi, esangui: nessuno, nessuno l’avrebbe udita, sotto il fragore. E a chi rivolgersi, nel tempo mutato, quando tanto odio, dopo gli anni, le era oggi rivolto? Se le creature stesse, negli anni, erano state un dolore vano, fiore dei cimiteri: perdute!… nella vanità della terra…

Perché? Perché?

Dal fondo buio delle scale levava talora il volto, e anche in quell’ore, a riconoscere sul suo capo taciuti interludî della bufera, la nullità stupida dello spazio: e della sera sopraccadente, dalla gronda, fuori, gocce, come pianto, o il misericorde silenzio. Immaginava che le lame repentine d’ogni raffica, avendo corsa ogni stanza, ne fossero uscite quasi tardataria masnada a recuperarsi verso la pianura e la notte, dove s’aggiungessero al loro migrante stormo. Una imposta (4) batteva, schiaffeggiandolo, contro il muro della casa. Gli alberi, fuori, udiva, davano rade stille, verso notte, detersi come da un pianto.

Nessuno la vide, discesa nella paura, giù, sola, dove il giallore del lucignolo vacillava, smoriva entro l’ombre, dal ripiano della mensola, agonizzando nella sua cera liquefatta. Ma se qualcuno si fosse mai trovato a ravvisarla, oh! anche un lanzo! avrebbe sentito nell’animo che quel viso levato verso l’alto, impietrato, non chiedeva nemmeno di poter implorar nulla, da vanite lontananze. Capegli effusi le vaporavano dalla fronte, come fiato d’orrore. Il volto, a stento, emergeva dalla fascia tenebrosa, le gote erano alveo alla impossibilità delle lacrime. Le dita incavatrici di vecchiezza parevano stirar giù, giù, nel plasma del buio, le fattezze di chi approda alla solitudine. Quel viso, come spetro, si rivolgeva dal buio sottoterra (5) alla società superna dei viventi, forse immaginava senza sperarlo il soccorso, la parola di un uomo, di un figlio.

Questo nome le si posò lieve sull’animo: e fu cara parvenza, suggerimento quasi di mattino e di sogno, un’ala alta che trasvolasse, una luce. Sì: c’era il suo figlio, nel tempo, nella certezza e nella cognizione dei viventi: ed anche dopo il tramutare, dopo il precipitare degli anni. Camminava tra i vivi. Andava i cammini degli uomini. Il primo suo figlio. Quello nel di cui corpicino aveva voluto vedere, oh! giorni!, la prova difettiva di natura, un fallito sperimento delle viscere dopo la frode accolta del seme, reluttanti ad aver patito, ad aver generato il non suo: in una lunga e immedicabile oscurazione di tutto l’essere, nella fatica della mente, e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei mercanti, sotto la strizione dei doveri ch’essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti. Ed era ora il figlio: il solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le sere ed i treni. Il suo figlio primo. Oh! soltanto il nembo – fersa di cieli sibilanti sopra incurve geniture della campagna – soltanto il terrore aveva potuto disgiungerla per tal modo dalla verità, dalla sicurezza fondata della memoria. Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non eran scemati d’altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità.

Un clàcson, dalla camionale: e il vuoto delle cose. Tutto taceva, finalmente. I gatti, all’ora consueta, certo, ecco erano penetrati nella casa, per dove loro solo entrano: vellutate presenze l’affisavano dalla metà delle scale, con occhi nella oscurità come topazî, ma fenduti d’un taglio, lineate pupille della lor fame: e le rivolsero, miaulando, un saluto timido, un appello: «è l’ora». L’ordine e la carità domestici la richiamavano sopra. Ed ella, dimentica della propria, si fece subito solerte dell’altrui pena, come sempre: risaliva le scale. Il zoccolante passo del contadino risuonò sull’ammattonato di sopra: reduce dalla spesa del tabacco, e forse, sperò, del sale: la chiamò nel buio, le parlò delle provviste e del fuoco, le notificò l’ora, devastati i ricolti: si fece, con nuovi urti di voce, a disserrar l’ante, i vetri. Rinfrancata, ella rivide chiarità dolci e lontane del paese e nella dolce memoria le fiorirono quelle parole di sempre: «apre i balconi – apre terrazzi e logge la famiglia»: quasi che la società degli uomini ricostituita le riapparisse dopo notte lunga. E il famiglio, ecco, davanti ai gatti, le andava per la casa: dal suo proprio focolare a quest’altro, così ampio e gelido: recando faville, tirsi; e poi per le scale; dietro la fuga quadrupedata degli zoccoli sbatacchiavano ante ed usci. E fustelli e rametti un po’ per tutto lungo il virile cadere dell’itinerario. E il vento si era smarrito verso la pianura, in direzione del Pequeño.

Dalla terrazza, nelle sere d’estate, ella scorgeva all’orizzonte lontano i fumi delle ville, che immaginava popolate, ognuna, della reggiora, col marito alla stalla, e dei figli. Le ragazze, a frotte, tornavano dall’opificio, telaî, o incannatoî, o bacinelle di filanda: biciclette avevano riportato i garzoni dall’incudine: o erano rinvenuti dietro il padre con dondolanti buoi dal campo, ed egli reggeva e raffrenava pel timone il suo carro basso, a brevi sponde inclinate ed aperte con piccole ruote dagli assali unti e taciti, ricolmo dell’avere e del lavoro, dei fusti e dell’erbe: sul cui monte posavano come dimenticate le stanche falci, nell’ombre di sera.

Prole rustica venuta senza numero dal lavoro al fuoco, a un cucchiaio: alle povere scodelle slabbrate che ne rimeritavano il giorno.

Bagliori lontanissimi, canti, le arrivavano dal di fuori della casa. Come se alcuna reggiora avesse disposto il suo rame ad asciugar nell’aia, a riverberare, splendendo, il tramonto. Forse per un saluto a lei, la signora!, che un tempo, come loro, era stata donna, sposa, e madre. Ella non invidiava a nessuno. Sperava a tutte, a tutte, l’allegrezza e la forza pacata dei figlioli, che avessero lavoro, sanità, pace: buone corse nel mattino dove il capitano li comanda: (6) che trovassero la sposa presto, venuti di reggimento, nel folto odoroso delle ragazze.

Così, ogni giorno, trovava motivo o pretesto per chiamare a sé la lavandaia, la figlia della fornaia, la venditrice di limoni o talvolta qualche naranza rara di Tierra Caliente, la vecchia madre ottantaseienne del famiglio, la moglie del pescivendolo. (Si aveva ragione di supporre che i termini della serie indumentale non vigessero al completo sulla persona di costei). Erano dei poveri lucci, scuri, di muso aguzzo come il desiderio dei poveri, e tetro, che avevano remigato e remigato carestie verdi incontro all’argenteo baleno della durlindana; o tinche, pescioni gialli dei laghi d’un viscidume crasso e melenso, che ancora sapevano tra carote e sedani il sapore della melma; dopo l’ora del tramonto arpionati su con la lenza dal Seegrün o da quell’altra valle, assai dolce agli autunni, dell’abate-poeta, o da quell’altra ancora poco più là del pittore discepolo, quando vi si specchia, sotto liquefatte nuvole, la dentatura della montagna rovesciata.

Con carote e sedani, a fuoco lento, nella casseruola lunga del luccio; vi rimestava, in quello sguazzo, con un cucchiarone di legno: ne veniva una cosa piena di spini, di sedani, ma piuttosto buona al gusto. A opera finita non ne faceva che un assaggio, era lieta; regalava tutto alle donne. Le donne la lodavano della sua bravura nel cucinare, la rimeritavano della bontà.

Non invidiava a nessuno. Forse, dopo tanto valore e studio, dopo d’aver faticato e patito, e aver dato senza lacrime la sua genitura, perché ne disponessero, gli strateghi della Repubblica, del suo sangue più bello!, secondo ragione loro comandava; forse dopo l’infuocato precipitare d’ogni giorno, e degli anni, stanche ellissi, forse aveva ragione il tempo: lieve suasore d’ogni rinuncia: oh! l’avrebbe condotta dove si dimentica e si è dimenticati, oltre le case ed i muri, lungo il sentiero aspettato dai cipressi.

Prole rustica, leva del perenne pane: crescessero, amassero. Si considerava alla fine della sua vicenda. Il sacrificio era stato consumato. Nella purità; di cui Dio solo è conoscenza. Si compiaceva che altri ed altre avessero a poter raccogliere il senso vitale della favola, illusi ancora, nel loro caldo sangue, a crederla verità necessaria. Dall’orizzonte lontano esalavano i fumi delle ville. Di lei nessuno avrebbe più recato lo spirito, o il sangue, nei giorni vuoti.

Ma Gonzalo? Oh, il bel nome della vita! una continuità che s’adempie. Di nuovo le sembrò, dal terrazzo, di scorgere la curva del mondo: la spera dei lumi, a rivolversi; tra brume color pervinca disparivano incontro al sopore della notte. Sul mondo portatore di frumenti, e d’un canto, le quiete luminarie di mezza estate. Le sembrò di assistervi ancora, dalla terrazza di sua vita, oh! ancora, per un attimo, di far parte della calma sera. Una levità dolce. E, nel cielo alto, lo zaffiro dell’oceano: che avevan rimirato l’Alvise, a tremare, e Antoniotto di Noli, doppiando capi dalla realità senza nome incontro al sogno apparito degli arcipelaghi. Si sentì ripresa nell’evento, nel flusso antico della possibilità, della continuazione: come tutti, vicina a tutti. Col pensiero, coi figli, donandosi aveva superato la tenebra: doni delle opere e delle speranze verso la santità del futuro. La sua consumata fatica la riportava nel cammino delle anime. Aveva imparato, insegnato. Tardi rintocchi: e il lento lucignolo delle vigilie si era bevuto il silenzio. Lungo gli interrighi s’insinuava l’alba: nobili paragrafi! ed ella, nel sonno, ne ridiceva la sentenza. Generazioni, stridi delle primavere, gioco della perenne vita sotto il guardare delle torri. Pensieri avevano suscitato i pensieri, anime avevano suscitato le anime. Doloranti patrie le tragittavano verso le prode di conoscenza, navi per il Mare Tenebroso. Forse, così, l’atrocità del suo dolore non sarebbe vana a Dio.

Congiunse le mani.

Gonzalo, del lavoro, traeva di che vivere. Recentemente era passato da Modetia, (7) la camiciaia di Modetia gli aveva da preparare alcune camicie di tela: aveva scritto, anzi: le taglierebbe con il miglior impegno, in tanta obbligazione sentiva di essere, cara signora, con la di lei bontà e gentilezza.

Gonzalo! Il suo figlio maggiore non era un pensionato dello Stato, se non da ridere, per una medagliuzza: l’ultima e la più risibile delle medaglie. (Ma così potevano credere i competenti, non la sua certezza di madre). Nessuna ragione sussisteva, d’altronde, perché avesse ad essere un pensionato dello Stato. I di lui timpani erano affetti d’altro male, ora, che una lacerazione traumatica, d’altro tedio guasti, si sarebbe detto, che non fosse la nebbia imperscrutabile della sordità. Ella non si capacitava del come le fosse riapparito, oh, in un’alba di cenere: tra le mercature e la fanghiglia di Pastrufazio, e le macchine invitte. Era incolume, con poveri anni dentro le grigie controspalline del ritorno. Forse la sua guerra, a lui, non era stata pericolosa. Non raccontava nulla, mai: non ne parlava ad alcuno: non certo ai ragazzi, se lo attorniavano in un minuto di lor sosta, belligeranti o ammiragli sgraffiati, accaldati, con baionette di latta: e nemmeno alle signore in villa, ch’erano, diceva, tra le più elette gentildonne di Pastrufazio le più assetate di epos: e in conseguenza le più entusiaste bevitrici di fandonie.

I ragazzi, poi, sembrava addirittura che li avesse in odio. Una severità cupa gli si metteva sulla faccia a trovarne in casa anche un solo, come quel povero scioccherello, sorrise la madre, del caillou, bijou. Oh! il «suo» Gonzalo! Era troppo evidente che l’arsenale della gloria aveva rifiutato di prenderlo in carico. Plauto, in lui, non troverebbe il suo personaggio, forse Molière. La povera madre, non volendolo, rivide le lontane figure del Misanthrope e dell’Avare, tutte pizzi e gale sotto ai ginocchî, nel vecchio libro, a due colonne, de’ suoi adolescenti mattini, delle sue veglie così fervide: quando il cerchio della lucernetta, sul tavolo, era l’orbe di pensiero e di chiarità nella incolumità del silenzio. Nel vecchio libro, odoroso del vecchio inchiostro di Francia, con le cuffie, i pizzi, e Maître Corbeau. (8) Era evidente. Dopo recuperate vittorie, gli stampatori della gloria funebre non gli eran più bastate le loro xilografie mortuarie fino ai carmi d’un reduce senza endecasillabi: lampade funerarie e motti e fiammelle e perennis ardeo: tutto esaurito per gli xilografi, sulle coperte dei cadaverosi poemi. I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il nome, la disperata memoria.

I venditori di passamanerie non ebbero gale di nessun prezzo da potergli vendere, né alamari di caballero, né nastri, né fibbie, per il suo cammino silente. Lo hidalgo reluttava ai salotti, alle opinioni delle signore patriottarde. Al tè lungo, come non bastasse, preferiva la strada solitaria della Recoleta. Dopo le quali incresciose constatazioni, la stima della gente seria cominciò davvero a dovagli girare alla larga. E un bel giorno, anzi, sistemati i quadri delle sue Lettere, e della sua Ingegneria, la natale Pastrufazio non poté a meno di defecarlo.

Ma queste note erano esterne all’amore della madre, come anche al linguaggio: nell’ambascia de’ suoi giorni spenti ella non aveva mai acceduto alle conversazioni, alle tinnule conglomerazioni della buona società.

Pensava con dolcezza a questo suo primo figlio, rivedendolo bimbo, assorto e studioso. E adesso già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri. Rientrò, dal terrazzo, nella grande stanza. Le mosche avevano ripreso, dileguata la tempesta, a sorvolare la tavola: dov’erano i giornali, coi nuovi avvenimenti, ch’erano succeduti ad altri. Così d’anno in anno, di giorno in giorno; per tutta la serie degli anni, dei giorni. E i fogli, ben presto, ingiallivano. Quando le mosche, per un momento, si ristavano dal loro carosello, e anche il moscone verde, un attimo; allora nel cosmo labile di quella sospensione impreveduta udiva più distinto il tarlo a cricchiare, cricchiare affaticatamente, con piccoli strappi, nel vecchio secrétaire di noce ch’ella non riusciva più a disserrare. Il giuoco della chiave si era smarrito nella successione dei tentativi, o, forse, nelle ombre dolorose della memoria. Ci doveva esser il ritratto… i ritratti… i gemelli di madreperla… forse, anche le due lettere… le ultime!… le forbicine da lavoro, il ventaglio nero, di pizzo… Quello che le avevano regalato in palude, quando si era accomiatata dai colleghi, dalle poche alunne… più d’una febbricitante, tutte avevano voluto il suo bacio… Ma non le mancavano, por suerte, delle forbicine di riserva: tre paia, anzi.

Ed erano state le nozze.

Se il suo pensiero discendeva, dal ricordo di quei due bimbi, agli anni vicini, all’oggi… le pareva che la crudeltà fosse troppa: simile, ferocemente, a scherno.

Perché? Perché? Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito dell’anima era più possibile: forse ella non era più la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato, lontano: non era più persona, ma ombra. Sostava così, nella sala, con pupille cieche ad ogni misericorde ritorno, immobilità scarnita da vecchiezza; per lunghe falcate del tempo. E l’abito di povertà e di vecchiezza era come un segno estremo dell’essere portato davanti ai volti dei ritratti, dove alìgeri fatui, sul vuoto, orbiteranno entro il sopravvivente domani. Poi, quasi un rito della stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi, eguali. E le pareva memento innecessario, crudele. Nel tempo finito d’ogni estate, traverso il mondo che l’aveva lasciata così. Le mosche descrivevano pochi cerchî nella grande sala, davanti ai ritratti, sotto i dardi orizzontali della sera. Con una mano, allora, stanca, si ravviava i capelli sbiancati dagli anni, effusi dalla fronte senza carezze come quelli di Re Lear. Superstiti ad ogni fortuna. Ed ora nel silenzio, discendendo il tramonto, vanite le tempeste della possibilità. Ella aveva tanto imparato, tanti libri letto! Alla piccola lucerna lo Shakespeare: e ne diceva ancora qualche verso, come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte.

Nel cielo si erano dissipati i vapori, e i fumi, su dalla strozza de’ camini, di sotto pentola, delle povere cene della gente. S’erano dissoluti come una bontà della terra: incontro alla stella vesperale, per l’aria azzurrina del settembre. su, su, dov’è la bionda luce, dai camini neri; che si adergono con vigore di torri al di là dell’ombre e delle inazzurrate colline, dietro alberi, sopra i colmigni lontani delle ville.

Aveva udito il rotolare del treno… il fischio d’arrivo… Avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità.

Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa.

 

1. Della gendarmeria territoriale

2. Destituiti di apparato sensorio e quindi di sensitiva.

3. La dizione «gente», «genti», è usata a tutt’oggi nel parlare di alcuni meglio luoghi di Lombardia per significare, a un dipresso, «incivilita progenie, stirpe acquisita a Roma, comunità di esseri istruiti del vangelo e disciplinati di Roma». Talora «bona gent» = «bona gens». Un processo inverso a quello per cui i romani e i pagani vennero chiamati «i gentili, le genti», il che equivaleva «gli stranieri idolatri», dai giudei e da Paolo: nella violenza un po’ strascicata onde il vocabolo erompe dal gastrico de’ conterranei tale urge una ricchezza di sensi e una viscerale memoria d’antichi secoli ed eventi, e il trauma di tutta una «civilizzazione» ambrosiano-tridentina: cioè di una conversione, di un battesimo collettivo negli anni di Teodolinda, che fondò chiese e templi dedicati al Battezzatore (Monza, Firenze), e di una graduale acquisizione del nuovo linguaggio e del rito. La «fara», famiglia o collettività longobarda stabilitasi in un determinato borgo o territorio, diviene gradualmente «gens», «bona gens».

4. Nota storica. La casa aveva in alcune finestre delle persiane comuni, a battente: in altre delle gelosie a «coulisse».

5. Sorgeva, la casa, in corrispondenza di un dislivello, di un salto del terreno: e il fondo delle scale si trovava perciò sotto la quota di terra di amonte. Vedi prima parte.

6. La madre discendeva di una stirpe in cui è elevatissimo il senso militare di disciplina.

7. Fondata nel 1695 appiè le ultime ondulazioni moreniche del Serruchón, da alcuni immigrati monzesi; che diedero alla città ritrovata il nome latino della perduta.

8. Un volume per Molière e La Fontaine, l’altro per Corneille e Racine.

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ISSN 1476-9859

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