Il naso e l’anima

Giancarlo Leucadi

Malinconia, suèla de viagio,
mai na vota che ’n dido
i slìghia fito ’r lamo
daa bòca de ’sto pésso spussolente
ch’a biàsto giorno e sea
- Pesso-Malinconia
chi cressa ’n tuti i mai,
odòe de bestìn,
che da me a nò so mandae via.

Paolo Bertolani, Pésso-Malinconia

Il malinconico è perseguitato dai cattivi odori. In ogni situazione, in ogni luogo, egli si sente aggredito da puzze intollerabili: la donna eccitata emana un’usta selvatica; in qualsiasi stanza c’è un angolo impregnato di essenze marce o muffite; la folla è avvolta da un’aura di afrori vomitevoli. Abbiamo prima letto un passo di Céline dove la folla domenicale dei parigini era descritta come un mélange di puzze indicibili e quasi metafisiche: «l’odeur des guerres qui traînent, des relents de villages mi-brûlés, mal cuits, des révolutions qui avortent, des commerces en faillite». (1) è un’enumerazione senza nessuna ambizione descrittiva, si capisce, ma a suo modo emblematica, perché ci costringe a fare i conti con un aspetto della percezione letteraria che molto spesso viene trascurato: l’olfatto delirante dello scrittore malinconico.

In questo capitolo cercherò di dimostrare che esiste un legame stretto fra malinconia e delirio olfattivo e che una tradizione letteraria piuttosto antica ha costruito una vera e propria retorica dell’olfatto malinconico. Naturalmente, anche se le pagine di Shakespeare, di Swift, di Céline e di altri autori ci costringeranno a qualche sosta fuori programma, sarà soprattutto il naso di Gadda a guidarci in questo periplo senza bussola.

La sintesi dell’olfatto

Innanzitutto un dato puramente quantitativo: le annotazioni olfattive, in Gadda, sono numerose e molto spesso addirittura pleonastiche. Qualsiasi lettore della Cognizione del dolore o degli Accoppiamenti giudiziosi si sarà accorto dell’incredibile varietà di sfumature messe in campo dallo scrittore quando si tratti di rendere l’aura olfattiva di un ambiente o di un personaggio. Gadda è un virtuoso dell’olfatto, e come ogni virtuoso ama insistere sui suoi pezzi forti: di qui la straordinaria quantità di odori delle sue pagine.

Ma sarebbe un errore limitarsi a pure osservazioni quantitative, dal momento che ciò che più interessa è la qualità degli odori. Penso sia possibile, a questo proposito, avanzare un’ipotesi radicale: il naso di Gadda è sensibilissimo e implacabile quando si tratta di registrare puzze, miasmi e lezzi, distratto e quasi anestetizzato quando è immerso in aromi e fragranze. Faccio fatica a ricordare qualche odore gradevole annotato da Gadda: il profumo della carne arrosto con il rosmarino; i vapori del risotto giallo nel piatto; l’aroma fresco e virginale di qualche fanciulla in fiore. Ma sono osservazioni quasi casuali e piuttosto rare.

Penso a qualche scena ghiotta della Cognizione del dolore, ad esempio quella dell’aragosta divorata a Babylon da Gonzalo, ma mi accorgo che il narratore ha sadicamente tralasciato di annotare i profumi che dovrebbero accompagnare l’abbuffata. Prevale lo spettacolo della voracità dello hidalgo, la visibilità oscena della sua bocca che come una ventosa succhia il carapace dell’aragosta, ma l’aroma di crostaceo non entra nella pagina. Il naso di Gadda si mette in moto solo per le puzze più nauseanti.

Nei termini della fisiologia dell’olfatto è quindi facile riconoscere alcuni fenomeni patologici: iperosmia, data l’enorme sensibilità alle percezioni olfattive; parosmia, per l’inverosimile e scombinata tassonomia degli odori; cacosmia, perché si tratta di un naso che sente sempre e soltanto cattivi odori. (2)

Un esempio lampante di cacosmia è nella Madonna dei Filosofi. Il narratore osserva un bel glicine in fiore, aggrappato a una «bella casa seicentesca» (RR I 81). Immaginiamo un profumo intenso e gradevole. Ma il Naviglio che scorre a fianco del giardino promana «un suo odore acuto di gamberi e, quando fa caldo, è una discreta porcheria». Insomma, anche di fronte ad una situazione narrativa che lo obbligherebbe ad immergersi in un profumo floreale molto piacevole come quello del glicine, lo scrittore sceglie di accentuare il lezzo che giunge dai gamberi putrescenti nel Naviglio, una porcheria tale che le «dame» che passano di lì devono «arricciare il nasetto» . Il fetore del corpo morto ha la meglio sul profumo vitale del fiore.

Gli odori che più di frequente vengono registrati e classificati da Gadda sono piuttosto repellenti: piedi, sudore, urina, aliti pesanti, stanze poco arieggiate, animali sporchi, carogne in decomposizione, pantaloni portati a lungo senza essere lavati, letame, smog, libri vecchi e muffiti, caserme sovraffollate, spazzatura irrancidita e l’immancabile robinia di Brianza(3) Innumerevoli sono i personaggi sudati o sporchi, che «olezzano» o vengono «usmati»; innumerevoli le occorrenze di aggettivi come «fetente», «putrido», «pedagno», «fradicio», «piscioso», e così via.

Nel Giornale di guerra e di prigionia troviamo una prima spiegazione di questa invadenza dei cattivi odori. Il giovane ufficiale, prigioniero in Germania, annota di aver sentito una puzza sconvolgente, come di materia organica che stia marcendo, e sottolinea la «potenza di rievocazione immediata che gli odori hanno» (SGF II 785) su di lui. Dunque, gli odori si imprimono nitidamente nella memoria di Gadda, e il lezzo della decomposizione ha un misterioso potere di «rievocazione immediata».

A Marcel Proust, naso eccezionalmente raffinato, maestro di infinibili rievocazioni sinestetiche, bastava l’odore di vernice fresca per alimentare il flusso inesauribile del racconto, ma Gadda non ha mai ceduto alla tentazione del proustismo all’italiana e la sua maniacale sensibilità per gli odori più schifosi rende il gioco delle rievocazioni olfattive ben più macabro e inquietante. Non gli interessa disseppellire un’infanzia troppo breve e troppo carica di traumi. Il suo naso non ha vocazioni archeologiche. Dal passato riemergono fetori sconvolgenti, impossibili da sopportare, e la «rievocazione immediata» porta alle soglie del delirio.

Ma, visto che siamo in clima proustiano, perché non scorrere le pagine di Una tigre nel parco? Si tratta di un’originale ricerca del tempo perduto, anche se Gadda preferisce condurla con un impeccabile dispiegamento di strumenti freudiani. C’è il rischio di cadere in qualche tranello, perché l’autore ha in mano gli stessi affilati strumenti dell’esegeta. Meglio pertanto disilludere il lettore: non scopriremo lati inediti dell’olfattività gaddiana, e neppure attingeremo le sue fonti inconsce. (4)

Protagonista di Una tigre nel parco è Carlo Emilio Gadda. Il bambino che corre e si diverte nel Parco del Castello Sforzesco a Milano non ha ancora conosciuto l’Altro, e quindi rimane sorpreso, anzi traumaticamente scosso, dalla scoperta di un mondo «male odorante» che popola le rovine dove egli gioca a fare la tigre. Il primo shock, terribile, è dovuto a una sensazione tattile: la mano ha schiacciato l’escremento di un barbone! Ma un secondo attacco del mondo Altro raggiunge il naso del bambino, il quale deduce «l’esistenza di altre possibili persone e costumi» dagli «odori corrotti» che scaturiscono dai muri del castello. «La sintesi dell’olfatto» è «vivida ed immediata» (SGF I 79): il bimbo scopre l’Altro attraverso l’odore fetido degli escrementi. È una specie di imprinting che a distanza di anni lo scrittore non riesce ancora a cancellare.

Visto che gli «impulsi» dell’adulto, come ci viene spiegato in Una tigre nel parco, hanno sempre una «sorgente infantile» (SGF I 74), la patologia dell’olfatto di Gadda potrebbe essere spiegata aggiungendo qualche glossa a questa mirabile ricostruzione autoanalitica. L’equazione è già impostata dall’autore. Basta solo qualche passaggio al risultato.

Ma quel simpatico bambino che fa la tigre sul prato non esaurisce la nostra curiosità. Non possiamo accontentarci di un’autodiagnosi così chiara e perentoria. Ammesso che quell’episodio sveli l’origine profonda delle alterazioni olfattive di Gadda, e certo un freudiano avrebbe qualche riserva sugli esiti univoci dell’autoanalisi, ciò che più ci incuriosisce è l’insieme dei meccanismi stilistici attraverso i quali l’odore diviene parola, entra nella pagina e si fa strumento della scrittura gaddiana. Vorremmo tentare di ricostruire, insomma, la retorica degli odori di Gadda.

Basta infatti spostarsi da Una tigre nel parco, che è del 1936, a un testo cronologicamente limitrofo, La cognizione del dolore, per accorgersi che l’olfatto ha anche una valenza retorica molto precisa. Qui è chiara la strategia dell’autore: gli odori sono tratti esclusivamente dal «basso corporale» e vengono spesso trasformati in strumenti del registro satirico. La dicotomia stilistica individuata nell’Intervista al microfono, dove Gadda confessa di sentirsi predisposto al lirismo o, in alternativa, alla satira (SGF I 503), offre quindi una possibile chiave di lettura anche per quella frase che tutti i lettori della Cognizione del dolore certamente ricordano: «Il naso, certo, adesso valeva di più dell’anima» (RR I 732). L’impossibile conciliazione del naso con l’anima, che proprio in questa pagina del romanzo ha sfiorato la «cognizione del dolore», raffigura in modo efficace la coesistenza in Gadda di due registri stilistici opposti: la satira e il lirismo, lo stile del naso e lo stile dell’anima. Don Gonzalo è perseguitato dalle «percezioni olfattive», che gli hanno «bruttato» la giovinezza. L’homo melancholicus non tollera i cattivi odori.

Esiste una retorica degli odori, quindi. Lo stile del naso si contrappone a quello dell’anima così come la satira si contrappone alla lirica. La satira non ammette odori sublimi, la lirica non considera la gamma sterminata degli odori corporali. Ecco perché in Gadda prevalgono i fetori e i tanfi insostenibili: nonostante le dichiarazioni di poetica, la scrittura di Gadda è intrinsecamente satirica. Le aspirazioni liriche vengono più spesso mortificate che alimentate. E la satira ha bisogno più di puzze e marciumi che di essenze celestiali. Un buon satirico ha un naso tarato sugli odori schifosi.

E infatti la satira più tremenda scritta da Gadda, Eros e Priapo, riceve impulso e forza dall’olfatto sensibilissimo e allucinato di De Madrigal, che è schiavo orgoglioso di un naso ossessivamente alla ricerca degli odori più repellenti. L’umanità, sostiene il filosofo pseudoarabo, è maleodorante, e chi ha naso fino non può certo vivere a contatto con le folle agitate delle città. Ma attraverso il naso si può anche comprendere meglio la vera natura dell’uomo, che è un essere puzzolente e marcio.

Con lo scopo di accentuare il tono satirico della prosa, De Madrigal mette in scena una vera e propria retorica dell’odori: il naso è una fonte inesauribile di metafore, di similitudini, di giochi di parole. Il pamphlet, che viene presentato al lettore come un’analisi del narcisismo fascista condotta con i rigorosi strumenti della psichiatria e della psicoanalisi, si riduce all’istintivo annusamento tipico del cane:

Avendomi natura ed astro, con luna in sizigia e da vederla intera, purtuttavia provveduto d’un naso, andò il detto naso braccando a campagna infin dagli anni cchiù giovini, e si palesò atto quant’altri furono a percepire il lezzo d’ogni disgregazione e d’ogni corrumpimento. […]
Tantoché dato dunque sto naso, e chiedendomi taluno il mio (tardivo, ahi!) contributo a quell’atto di conoscenza di che si ragionava pur dianzi, bene, ecco qua. (SGF II 230)

Il fascismo emana il lezzo di un organismo in disfacimento e offende il naso implacabile di De Madrigal. L’immagine allegorica che quasi in trasparenza si intuisce dietro il velo del linguaggio figurato è quella del cadavere. Ridotto a carogna aggredita dai vermi, il fascismo è ormai un fenomeno da indagare attraverso il naso. Il buon filosofo ne percepisce il lezzo corrotto. Si tratta di una delle tante variazioni sul tema dell’odore cadaverico, centrale nell’universo olfattivo di Gadda. A dire il vero, sono convinto che il «lezzo d’ogni disgregazione» sia il baricentro dell’olfattività di Gadda: ma tratterò per esteso questo argomento più avanti.

Torniamo a Eros e Priapo. De Madrigal si considera adatto più di altri alla percezione del fetore cadaverico, e si propone di spiegare il fenomeno fascista attraverso l’esercizio del suo infallibile odorato. Prima di mettere in moto l’intelligenza, il filosofo deve essere capace di annusare l’argomento della sua analisi come un cane che bracchi la campagna. Gadda utilizza molto spesso il verbo annusare per indicare la presa di contatto preliminare, l’impressione istantanea, la conoscenza empirica. Il naso è l’organo sensoriale che indirizza e orienta i primi passi del processo conoscitivo della realtà. Prima di conoscere a fondo il fascismo, prima di scoprirne i moventi psicopatologici e gli scopi nefandi, è necessaria una fase preliminare di annusamento: poi verrà il momento dell’intelligenza e dell’analisi. (5) Ed è attraverso l’olfatto che De Madrigal si accorge di non essere in sintonia con la realtà putrescente del ventennio, perché l’annusamento influenza in modo determinante il giudizio finale: ciò che puzza non potrà mai essere riabilitato dall’esercizio delle più raffinate capacità analitiche. (6)

In Eros e Priapo troviamo una similitudine molto articolata fra l’indagine veritiera dello storico oculato, che non si lascia abbindolare dalle apparenze, e la ricerca del tartufo. Se lo storico è un cagnolino di poco cervello, tanto da confondere il fungo velenoso appena fiutato con il tubero divino, beh, dice Gadda, stiamo freschi!, c’è poco da sperare. Ma se invece è un «porcello» (ad Alba i trifolau preferiscono le scrofe gravide ai cani), un porcello tanto bravo da non aver bisogno che di pochi attimi per scovare il tartufo, allora ne viene fuori una «veridica storia degli aggregati umani» (SGF II 237).

Viste le premesse teoriche, è naturale che la ricostruzione psichiatrica del fascismo si affidi ciecamente al naso di De Madrigal. Brulicano allora le metafore olfattive, come quella implicita nel verbo turibolare (è il Duce puzzone che esibisce la propria persona fradicia di lue e di sudori). Tornano con insistenza un verbo arcaico come annasare e un neologismo come nasicchiare. Il viaggio all’interno del narcisismo del regime fascista viene orientato sulla bussola infallibile del naso di De Madrigal, che coglie il «putrido lezzo» che «redole, su dal calderone della istoria» (SGF II 231) e l’«odor funebre e putrido» della guerra criminale.

Inutile sottolineare che nel pamphlet non si troveranno profumi gradevoli, ma solo vapori di letamai, sudori caprigni di folla in calore, lezzi di cadaveri putrescenti: quando Gadda sceglie il registro satirico e lo sfogo atrabiliare, come in Eros e Priapo o nelle Favole, l’olfatto viene costretto ad oscillazioni brevissime entro la gamma bassa della percezione.


Olfatto e delirio

Anche nella Cognizione del dolore il naso è strumento di analisi della realtà, e in Don Gonzalo, incapace di giudizi rapidi, che per lui sono «inalazione prima che sternuto» (RR I 607), l’olfatto funge spesso da causa scatenante dei deliri. Anzi, la gamma infinita delle puzze brianzole, abbinata al suono isterico delle campane, è il fattore principale dei monologhi allucinati del personaggio.

Don Gonzalo soffre di malinconia. Non sto tentando di attribuirgli connotati psicologici, evanescenti quando si maneggia un homme de papier, ma di decifrare indizi testuali che l’autore dissemina in ogni pagina. Gadda vuole, anzi pretende che il lettore inscriva la figura autobiografica dello hidalgo nel cerchio della malinconia. Chiude la strada a qualsiasi altra interpretazione.

L’ultimo dei Pirobutirro, ad esempio, è soggetto a «deliri interpretativi» (RR I 650), definizione psichiatrica che, come dichiara lo stesso Gadda, viene dai testi di Sérieux e di Capgras: (7) si tratta di un sintomo classico dello stato depressivo. Nei momenti di delirio, il personaggio dimostra una certa conoscenza dei meccanismi con cui si snoda la «fuga delle idee», fenomeno individuato per primo da Kraepelin nei discorsi di alcuni pazienti malinconici. Don Gonzalo sa che la tendenza a distrarsi, ad inglobare nel discorso i rumori esterni, a modificare l’orientamento della frase, ad inseguire assonanze e allitterazioni, è prova certa di uno stato maniaco-depressivo. Rimaneggiando una celebre e troppo sfruttata formula di Genette, potremmo dire che sulla sua malattia Don Gonzalo ne sa più del narratore e del lettore: e persino del medico che dovrebbe curarlo.

Nella Cognizione del dolore c’è infatti un medico che tenta di decifrare i sintomi dichiarati da Don Gonzalo, ma la sua incapacità di interpretare correttamente i segni coerenti della malattia (mal di stomaco, cattiva digestione, delirio interpretativo, fuga delle idee, iperosmia, etc.) è perfettamente simmetrica all’implacabile autoanalisi del malato. Il medico consiglia divertimenti, sesso, passeggiate, ma Don Gonzalo sa che niente potrà liberarlo dal male oscuro. Non crede alla scienza fallace del dottore. Sa di essere imparentato con Amleto, con Don Chisciotte, con i personaggi molieriani, e implicitamente difende la sua malattia dalle squallide soluzioni proposte dai galenici di buon senso. Riconosce la letterarietà della sua sofferenza. Esiste un orgoglio della malinconia. Chi vede le ombre di ogni felicità e di ogni entusiasmo è impermeabile alle panacee di qualsiasi medico.

In un personaggio così minuziosamente fedele all’immagine letteraria dell’homo melancholicus e così scrupolosamente costruito attorno alla concezione psichiatrica della malinconia, l’olfatto ha un ruolo ben determinato: è la causa scatenante del delirio. Partiamo da un’osservazione molto semplice: quando il personaggio principale non è in scena, il narratore trascura le percezioni olfattive. Assente lo hidalgo, mancano le consuete scorribande allucinate nell’universo degli odori. Una strategia facile da decifrare: il narratore cerca di attribuire al personaggio l’ossessione maniacale per gli odori. L’ouverture del romanzo, quando Don Gonzalo non è ancora in scena, la digressione dedicata alla finta sordità di Manganones, la storia del poeta epico maradagalese Carlos Caçoncellos, la scena tragica che conclude il romanzo, dopo che il figlio è partito da casa, presentano un tasso di annotazioni olfattive molto basso. Ma quando Don Gonzalo occupa il palcoscenico e la voce del narratore quasi non riesce più a distinguersi dal monologo delirante del personaggio, ecco che gli odori tornano a tessere la loro tela di tropi e figure.

Ci sono almeno due scene olfattive che nessun lettore può dimenticare. In entrambi i casi Don Gonzalo viene aggredito dagli odori corporali di personaggi che egli considera suoi avversari e reagisce con il «delirio» (l’espressione è ricavata dal testo e va intesa, come abbiamo visto, in senso psichiatrico). Céline ha detto più di una volta che il sogno ad occhi aperti (rêve eveillé lo chiamava, rifacendosi a Léon Daudet) è la condizione migliore per narrare, perché in corrispondenza del rilassamento della ragione e della logica egli vedeva sorgere uno stile più ricco e più profondo di quello da «codice civile» tipico della prosa francese. Penso che Gadda avrebbe sottoscritto una dichiarazione del genere. Molto spesso, nei suoi romanzi, il termine «delirio» è utilizzato come segnale di soglia che introduce a pagine stilisticamente estreme, sregolate, di sintassi incoerente e di lessico espressionistico. Nella Cognizione del dolore la poetica del delirio risponde in pieno alle indicazioni di Céline. Quando Don Gonzalo si fa prendere dal delirio, la scrittura si arricchisce di anomalie stilistiche molto frequenti anche nel Voyage o in Mort à credit: la reticenza marcata dai puntini di sospensione; l’anafora del soggetto, spesso accompagnata da espressioni di vituperio che fungono da qualificativi; le accumulazioni di frasi nominali tenute assieme da un solo predicato verbale sottinteso…

Ma concentriamo la nostra attenzione sui deliri olfattivi di Don Gonzalo a cui facevo riferimento poco fa. Proviamo innanzitutto a ricostruire la prima delle due scene. Il povero hidalgo, dopo avere consumato un pasto assai gramo, un uovo e pochi sottaceti, sale in camera da letto, da dove ridiscende poco dopo con in mano alcuni giornali che ha comprato in città per la madre. Madre e figlio si abbracciano, ma la scena di affetto, l’unica di tutto il romanzo, è destinata ad essere interrotta bruscamente e in malo modo dal nemico di Gonzalo, il peone.

Intanto entrò, zoccolando, la miseria e il fetore d’un peone. Recava due legnuzzi per il caminetto, e un fastello di steli secchi di banzavòis. La tempesta aveva raffredato i campi, tenuti oramai dalla notte. Tacevano, distesi lungo le misure del buio, sotto zaffiri tetri. Il peone annaspava con la testa dentro la bocca del camino, poi si levò: sembrò che da un momento all’altro gli dovessero cadere i pantaloni, tanto li aveva bassi alle anche in rapporto alla cintola. Si sprigionava dalla di lui persona e brache un odore bonario, (così voleva la tradizione), ma di certo odore era, tutt’affatto serruchonese, come di «oh là, José, come la va?», non abluito da anni. A ragione, del resto. Nessun Diocleziano aveva costruito terme nella campagna solitaria.
Lo hidalgo, pur nelle dilaganti ombre della nevrosi, non pretendeva speciali abluzioni dai villici del Serruchòn: per essi, dopo la defunzione di Caracalla, il Santo Battesimo gli pareva lavacro sufficiente. Solo constatava il fatto odorifero con una tal quale costernazione e talora con ira. Nel caso in oggetto, poi, sapeva che il contadino avrebbe potuto tenersi un po’ più in ordine. Il delirio insorgente della collera gli lasciò identificare in quello sconcio una premeditata ostentazione di miseria, una dimostrazione a carattere sindacale: rivendicativa d’una qualche ulteriore larghezza de’ padroni in soccorso della miseria stessa. (RR I 704-05)

Il delirio dello hidalgo è stato dunque provocato dalla miseria e dal fetore del peone, che è entrato, con i suoi zoccoli, proprio nel momento della riconciliazione con la madre. Tre sono gli elementi che suscitano la collera e lo sfogo atrabiliare di Don Gonzalo, tre marche distintive del peone che il narratore incastona magistralmente nella frase che inaugura il delirio. Come i personaggi wagneriani vengono introdotti attraverso un motivo ricorrente, così il peone si presenta attraverso tre segni di riconoscimento che lo accompagnano per tutto il romanzo: zoccoli, miseria, fetore. Il peone zoccola senza motivo su e giù per la casa, suscitando la collera del padrone; puzza di sudore e persino di escrementi; esibisce furbescamente la sua finta miseria. Con queste tre prerogative, egli tenta di scardinare l’utopia di ordine e pulizia del padrone, di insinuarsi nei rapporti fra madre e figlio, di usurpare il ruolo e la proprietà del povero ingegnere declassato.

Nel tentativo di rendere l’idea di questa sarabanda di cattivi odori che promana dal corpo del peone, Gadda non riesce, anzi non può utilizzare il verbum proprium. Céline, scrittore altrettanto sensibile a tutto ciò che gli giunge attraverso l’olfatto, può servirsi di un linguaggio assai più violento e diretto: gli aliti puzzano di carogna, le stanze di merda, le donne di mestruo. L’argot è una riserva infinita di espressioni gergali che possono supplire all’oggettiva inopia del lessico utilizzabile per la gamma bassa dell’olfatto. Ma uno scrittore italiano degli anni trenta, per quanto coraggioso, non avrebbe mai potuto permettersi le libertà lessicali di Céline: e Gadda, tentato più di una volta dal verbum proprium, dalla parolaccia, dalla bestemmia, sceglie piuttosto di sfruttare il suo inesauribile repertorio di strumenti retorici.

Così, il lezzo del peone viene dapprima definito un «fetore», (l’archetipo ossessivo del corpo in putrefazione non abbandona mai la scena!), poi viene smorzato in un neutro «odore» (ironicamente qualificato come «bonario»), ripreso anche in anafora, come a sottolineare che il peone è percepito esclusivamente come un’offesa all’olfatto. L’indeterminazione ironica di quell’«odore bonario» viene rafforzata da un ulteriore pseudo-qualificativo, «serruchonese», un neologismo di secondo grado, e dalla similitudine, che apparentemente restringe lo spettro delle possibili decodificazioni, ma che in realtà si presenta in forma tale da risultare quasi un enigma: cosa vorrà dire, infatti, che l’odore serruchonese è «come di “oh là, José, come la va?”, non abluito da anni»? Una neoformazione di raffinata fattura («abluito»); la sostituzione del possessivo con un «di lui» che, applicato ad un peone puzzolente, suona decisamente ironico. È un’impennata stilistica che contrasta con il senso ricostruito da qualsiasi lettore. La successiva perifrasi («fatto odorifero») non può che essere intesa che come un’ulteriore, beffarda elevazione del tono stilistico. Di fronte alla puzza lo stile di Gadda punta verso l’alto. È uno stile sarcasticamente sublime, crudele, spietato: è la lingua dell’odio e della satira senza redenzione.

L’olfatto subisce anche un processo di «sostantivizzazione della qualità» (sfrutto naturalmente la definizione di Roscioni), dal momento che Gonzalo non registra la presenza di un peone fetente, ma avverte il «fetore d’un peone». Roscioni sostiene che «funzione di questi stilemi è portare in primo piano le proprietà intrinseche o affettive delle cose, e sottolineare che è soprattutto grazie a queste proprietà che esse vengono percepite» (Roscioni 1975: 14).

Non ho niente da aggiungere, tranne qualche nota molto specifica sulla patologia della percezione di Don Gonzalo, che è personaggio di frequente invaso dal delirio e quindi incapace di percepire alcunché senza ricorrere alle risorse allucinatorie della malinconia. Siamo di fronte alla percezione allucinata di un personaggio dichiaratamente malinconico, vale a dire di un soggetto la cui affettività ha ormai preso il sopravvento su ogni altra funzione gnoseologica, al punto da percepire l’esistenza di un essere umano attraverso ciò che raggiunge il suo naso (il fetore), le sue orecchie (gli zoccoli) e i suoi occhi annebbiati dalla collera (che colgono soltanto la miseria e i pantaloni pericolanti). E il linguaggio, così ricco di tropi inediti e stranianti, è la prova più evidente della sua sofferenza: approfondendo uno spunto di Dupré, Minkowski ha dimostrato che la cenestopatia, cioè l’alterazione della sensorialità, induce spesso il paziente depresso a utilizzare metafore e similitudini originali. Incapace di comunicare le allucinazioni percettive che lo torturano, si serve dei tropi più fantasiosi. Il passaggio che abbiamo appena letto sarebbe forse un esempio da manuale.

La coppia di sostantivi, «miseria e fetore», non è casuale, perché in Gadda, come in Céline, sono soprattutto gli appartenenti alle classi sociali basse (i peones, le serve, gli artigiani) ad emanare puzze insostenibili. (8) La miseria e il cattivo odore sono due aspetti tipici dei nemici di classe di Don Gonzalo, degli usurpatori, dei parassiti, dei servi infedeli. Un contrasto insanabile separa lo hidalgo dai contadini brianzoli, dagli artigiani, dalle cameriere della madre. Questa scissione si manifesta anche attraverso il gioco retorico con i cattivi odori, perché gli strati bassi della società, che Don Gonzalo considera sempre una minaccia per il suo status e per la sua misera proprietà, vengono immancabilmente descritti come sfacciati produttori di odori fetidi. Mentre gli appartenenti alle classi alte sembrano immuni dalla contaminazione del basso corporale, tanto che in Socer generque le raffinate signore e signorine in camicetta chiusa e accollata lasciano «immacolati» i gabinetti «dopo la loro visitazione» (RR II 803), la classe bassa sfrutta la corporeità come uno strumento di vendetta ed aggredisce con i cattivi odori il presunto «nemico del popolo», Don Gonzalo.

Questo nesso fra il contrasto socio-economico e la percezione allucinata dei cattivi odori trova conferma anche nell’ampia scena di delirio al centro del quarto capitolo della seconda parte della Cognizione del dolore. Sospendendo la lettura di Platone, Don Gonzalo scende dalla sua stanza e tenta di entrare nella sala per raggiungere la madre, ma lo spettacolo che gli si presenta è così orribile da fargli richiudere precipitosamente la porta. Che cosa ha visto? Cosa ha impedito, ancora una volta, il ricongiungimento con la madre? La scena inizia con un forte richiamo alla sfera visiva, ma si snoda poi come una rapida suite di odori repellenti:

Vi vide la mamma, con gli occhi arrossati dalle lacrime, tener crocchio: all’impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell’affossamorti, nera come una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del pesce: ma fissavano il cagnolino del Poronga, lercio, che ora tremava e dava segni, il vile, d’aver paura dei due gatti, dopo aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la tavola. Ma il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il camino. E sul piatto il pesce morto, fetente. Era enorme, giallo, con gli occhi molli e cianòtici dopo l’impudicizia e la nudità; con la bocca rotondo-aperta pareva gli avessero dato a suggere, per finirlo, il tubo del gas. E nel cestello i funghi dall’odor di piedi […] L’antica ossessione della folla: l’orrore de’ compagni di scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della «ricreazione», il diavolìo sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in ordine, due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga: alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. (RR I 727-28)

Ancora la folla, dunque. Entità minacciosa e perturbante, topos del disagio malinconico, la folla è qui composta da peones, da serve e da artigiani. Dal popolino brianzolo che cerca di approfittare della generosità della madre. E la Signora, circondata da questo gruppo di congiurati e da un odore insopportabile che allo hidalgo ricorda quello dei compagni di scuola in fila verso il gabinetto intasato, ha gli occhi arrossati per le lacrime.

L’accumulazione iniziale dei personaggi, resa più compatta dalla scarsità di aggettivi e dall’allitterazione dei suoni labiali, ha uno scopo chiaramente teratologico, com’è evidente anche dalla scelta di indugiare, con qualche dettaglio descrittivo in più, sulla vecchia emiplegica e sulla moglie nana e gobba del becchino, nera come una blatta. Due mostri che ben rappresentano la deformità morale ed estetica della folla. Di qualsiasi folla.

Entra in scena il pesce cianotico e mezzo marcio, e il nostro naso deve di nuovo fare i conti con un cadavere. Esposto su un catafalco come se si trattasse di un re, il pesce «fetente» ha finito per attirare un paio di gatti, ora piuttosto spaventati dal cane lercio del lercio Poronga. Il cane, da parte sua, si è già esibito in una pisciata torrenziale e ha annusato i piedi dei convenuti. Sappiamo, da altre pagine del romanzo, che i «chilometri pedagni» dei serruchonesi sono il piatto forte degli odori di Lukones.

Se proviamo ad immaginare la miscela di tutti questi cattivi odori umani ed animali, l’uno più nauseante dell’altro, e se pensiamo che anche i funghi settembrini finiscono per puzzare di piedi, ci rendiamo conto che qui la parosmia e il delirio si alimentano a vicenda. Mentre il padre dello hidalgo vantava per ogni dove la salubrità dell’aria buona di Brianza, un vero balsamo per i polmoni!, il figlio è ossessionato dalle mille puzze escrementali emanate da uomini e da animali. Ma Don Gonzalo conosce l’origine della sua nevrotica fuga dalla folla: il «fetore» delle ricreazioni scolastiche a base di croconsuelo. Un trauma che gli ha per sempre precluso ogni contatto con le masse. Nell’immaginario gaddiano i piedi, il gorgonzola e gli escrementi sono termini quasi interscambiabili. Il borbonzola è l’«odorosissimo e pedagno escremento» (Viaggi di Gulliver, RR II 955) col commercio del quale i signori brianzoli si sono arricchiti, e gli orinatoi che abbiamo visto essere responsabili del «fetore» sono in realtà «intasati» di croste di croconsuelo (Cognizione, RR I 728) I ricordi olfattivi sono carichi di orrore e di precoce nevrosi. Dal naso sono scaturiti traumi e ossessioni, come la paura della folla, matrice inesauribile di odori escrementali. Proust è lontano.

Don Gonzalo fugge sul terrazzo, lontano dai fetori della cucina. E proprio sul terrazzo si dipana il flusso del monologo delirante provocato dalla folla bestiale che ha invaso la sua casa, toccando il ricordo del fratello morto, poi quello ricorrente della donazione per l’acquisto delle campane di Lukones, per tornare infine alla scena della sala, arricchita di altri dettagli escrementali. Poi un passaggio su cui dovremo insistere a lungo nel prossimo paragrafo, visto che Don Gonzalo si vede morto, alla Recoleta, cioè al cimitero, mentre il cadavere, come quello di padre Zosima nei Karamazov, «dopo alcune ore, e tra lo scandalo» comincia «a emanare un fetore insopportabile» (RR I 730). Infine, dopo uno scoppio d’ira e un confuso accenno ai suoi progetti letterari, Don Gonzalo arriva a cogliere, nelle «due note» che vengono dal «silenzio», il segno acustico della «cognizione del dolore» (RR I 731-32). Lo choc olfattivo ha quindi scatenato il delirio che funge da baricentro del romanzo: e valga come prova il fatto che il senso del titolo si svela soltanto in questa pagina.

Ma il delirio, introdotto dal passo appena letto, sembra resistere allo sforzo razionale di Don Gonzalo, che, pur avendo sfiorato l’impossibile «cognizione del dolore», finisce per cadere in un gorgo di ricordi e di ossessioni che si fatica a ricondurre ad una logica narrativa. Tornano, a segnalare la ripresa del delirio, i puntini di sospensione, che scandiscono la struttura nominale della prima frase, e tornano, sostenute da una frase brevissima che viene isolata anche tipograficamente, le sensazioni olfattive che accompagnano ogni rievocazione dell’infanzia:

La turpe invasione della folla.... Gli zoccoli, i piedi: nella casa che avrebbe dovuto esser sua.... I calcagni color fianta, i diti, divisibili per 10, con le unghie.... e la piscia del cane vile, pulcioso, con occhio destro pieno di marmellata, dentro cui sguazzavano cicìk e ciciàk le piante quadrupedanti di quegli zoccoli. Un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni, dopo le scempiaggini di cui s’erano infarciti i suoi maggiori....
Il naso, certo, adesso valeva di più dell’anima.
Le percezioni olfattive gli avevano bruttato gli anni, gli autunni, i mesi di scuola.... La collettività; gli altri; il plurale maschile.... L’interminabile processione verso la piscia.... Dai condotti intasati di croste di croconsuelo si diversava sulle scale di béola nerastre. «Di béola, di béola», urlò dal terrazzo, verso i campi. (RR I 732)

Volendo fare della psichiatria a buon mercato, dovremmo assegnare l’etichetta di cenestopatico a Don Gonzalo, che attribuisce al naso la responsabilità di una sofferenza di ben altra natura. Il monologo delirante muove ancora una volta dagli zoccoli e dai piedi sporchi, ma ora, come a voler sottolineare il fatto che i piedi non sono che appendici escrementali della folla, viene aggiunta un’annotazione visiva: il color «fianta» dei calcagni. Una redditio doppia, costruita attorno ai due elementi cruciali del delirio del personaggio, gli zoccoli e i piedi («quadrupedanti» è un termine derivato dal sostantivo), incornicia la scena nauseante dei piedi zoccolanti immersi nella piscia del cane. È un naso sensibile fino all’allucinazione, tarato sulla gamma bassa degli odori: è il naso di chi soffre di un’iperosmia maniacale.

Don Gonzalo è perfettamente in grado di riconoscere ed interpretare la sua olfattività. Sa di soffrire di malinconia, e sa che il suo naso è schiavo delle allucinazioni più profonde. Definisce con un termine tecnico («delirio interpretativo») la fuga delle idee che caratterizza la fase maniacale della malattia che lo consuma. Il suo monologo non è dunque un flusso sregolato di parole, o un ammaso informe di cellule tematiche, ma piuttosto lo svolgimento consapevole e controllato di una poetica del delirio. I cattivi odori, i suoni delle campane, lo zoccolio ossessivo, la miseria ostentata del peone, gli inquietanti ricordi scolastici non sono tappe accidentali di un percorso improvvisato, ma punti cardinali sulla base dei quali il personaggio orienta il suo viaggio attraverso le dilaganti ombre della nevrosi, fino alla notte più cupa. La strategia dispositiva e le soluzioni retoriche applicate nei momenti di delirio costituiscono pertanto una poetica dai lineamenti molto precisi e coerenti.

Il nemico del popolo, il misantropo che sua madre vede come un personaggio molieriano, il povero hidalgo declassato e impoverito si serve del delirio per isolarsi dalla folla che lo minaccia e reagisce da nevrastenico ai cattivi odori che la massa degli uomini emana senza sosta. Il suo naso lo spinge alla solitudine assoluta, al monologo nevrotico, lontano dall’Altro e da ciò che puzza.

Prima di chiudere il sipario sulle allucinazioni di Don Gonzalo, concediamoci il piacere di una breve sosta defatigante. Affidiamo ad altri il compito di guidarci attraverso la poetica del delirio olfattivo: ad esempio a Eugène Minkowski, secondo il quale un odore è «une émanation impersonnelle» dove «facteurs sensoriels, facteurs affectifs ou moraux se confondent tout naturellement, sans transition nette, sans barrière infranchissable que la pensée discursive voudrait établir à tout prix». (9)

Osservazioni profonde e affascinanti, queste di Minkowski, ma forse non del tutto originali. Un altro psichiatra, prestato stabilmente alla letteratura e, purtroppo, anche alla politica, aveva già pubblicato pagine memorabili sul tema dell’olfatto. Quando scrive Melancholia (1928), prendendo naturalmente le mosse da Dürer, da Baudelaire e da Nerval, Léon Daudet decide di dedicare il capitolo centrale al Dominio dell’olfattivo, osservando, tra l’altro, come il malinconico giunga ad un contatto più profondo con l’aura grazie al suo olfatto acutissimo e spesso allucinato. È una scelta da pioniere. Nel 1928 nessuno era disposto a concedere all’olfatto una dignità poetica e persino filosofica. Ma Daudet non si accontenta. Solo l’olfatto, sostiene, sa resistere alla perdita dell’aura tipica della modernità:

Ma l’odorato è, fra i nostri sensi, il più vicino all’aura e il più atto a darci un’idea, una rappresentazione abbastanza fedele di questa. Le allucinazioni dell’odorato sono le più rare e le più profonde di tutte. Esse toccano direttamente l’aura, stato imperfettamente individuato di malessere generale che è come una vertigine più intima, più misteriosa, più indefinibile. In certi deliri si vedono apparire delle alterazioni dell’olfatto che aumentano e intensificano la melancholia. (Daudet 1989: 95-96)

L’olfatto è dunque in contatto con l’aura («ambiance»). Come l’aura, di cui è una specie di emissione sensoriale, non riesce mai a delimitare le sue percezioni. Di qui la necessità di impiegare tutte le risorse della retorica per il riconoscimento e la comunicazione degli odori. Inutile azzardare un giudizio sulla pertinenza scientifica delle idee di questo medico e letterato, che sono il risultato di una rilettura moderna di concetti scientifici e filosofici vecchi di secoli. Sarebbe fatica sprecata. Ma è interessante notare come Daudet riesca a conciliare le allucinazioni dell’olfatto con la malinconia e il delirio. Il dominio dell’olfattivo è pieno soltanto quando si scatena il delirio e la malinconia sovverte la gerarchia implicita della percezione.

Minkowski e Daudet danno voce a un’esigenza di riappropriazione dell’olfatto che si fa incoercibile proprio attorno agli anni ’30 di questo secolo, e che in ambito letterario produce due casi emblematici come Céline e Gadda. Due scrittori per i quali il naso vale immensamente più dell’anima, e che si trovano costretti a creare una nuova grammatica dell’olfatto, perché il linguaggio degli odori che ereditano dalla tradizione è troppo povero e sublime per la scrittura dell’odio.

L’odore della folla

Ho già scritto e ripetuto che la folla, per il malinconico, è in primo luogo una fonte inesauribile di cattivi odori. Un crogiolo in cui si fondono mille miasmi diversi. Gadda avverte nella massa la presenza di un’aura fetida, un misto di sudori stantii, aliti che denunciano pasti pesanti e afrori sessuali.

Nell’Adalgisa un gruppo di melomani assiste alla Traviata della «Tettòn», soprano di poca voce e tanta carne. Il loggione, scrive Gadda, sembra un’enorme pentola ricolma di spettatori sudati, con le «ascelle in libertà», un’«ebullizione generale» di «senza giacca» così gagliarda e generosa da rendere «fetente» il «retrologgione». Infatti, «in quegli anni, presso la gran parte dei frequentatori de’ loggioni, non era pur anco invalso l’uso un po’ snob, oggi pressoché generalizzato, di lavarsi di quando in quando anche i piedi: almeno in occasione del Corpus Domini» (RR I 529-32).

In Gadda la presenza di una folla implica un’offesa all’olfatto. Non c’è eccezione alla regola. La chiave psichiatrica e sociologica della fobia è denunciata a chiare lettere nelle pagine della Cognizione del dolore, e Gadda non si preoccupa neppure di rispettare le norme elementari della verisimiglianza. Se nel caso di un reggimento di soldati in trincea non è improbabile che un certo odore si faccia sentire, molto meno credibile è che un «gregge» di turisti da crociera sia «odoroso di dollari» e che il narratore riesca ad «annusarne la pelle» qualche ora dopo che sono sbarcati (Castello, RR I 183).

Anche il compassato filosofo della Meditazione milanese registra la spiacevole esperienza del sudore dei tedeschi, che avrebbe un odore diverso dal sudore degli italiani. Il lager ha provocato una serie di traumi olfattivi. In primo luogo, il lezzo dei carcerieri, che ha reso ancora più tetra la prigionia in Germania. Ma il sottotenente Carlo Emilio Gadda inorridiva anche quando annusava i compagni di prigionia, che quanto a puzza non erano certo migliori degli aguzzini.

Basta leggersi quella pagina del Giornale di guerra e di prigionia scritta poco dopo avere ottenuto l’incarico di cucina che, oltre alla possibilità di mangiare meglio, gli garantiva un letto in una camera separata. Gadda si rallegra con se stesso della buona sorte di vivere «isolato dalla folla» e dai suoi odori. Appena è costretto a riannusare i compagni, ammassati come bestie nel treno che li riporta in Italia, non riesce a dormire per gli «spaventevoli odori emanati da non so chi» (SGF II 752, 846). Anche in prigione, in terra straniera e nemica, l’isolamento e la solitudine sono preferibili al fetore della folla.

Ogni forma di aggregazione, per Gadda, finisce in lerciume. Anche quando si sforza di mettere in piedi una teoria della società e della massa un po’ meno atrabiliare di quella, delirante, di Eros e Priapo, come ad esempio nel dialogo L’egoista, dove Teofilo ammette che la «convivenza» fra gli uomini è «necessaria», l’esito finale della riflessione è sempre lo stesso: Teofilo deve concludere che il «sudiciume e il disordine sono la più autentica delle proprietà comunizzate» (SGF I 657). È un assioma mai messo in discussione da Gadda. Il 24 luglio 1916 consegna al suo diario una celebre invettiva sui «luridi compatrioti», una «razza di maiali» capaci soltando di sporcare e di puzzare; più di trent’anni dopo, il saggista compassato e colto di Emilio e Narcisso ribadisce che la «collettività civilmente consociata» è molto spesso «fogna e latrina» (SGF I 649).

C’è una scena, nella Cognizione del dolore, su cui vale la pena spendere qualche parola. È una delle tappe del secondo delirio di Don Gonzalo, che abbiamo già setacciato a caccia di odori. Si tratta di un ricordo di infanzia: una festa di carnevale. Meno male, dirà il lettore, ormai abituato all’equazione fra i ricordi di infanzia e i cessi incrostati di gorgonzola. Ma con Gadda ogni scena collettiva rischia di trasformarsi in delirio. E infatti, in mezzo al carnevale, alle maschere, alle giostre, alle bancarelle, il bambino si diverte pochissimo (RR I 734-35). Anzi, si sente vittima dei «soprusi della folla», avverte un «disagio» e un’«angoscia» tali da procurargli un «collasso», implora «la fine dell’allegrezza», che per lui è solo paura e lacrime. È un carnevale dominato da figure femminili sguaiate, da musiche strazianti e dai cattivi odori dei «mandorlati scadenti», delle «frittelle» e delle «arachidi brustolite che precipitano il mal di pancia alle merde». Il piccolo Don Gonzalo vede attorno a sé i segni di una «Miseria» (con la M maiuscola) estetica ed economica: la musica nasale della giostra e il pagliaccio con il naso rosso sono incubi da cui non riesce a liberarsi.

I cattivi odori, compagni fedeli di ogni esperienza traumatica di Don Gonzalo, si concentrano soprattutto verso la fine della scena carnevalesca. Se esiste, come penso, una strategia dispositiva dei motivi che ricorrono nei deliri di Don Gonzalo, la posizione conclusiva assegnata di regola ai cattivi odori va interpretata alla luce dei precetti della retorica classica, la quale raccomandava di riservare il finale all’argomento più forte. La sarabanda infernale, che prende il posto, agli occhi spaventati del bambino, dell’innocua «festa di una gente», svela forse un retroscena determinante della parosmia di Gadda:

Ma nulla si salvava dal lezzo, dal dialetto orribile, dalla braveria.... dai coriandoli, dai gusci d’arachide e di castagne arrosto, dalle bucce di naranza, dette pelli. Mandorlati rosa, croccanti, e ragazze si inturpivano, agli occhi del bimbo, nello svanire d’ogni gentilezza....
Quella, che il bimbo pativa, non era la festa di una gente, ma il berciare d’una muta di diavoli, pazzi, sozzi, in una inutile, bestiale diavolerìa.... Si trattava certamente, pensò adesso di sé il figlio, di una infanzia malata. L’uomo tentò di riprendersi da quel delirio. Consentì ad aggiudicarsi un ritardo nello sviluppo, una sensitività morbosa, abnorme: decise di esser stato un ragazzo malato e di essere un deficiente. Così soltanto poteva stabilire una relazione fra sé e i suoi concittadini.
E d’altronde, ai lumi di psichiatria queste fobie del fanciullo rimpetto alla pluralità dei corpi e degli impeti, sono, oggi, interamente dichiarate. Ma, poi, altre folle da ogni via sopravvennero: sfociarono al clamore, alla selvaggia rissa; urgevano da ogni lato, urlavano: lo circondarono. (RR I 735)

L’inferno è il regno dei cattivi odori, delle puzze sulfuree, dei fetori insostenibili. Immergersi nella folla è scendere in un inferno dove il lezzo avvolge tutto e tutto avvelena. Una muta di diavoli aggredisce il bimbo, allucinato testimone del carnevale, vittima di fobie morbose e indefinibili. La sua è un’infanzia malata, da «deficiente». Un’infanzia che forse può spiegare l’incompatibilità fra Don Gonzalo e la folla. Ma, nonostante la psichiatria abbia ormai tutti gli strumenti per dare un nome a simili fobie, il delirio riesce sempre ad avere la meglio: e la scena, infatti, si conclude con una rissa in cui la folla eccitata sembra avere circondato, per ucciderlo, il piccolo Don Gonzalo. Di fronte all’intensità del delirio, la ratio dello psichiatra dilettante si ritira sconfitta.

L’odor cadaverico

La cassiera è alla cassa: è rossa come me; ha un male nel ventre. Marcisce dolcemente sotto le sottane, con un sorriso melanconico, simile all’odore di violetta che sprigionano talvolta i corpi in decomposizione.

Jean-Paul Sartre, La nausea

A ben vedere, l’evocazione del lezzo infernale quale correlativo della folla carnevalesca implica il passaggio ad un altro settore dell’olfattività di Gadda, probabilmente il più ricco di sfumature: l’odore del cadavere in putrefazione. Non è facile fornire una chiave di lettura che spieghi la contiguità, nella topografia olfattiva di Gadda, fra l’odore della folla e quello del cadavere. Certo è che nel Castello di Udine il ricordo di «interi reggimenti accatastati» viene definito «atroce» perché prelude all’«odor funebre» dei soldati morti, quasi che la folla degli alpini vivi non fosse che una figura dei mucchi di cadaveri putrescenti. I campi di battaglia della Grande Guerra, dove i morti spesso giacevano insepolti fino alla putrefazione, marchiarono in profondità la memoria olfattiva di Gadda, che non riuscì più a dimenticare l’odore dei cadaveri abbandonati. (10)

Fu un’esperienza cruciale, che acuì radicalmente la sua iperosmia. Nel suo diario annota due episodi traumatici, su due palcoscenici eccezionalmente significativi per la sua vicenda di soldato: Caporetto e Cellelager (Giornale, SGF II 738, 809-10). In entrambi i casi l’odore della morte lo sconvolge, lo fa sentire un «allievo-cadavere», lo abbatte fino alla depressione. Dopo quelle esperienze, il suo repertorio di metafore si arricchisce dell’infinita gamma di variazioni sul tema del cadavere: nei momenti di sconforto si paragona a un «morto», un «morto che pensa e che si muove», magari uno dei tanti «cadaveri che la notte sola copriva», a Caporetto. La prigionia gli pare una «tomba» e si sente «inutile come un cadavere». (11) Derivata dall’immagine del cadavere è anche una metafora molto frequente nel diario di prigionia: Gadda sente di essere ormai un «vecchio rudere» o a una «vecchia casa in rovina». (12)

L’immagine ossessiva del corpo che, disfacendosi, emana cattivo odore, gli impedisce di considerare i suoi compagni di trincea come degli uomini autenticamente vivi: sono figure della morte. C’è una pagina di Eros e Priapo dove il malumore per la folle politica demografica di Mussolini scatena un incontenibile flusso di ricordi olfattivi della guerra. D’un tratto entra in scena, sul filo di reminiscenze ovidiane, l’orrore per la putrefazione del proprio cadavere. È una pagina importante per diversi motivi: perché viene abbozzata una specie di teoria demografica di ascendenza malthusiana che paventa la moltiplicazione del numero degli umani (molti uomini ammassati portano solo «miseria e fetore»); perché l’immagine perturbante della massa scatena il ricordo sconvolgente degli odori putridi della trincea; perché affiora il terrore della putrefazione del proprio cadavere:

Dacché moltiplicandosi il numero là ove non ispaziano a sustentarlo terre, ne nasce poi quel cenciume, quel canagliume, quel tuberculume, quel pattume, quel sudiciume, quel brulichio di cimici, con vermini, e scarafoni, che è da certi grovigli di popoli senza mangiare. Non allora le opere sopra a le opere, e le torri sopra ai fundamenti loro ne surgono, ma si cumula i relitti sopra a i relitti; seguitando a languire e grattarsi, cianciar di gloria e di radiosi destini. Che chi l’ha vedute e annasate le trincee: e venti alpini sani arebbono bastato per là, dove troppi miseri languivano insudiciati e sdraiati come cento sacchi di materia morente dopo aver tutta adempita (cioè empita) la fossa che correva come lati di poligono sotto gli stianti e le fòlgori la bruciata spalla del monte. E più tremava De Madrigal d’aver a morir intriso in quella maionese e imbalsamato di que’ balsami (o balsamelle o beciamelle che le fussono) più che di morire inchiodato per sé solo – Finitque in odoribus aevum, attesta Ovidio de la fenice. Sognava l’arido balsamo, sognava il deserto mumificante. (Eros, SGF II 272-73)

Secondo De Madrigal, il numero eccessivo degli umani concentrati in una terra misera come l’Italia può produrre soltanto sudiciume e malattia. L’immagine che più efficacemente rende l’idea di questo ammasso di lordura è il cadavere aggredito da vermi e da «scarafoni». Il passaggio all’esperienza della guerra è automatico, perché De Madrigal ha veduto e annasato le trincee dove gli alpini languivano ammassati, ha temuto di morire tra gli escrementi e di lasciare il suo cadavere in una terra sudicia e puzzolente. Più che il pensiero della morte, lo spaventava la prospettiva della decomposizione del corpo all’aria aperta e tra le sozzure. Sognava l’impareggiabile morte aromatica della Fenice, sognava la mummificazione che rende olfattivamente neutro il cadavere.

Impregnate del lezzo di morte, le trincee, una volta annasate, lasciavano impresso un ricordo indelebile. I corpi ammassati dei soldati, vivi ma destinati alla morte, la forma stessa della trincea, tomba all’aria aperta, l’odore fetido degli uomini sporchi, insomma tutto faceva pensare alla morte e alla putrefazione. I soldati, «sacchi di materia morente», prefiguravano, con il loro lezzo, il destino sudicio del loro corpo, che non sarebbe sfuggito alla decomposizione.

Si noti lo scarto stilistico fra la materia trattata e il livello lessicale e retorico scelto dal narratore. Sul già denso toscano quattrocentesco, vengono innestate due correctiones attenuate da figure etimologiche (adempita / empita; balsami / balsamelle / beciamelle), un’ulteriore figura etymologica (imbalsamato in que’ balsami) e una coppia di metafore ironiche (gli escrementi paragonati a maionese e a balsami).

La violenza stilistica di Eros e Priapo costituisce senza dubbio un eccezionale viatico per l’affioramento dell’odore terribile della putrefazione, che naturalmente viene messa in scena sul campo di battaglia, a testimonianza del fatto che, per Gadda, la morte e la decomposizione del cadavere richiamano la situazione topica della trincea e della guerra:

Sui morti, sui mummificati e risecchi dalle orbite nere contro il cielo, (di due rattratte mani scarafaggi al deserto), sui morti e dentro il fetore della morte lui ci aveva già lesto il caval bianco, il pennacchio, la spada dell’Islam, fattagli da’ maomettani di Via Durini a Malano. (SGF II 228)

Ecco l’ennesimo delitto del fascismo: aver recitato fino alla paranoia la farsa buffonesca e volgare delle lame brillanti e dei cavalli bianchi, degli stivaloni e dei pennacchi, mentre su un altro palcoscenico, ben più tragico e ben più vero, i morti marcivano senza sepoltura. Il ricordo della guerra, per De Madrigal, è inscindibile dalla rievocazione di quell’odore:

… a rimanersi là, dunche, immoti e beante bocca in tra’ cenci e ’l sasso rosso e in nell’odor funebre e putrido, bevendone sangue le terre, con il ventre ignudato, e fatto pignatta d’un verminaio bianco di mobilissimi vermicciuoli come chicchi d’orzo, detti elminti, sudando da l’occhi fracidî tutti e’ sughi della morte, incoronati di mosconi ebbri ’l capo sul piumaccino della dolomia… (SGF II 295-96)

La fissazione sul tema dell’odore cadaverico è uno degli aspetti più inquietanti dell’iperosmia di Gadda. Termini come «fetore», «sentore» e «lezzo» sono molto frequenti nella sua prosa, e la situazione archetipica del cadavere putrescente è al centro di innumerevoli pagine. Cadaveri di uomini ma anche di animali, come nella favola N° 152, dove la carogna di un cane incontra quella di un asino. Si tratta spesso anche di odori puramente metaforici: si ricorderà, ad esempio, che in Eros e Priapo l’analisi psicoanalitica del fenomeno fascista viene presentata come l’annusamento del «lezzo d’ogni disgregazione e d’ogni corrumpimento», alla caccia del «sentore gangrenoso» (SGF II 230) della dittatura. Immagine fissa del repertorio di Gadda, la cui parsimonia nella gestione delle figure e delle cellule tematiche è stata sottolineata da Roscioni, la putrefazione del cadavere è anche termine di riferimento di paragoni con aspirazioni allegoriche:

Altramente la unità si decompone e ’l corpo della politica moltitudine e’ fa quello che fa ’l cadavero singulo quando l’anima la gli è suspirata via da le labbra: ciò è ammorba l’aria: e per sitìo grandissimo pute, nel disfacimento. (SGF II 283)

Ma Eros e Priapo, dove l’immagine della decomposizione del corpo emerge con violenza olfattiva impareggiabile, è testo troppo grezzo per lasciare affiorare qualche risvolto un po’ più pregnante delle ossessioni di De Madrigal. È un’olfattività di grado zero, per così dire, visto che gli odori sono quasi esibiti in nome dell’efficacia espressiva dello stile. Manca, soprattutto, la traccia dei debiti letterari. Sono convinto, infatti, che l’ossessione per l’odore cadaverico sia filtrata, in Gadda, da una serie di ricordi letterari di varia natura e forza. Meglio allora concentrare l’attenzione sul delirio di Don Gonzalo che abbiamo già ampiamente percorso alla caccia di indizi della malinconia. Lo hidalgo si immagina morto:

Sapeva benissimo che cosa sarebbe arrivato dopo tutta la fatica e l’inutilità, dopo la guerra e la pace e lo spaventoso dolore; in fondo, in fondo a tutto, c’era, che lo aspettava, il vialone coi pioppi, liscio come un olio. Coi pioppi dalle tergiversanti foglie, nella bionda luce, il viale della Recoleta, in asfalto, dove gli scarafaggioni elettrificati ci scivolavano sopra in silenzio che parevano nere ombre già loro, con bauli argentati, trapezoidali. La cassa di zinco, dentro, ch’è obbligatoria per legge nel Maradagàl, costituiva un monopolio del Municipio, che la faceva pagare ottocento pesos ai dolenti. Ottocento.... Nessun dolente, certo, dopo di lui, e ghignava tra sé e sé dalla gioia solo a pensarci: absint inani funere neniae luctusque turpes et querimoniae; il Municipio lo avrebbe preso in gobbo, stavolta. Doveva metterci lo zinco per nulla e portarlo alla Recoleta a gratis, e sbrigarsi anche: perché la sua supposta nobiltà d’animo dopo alcune ore, e tra lo scandalo, avrebbe cominciato a emanare un fetore insopportabile. Il Municipio doveva portarlo alla Recoleta a sue spese, ah! ah! Gargarizzò su dallo stomaco una sua feroce risata, con la trippa rideva. Ottocento lire, la cassa di zinco. Il Municipio di Pastrufazio stavolta lo prendeva in del goeupp. (Cognizione, RR I 730)

Due richiami nettissimi, l’uno esplicito, ad Orazio, l’altro implicito, anche se evidente, al Dostoevskij dei Karamazov, tracciano già due coordinate imprescindibili per l’interpretazione del passo. Infine, nella iunctura «fetore insopportabile» è possibile intravedere un richiamo al primo capitolo del De contemptu mundi di Innocenzo III, tradotto da Guido Battelli per l’editrice La Voce nel 1924. Verifichiamo in primo luogo quest’ultima traccia.

Il De contemptu mundi è un libro che parrebbe essere stato scritto da un Gadda medievale. Mi rendo conto del rischio di un’affermazione così perentoria e grossolana, ma la verità è che ogni pagina del testo sembra alimentare questa convinzione. Il titolo è già una garanzia: ci rendiamo subito conto che il libello del coltissimo ed austero vicario di Cristo sarebbe stato un caposaldo della biblioteca ideale di Don Gonzalo, ammesso che Gadda, come Manzoni con Don Ferrante, avesse speso qualche pagina a catalogare i libri del suo personaggio.

Basta poi leggere il primo capitolo, intitolato Della miseria dell’uomo, per convincersi definitivamente che qui si respira un’aura gaddiana. L’esordio è affidato a una citazione da Geremia XX, in cui il profeta si lamenta di non essere nato morto, per poter passare dal ventre della madre alla tomba. Innocenzo III, preso da una crisi di sfiducia nella vita e nell’uomo che non si potrebbe chiamare altrimenti che col nome di malinconia, tanto che nell’elenco dei vizi del capitolo intitolato La miseria dei buoni e dei cattivi manca significativamente soltanto l’accidia, e l’atto mancato tradisce senz’altro l’intenzione di coprire la propria sofferenza, sembra concepire la vita come una parentesi di dolore fra l’«ardore della libidine» che la genera e il «mucchio di putredine» che ne è il risultato finale. Nient’altro.

L’uomo è senza dubbio formato di terra, concepito nella colpa, nato a soffrire; compie azioni malvage, che non sono lecite; disoneste, che lo disonorano; vane, che a nulla approdano; diverrà cibo del fuoco, esca dei vermi ed un mucchio di putredine. (13)

Ecco dunque l’archetipo della putredine del cadavere, in piena evidenza sin dall’ouverture del libro. E non basta. Qualche riga dopo questa citazione, Innocenzo III descrive la vita dell’uomo come un breve viaggio fra il «fetore della lussuria», che l’ha generata, e il «mucchio di putredine orrenda, d’un fetore insopportabile». Il «fetore insopportabile» del cadavere di Don Gonzalo sarà derivato da questo passo del De contemptu mundi? Impossibile provarlo, ma gli indizi favorevoli sono molti.

C’è anche un intero capitolo dedicato all’argomento che ci interessa. È il primo del terzo libro e si intitola proprio La putredine dei cadaveri. Qui l’immagine ossessiva della decomposizione del corpo, considerata il simbolo della condizione caduca dell’uomo, destinato a diventare cibo dei vermi, assume tutti i connotati dell’idea fissa, forse sintomatica di uno stato psicopatologico. Certo, un teologo potrebbe ricordarci che i libri di Giobbe, Geremia e Isaia sono una fonte inesauribile di immagini di putredine, e che il corpo devastato dai vermi è un topos della letteratura mistica e profetica. Il misticismo apocalittico ama le metafore forti e repellenti, che sono un aspetto non marginale della retorica dell’eccesso di cui parla De Certeau a proposito dei mistici spagnoli del Seicento. Innocenzo III era a suo modo un mistico, e senz’altro conosceva a fondo i testi profetici, di cui amava soprattutto le pagine più tetre e apocalittiche. Gadda potrebbe aver arricchito la sua retorica della malinconia attraverso l’assimilazione del lessico, delle metafore e delle immagini del De contemptu mundi.

Non mi sarei tanto sbilanciato nella valutazione di questa traccia intertestuale se il testo della Cognizione del dolore non preparasse l’entrata in scena di una fonte religiosa. L’espressione che il medico utilizza due volte a proposito di Don Gonzalo, e cioè «stare da papa» (RR I 596, 624) ha certamente un senso sullo sfondo della strategia costruttiva del personaggio. Il peone si cimenta addirittura in un ritratto teologico del figlio della señora, che secondo lui avrebbe in corpo tutti «i sette peccati capitali». Anche la rassegna dei «vizi» a cui lo hidalgo si abbandona è di impronta cattolica: gola, ira, accidia, ma soprattutto avarizia: vizio, quest’ultimo, «che la Chiesa più severamente condanna» (RR I 597-99).

Insomma, il narratore sembra essersi orientato verso una presentazione teologica del personaggio, e ciò non fa che avvalorare la nostra ipotesi circa la presenza sapientemente dissimulata di una fonte come il De comtemptu mundi di Innocenzo III. Roscioni ha individuato nell’Alessandro VI Borgia del Pinturicchio un possibile modello fisico di Don Gonzalo. (14) Penso che l’aggiunta di un ulteriore archetipo papale, Innocenzo III, carattere affine allo hidalgo per gli umori tetri e la malinconia, non faccia che rafforzare la convinzione che il personaggio è un complesso distillato di innumerevoli ingredienti: non solo maschera autobiografica, quindi, ma creaura ibrida e proteiforme.

Verifichiamo ora la presenza di Dostoevskij. Nel passo della Cognizione del dolore che abbiamo appena letto, Gadda richiama il celeberrimo capitolo dei Karamazov dove il cadavere dello stàrets Zosima, morto in fama di santo, comincia a puzzare in modo insopportabile, suscitando uno scandalo generale. Padre Zosima, in quanto nobile e santa creatura, non avrebbe dovuto lasciare sulla terra un corpo che, come quello di tutti gli altri uomini, si decompone e puzza.

Appena morto, lo si lava appena e lo si mette nella bara, pronto a ricevere l’omaggio dei fedeli. Non si apre neppure la finestra della stanza, dal momento che è scontato che il cadavere di un santo non può decomporsi. Ma verso le tre comincia ad uscire, dalla bara, un odore tenue ma inconfondibile. È uno «scandalo brutale e inaudito»: (15) un uomo che pareva essere morto in odore di santità puzza come un normalissimo e putrescente cadavere. L’episodio, che noi oggi leggiamo come una digressione quasi umoristica, dando per scontato che un cadavere puzzi, va invece visto sullo sfondo della religiosità russa, che attribuiva un valore particolare a miracoli di questo genere.

Gadda è stato un lettore molto attento di Dostoevskij. Secondo un appunto del Racconto italiano, è verso il 1924 che lo scrittore russo entra stabilmente nella sua biblioteca (SVP 573). Quando gli chiesero, in un’intervista televisiva, quale romanzo di Dostoevskij preferisse, rispose: «quello in cui figurano gli Starets». (16) Nel saggio Psicoanalisi e letteratura, il sadismo di Smerdjakov è interpretato con una passione e un acume tale da far pensare che il problema edipico dei Karamazov toccasse da vicino Gadda. E, in effetti, nei Karamazov non mancano spunti che giustificano questa preferenza.

Ad esempio il personaggio di Smerdjakov. Il suo nome, in russo, significa puzzolente. Malinconico, misantropo, taciturno, sadico così orgoglioso da dare l’impressione di disprezzare tutti, testardo fino all’inverosimile: è un personaggio che per un lettore di Gadda ha già un’aria familiare. Anche lo stàrets Zosima sembra appartenere alla galleria dei modelli gaddiani. Nella sua vita c’è un dolore segreto, profondo, terribile: la morte di un fratello. Un giovane di diciassette anni che, con la sua scomparsa precoce, sembra avere influenzato in modo indelebile la vita di Zosima. E qui la coincidenza fra i due romanzi familiari, quello di Carlo Emilio Gadda e quello, fittizio, di padre Zosima, è davvero perfetta. La figura di Enrico Gadda, giovane eroe caduto in guerra, è ossessivamente presente nella memoria di suo fratello Carlo Emilio. E, non a caso, uno dei motivi guida dei monologhi di Don Gonzalo è proprio la perdita del fratello ucciso al fronte.

La scelta dell’ipotesto, quindi, non risponde a stimoli momentanei o superficiali, anche perché la sovrapposizione parziale fra la figura di Don Gonzalo e quella, diversissima, di Zosima, è introdotta da alcuni nitidi indizi che portano il lettore della Cognizione del dolore a considerare lo hidalgo una specie di monaco o un mistico. Basta andare alla scena della visita medica con la quale si apre il terzo capitolo. Don Gonzalo si spoglia, si sdraia sul letto dal «candore conventuale», e si raffigura come un «ingegnere-capo decentemente defunto».

L’immagine monastica del letto viene poi ribadita dalla gestualità che accompagna la visita, perché il malato immaginario congiunge «le mani sotto il ventre, come sogliono tenerle i monaci» e pensa di vedere, di là dai monti, degli «eremi». La camera di Don Gonzalo, spazio predisposto all’ascesi mistica, verniciata «com’era l’uso di Spagna, un tempo», ci viene presentata come la cella di un convento abitata da un personaggio che vede se stesso come un morto. La sua faccia ricorda una «maschera, da dover consegnare alle gipsoteche della posterità» e, anche se il narratore sottolinea che si tratta «dell’unico Pirobutirro maschio vivente», l’impressione di quel corpo, «orizzontale sul bianco» è quella di un «morto» che si prepari all’«auscultazione». (17) Durante la visita medica Don Gonzalo sembra dunque prefigurare l’immagine del proprio cadavere sdraiato su un letto conventuale, anticipando quindi il richiamo ai Karamazov delle pagine successive.

Passiamo infine ad Orazio. «Absint inani funere neniae | luctusque turpes et querimoniae…: sono versi che ricorrono spesso in Gadda, che li ha commentati anche nei Chiarimenti indispensabili della poesia Autunno, e parafrasati in un altro luogo della Cognizione del dolore:

A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non erano scemati d’altezza fra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità. (RR I 678)

è la madre, qui, che richiama i versi di Orazio. Gonzalo è un sopravvissuto. A lui non è stato tributato nessun onore funebre. Non ha ancora conosciuto i fasti verminosi della morte. Come si vede, i versi di Orazio entrano in cortocircuito con il tema della decomposizione del cadavere.

L’ode (Carminum liber, II, 20) è un commiato di Orazio da Mecenate dove il poeta annuncia e prefigura la propria morte, raccomandando, appunto, di tralasciare tutte le forme troppo ostentate di lutto e di dolore, e di celebrare in silenzio il funerale. Se cercassimo di spiegare le ragioni profonde che inducono Gadda a fissare la sua attenzione su versi così crudamente vincolati all’angoscia della morte e al tema del lutto, rischieremmo di perderci nei meandri di una lettura psicoanalitica molto sterile.

Sappiamo però come Gadda interpretasse questi versi, perché in una pagina di Eros e Priapo lo scrittore li commenta piuttosto ampiamente. Orazio, dice Gadda verso la fine del pamphlet, odia i funerali scenografici, dove si esibisce un lutto finto, e desidera per sé un funerale senza cadavere, cioè inane, perché egli come Icaro volerà in alto nei cieli della poesia: la «macabra carnevalata» sia destinata ad altri. Gadda concede che una madre che abbia lasciato un figlio «sul Carso o appiè l’Altipiano» (SGF II 372) porti su di sé qualche segno del dolore (di fronte alla forza tragica dei lutti della Grande Guerra anche Orazio fa un passo indietro…), ma si augura per sé un funerale senza cadavere: troppo è l’orrore per il destino «verminoso» che attende il corpo morto!

Ma c’è un’altra rielaborazione dei versi oraziani. Si tratta di un frammento inedito che è stato recuperato da Manzotti nel suo commento alla Cognizione del dolore e che Gadda non volle inserire nel testo definitivo del romanzo:

Le nenie inani e le mentite querimonie non lo avevano per anche ravvolto del loro sudario nero, nè lo aveva polluto di sue libidini la gloria degli oratori, nè il turpe singhiozzo dei feneratori, nè il pianto, nè le oscene querimonie, nè il laido guaìto dentro la notte di stipendiate prefiche. La sterquilina gloria dei profittatori non gli aveva ancora sparnazzato sul volto le sue ali di baldracca. Arpia fetida e cadaverosa, insaziata del lezzo di morte, no, non era ancora pervenuta a poterlo scacazzare sul cataletto, lascivamente lodando della sua pioggia anale e delle sue folgori anali la dignità immobile d’una forma oramai circonfusa di bugìe, preda dei vermi nascenti. (Gadda 1987a: 273)

Come definirla? Parafrasi? Riscrittura? Commento? Dietro la fitta trama dei motivi macabri si riconosce il profilo inconfondibile di Orazio, ma la prospettiva di Gadda sembra dilatarsi verso altri autori e altri temi. Mentre Orazio immagina una metamorfosi del suo corpo in uccello, un Icaro che volerà libero in cielo, Gadda lascia emergere una ben più sgradevole presenza ornitologica: un’arpia «cadaverosa» (l’aggettivo è un francesismo modellato probabilmente sul «livre cadavereux» di Baudelaire). (18)

C’è un inspiegabile cortocircuito fra diverse presenze femminili: la prostituta, che in Gadda è sempre connotata dal cattivo odore; le Arpie cadaverose, che emanano un «lezzo di morte»; le «stipendiate prefiche», figura teatrale del lutto malamente esibito. Ci sono, infine, corona immancabile di ogni scena di morte, i «vermi nascenti» che si cibano del cadavere defecato come un escremento. Il valore letterario del passo è scarso, ma certo vengono messi a nudo dei contatti sotterranei fra sfere diverse dell’olfatto di Gadda (la putrefazione, gli escrementi, il sesso) e un intreccio di memorie letterarie collegate a questo motivo guida.

è scontato che il cattivo odore dell’arpia e la sua abitudine di «scacazzare» siano ricavati dall’Eneide, dove l’arpia Celeno esibisce una «foedissima ventris | proluvies» (III, vv. 216-217), ma non è escluso che l’arpia «insaziata del lezzo di morte» si immascheri, agli occhi deliranti di Gadda, della smorfia di una Erinni. Nel 1926 l’editore Laterza aveva infatti pubblicato la traduzione di Coefore di Manara Valgimigli, dove, e a me sembra una coincidenza davvero significativa, i versi 577-578 erano tradotti ricorrendo allo stesso participio utilizzato da Gadda: «E la Erinni, insaziata di strage, puro sangue berrà della terza libagione.» (19)

Siamo nel cuore del mito di Oreste, il matricida, il malinconico, il perseguitato dal rimorso fino alla pazzia: l’archetipo di Don Gonzalo. Oreste, poi, significa Amleto, problema letterario e psicologico su cui l’autore della Cognizione del dolore costruisce un mito personale di straordinaria vitalità. (20) Il cattivo odore delle Erinni è proverbiale, ed Eschilo stesso, all’inizio di Eumenides, lo descrive come un fiato marcio che ammorba l’aria. (21) C’è dunque, nella memoria di Gadda, un intreccio di ricordi letterari e di riletture sui motivi della donna puzzolente e della morte: eros, putrefazione, scatologia, tutto si intreccia nella figura simbolica dell’Arpia-Erinni.

Ma torniamo alla Cognizione del dolore. Anche in altri punti del testo affiora l’archetipo dell’odore cadaverico, ossessivo e ineluttabile compagno di tutte le riflessioni sulla morte di Don Gonzalo. Esasperato dall’invadenza della presunta servitù della madre, lo hidalgo arriva a meditare una strage a raffiche di mitraglia: per uno scontato processo di associazione ripensa ai tempi della guerra, «alla caponiera del Faiti», «tra le scaglie del sasso» e, naturalmente, ai soldati «dentro il fetore». Anche quando il tono si stabilizza sul registro satirico e grottesco, come ad esempio nella tassonomia dei diversi tipi di fulmine, la marca olfattiva della morte finisce per smorzare il clima burlesco della pagina. Dopo aver letto della «manubia numero uno», fulmine di avvertimento, e della «seconda briscola», fulmine che sancisce un limite perentorio ai cattivi comportamenti degli uomini, il lettore deve fare i conti col «fulmine stroncatore, scavezzacollo», il quale:

… lascia, al posto del delinquente, una chiazza nerastra per terra, arsiccia, da cui certe volte esala un breve odore di solfiti e ammoniaca: e nient’altro. Nient’altro, capite? Nient’altro, nient’altro se non un breve odore di solfiti e di ammoniaca, che un breve fiato di vento annichila nell’aria. Nient’altro. (Cognizione, RR I 718)

L’orrore per l’annullamento istantaneo del corpo, che si lascia alle spalle un odoraccio di solfiti e di ammoniaca, viene manifestato con la ripetizione insistita di «nient’altro», come se una morte diversa garantisse la permanenza di qualcosa di più di un semplice odore. Sognava la mummificazione, De Madrigal, in trincea.

L’immagine del proprio corpo putrescente, della sepoltura e del funerale è celata però anche negli interstizi del testo, lì dove una raffinata strategia retorica cerca di attenuare le ossessioni tematiche dello scrittore. C’è un passo dove Don Gonzalo evoca un sogno in cui la madre gli è apparsa velata: quella «forza nera» gli sembra simile al peso del «coperchio della tomba» (RR I 633).

Poco dopo, una similitudine iperbolica fra la «disperazione» esistenziale che non gli dà tregua e la fatica inutile e insopportabile di chi tentasse di «issare un cadavere in cima alla torre Eiffel» (RR I 634). Ancora una pagina e inizia l’invettiva contro i pronomi, dove troviamo un’immagine metonimica degna del De contemptu mundi: «la nostra avarizia di stitici destinati alla putrescenza» (RR I 636). Si noti la sintesi perfetta fra la sfera olfattiva degli escrementi e quella dell’odor cadaverico, resa ancora più significativa dalla presenza di uno degli indizi più certi della malinconia: l’avarizia.

Infine un passo di un monologo che rischia l’obscuritas, anche se il significato di morte risulta chiarissimo. Troviamo accumulate «le urla di morte, le barricate, le comuni, le minacce d’impiccagione ai lampioni, la porpora al Père Lachaise; e il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti» (RR I 698): è probabile che Gadda abbia in mente qualche incisione dei Désastres de la guerra, dove non mancano scene di cadaveri «rifiniti», o magari la più celebre, anche se meno cruda, Fucilazione del 3 maggio 1800. In ogni caso, per Gadda la scena mortuaria non può dirsi completa se mancano cadaveri sanguinanti già avviati alla putrescenza.

Il tema della putrefazione del cadavere è dunque al centro di un fitto intreccio di metafore e di memorie letterarie: lo definirei un catalizzatore dell’immaginario dello scrittore. Per il momento mi sono limitato a scomporlo nei suoi ingredienti più riconoscibili, ma è forse il caso di approfondire l’analisi oltre la semplice rilevazione dei contatti intertestuali. Per azzardare un’interpretazione della metafora-allegoria del cadavere, chiederemo aiuto a una guida illustre: Walter Benjamin. Prima di affrontare le ardue pagine del Dramma barocco tedesco, concediamoci però un breve intermezzo a base di teatro novecentesco: non è forse vero che La cognizione del dolore è un testo quasi teatrale (con qualche sospetto di unità di luogo, tempo, azione, e una serie di trucchi drammaturgici come l’entrata in scena tardiva e annunciata dei due protagonisti, i dialoghi che invadono la diegesi, etc.)? Non è forse vero che i modelli di Don Gonzalo, Amleto e Oreste, sono personaggi destinati al palcoscenico?

Università di Bologna

Note

1. L.F. Celine, Voyage au bout de la nuit, in Romans (Paris: Gallimard, 1981), I, 239-40.

2. Ho ricavato questi termini dalla lettura di alcuni saggi di psicopatologia. Tra questi, vale la pena citare Il tempo vissuto di Eugène Minkowski (Torino: Einaudi, 1971 – ma l’edizione francese risale al 1933). Minkowki insegna che le allucinazioni sensoriali e il delirio interpretativo del malinconico si manifestano quando il rapporto Io-mondo è alterato. Quando l’Altro è percepito come bruttura e minaccia, la gamma percettiva si riduce a poche ma ossessive sensazioni basse e sgradevoli. Seguendo poi alcune indicazioni di Dupré, Minkowski verifica anche casi di cenestopatia dell’olfatto: casi, cioè, in cui all’olfatto viene erroneamente attribuita la responsabilità di una sofferenza psichica. È una patologia ben nota a Don Gonzalo, che sostiene di avere avuto la giovinezza rovinata dal naso troppo sensibile ai cattivi odori.

3. Se un lettore di stomaco forte desiderasse mettere il naso direttamente nei testi di Gadda, alla caccia di queste pessime essenze, gli consiglierei un primo giro di perlustrazione in Accoppiamenti giudiziosi, RR II 623, 645, 665, 693, 705, 709-11, 764, 772, 788, 789, 828, 851, 853, 903, 927 – per poi passare a Madonna dei Filosofi (RR I 28, 41, 44, 52-53, 88) e concludere con la lettura integrale di Eros e Priapo, Primo libro delle Favole, e Cognizione del dolore.

4. In Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (in Opere, Torino: Boringhieri, 1974, VI), che è più noto come Caso clinico dell’uomo dei topi, Freud scrive che il paziente «era anche un olfattivo» e che in genere anche «altri nevrotici» mostrano di provare piacere nell’«odorare». Freud si chiede se «l’atrofia dell’olfatto e la conseguente rimozione organica del piacere olfattivo non siano in buona parte responsabili dell’idoneità degli uomini a diventare nevrotici» (p. 74).

5. La mia impressione è che l’uso metaforico di annusare venga a Gadda dall’amatissimo Orazio (cfr. ad esempio Sat., I, 3. 29-30; Sat. I, 4, 8; Epist., I, 19, 45). Saara Lilja, in The treatment of odours in the poetry of Antiquity (Helsinki: Societas Scientiarum Fennica, 1972), sostiene che «apart from Plautus, Horace was the most interested of the Roman poets in the imagery pertaining to the sphere of odour». E infatti, «in his Satires the word nares is used metaphorically to mean a faculty of observation and judgement» (p. 212). Sono parole che potrebbero essere spese anche per l’olfatto di Gadda, che è allo stesso tempo strumento di satira e di conoscenza. Si noti, tra l’altro, che in Sat. I, 4, 8 è detto «emunctae naris» un poeta come Lucilio, quasi a stabilire un legame profondo fra la satira e la finezza dell’odorato, e che altri maestri della satira latina come Persio e Plauto erano soliti servirsi di metafore olfattive. Questo particolare nesso fra satira e annusamento della realtà è forse uno dei motivi che possono spiegare la presenza costante di Orazio nell’opera di Gadda.

6. In un saggio apparso sul Fanfulla della Domenica del 6 gennaio 1889 (XI, 1) e rielaborato nella Fisiologia dell’odio, Paolo Mantegazza, le cui opere erano ben note a Gadda, individuava nell’olfatto il «senso topografico» per eccellenza e giudicava le «antipatie olfattorie» come le più radicali e irrimediabili. L’antropologo milanese sosteneva anche che l’impressione olfattiva era determinante in qualsiasi processo razionale di valutazione delle cose, dei luoghi, degli uomini. Insomma, il naso vale sempre più dell’anima… Anche Léon Daudet, in Melancholia (Palermo: Novecento, 1989 – ma l’edizione originale è del 1928), si chiedeva retoricamente se il naso ci informasse «delle vicinanze pericolose» e se fosse «responsabile delle simpatie e antipatie» (p. 103).

7. Di questi autori Gadda conosceva, con ogni probabilità, Les folies raisonnantes (1909).

8. Il nesso fra miseria (in senso esistenziale e morale) e fetore del corpo e delle funzioni fisiologiche è uno dei motivi topici della letteratura mistica. Gadda conosceva, probabilmente, il De contemptu mundi di Innocenzo III (ne parleremo più avanti) e Santa Caterina da Siena (nell’edizione delle Più belle pagine pubblicata da Treves del 1922). Poteva quindi utilizzare il termine miseria in un senso non puramente economico o sociale. La scrittura di Santa Caterina, d’altra parte, così ricca di umori espressivi e di ritmi ossessivi, potrebbe essere stata una delle fonti quattrocentesche dell’idioletto sintetizzato nel laboratorio di Eros e Priapo. A Gadda sarà piaciuta anche l’eccezionale frequenza di odori, soprattutto di quelli del «corpo corrotto».

9. E. Minkowski, Vers une cosmologie (Paris: Fernand Aubier, 1936), 116-17.

10. Devo rimandare a Massa e potere, e in particolare a una pagina in cui Canetti analizza in modo impareggiabile il rapporto fra l’agire in massa e il tentativo di «precedere la morte». L’orrore per gli odori della trincea, così frequente in Gadda, potrebbe essere letto anche sullo sfondo filosofico delineato da questa pagina. E. Canetti, Massa e potere (Milano: Bompiani 1989), 87.

11. Giornale, SGF II 854, 686, 724, 693 e 784. Molti anni dopo l’esperienza della trincea, Gadda si trovò a dover descrivere il cadavere di una donna bellissima, Liliana Balducci. L’occhio di don Ciccio coglie ogni dettaglio di quel corpo senza vita. E il sangue raggrumato, nero, che è colato fra i seni e sul pavimento, gli pare «da Faiti o da Cengio» (Pasticciaccio, RR II 59). Di fronte al cadavere di Liliana, don Ciccio ricorda la trincea e i suoi cadaveri. Dopo la guerra, ogni cadavere, anche quello di un personaggio soltanto immaginato, non fa che replicare l’archetipo ossessivo osservato sui campi di battaglia.

12. Giornale, SGF II 686 e 856. È probabile che le metafore funerarie, soprattutto quelle collegate all’esperienza della guerra, siano anche il risultato dell’affioramento di letture sedimentate nella memoria di Gadda. Penso ad esempio a un capolavoro di Balzac, Le colonel Chabert, dove si ritrovano i paragoni fra il soldato e il cadavere vivente, fra il giaciglio e la tomba, fra il volto melanconico e il busto di cera, fra il corpo ferito e l’edificio in rovina: paragoni tipici del repertorio gaddiano. Il colonnello Chabert, i cui occhi velati sembrano tradire una «malinconica pazzia», è un reduce delle guerre napoleoniche che ha vissuto la terribile esperienza di essere sepolto vivo in una fosse comune, avvolto in un’«aria mefitica». Poi la prigione, la miseria, la solitudine, lo spleen, insomma il curriculum tremendo accumulato anche da Gadda nella sua vita di «umiliato e offeso»…

13. Innocenzo III, De Contemptu mundi (Firenze: Società anonima editrice La Voce, 1924), 36.

14. cfr. Roscioni 1975: 164 n. Nella redazione del Pasticciaccio pubblicata in Letteratura (1946-1947) è compresa una lunga nota sui celibi illustri non presente nel volume edito da Garzanti. Il discorso di Gadda, che non è possibile riassumere, contiene anche un accenno ad Alessandro Borgia, che «morì nero ad agosto (e puzzò dopo qualche ora)» (RR II 309, n. – corsivo mio). Proprio come il cadavere di Don Gonzalo. E come quello dello stàrets Zosima nei Fratelli Karamazov, che, come si vedrà, è una fonte importante della Cognizione del dolore.

15. F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (Milano: Garzanti, 1974), 352.

16. Era un Gadda molto vecchio e stanco (1972), e quindi non ricordava il titolo del romanzo (cfr. Gadda 1993b: 215).

17. Cognizione, RR I, 620-21. Anche la faccia del cugino Pons ha un aspetto funerario: figlio tardivo di una vecchia coppia, la sua faccia ha una tinta cadaverica. E infatti il suo destino è quello di uscire di scena come cadavere: un intero capitolo del romanzo è dedicato al funerale di Pons: alla sua faccia rilassata, alla vestizione, alla cassa da morto; al monumento al Père-Lachaise. Qualcuno propone di imbalsamarlo: Absint inani funere neniae | luctusque turpes et querimoniae

18. cfr. C. Baudelaire, Le Squelette laboureur, in Poesie e Prose (Milano: Mondadori, 1973), 188. Un’eco più diretta di questa iunctura baudelairiana si trova in Cognizione, RR I 682, dove si parla di «poemi cadaverosi». Ma l’immaginario macabro di Baudelaire produce anche altri capolavori di sintesi. Nel poemetto Le Tir et le Cimetière dello Spleen de Paris, il poeta-personaggio capita in una mescita posta di fronte a un cimitero. «Certo all’oste piacerà Orazio!», pensa, bevendo un boccale di birra. Poi entra nel cimitero, la cui aria è piena di un «brusio» vitale: è una sinestesia che traspone un odore in suono, perché in realtà si tratti dei vermi che producono «i profumi ardenti della Morte». D’altra parte, Baudelaire è il poeta di Une Charogne, allegoria lirica dove un cadavere in putrefazione viene scomposto nelle sue infinite componenti olfattive e simboliche.

19. La traduzione di Manara Valgimigli è stata ripubblicata in Eschilo, Orestea (Milano: Rizzoli, 1980).

20. «il mito agisce in Gadda anche come viluppo di pulsioni o di fantasmi» ed «è soprattutto la Cognizione che ne certifica la presenza»: affermazioni di Fausto Curi che mi convincono pienamente – F. Curi, La scrittura e la morte di Dio (Roma-Bari: Laterza, 1996), 105. Nel Gadda autobiografico, la trama di ossessioni e di fantasmi viene innestata nel terreno fertile del mito classico: e penso, in primo luogo, al mito di Oreste.

21. Eschilo 1980: 278-279. È singolare che von Hofmannsthal introduca Elettra collegandola all’odore cadaverico. La terza serva, infatti, raccontando alle colleghe il suo incontro con la figlia di Agamennone, ricorda di averle detto: «Perciò stai sempre accovacciata là dove un fetore di carogna ti inchioda, e vai raspando per un vecchio cadavere» – H. von Hofmannsthal, Elettra (Milano: Garzanti, 1981), 11.

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© 2001-2024 Giancarlo Leucadi & EJGS. Issue no. 1, EJGS 1/2001. Previously published in G. Leucadi, Il naso e l’anima. Saggio su C.E. Gadda (Bologna: il Mulino, 2000), 101-42.

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