Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Torre-treno

Alessio Ceccherelli

A dispetto della sua immobilità implicita, ontologica, dall’alto e a proteggere la comunità, il villaggio, a simboleggiare dominazione, nobiltà, ordine, la torre è in Gadda associata al concetto di movimento, a cominciare dall’evocazione immediata del tempo d’antan, dello scorrere continuo dei secoli: movimento dal senso di protezione alle vestigia di quel senso. La torre è quanto resta dell’avvicendarsi delle generazioni, figlia legittima del tempo e dell’uomo: «Dei secoli sono germinate le torri» (RR I 292) – emblema, forse, di una dispersa armonia, di un movimento peraltro ambiguo proprio perché lento, impercettibile, che dà l’impressione parallela e opposta di fissità.

La torre di Gadda ha aspetto e importanza di cronometro, e non è raro trovarla descritta con l’orologio incastonato nella pietra: «Sei e venticinque nell’orologio della torre: quanto nel suo proprio, esattamente» (RR II 189). Più spesso, ha campane a scandire l’ora, e dunque ad accogliere in sintesi, in comunione, tempo fisico e tempo rituale; il campanile, centro del paese, accompagna, il viaggio diuturno del sole, la fatica inesausta del contadino: «E porta e trasporta, la giornata gli si consuma […]. È solo, sudato. Solo il suono dell’ora è rituale nel suo celebrare. Viene dalla vecchia torre, come un vecchio ed eterno pensiero» (RR I 39). L’edizione ’63 della Cognizione recava come clausola proprio il suono dell’ora: «E dalla torre, dopo desolati intervalli, spiccavasi il numero di bronzo, l’ora buia o splendente» (RR I 714).

Il passare, il battere del tempo è dunque consustanziale alla torre: Gadda, non a caso, predilige descriverla nelle fasi di trapasso, con preferenza per il vespero, per un passaggio che cioè muove non alla vita, ma al suo termine; senso di decadenza, di disfatta, di morte connotano la torre in ambiente sovente serotino: «Quella sera la mamma era assente […]: i vecchi quadri senza senso erano piombati a un tratto nel buio. Sette rintocchi, dalla vecchia torre, caddero nel lago opaco del silenzio. Poi un ritornello che saliva dalla via solitaria» (RR I 225).

Nella torre gaddiana vige un ossimoro implicito: moto e spostamento, associati ad immobilità. Contrasto altrettanto netto si ha nella contrapposizione innanzitutto geometrica, tra la (verticale) fissità della torre e la fuga (orizzontale) di un treno che si allontana lentamente nella pianura. Le due figure tornano più volte appaiate in vari scritti: nell’opposizione tra il «bioccolìo bianco» del treno e i «fastigi delle torri» (RR I 55, 575, 615), si esplica l’ambivalenza di una fuga negata già dal suo determinarsi, dal suo poter essere. Il vapore «sfiora» i culmini della torre, rende tangibile il senso di moto, il contrasto con l’inevitabile fermezza della torre. Il treno si smarrisce, si perde: fugge, e, nel suo fuggire, sembra poter simboleggiare una possibilità di salvezza, di riscatto; come viene detto in uno scritto tardo: «Paesaggio romantico pontino: non lontana la linea ferroviaria, la direttissima Roma-Napoli […]: il direttissimo sopraggiunge a tutta velocità, simbolo doloroso della facile fuga» (SVP 968). Un treno che passa è, per convenzione, la possibilità della fuga, di un’ipotetica palingenesi, altrove.

Il treno è movimento, il movimento è vita. La torre no; la torre è stasi, sclerosi: «Nuove nuvole in cielo, vecchia torre, campagna pontina verso le paludi. Secondo treno fuggente verso Napoli a tutta corsa» (SVP 970). Non è, allora, un’opposizione soltanto geometrica quella tra torre e treno, ma esistenziale, ideologica: nella condizione in cui tutto viene «esaurito dalla rapina del dolore», in cui si sta come «chiuse torri» contro il vento, il treno è forse quella «nuova favola, tenue, dolcissima», quella possibilità che lentamente si allontana: fino a scomparire. Ma la fuga, questa «facile fuga», è appunto «favola, tenue», è «inganno delle prospettive»: come il vapore bianco del treno, si sfa, svanisce. O meglio è fuga lungo i binari dello spazio-tempo e che quindi non si perde all’infinito: vertigine passeggera, fino alla prossima fermata, «verso la pianura e la città», luogo della vita, sì, ma di una vita cui, per Gadda, è impossibile partecipare.

Il treno è, poi, più prosaicamente, il mezzo di trasporto usato dall’ingegnere per spostarsi tra i vari luoghi di lavoro: il mezzo con cui lascia la casa e con cui vi ritorna. È, in breve, qualcosa di strettamente legato alla sua presenza-assenza nella casa, e dunque connesso pur sempre alla Madre: «Aveva udito il rotolare del treno… il fischio d’arrivo… Avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità. Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa» (RR I 684). Per la vecchia madre in ascolto, il fischio riporta alla coscienza la solitudine, la rende più cruda. Ma se Gonzalo, per l’udito della Madre, è legato in qualche modo al treno, agli occhi dello hidalgo, per converso, la figura della Signora si confonde nella sagoma turrita: la madre è la torre che si erge, costantemente, alta, muta, a dominio della pagina gaddiana, e della torre ha almeno una delle sue caratteristiche: senso di protezione, e poi di insolvenza alla protezione. Il traslato è Gadda ad effettuarlo, esplicitamente, legando «l’amore delle torri» proprio alla «fase intra-uterina» (Una tigre nel parco, SGF I 77).

La perseveranza nel richiamare l’immagine della torre, emblema di fissazione, si sposa invero assai bene con l’interesse ossessivo per ogni sorta di figura materna, evocazione costante, spesso gratuita. A voler dire tale ossessività nei versi del Pensiero dominante di Leopardi (il cui posto nell’anima e nell’opera gaddiana risulta fondamentale anche per il tramite delle madri): «Siccome torre | In solitario campo | Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei» (vv. 18-20). In mezzo alla mente di Gadda.

Università di Urbino

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0

© 2002-2024 by Alessio Ceccherelli & EJGS. First published in EJGS (EJGS 2/2002). EJGS Supplement no. 1, first edition (2002).

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