Problemi di metodo
in margine alle poesie di Gadda

Maria Antonietta Terzoli

Una confessione circa i problemi d’officina, o le angosce o i ragnateli d’officina, comporta di necessità dei riferimenti a una vita, a una biografia interna ed esterna, si ingrana in una gnoseologia e in un’etica, nel mio caso molto più poveramente e meno felicemente che in altri in una esigua e frammentaria poetica: che il deflusso parallelo della mia vita e non vita ha reliquato, sì sì reliquato, frusaglia più o meno inutile, alle sponde deltempo consunto.

C.E. Gadda, Come lavoro

«Le angosce o i ragnateli d’officina», «esigua e frammentaria poetica», «frusaglia più o meno inutile» designano con esemplare autocoscienza i tratti necessitanti dell’intero corpus gaddiano, che meglio non si potrebbe qualificare che con l’attributo di «frammentario». Una frammentarietà non accidentale o esterna, ma inerente all’espressione, ontologicamente fondata. Ciò che rimane sulla pagina si configura appunto come frammento, lacerto di un tutto solo potenziale, residuo doloroso di un’esistenza offesa: «Non tutto il dolore è dicibile, non tutto il male e l’orrore: [...] avanti, dunque, con quella mezza dozzina di verità e con quelle due dozzine di mezze bugie che mi son rimaste, incomestibili briciole, nel mio tascapane di soldato, di ferito». (1)

La frammentarietà, così intrinseca all’opera gaddiana, ha determinato, come è noto, una situazione testuale intricata, che ancora richiede attente cure filologiche. Il luogo per eccellenza del frammentario e del non finito, la sede elettiva del caos e dell’angoscia gaddiana, sembrano essere le prove poetiche: poco più di una ventina di testi di diversa consistenza, rimasti per lo più inediti, talora incompiuti per difetto, o provvisti, in eccesso, di doppie versioni, e mai approdati a una raccolta d’autore. Nella loro relativa esiguità numerica, le poesie di Gadda costituiscono un corpus eterogeneo e composito, difficilmente riconducibile a un comun denominatore. Si tratta di una produzione assai varia, (2) distribuita su un arco cronologico molto ampio: dal 1910, data presunta del primo testo, al 1963, anno dell’edizione in volume di una poesia del 1931, Autunno, già uscita su Solaria, e riutilizzata come possibile finale lirico della Cognizione.

Gadda aveva cominciato la sua carriera istituzionale, anche se solo privata, di letterato con esercizi in versi, nella linea maestra, benché ormai perdente, dei letterati italiani. È l’autore stesso a confessare questa priorità, rispondendo, nel settembre del 1954, a un’inchiesta promossa dal settimanale Epoca:

Molti i conati, dai tredici in poi. Endecasillabi e prosa. Ottave infinite. Copiose terza rima (sic). Ebbi rima facilissima, di tipo «estemporaneo». […] La prima estrusione formalmente accettabile, nella fattispecie un sonetto, è del settembre-ottobre 1910: anni miei pressoché diciassette. Non vale molto, s’intende. (3)

A questa priorità cronologica nell’esercizio privato della scrittura non corrisponde però alcuna precocità di pubblicazione. Gadda pubblica la prima poesia solo nel 1932, dopo essere già uscito allo scoperto con vari scritti in prosa. Pochissime sono, del resto, le altre occasioni editoriali dei suoi versi, quasi sempre indotte da ragioni contingenti ed esterne: si tratti di inediti richiesti allo scrittore ormai affermato, di partecipazioni a numeri in memoria di amici scomparsi, o di primizie poetiche sollecitate in occasione di premi e riconoscimenti.

L’elementare opposizione di edito e inedito si complica poi di modalità dai contorni meno definiti, in presenza di testi solo provvisoriamente conclusi, con versioni rifatte a distanza di decenni, di poesie incompiute, o addirittura dotate per alcune parti di redazioni plurime e concorrenti. Si registra in presenza di questi individui, e si tocca materialmente con mano, il massimo grado di divaricazione tra una poesia edita e il suo primo abbozzo, talora quasi informe e solo a posteriori riconoscibile come appartenente a un testo preciso. All’editore critico si impone dunque la necessità di scelte mirate, di comportamenti specifici che rispettino la peculiarità dei singoli casi e insieme si richiamino a una comune opzione teorica.

Un primo problema, che si pone a chi voglia pubblicare testi poetici che l’autore non ha mai raccolto in volume, è quello della successione dei singoli pezzi. Per le poesie di Gadda non soccorre alcun criterio di pertinenza metrica. Si è anzi in presenza di un materiale morfologicamente difforme, dove trovano spazio i metri più canonici e ormai desueti, come sonetti e capitoli in terza rima, nonché le forme del verso libero e addirittura del poème en prose. A questa stregua, l’ordine meno arbitrario era quello cronologico di composizione, che riduce al minimo ogni illusione di struttura organica.

La data delle poesie, ove non sia indicata dall’autore o senz’altro registrata sul manoscritto, è stata ricostruita congetturalmente a partire da indicazioni esterne affidate ad altre opere, (4) o da citazioni, anche solo implicite, di frammenti di poesie entro pagine datate, per esempio in lettere coeve. In quest’ultimo caso, dato che sembra più probabile la rammemorazione di uno o più versi ripresi entro la prosa epistolare piuttosto che il contrario, la citazione consente di fissare un termine ante quem per la composizione della poesia. (5) Nel caso di più testi raccolti sotto la medesima data (per esempio 1919) si è rispettata la loro progressione nel manoscritto, che fissa comunque una cronologia relativa: se non di composizione, almeno di trascrizione. Si aggiunga che, per le poesie di Gadda, l’ordine cronologico è il solo criterio attestato nel caso di un minimo raggruppamento testuale strutturato con ambizioni di raccolta: due poesie, Alla montagna salire e Acqua nascosta, trascritte in pulito e numerate, che costituiscono forse il frammento superstite di una progettata raccoltina poetica. (Gadda 1993: 108).

Problema centrale è stato definire il testo. Era essenziale distinguere tra poesie edite dall’autore e poesie che, per i motivi più diversi, non sono mai approdate alla stampa, e che dunque sono da considerarsi, a tutti gli effetti, opere postume, con le cautele e i “distinguo” che tale condizione comporta.

Per le poesie edite il criterio è stato quello della fedeltà alla stampa, quand’anche presentasse divergenze rispetto a manoscritti più antichi e non si disponesse di stadi intermedi che attestavano la modifica. È il caso, ad esempio, di una poesia del 1919, Gli amici taciturni,pubblicata nel 1971 in un numero degli Studi Urbinati in onore di Leone Traverso. (6) Ai vv. 56-58 di questa edizione si legge: «E allora vediamo | Venire dal buio altri visi | Ancor nostri ricordiamo altri cuori». La lezione manoscritta suona invece: «E allora vediamo | Venire dal buio Altri visi | Ancor nostri | E ricordiamo altri cuori». Non è da escludere l’erroneità della stampa, o del suo presumibile antigrafo dattiloscritto, per cattiva decifrazione di un autografo non sempre perspicuo a causa delle numerose correzioni. Tanto più che la lezione manoscritta sembra fornire un senso meno oscuro e si inserisce in una più ampia struttura polisindetica («E allora vediamo | […] | E ricordiamo […]»), che trova conferma anche nei versi successivi: «Ed altri giorni allora | Vediamo ed altri sorrisi. | E rivediamo le torri | Ed i vecchî castelli; | E i mantelli» (vv. 59-63). Ma per Gadda occorre sempre postulare una possibile correzione in bozze, poi perdute, secondo un’abitudine incoercibile attestata in altri casi. La cautela deve essere anche più forte se si tien conto che talora Gadda non ha esitato ad accogliere nei propri testi modifiche involontarie, nate da malintesi e da equivoci editoriali.

Diverso è stato invece il comportamento in presenza di errori certi, riconoscibili, che imponevano di essere emendati. Il rispetto della volontà dell’autore non può comportare infatti, per prassi consolidata, la conservazione di mende tipografiche che gli sono sfuggite e che egli stesso avrebbe eliminato, se reperite. Nel caso di Gadda, autore di continue invenzioni linguistiche, la discrezione del filologo si esercita nel riconoscere l’erroneità di una lezione, distinguendo l’errore dalla modifica espressionistica, piuttosto che nel conservare una presunta versione a stampa “rivista” dall’autore, che invece è appunto “non rivista”. (7)

Veniamo ora alle poesie mai pubblicate da Gadda, che costituiscono la maggioranza del corpus, a ulteriore conferma di una riluttanza e di un disagio del prosatore a rendere pubblici esercizi di scrittura appartenenti per lo più agli anni giovanili. Nel pubblicare inediti occorre distinguere tra quello che l’autore ha trascritto in pulito, fissando, almeno provvisoriamente, un testo a un dato stadio di elaborazione, e quello che, invece, non è mai approdato a una forma univoca, ancorché provvisoria. Nel primo caso, applicando le norme consuete di attenzione e diligenza, non è troppo arduo riprodurre un testo che rispetti la volontà attestata dall’autografo.

Le cose si complicano in presenza di opere incompiute, o invece provviste, per talune parti, di redazioni plurime alternative. Il caso non è isolato nella nostra tradizione, e riguarda, come è noto, anche testi illustri. L’incompiutezza di certe poesie gaddiane, con tutti i tratti specifici che si potranno indicare, si inserisce in effetti nella problematica più generale del non-finito. Per restare nell’ambito del verso, basti pensare al Giorno, alle Grazie, o anche al Prometeo del Monti: incompiute o addirittura frammentarie, solo in minima parte pubblicate dai loro autori.

Le opere che ho citato si iscrivono in una cronologia relativamente circoscritta. Se infatti il fenomeno si può segnalare anche per epoche più antiche (caso illustre le rime di Michelangelo, frammentarie e uscite postume per le cure del nipote), mi pare che divenga quantitativamente rilevante a partire dalla seconda metà del Settecento. Molte ragioni sono state invocate per spiegare i singoli casi: crisi personali o di un’intera generazione, mutamento di gusti e di poetiche, cause contingenti nella biografia dello scrittore. Tutte ragioni, a vario titolo e in diversa misura, valide e storicamente credibili. Necessarie per tentar di comprendere il singolo caso, ma forse non sufficienti a rendere conto del fenomeno nella sua integralità. Mi pare invece che si possa individuare una ragione comune, per così dire istituzionale, che stia a monte e, in qualche modo, consenta l’insorgere di tutte le altre. Credo che questa ragione vada indicata in un ambito strettamente formale, cioè nella crisi degli istituti metrici tradizionali e nell’insorgere di metri sempre più liberi da vincoli di rime e di strofe. Le forme testuali la cui costruzione non è stabilita a priori, secondo schemi fissi da rispettare, ma è affidata alla libera invenzione del poeta, si trovano anche a essere, più facilmente, esposte al rischio dell’incompiutezza.

Si può aggiungere che il rischio estremo era rappresentato proprio dall’endecasillabo sciolto, che, entro i confini delle forme metriche tradizionali, appare come l’istituto più affrancato da vincoli formali. L’assenza di scansione strofica e la mancanza di rime comportano in effetti la perdita di restrizioni per quanto riguarda il numero e la successione dei versi. Lo sciolto si presenta come una struttura teoricamente aperta all’infinito e potenzialmente sempre modificabile, dove sono attuabili, in ogni momento, sostituzioni e modifiche di parti, spostamenti di parole e di interi versi o gruppi di versi. La compiutezza del testo non è più assicurata a priori da una struttura formale da rispettare, ma dipende soltanto da un giudizio soggettivo e da ragioni, interne o esterne, che possono anche venir meno o modificarsi nel tempo. Alle opere che ho menzionato, sarebbe agevole aggiungere altri casi di testi in sciolti rimasti incompiuti. Basti qui ricordare che il rischio di incompiutezza è così congeniale a questo metro, che coinvolge persino il versante della traduzione. (8)

L’ipotesi che si è suggerita per lo sciolto, come il metro più esposto all’insidia del non finito in ragione della sua estrema libertà, si può, a maggior ragione, estendere agli esperimenti lirici novecenteschi: dal verso libero al poème en prose, ai versi ribelli a ogni regola prosodica. In assenza di rigorosi paradigmi metrici, il testo poetico si trova esposto ai più vari accidenti. Caduto il vincolo formale, le ragioni più diverse, personali o culturali, stilistiche o ideologiche, prevalgono su quelle oggettive e predeterminate della tradizione. E si può addirittura giungere a pubblicare un testo come raccolta di frammenti. Così Ungaretti pubblica nel 1950 un’opera intitolata La Terra Promessa. Frammenti, che rappresenta il caso limite di un libro in cui la frammentarietà è pubblicamente assunta dall’autore e riconosciuta come non più sanabile: «Quella che pubblicai nel 1950 è dunque un’opera frammentaria; la pubblicazione di un’opera completa, organica, non avverrà forse mai». (9) L’episodio merita di essere citato a conferma di una mutata concezione dell’opera che di necessità si riflette anche nel modo del filologo di rapportarsi a testi incompiuti.

è merito di Isella aver mostrato con rigorosa eleganza come all’inizio dell’Ottocento il primo editore del Giorno (10) pubblicasse un testo artificiosamente ridotto a unità, non esitando a correggere i versi ipometri e a integrare gli emistichi mancanti. Per desiderio di compiutezza, il Reina si era sostituito all’autore nella costituzione stessa dell’opera, con un’operazione legittimata anche da analoghi interventi integrativi nei restauri di quegli anni. Così nel caso, anche più grave, delle Grazie gli editori ottocenteschi hanno perseguito con tenacia impavida, a più riprese e con esiti diversi, l’illusione di una ricostruzione unitaria del testo. In effetti, non è solo a causa dell’estrema difficoltà tecnica e dei complessi problemi ecdotici inerenti all’oggetto, che si è dovuto attendere l’edizione critica di Isella per leggere il Giorno in una compagine che riproduce con la massima fedeltà possibile la lezione originaria, accettando anche il non finito. Il riconoscimento e il rispetto della volontà dell’autore, osservata con scrupolo anche nella sua indecisione e nella frammentarietà dell’esito finale, potevano essere presi in conto – e divenire criterio riconosciuto in filologia – solo a partire da una mutata concezione dell’opera, per la quale la compiutezza non fosse più condizione necessaria di esistenza.

La breve digressione che si è proposta era necessaria per inquadrare storicamente il non-finito gaddiano e riconoscere il problema della pubblicazione dei testi incompiuti come caso speciale entro l’ecdotica propria della “filologia d’autore”.

Il rispetto della volontà dello scrittore è ormai, in filologia, acquisizione certa. Il problema si sposta semmai sull’eventuale difficoltà del riconoscimento, e sulla resistenza a rispettare la volontà d’autore quando si manifesti come incapacità di scegliere tra versioni diverse o frammenti concorrenti. In Gadda si assiste più di una volta al manifestarsi di una dolorosa paralisi, di cui lo scrittore sembra presto consapevole, se in una nota del 1924 del Cahier d’études, a proposito delle sue proprie «maniere» di scrittura minuziosamente elencate, confessa appunto: «Mi rincresce, mi e sempre rincresciuto rinunciare a qualcosa che mi fosse possibile. È questo il mio male. Bisognerà o fondere, (difficilissimo) o eleggere» (SVP 396). Persino per un vecchissimo testo del 1915, ‘0 mio buon genio’, richiestogli per la pubblicazione nel 1963 dopo il conferimento del Prix International de Littérature, Gadda aveva voluto stampare, oltre alla versione primitiva, il suo rifacimento, accompagnato da imbarazzate dichiarazioni di preferenza. (11)

Il caso più interessante, a questo riguardo, è costituito da un poemetto in versi liberi articolato in varie strofe, di cui è pervenuto un caotico incartamento, che non porta alcuna indicazione di data né di titolo, e che contiene frammenti molteplici, privi di trascrizione organica. (12) La poesia è da ritenersi anteriore al 26 marzo 1924, data in cui una pagina del Cahier d’études ne traspone in prosa un frammento, con la nota: «Difficile tradurre in prosa i miei vecchî versi» (SVP 577). Un’altra dichiarazione gaddiana consente di collocare più precisamente la poesia nel 1922. In un passo manoscritto del saggio I viaggi, la morte, soppresso nell’edizione a stampa, a proposito del Voyage di Baudelaire, Gadda confidava: «Sotto la suggestione di questi versi talora meravigliosi ho schizzato nel 1922 un accenno di imitazione, che è rimasto un frammento [...]. In fondo tra i lettori di Baudelaire ci posso stare anch’io. – Ecco qui il frammento: Viaggiatori meravigliosi –». (13)

Questa pagina sembra anche fornire un possibile titolo della poesia, a meno che ‘Viaggiatori meravigliosi’ non indichi semplicemente il verso da cui partire nella citazione (cioè l’attacco di una delle strofe). La sua assunzione a titolo pare comunque surrogata da una qualche analogia con quello di Baudelaire, Le Voyage.

Nel Cahier la poesia non è però trascritta. E anzi, non se ne conosce fin qui alcuna trascrizione unitaria, che fornisca almeno una successione certa delle strofe. Queste ultime, invece, sono lavorate individualmente, e presentano in più casi attestazioni plurime e concorrenti: nessuna decisamente privilegiata, tutte possibili. Si è dunque deciso di stampare un testo che non è un testo definitivo, e neppure provvisoriamente concluso. Quello che si propone è solo la ricostruzione più probabile di un poemetto che, per quanto si sa, non sembra aver mai avuto contorni ben definiti, ed è rimasto a uno stadio frammentario. In assenza di una chiara decisione d’autore, si è ritenuto opportuno considerare tutti i frammenti strofici non cassati e dotati di forma in qualche modo compiuta come strofe alternative di pari dignità, non ancora selezionate dall’autore e tutte potenzialmente atte a figurare nel progettato poemetto. Le diverse redazioni delle singole strofe, non organizzabili in un rapporto univoco di successione, si sono stampate a testo, con un esponente alfabetico dopo il numero della strofa, che, in qualche caso, può render conto della cronologia relativa di questi abbozzi per quanto riguarda la singola unità strofica (Gadda 1993: 32-36).

La suddivisione del poemetto in otto parti è autorizzata dalla scansione che sembra di poter riconoscere negli autografi, convalidata dalla probabile analogia anche strutturale con Le Voyage di Baudelaire, che consta appunto di otto sezioni. La progressione strofica da me proposta poggia sia su criteri interni (per esempio sequenze parziali di strofe negli autografi), sia su criteri esterni, come la trascrizione di alcuni frammenti in scritti posteriori o certe analogie strutturali con il modello francese. (14)

 

Una volta definito il testo, all’editore di opere inedite o frammentarie si pone naturalmente l’obbligo di giustificare il proprio comportamento editoriale. Ma anche si pone, direi quasi per necessità istituzionale, l’esigenza di rendere noti i materiali testuali che a quel testo si ricongiungono, come momenti superati, ma necessari alla sua nascita. Nel caso delle poesie di Gadda si è optato per un’edizione critica, che procuri un testo di totale leggibilità, e che in un’appendice finale (Note filologiche) fornisca l’indicazione dei testimoni (a stampa o manoscritti), nonché un apparato critico delle varianti.

Veniamo dunque all’apparato delle varianti, che è, di necessità, sempre genetico, posto che il testo che si è stampato, per le ragioni che si sono fin qui illustrate, rappresenta l’ultima redazione conosciuta di ogni singola poesia. L’opzione resta valida anche per le poesie provviste di rifacimenti successivi alla pubblicazione, come O mio buon genio e Autunno. Poiché si sono fornite entrambe le versioni in ragione della loro irriducibile differenza, si ha sempre a che fare con varianti che portano verso una delle due, e non rappresentano mai modifiche al testo già edito, anche quando si instaurano, materialmente, su una copia d’uso della prima stesura.

Più arduo è decidere quale comportamento assumere nei confronti dell’accidentato processo compositivo che attestano gli autografi. Il problema si pone in maniera acuta in presenza di autori moderni, e in special modo contemporanei, di cui si conservano con minuziosa cura carte e manoscritti. In un intervento pronunciato al Convegno di Lecce nell’ottobre 1984, Domenico De Robertis diffidava dal riprodurre integralmente le diverse redazioni di un’opera, estendendo indebitamente ad altri casi il modello di «degni esempi» come il Giorno del Parini e i Ricordi del Guicciardini. (15) Ma l’avvertimento merita di essere esteso, con pari pertinenza, anche agli apparati di varianti di cui sempre più sono fornite le edizioni di scrittori contemporanei. Pena la trasformazione della pagina, nella sua parte bassa, a cumulo inerte di dati accidentali, esonerati da una più larga e necessaria riflessione.

L’arte di pubblicare testi novecenteschi e di curarne apparati di varianti è ormai praticata in Italia da vari anni con accurata resa tecnica e con invidiabile diligenza di risultati. Ma il virtuosismo di certe esasperate applicazioni filologiche cela forse i limiti della disciplina, quando essa pretenda di ridurre all’ordine e di formalizzare l’intero processo della genesi di un testo. Per usare termini desunti dal linguaggio della scienza potremmo dire che il sistema della nascita di un testo non è osservabile, né, tanto meno rappresentabile, con criteri esclusivamente formali.

Fin dal 1977, del resto, redigendo la “voce” Filologia per l’Enciclopedia del Novecento, Contini a proposito della «moda filologica tuttora vigente, particolarmente appunto in Italia», metteva in guardia da «certo filologismo parodistico che attesta il trapasso della maturità». Nello stesso intervento il critico denunciava il «filologismo caricaturale [...], scotto di una recente “filologia di massa”, che giunge a ingombrare pagine e pagine di libri [...] con varianti poco significative di autori terziarî». (16) L’avvertimento era ribadito nel 1980 nel saggio Varianti del Caravaggio, dove si distingueva la «filologia in buona salute» dal «patologico filologismo». (17) Il termine «filologismo» fatto proprio da Contini era però di matrice crociana, come avverte Gorni nella sua recensione agli Atti del Convegno di Lecce, precisando che la sua ricomparsa sotto la penna di uno dei massimi filologi del Novecento «è un indizio, o forse un avvertimento, da non sottovalutare». (18)

In effetti, una presa di distanza severa da certe applicazioni esose della pratica fìlologica veniva proprio da colui che, negli anni trenta e nell’Italia dell’idealismo crociano, era stato un pioniere riconosciuto nel portare l’attenzione al dato tecnico e formale dell’opera nel suo farsi, imponendo lo studio delle varianti come euristica privilegiata del testo. (19) Ma gli eccessi censurati da Contini alla fine degli anni settanta erano frutti poco sorvegliati del suo stesso magistero, sul quale si era innestato l’esempio, più agevolmente replicabile, di Giuseppe De Robertis. Della lezione di Contini si era in effetti persa, o comunque non era stata tenuta nel necessario conto, l’esigenza teorica distintiva: cioè l’idea del testo come insieme di relazioni, come sistema e come struttura.

Alla lettura sottile e puntuale delle varianti leopardiane, che De Robertis, con la sensibilità verbale più unica che rara che era la sua, proponeva nel saggio Sull’autografo del canto «A Silvia» (20) Contini opponeva, con il cortese pretesto di «uno spostamento del punto di vista», tutt’altra metodologia. Alla «puntualità pressoché rigorosa» dell’amico, Contini sostituiva infatti un’indagine di strutture che meglio sembrava convenire all’opera letteraria intesa come sistema di relazioni, di implicazioni, appunto, come recita il titolo del suo intervento nato come risposta all’amico, Implicazioni leopardiane: «Volta per volta, da un lato il punto di partenza, dall’altro il punto d’arrivo: e tu mostri lo stacco, quasi lo scatto, da una relativa informità alla perfezione. Io vorrei provarmi a indicare, dinamizzando la materia, che quegli spostamenti sono spostamenti in un sistema, e perciò involgono una moltitudine di nessi con gli altri elementi del sistema». (21) Su questo discrimine, tra progressione lineare e struttura complessa di relazioni testuali, si gioca, come è noto, una differenza essenziale tra le due metodologie e le loro conseguenti applicazioni.

Giova qui ricordare che è proprio Giuseppe De Robertis, e non Contini, a inaugurare, con l’entusiasmo del precursore, l’edizione critica con varianti di un contemporaneo, di uno scrittore vivente, con l’edizione del 1945 (presso Mondadori) delle Poesie disperse di Ungaretti accompagnate dall’apparato critico delle varianti dell’Allegria e del Sentimento del Tempo.

Emblematica, quasi involontariamente definitoria del metodo, suona un’affermazione di De Robertis contenuta in una lettera a Ungaretti dell’agosto 1942: «Sto allineando tutte, dico tutte, le varianti, e io mi ci specchio». (22) Appunto «sto allineando». Così frutto di allineamento è il saggio, che pure si segnala per sottile complicità e comprensione del proprio autore, dedicato alla Formazione della poesia di Ungaretti e incluso nell’edizione delle Disperse: a partire da un’indagine precisa della differenza tra punto di partenza e punto d’arrivo il critico assiste all’epifania della poesia, al «nascere della parola poetica». (23)

Conseguenza immediata dell’operazione fu la conferma, con avallo editoriale, del compiacimento correttorio di Ungaretti. (24) Altra conseguenza, peraltro ancora legittima entro la poetica simbolista di Ungaretti, fu nel 1950 l’edizione, che si è già ricordata, dei Frammenti della Terra Promessa, accompagnata da un saggio sulle varianti di quei frammenti, firmato da un allievo di De Robertis. (25)

L’apparato di De Robertis era quello di un critico complice del suo poeta, come ho avuto modo di illustrare altrove: (26) e non sempre si può riproporre un sodalizio che aveva, in quel caso, la sua ragion d’essere. Ma l’esperimento di De Robertis – ristampato nel 1954 e poi consacrato dalla sede prestigiosa dei Meridiani (1969), che estendeva l’apparato delle varianti alle altre raccolte ungarettiane – divenne anche l’autorizzazione a procedere ad analoghe edizioni critiche delle varianti di autori del Novecento. E questo nonostante il monito di Contini, che nel saggio già ricordato del 1977, menzionando proprio il caso di Ungaretti e il trattamento filologico riservatogli da De Robertis e dal suo gruppo, lo definiva «un caso-limite» e diffidava dall’estenderlo ad altri autori. (27)

Sul fronte degli scrittori le cure riservate a Ungaretti dovettero suscitare non poche gelosie. Di un leggero fastidio resta traccia proprio nell’ironia con la quale Gadda presentò il suo primo sonetto nell’inchiesta promossa nel 1954 da ‘Epoca’: «La breve lirica fu erogata di getto e messa in carta senza ripentimenti, senza, ahimè!, varianti». (28) Che il pensiero andasse a Ungaretti, che figurava del resto tra gli intervistati, sembrano attestarlo circostanze precise. Proprio quell’anno, infatti, la fatica filologica di De Robertis era stata riproposta da una ristampa, nonché dalla ripubblicazione della Terra Promessa; e per singolare coincidenza una cartolina inviata da Gadda a De Robertis il 7 luglio 1953, durante il viaggio in Spagna in compagnia di Ungaretti, reca di mano di quest’ultimo proprio l’annuncio dell’imminente riedizione: «avrai saputo che Mond. ristampa Poesie disperse». (29) Difficile non immaginare in Gadda una lieve irritazione di fronte all’euforia editoriale dell’esuberante e più fortunato compagno di viaggio. Tanto più che la reiterata celebrazione filologica sopravveniva in flagrante concomitanza con il progetto, ben noto a Gadda, di pubblicare il codice Vat. Lat. 3196 con le varianti del Petrarca. (30) L’operazione di De Robertis e dei suoi significava quasi la consacrazione del contemporaneo Ungaretti al rango di classico. (31)

Si è citata la reazione di Gadda come aneddoto curioso e sintomo ironico di fastidio. Ma il discorso è di portata più generale, né sarebbe ragione di messa in dubbio del metodo la privata idiosincrasia o l’insofferenza di qualche scrittore. Neppure, come è ovvio, di colui al quale la metodologia si dovesse applicare. Vale la pena di ricordare invece come Contini, maestro incontestato nella critica delle varianti, autore di interventi teorici decisivi sull’argomento, non ha però mai firmato edizioni critiche di contemporanei con apparati di varianti in senso derobertisiano. (32) L’astensione mi pare significativa: indizio di diffidenza teorica, piuttosto che frutto di occasionale ripudio.

Nella recensione agli Atti di Lecce che si è citata sopra, Gorni avvertiva d’altra parte: «Eccettuati gli scrittori di statura europea, di cui è giusto che non vada perduto neppure iota unum dell’elaborazione, del variantismo di ottocentisti e novecentisti, che di varianti hanno piene le carte, si comincia ad essere, se non proprio stanchi, quanto meno sazi». (33)

I tempi sembrano propizi per una riflessione sul problema, che indichi comportamenti efficaci e non contraddittori, soddisfacenti sul piano teorico e praticabili nelle diverse applicazioni. Per questo preme qui optare per una posizione che salvi l’esigenza di recuperare la preistoria di un testo e insieme liberi l’editore critico da un rispetto superstizioso degli “scartafacci”, che non di rado si risolve in un cattivo servizio reso al testo e alla sua larga accessibilità.

La rappresentazione dell’intero processo correttorio si presenta oltremodo onerosa sul piano editoriale e meno efficace e immediata, come è evidente, di un’eventuale riproduzione fotografica del manoscritto, abbastanza semplice in tempi di banalizzata riproducibilità meccanica e di perfetta resa tecnica. Non che la fotografia risolva, di per sé, i problemi di una lettura seriata: ma certo aver sotto gli occhi l’originale fotografato, con gli accorgimenti più soddisfacenti della sua riproduzione su lastra, è incomparabilmente più vantaggioso di qualsivoglia altra resa tipografica, che di necessità sacrifica quello che più preme, e cioè l’evidenza visiva del fenomeno esaminato.

Per una soluzione di tal genere ha optato, come è noto, Domenico De Robertis nella sua edizione critica dei Canti leopardiani, dove, per gli autografi, ha fornito appunto una riproduzione fotografica: strumento prezioso per chi voglia ripercorrere la nascita di quella poesia, senza passare attraverso esasperate rappresentazioni formali. (34)

Il tentativo di ricostruire nella loro integralità procedimenti compositivi, di necessità complessi, presenta, invece, difficoltà estreme di formalizzazione e quindi di leggibilità, come hanno ormai dimostrato ad abundantiam i diversi, generosi, impegnatissimi esperimenti attuati in tal senso nelle edizioni di moderni e contemporanei. Nel caso di autografi che recano i primissimi abbozzi di un testo e che, a volte, ne registrano l’intero, accidentato processo compositivo, appare (da un punto di vista teorico, dico, e non solo nella pratica corrente) oltremodo arduo, direi al limite del possibile, costringere gli innumerevoli va e vieni della scrittura entro rigidi e ordinati formalismi, dal momento che l’atto creativo non obbedisce a leggi rigorose di logica formale, ma anzi comporta una parte di disordine e di casualità.

Quale comportamento adottare allora per l’apparato critico delle poesie di Gadda? Non era possibile, naturalmente, selezionare alcune varianti contro altre secondo un’ipotetica gerarchia di valore, o di gusto personale, o secondo altri criteri soggettivi, come pure era lecito in tempi non lontani.

Si imponeva invece un’opzione unitaria, un comportamento univoco e oggettivo, di validità generale e non soggetto ad ambiguità: invece di fornire l’intero processo compositivo attestato dagli autografi, si è dato conto solo dell’ultima fase reperibile in ogni singolo testimone.

La soluzione adottata risponde in primo luogo a criteri di economia e di leggibilità. Ma a queste ragioni di natura pratica, si aggiunge una ragione più decisiva, di ordine teorico. E cioè l’idea che alla globalità della rappresentazione, in quanto attuata nei modi tipografici consueti, inerisca il pericolo di una deformazione dell’oggetto, quasi una messa a fuoco solo di singole parti, che tradisca l’esatta proporzione tra le parti stesse.

Se mi è lecito dar conto qui della mia esperienza di editrice delle poesie gaddiane, che pure ha tentato, rinunciandovi a ragion veduta, di dare un’edizione integrale delle varianti, mi pare di dover dire che il tentativo di riprodurre tutti gli stadi attraverso i quali si costituisce la lezione finale di un testo, si rivela spesso un’astrazione, un oggettivo abuso che non presenta garanzie certe neppure per quanto attiene alla diacronia di tutti gli interventi correttori. Che l’impasse sia metodologica, e non puntualmente frutto di questo o quel comportamento specifico, lo provano le polemiche che ancora hanno accompagnato l’edizione critica delle Grazie, anche solo relativamente ai criteri adottati per stabilire la successione cronologica delle varianti. Si è ricordato, per esempio, che il criterio del miglioramento non è garanzia sufficiente di posteriorità. (35) Non lo è neppure, in maniera automatica, l’una o l’altra collocazione nel manoscritto (per esempio nell’interlinea superiore o inferiore, nel margine, e così via).

Ma il rischio è anche più grave. Nella sua faticosa quanto illusoria oggettività, il filologo si assume la responsabilità di ricostruire per via indiziaria momenti compositivi che sono, nella maggior parte dei casi, difficilmente documentabili, o almeno di conferire loro un eccesso di realtà, un’enfatizzata consistenza di dubbio, quando non arbitrario, statuto. Se il testo è una rete complessa di relazioni, ogni modifica di un punto costituisce una modifica dell’intero sistema. Cioè, in teoria, dà origine a un altro, o ad altri possibili testi, non più identificabili nella materialità dell’autografo corretto. Diverso è infatti lo statuto dell’errore o della variante di copista – che può essere singola e puntuale – dallo statuto della variante d’autore, che invece è per sua natura sistematica. A questa stregua la pretesa di rappresentare l’intero processo compositivo urta contro la possibilità effettiva di riconoscere questi diversi sistemi testuali, rischiando di non tener conto di quelli che sono esistiti realmente (anche se per un tempo brevissimo), o, viceversa, di dar corpo ad aggregazioni testuali solo potenziali, mai storicamente realizzate. Questo secondo caso ripropone, a livello di apparato e con l’avallo di una presunta oggettività, un’integrazione del testo non troppo dissimile (e persino più insidiosa) da quella tanto vituperata degli editori che integrarono le opere da loro pubblicate o vi interpolarono frammenti appartenenti a un’altra fase, e cioè, in definitiva, a un altro sistema di relazioni testuali.

A conferma del carattere di indecidibilità proprio del fenomeno soccorre qui il riferimento alla teoria del calcolo combinatorio, secondo la quale, dato un insieme anche ridotto di elementi, la loro possibilità di combinazione sí definisce in termini di progressione fattoriale, tanto più alta quanto minori sono le regole di esclusione. È lo stesso ingegner Gadda, del resto, a fornirne una possibile formula matematica in una pagina dell’Adalgisa, dove però si fa grazia al lettore delle n varianti possibili:

la contessa Giulia, dicevo, era donna di elevato sentire, stando alla enunciazione più frequente, e talora, invece, eletta gentildonna lombarda di squisito sentire: mentreché vi farò grazia delle

n (n - 1) (n - 2) (n - 3) (n - 4) _ 2
5!

varianti che il calcolo combinatorio ci attesta realizzabili dopo le suddette, dalla permuta di n parole senza senso prese a cinque a cinque. (RR I 365)

Se nel caso di un testo in prosa si dànno restrizioni per quanto attiene alla successione delle parole, minori sono quelle del verso, dove l’ordine delle parole non è vincolato all’ordine prevedibile e consueto del discorso e, nei testi novecenteschi, neppure a schemi di rime predeterminati o a una precisa scansione metrica. Per questo tipo di verso il numero di combinazioni possibili può essere ancora maggiore di quello della prosa. La libertà estrema della poesia novecentesca, che si è indicata come una delle possibili cause di incompiutezza e di rifacimento continuo del testo appare anche, nella sua disponibilità a produrre innumerevoli sistemi testuali, come uno degli ostacoli teorici più forti alla possibilità di rappresentare in un apparato esaustivo, e di pretesa imparzialità, le varianti d’autore di testi contemporanei.

Registrando l’ultima lezione attestata da ogni testimone, si può, almeno, dar conto di una fase individuabile e riconoscibile con certezza. Soprattutto si dà corpo soltanto a fasi testuali storicamente esistite, che si collocano in un punto certo, materialmente documentabile della diacronia del testo.

Anche a livello sincronico questa soluzione sembra rispondere a un criterio di sicura evidenza: le ultime lezioni attestate da un testimone appartengono, in maniera indiscutibile, a un sistema coerente di relazioni testuali, almeno provvisoriamente concluso. «Uno studio è già una cosa completa, finita, se pur riveste i caratteri di tentativo» scriveva Gadda nel suo Cahier il 26 marzo del 1924 (SVP 576). L’apprendista scrittore rivendicava così implicitamente la distinzione tra compiuto e definitivo, che si sarebbe poi rivelata essenziale per la sua pagina. Se ciò era affermato a proposito di «appunti, note, primi schizzi, primi getti, primi temi, anche parzialmente falsi, da poi rimaneggiare e meglio proporre e contrappuntare», la distinzione può essere però adottata in maniera proficua per tracciare un preciso limite, oltre il quale non retrocedere nella rappresentazione del processo compositivo di un testo letterario. Almeno in una ricostruzione che ambisca a un’oggettività, pur ridotta alla sua minima consistenza, che è propria di un apparato critico.

Adottando per le poesie di Gadda questa soluzione editoriale non si è inteso mettere in dubbio l’utilità di un eventuale studio degli “scartafacci”, che analizzi i complicati procedimenti del comporre, le cancellazioni iterate e le riscritture di una stessa parola, i recuperi e gli abbandoni di certe apparenti acquisizioni. Si ritiene però che tutto ciò appartenga alla storia delle ossessioni dello scrittore, non necessariamente a quella del testo che importa pubblicare. Mi pare che la sua presa in conto si giustifichi piuttosto all’interno di uno studio critico, che si occupi sia di “implicazioni”, nel senso continiano della parola, sia dell’intrico di rimozioni e di coazioni nevrotiche che agita lo scrittore. Ma per questo tipo di indagine sarebbe insieme superflua e insufficiente una rappresentazione formale fissata una volta per tutte, che riducesse il testo a una serie, pur graduata, di lacerti disarticolati. Chi vuole occuparsi del problema della nascita di un testo e della sua progressiva elaborazione ha infatti l’obbligo di ricorrere direttamente agli autografi e di ricostruire, sotto la propria individuale responsabilità di interprete, il processo genetico dell’opera. Se il commento a un testo non è il luogo deputato a un saggio critico su quel testo, a sua volta l’apparato critico di un’edizione – soprattutto nel caso di testi moderni e in presenza di una proliferazione abnorme di autografi – non dovrebbe essere, credo, il luogo di nessuna critica genetica.

Se l’opera postuma e incompiuta non può essere reintegrata in un’ipotetica unità, neppure i possibili del testo, le tappe eventuali della sua genesi, appartengono alla realtà della sua edizione. All’inizio di questo intervento si è ricordato che non è compito dell’editore colmare lacune di opere incompiute. Non è infatti in suo potere recuperare all’esistenza ciò che non vi è mai pervenuto, compensare un vuoto che Gadda riconosce come irrimediabile proprio per uno dei suoi primi, e più autobiografici personaggi, il ragazzo che «a quattordici anni aveva preso il malvezzo [...] di scriver dei versi»: «Così gli anni passarono e probabilmente quel ragazzo, vivo e guizzante, con tutte le sue poesie e con tutto il pan francese che aveva addentato, si era disperso per tutta l’eternità» (RR I 77-78). Si dovrà aggiungere ora che non spetta al filologo neppure ricostruire, per via di ipotesi indiziarie, le tappe della creazione artistica, fissandole in una rappresentazione che tenda all’immobile resa di un apparato critico. Suo compito precipuo è invece di essere fedele a ciò che è storicamente vero.

Universität Basel

Note

1. C.E. Gadda, Come lavoro, in I viaggi la morte – SGF I 427-43 (p. 427). Contro l’immanenza del disordine e del caos, nella pagina gaddiana si enuclea peraltro un’esigenza di ordine, come dichiarava lo stesso Gadda in una delle prime lettere a Contini, riconoscendosi nelle parole di chi aveva mirabilmente recensito il Castello di Udine: «Acuta l’osservazione di “materia dispersa”, di “caos”, ove si delineano principî d’ordine. Ciò è storicamente in me vero» – lettera del 20 luglio 1934; Gadda 1988: 13-16 (p. 14).

2. L’intero corpus è ora raccolto in volume presso l’editore Einaudi (Gadda 1993).

3. Parlano del loro primo scritto alcuni fra i più noti autori di oggi, in Epoca, a. V (12 settembre 1954), n. 206, p. 7; ora in Gadda 1993: 103 e in SGF I p. 1119.

4. è il caso, per esempio, della poesia [17], Viaggiatori meravigliosi, di cui si dirà più avanti.

5. Si veda per esempio [16], Silente locomotore, e la nota relativa in Gadda 1993: 113-14.

6. Studi Urbinati di Storia, Filosofia e Letteratura, a. XLV, Nuova serie B (1971), nn. 1-2, pp. 384-86; ora in Gadda 1993: 20-22.

7. Mi chiedo, per esempio, se in questo passo della Madonna dei Filosofi non si sia insinuato un refuso, sfuggito poi sempre all’autore: «In quel viso aveva il vano protendersi della memoria già radunato i segni di lontananze strane: ma pareva a tratti riessere e coordinare con tocchi subiti allora a sua posta i sciocchi frammenti in che va dissolta la presunzione della continuità, rinucleandone più puri enigmi» (RR I 101). L’errore potrebbe essere sanato con un intervento minimo: correggendo «riessere» in «ritessere» (tanto più che «filare» e «tessere» sono utilizzati nello stesso testo per le mogli dei dispersi in guerra – cfr. p. 78).

8. Esemplare il caso della traduzione foscoliana dell’Illiade, mai approdata a un testo univoco e compiuto.

9. Cfr. Note, in Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni (Milano: Mondadori, 1974), p. 549.

10. Sull’operazione del Reina cfr. l’Introduzione di Isella a Giuseppe Parini, Il Giorno, Edizione critica a cura di Dante Isella (Milano-Napoli: Ricciardi, 1969), pp. xxi-lxxxlx.

11. Cfr. Gadda 1993: 105 – «L’autore desidera sottolineare come l’antichissima composizione (di cui preferisce la recente versione seconda, qui di seguito riprodotta) risenta» ecc.

12. Per la descrizione di questo incartamento manoscritto rinvio alle Note filologiche in Gadda 1993: 115.

13. Il passo si legge alle pp. 16-17 di un quaderno conservato nel fondo Roscioni e descritto da Isella nella Prefazione, p. vi, n. 3, e nella Nota al testo del Racconto italiano – Gadda 1983a: xxxi-xxxii, n. 16. Ora in Gadda 1993: 114.

14. Secondo lo schema che segue: [Ia]-[Ib]: progressione attestata dall’autografo; [I]-[II]: ordinamento ricavabile dalla parafrasi di questi versi nel Cahier; [II]-[III]-[IVa]: successione attestata dall’autografo; anche nel ‘Voyage’la richiesta di narrare le loro esperienze straordinarie e la risposta dei viaggiatori occupano, come qui, le strofe III e IV; [IVb]-[V]-[VIb]: successione attestata dall’autografo; [IVc]: rifacimento in pulito, isolato da ogni sequenza; [VIa]-[VII]: successione attestata dall’autografo; la dichiarazione dell’insufficienza di ogni mezzo di trasporto espressa nella str. VII amplia l’analogo lamento della str. VII del Voyage: «Il est, hélas! des coureurs sans répit, | [...] | A qui rien ne suffit, ni wagon ni vaisseau» (VII, 8-10); [VIII]: collocazione finale per difetto, in mancanza di indicazioni per l’inserimento in altri punti del testo. Ma si ricordi che il finale “funebre” è autorizzato dal testo di Baudelaire, concluso proprio da un’invocazione alla morte: «0 Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!» (VIII, 1).

15. «Vorrei mettere in guardia dalla tendenza sempre più accentuata, per qualunque vicenda soprattutto recenziore di ripensamento e di rimaneggiamento, ad allineare tutta la serie, [...] a ciò incoraggiando la dilatata disponibilità degli archivi in particolare contemporanei» – Domenico De Robertis, ‘Problemi di filologia delle strutture’, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce 22-26 ottobre 1984 (Roma: Salerno Editrice, 1985), pp. 383-401 (p. 390).

16. Gianfranco Contini, Filologia, in Enciclopedia del Novecento, II, Roma, 1977, pp. 954-72; ora in Breviario di ecdotica (Milano-Napoli: Ricciardi, 1986 – poi Torino: Einaudi, 1990), pp. 3-66 (pp. 5, 20).

17. Gianfranco Contini, Varianti del Caravaggio. Contributo allo studio dell’ultimo Longhi, in Paragone, n. 368 (1980); ora in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987) (Torino: Einaudi, 1988), pp. 299-315 (p. 301).

18. Guglielmo Gorni, Le gloriose pompe (e i fieri ludi) della filologia italiana, oggi,in Rivista di Letteratura Italiana, IV (1986),2, pp. 391-412 (p. 391).

19. Si veda al riguardo, Gianfranco Contini, La critica degli scartafacci, in La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, con un ricordo di A. Roncaglia (Pisa: Scuola Normale Superiore, 1992), pp. 1-32. Sull’importanza delle varianti d’autore cfr. anche Dante Isella, Le varianti d’autore (critica e filologia), in Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore (Padova: Liviana, 1987), pp. 1-17; e Ancora sulla critica delle varianti, in L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni (Torino: Einaudi, 1994), pp. 306-23.

20. In Letteratura, VIII, n. 6 (1946), fasc. 31, poi in Primi studi manzoniani e altre cose (Firenze: Le Monnier, 1949); ora in D’Arco Silvio Avalle, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo. Strutturalismo. Semiologia. Con una appendice di Documenti (Milano-Napoli: Ricciardi, 1970), pp. 178-90.

21. Gianfranco Contini, Implicazioni leopardiane, in Letteratura, IX, n. 2 (1947), fasc. 33, marzo-aprile 1947; poi in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968) (Torino: Einaudi, 1970), pp. 41-52 (p. 41). Giuseppe De Robertis, generoso sodale di artisti e intellettuali, ebbe il dono di provocare prese di posizione decisive da parte di amici poeti o critici. Per esempio nell’aprile del 1915 sulle pagine della Voce bianca da lui diretta era uscito, a firma di Renato Serra, e in risposta a una sua dichiarazione sulla Voce, l’Esame di coscienza di un letterato (La Voce, a. VII, 30 aprile 1915, n. 10, pp. 610-32), emblematica e ambivalente presa di posizione di tutta una generazione di intellettuali sul rapporto tra guerra e letteratura. «Credo che abbia ragione De Robertis» era l’attacco dell’articolo di Serra, suggellato dalla firma e dalla data («Cesena, 20-25 marzo»); a sua volta l’esordio del saggio di Contini, pure concluso con la firma e con una data dello stesso genere («Domodossola, 11-14 aprile 1947»), suona «Caro De Robertis, ho letto con tutta solidarietà e ammirazione il tuo scritto».

22. Lettera 28, del 10 agosto 1942, in Giuseppe Ungaretti - Giuseppe De Robertis, Carteggio 1931-1962, con un’Appendice di redazioni inedite di poesie di Ungaretti, Introduzione, testi e note a cura di Domenico De Robertis (Milano: il Saggiatore, 1984), pp. 21-22 (p. 21).

23. Giuseppe De Robertis, Sulla formazione della poesia di Ungaretti, ora in Ungaretti, Vita d’un uomo, pp. 405-21. Sintomatica del metodo la seguente dichiarazione: «Ma lo studio delle varianti e rielaborazioni, oltre a offrire la prova d’un’acuta, inquieta e, alla fine, vittoriosa ricerca dell’espressione, in una infinita scala di gradazioni; oltre a far quasi toccar con mano il graduale alleggerimento, fino a sparire, del mezzo dell’espressione; presta più memorabili esempi: dico che ci fa assistere al nascere della parola poetica» (p. 413).

24. Nelle Note all’edizione completa delle poesie, a proposito dell’Allegria, Ungaretti si compiaceva appunto di sottolineare: «Siccome il lupo perde il pelo, ma non il vizio, l’autore che pure aveva chiamato le sopraddette, edizioni definitive, non ha saputo resistere ogni nuova volta a qualche ritocco di forma» (Vita d’un uomo, p. 528).

25. Leone Piccioni, Le origini della «Terra Promessa», ora in Vita d’un uomo, pp. 427-64. Operazione reiterata nel 1954 per Un Grido e Paesaggi, accompagnati da uno studio dei manoscritti di Piero Bigongiari, Sugli autografi del «Monologhetto» (ora nello stesso volume, pp. 465-93).

26. Mi sia consentito rinviare al mio studio, «Collaborazione alla poesia»: il critico e il suo poeta, in Per Giuseppe De Robertis, a cura di G. Tellini (Roma: Bulzoni, 1992), pp. 51-71.

27. «Questa restituzione fisica del testo alla sua condizione di caleidoscopica variabilità (ben altra cosa da semplici variazioni sullo stesso tema) rappresenta un caso-limite, probabilmente da non riprodursi, che è giusto sia legato all’ultimo, per quanto pare, dei poeti simbolisti» (Contini, Filologia, p. 12).

28. Parlano del loro primo scritto (SGF I 1119). Così di nuovo nel 1957, a proposito delle varianti del Pasticciaccio: «come i critici potranno constatare a colpo d’occhio, o un disgraziato laureando in lettere acclarare mediante raffronto, ove crudeltà del fato cioè del professore lo condanni a una tesi sul Gadda» – Il pasticciaccio, SGF I 506-11 (p. 506).

29. Ungaretti-De Robertis, Carteggio, p. 148.

30. è proprio del gennaio 1954 una lettera nella quale Gadda si fa solerte mediatore della sua pubblicazione presso lo stesso Contini: «Romanò desiderava parlarti del suo Petrarca, del suo Vaticano Latino 3.196, che io ho visto nel magnifico dattiloscritto a rosso e nero. Sebbene incompetente (io), ho l’impressione che sia un’opera molto ben fatta, molto elegante. Gli editori a cui è stata proposta hanno nicchiato o hanno accettato di pubblicarla nel ’55. Romanò, giustamente, pensa che il suo libro (da te indirettamente suggerito come «il più elegante lavoro di filologia che oggi possa proporsi a uno studioso» [nel Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare,uscito nel 1943, e ora compreso in Varianti, pp. 5-31]) vorrebbe vederlo accettato con maggiore sollecitudine. Egli ti prega a mio mezzo, ossia mi prega di pregarti, di volerlo vedere: se tu potessi accoglierlo nella collezione di filologia romanza presso la Nuova Italia, sublimi feriat sidera vertice. Puoi autorizzarmi a dirgli che te lo invii a Firenze?» (Gadda 1988: 92-93).

31. è sintomatico che di lì a poco Bigongiari, per citare le varianti di Un Grido e Paesaggi, dichiari di aver seguito i criteri adottati da Debenedetti per l’Ariosto (cfr. Sugli autografi del «Monologhetto», p. 492).

32. Non pare in effetti che si possa assimilare a quelle l’edizione critica, molto sobria in materia di varianti, di Montale – L’opera in versi, Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini (Torino: Einaudi, 1980).

33. Gorni, Le gloriose pompe, p. 400. Subito dopo si precisa: «La messe di autografi abbonda, gli operai sono molti e di buona volontà, criteri ed istruzioni d’uso (dopo che sono apparse magistrali applicazioni) sono, per usare un colloquiale eufemismo, à la portée d’un grand nombre. Il mercato è ormai inflazionato. Si accoglie con animo più grato (l’esempio è artificiale) un commento linguistico, stilistico o metrico a Palazzeschi, che non l’eventuale nuda edizione critica della ‘Fontana malata’: clof,clop, cloch, cloffete, cloppete che rimbalzano, con eco disperata, d’una in altra fascia d’apparato. Solo i costi editoriali spropositati ci libereranno da un’esosa filologia che spesso rimane lettera morta? Più che filologia di testi, filologia d’apparati».

34. Giacomo Leopardi, Canti, Edizione critica e autografi, a cura di Domenico De Robertis (Milano: Il Polifilo, 1984).

35. Si veda ad esempio A. Varvaro, La nuova edizione delle «Grazie» e l’ordinamento interno delle varianti, in Belfagor, XLII (1987), n. 6, pp. 639-55, e la risposta dello Scotti, A proposito di un recente intervento sulla edizione delle «Grazie» (Controbiezioni e controriserve), in GSLI, vol. CLXV, anno CV (1988), fasc. 531, pp. 399-443.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

© 2000-2024 by Maria Antonietta Terzoli & EJGS. Previously published in Per Carlo Emilio Gadda. Atti del Convegno di Studi, Pavia 22-23 novembre 1993, Strumenti critici 9, no. 2 (75): 287-308.
artwork © 2000-2024 by G. & F. Pedriali
framed image: after Jusepe de Ribera, The Sense of Touch, 1611-1616, The Norton Simon Foundation, Pasadena

All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.

EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.

Dynamically-generated word count for this file is 8738 words, the equivalent of 25 pages in print.