Dalle specchiere dei laghi

Il calesse fu preso da velocità dopo due spari della frusta, rapito via dal nervoso manovellare de’ ginocchi, degli stinchi, in una precipitazione di zoccoli ferrati. Foglie planavano dai platani: sorvolando, lente ali, i taciturni disegni dei cancelli. Dai rami, che sarebbero bracci e gomiti e nude nocche di scheletri, qualche stilla gocciò dentro la felicità del mattino, fatto di rosei baci tra folate della nebbia. L’odore del cavalluccio sudato vanì senza sua pena: ed era per me, nel vento, il misericorde sostegno della vita, della terra, della famiglia sognata, del vecchio servo.

Vanì con esso l’immagine dei meriggi affocati, dove, di certo, la speranza operosa dei maggiori aveva premeditato l’esile incertezza della mia vita: e a me la buona casa lombarda apriva di là dal portone l’ elisio suo parco. Alti pini, a cono, dal prato; neri, a tre, decoro e triade di meditanti filosofi. L’onnipresente cicala. La ninfa di pietra grigia da mola, oltre i mirti: e, nei lauri, galeato il velite e loricato, sogno romuleo, squamme d’un’ammirata fortitudine, dove immorde il lichene. La casa protendeva incontro alla infinità chiara della terra assolata, dei poggi, le due ali scialbate cortesemente a giallino, con gran numero di sue finestre verdi: a circoscrivere da tre lati il vasto cortile di Lombardia, aperto nel quarto lato verso il parco. E nel corpo centrale era il portico, a tre luci, su colonne di ghiandone, e le signore sedute vi stavano ad agugliare attendendo la discesa del giorno: dopo essersi sguernite della lor prole tra confetti e trine.

Vanì l’immagine dei nonni, signore e signora venerati nei ritratti; a cui l’animo si rivolgeva pensoso, porgendo quasi il fiore del rimpianto e della gratitudine, labile fiore. Disparve, con l’odore buono, il mistero della rimessa, delle carrozze dai nomi francesi ed inglesi, delle gualdrappe di feltro, delle coperte spesse, rosse, o gialle, o scozzesi, degli insevati finimenti con borchie di ottone lucido, con fibbie.

E, tratto pel morso fuor dalla portina di scuderia, con ogni riguardo, con ogni deferenza, lui, lui! il cavallo! il più alto dei tre. Per addobbarlo secondo meritava la gala. Ed ecco ecco adergeva la sua coda-frusta piena di maestà e di vigore, terror dei tafàni. Ecco, ecco: il rosone d’una cattedrale gotica estrudeva dovizie fumiganti. Venivano raccolte, cumulate, serbate, fattane stima e pregio, vantate appetto altre signorie: ed erano un caldo fomento davanti le soglie della primavera, quando il monte San Primo si disincrosta delle nevi, e muglia rovinoso il Lambrone irruente sotto il ponte, alla Malpensata.

Di tra gli sdruci della nebbia, i gelsi mi strinsero. Parevano irridere alle mie vesti: «è giorno di nozze, dimani, per te». Avevano dato a mangiare e mangiare. Ai voraci bigatti del tempo ricco, industre, degli anni oggimai superati. Anni, figli degli anni. Dei lontani. Di quelli, forse, che diligenti ingegneri avevano redatto i mappali e i registri del catasto impeccabile, per la maestà di Maria Theresia formosa imperatrice e regina. Tutti i gelsi erano registrati nel catasto. E adesso rabbrividivano alla ruggine e al male degli anni, con croste di strani licheni dopo l’abbandono; inghirlandati alla pianta, fuor dalle guazze d’autunno, di smilzi funghi. Non si sapeva bene, questa fungaglia, se riuscisse letìfera o èdule. Certuni, i più poveri, i più ghiotti, se ne lasciavano tentare: bagna perniciosa od ambigua sulla loro polenta dura.

Rividi, rabbrividendo, ma solo un attimo, la cantina alta, buia: quasi speco benigno: con travi bistorti di cui pativo, sgomento, la inusitata dimensione e fatica: di castagno o faggio che erano, e della montagna di Valbrona, o di Barni. Drappeggiati di ragnateli pesi, antichi. Con le botti, enormi. Col tino. Pregna di fermenti e di mosti.

E il vitone del torchio e il trave a braccio che contrastava paurosamente alla trazione del canapo: e la loro spenta opera, dopo le voci de’ contadini in travaglio: ultimata la svinatura, già lontane le ore fervorose della vendemmia tutta in un andirivieni di cavagne, di sbatacchianti zoccoli. E la ruota che aveva cigolato tanto, ponendo in tiro la fune sotto il vigore e l’imperio degli irsuti, da metter paura a ogni donna. Gli indaffarati giorni s’erano fatti cheti al vino. E le raggiere de’ ragnateli nuovi mi ricrearono l’idea d’un castello, corona di torri: dove Albaspina si fosse addormentata, e ricinta di tutti i ragnateli del bosco. E gattocalzato si aggirava d’attorno i legni della cantina: nera fantasima, velluto, da sopra una botte a quell’altra. Anima e spirito di tutti i velluti neri: di Como, forse.

I suoi baffi vellicavano, elettrizzavano la pelle dell’opaco Mistero: i suoi occhi insinuavano una coscienza di topazio, imperterrita, nella tenebra della cantina. La esalazione interminabile dei tini gli disgregava il naso in un caldo prurito, confidenza ebbra verso la domestichezza del dimani.

Tutto vaniva. Tutte queste immagini erano vere nella vita degli altri. Tutti erano agiati, laboriosi, e da senno. Dietro ai bozzoli e alle bacinelle delle filande non avevano perduto denari, ma anzi raggiunto buona facoltà. I bozzoli e le filande erano motivo di giusto vanto per le loro ditte, stimate in Milano. E il grigio e nero monte si spiccava su, feroce, come agugliata schiena d’un sauro, dalle specchiere serene dei laghi, di sopra agli sbrani della nebbia. «Talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte...» Ero, ero, di fronte. Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, gastigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli: emerso dal vaporare delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo.

E lo schiocco fuggitivo, perdendosi, designava omai le svolte lontane della strada, compatta e buona sotto alle zampe e alle ruote; per tutti i barocci con le derrate, i fusti, i càlami infiniti della campagna; per carrozze nere di signori con fanaliere, per il calessino del vecchio servo e del fattore ammantellato, dal bavero di pel di volpe: la frusta eretta, come un’antenna sottile nel portafrusta, che sibila dentro la corsa nel travenire lieve del vento. Vaniva ogni immagine, ogni soccorso, e il trotto lontano! tra le porpore de’ scarmigliati pampani e gli ori falsi dei gelsi, dopo i platani, verso i cancelli e gli olmi. Nella terra che avrebbe potuto essere terra e patria anche a me, come a tutti era, e c’erano per i chiari sentieri le ragazze delle filande, con un canto, con a mano il secchiello della refezione: contadini robusti, sudati, dentro la luce di operosi mattini. Un ricco, fumigante letame veniva inforchettato sui carri con il declino di settembre, sparso dovunque alla terra, davanti fatiche sacre. E sull’andare della strada il cigolio delle carra, il dondolo di pertinaci sonagliere, o cavalli tozzi, sudati, incitati da corta frusta, quando la viene impugnata alla rovescia e si abbatte a stanga sulle groppe o contro l’impegno volonteroso delle culatte. Con l’ü violento, o strascinato, dei carradori lombardi. Erano degli energumeni rossi, fedeli al cammino. Avevano carichi di sete, di filati, sui lor carri, o sacchi di infinite patate. Ed erano uomini con un fazzoletto di seta d’attorno il collo, con la catena d’argento al panciotto. Rossi nel volto, nel collo, da parer cotti. 0, talvolta, fermi a tracannare un bicchiere dov’è la porticina dell’osteria della pesa; o mi guardavano, passando, o sostando: come antichi liguri assueti a durezza, come antichi celti ai guadi, con naso di cane. Altri parevano i taciturni camminatori delle valli, discesi dalle bocchette dell’Alpe, gelide, e poi lungo i cammini delle forre, sotto eremi strani. Con freddi occhi. Già biondi, forse, e adesso canuti in una vecchiezza scarna, prudente, e fattiva. Con nasi aquilini o diritti, affilati quasi; e Autari e Agilulfo erano stati re nel tempo, e la saggia e provvidente regina. La torre che ne rammemora il nome è un’asta nera infitta a sommo la collina più lontana, l’estrema, verso Monza: verso la Sedia del regno: «Est sedes Itagliae regni Modetia magni». Da quel colle, nei meriggi affocati, tutto il cielo della Italia.

Ed erano dolci e infinite le ville: giardini memori, più che i nepoti e gli eredi, fiorivano crisantemi alle tombe. Alcuni signori avevano anche una barca, piatta, di tra il fruscio delle brezze diacciate per entro i canneti dei laghi, armata a spingarda. Da trarre dopo ogni spiro della nebbia alle anatre selvatiche; e traevano col fucile a fòlaghe, sciaguattando nello specchio il setter, e talora lo spinone, a germani reali, ai beccaccini color di ruggine. E drappi e specchiere, nel mio sogno, come nelle agiate case.

Ero solo: con misere vesti. E al ristare d’ogni folata gli aspetti della mia terra. Avrebbe dovuto riescir madre anche a me, se non era vano il comandamento di Dio, come riescì a tutti, al più povero, al più sprovveduto, e financo al deforme, o a chi resultò inetto a discernere. Ma il dolce declino di quei colli non arrivò a mitigare la straordinaria severità, il diniego oltraggioso, con cui ogni parvenza del mondo soleva rimirarmi. Ero dunque in colpa, se pure contro mia scienza. Nella luce comune, di certo, avevo inosservato gli obblighi, gli infiniti obblighi; ignorato la legge: la legge che atterrisce, che punisce, che uccide. Nessun obbligo, nessuna legge angosciava il libero cuore degli altri. Se altri avesse lasciato dondolar la gamba, bimbo irrequieto, o avesse tentato di stropicciarsi le mani diacce da poter sostenere la penna, oh certo non sarebbe incorso nelle ammonizioni «illuminate», poi nelle punizioni feroci, distruggitrici, nascoste ai lumi e ai lampioni d’ogni umana cognitiva.

Facevo del mio meglio a leggere, ad apprendere. Gli altri erano sani ed allegri, portavano in sé una certezza; si affidavano al loro caso. Potevano intrugliare casi e date e numeri e compiti in un guazzabuglio pur che fosse, ed erano accolti tuttavia con carezze, baciati, pettinati con amore; e rivestiti di vesti. «Prendi il tuo latte, anima mia.» Il loro caso era la felicemente cicatrizzata menopausa di entrambe le nonne.

La disperazione mi chiamava, chiamava, dal fondo de’ suoi deserti senza carità.

Sbagliar tutto potevano, da cima a fondo, i grandi, i fabbricieri, direttori, i rettori o mestatori del comune o del popolo. Ed erano da tutti onorati, e chiamati maestri, con pelliccia e fiato autorevole nel gennaio, ed emolumenti e competenze, o parcelle. Il sauro Talchè non avrebbe mai accentrato su cotali padri la nera parvenza delle sue cuspidi, così come già fecero, sulla trireme alla fonda, le specchiere di fuoco d’oro del maligno Archimede. M’ero studiato di ridurre l’ecloga alla terza rima: oh! l’avevo a memoria. Oh! il mondo a venire. Ma, in sul chiudere la messianica, Vergilio aveva lacerato il tema, bruscamente: il vaticinio delle pecore pitturate: «Quello a cui i genitori non hanno saputo sorridere, né un dio vorrà degnarlo della sua mensa, né una dea lo degnerà del suo letto. Nec dignata cubili est».

E ricordo di aver veduto, ragazzo, il cavallo dagli occhi bendati a muovere tutto il «piantello» d’un filatoio di seta, in Brianza. Quel buon bestione sudato, che bisognava proteggere dai colpi d’aria, sentivo di amarlo e di rispettarlo: e lui seminava di un caldo sterco fertilizzante la corsia del gran cerchio motore, di legno. Il pettorale nonché l’imbraca erano fissati per due lunghe stanghe, come di baroccio, al muro, al Mondo: e costringevano lui in posizione fissa (così si dice nella meccanica): lui, il quadrupede, il paziente generatore dell’energia motrice. Sicché era invece il cerchione, capite?, a dover girare sotto l’ugne. E con il cerchione ci girava, scricchiolando, cigolando, tutto quanto il piantello. Un odore generoso, onesto, veniva, a zaffate, dalla groppa in sudore: mescolandosi all’odor del sevo di cui erano untati gli ingranaggi. Tutto l’enorme torrione di legno stagionato, alto i quattro piani della fabbrica, cigolava rivolvendosi davanti a noi, rotando e gravando con l’asse o albero e col perno unto dentro un supporto di ghisa, ch’era piazzato in cantina, al buio. E mi metteva davvero un po’ di paura.

Ignoravo l’enunciato fondamentale della meccanica moderna: ma già allora capivo di mia riflessione che quelle fumanti polpette erano «l’equivalente del Lavoro». Di tanto in tanto, povera bestia, doveva fare anche il bisogno piccolo: che per i cavalli viceversa è bisogno grosso, visto che li obbliga a fare alt: e allora bisognava fermare tutta la baracca. Ciò accadeva a mezzogiorno, o alle cinque: sicché la congiuntura veniva benissimo, tra le «esigenze di fabbricazione» e le «esigenze» del Signor Motore. In corrispondenza dei palchi superiori, mille rocchetti odorosi di bozzolo piroettavano senza tregua sui loro perni ingrassati a sevo, spogliandosi di un filo di oro, quasi un raggio perennemente fuggitivo, di cui si vestivano invece i grandi aspi, a sezione quadrata. Non vestito di seta, un ragazzo guardava stupefatto a quella complicata meccanica tolemaica, secondo cui, per ottenere la rotazione del pianeta-rocchetto, bisognava muovere fin dalle fondamenta tutto il gran castello del cielo, come un arcolaio.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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